17 Maggio, 2016

 

 

L’art. 1 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, esclude le esportazioni dal novero delle operazioni imponibili. Altrettanto avviene per quelle intracomunitarie che l’art. 41 del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), identifica nelle cessioni di beni «trasportati o spediti nel territorio di altro Stato membro, dal cedente o dall’acquirente, o da terzi per loro conto».

L’aspetto caratteristico di queste operazioni comunitarie è quello della tassazione “a destino”. Il bene oggetto della cessione non paga imposte nello Stato membro di partenza, ma in quello di destinazione.

Questo della movimentazione territoriale dei beni da uno Stato all’altro della Comunità è dunque un «elemento strutturale della fattispecie normativa» (1).

A questo proposito, varrà subito rilevare che l’art. 41 del decreto sopra menzionato, così come l’art. 138 della Direttiva 2006/112 a cui il medesimo decreto si riporta, non utilizza tuttavia la parola trasferimento, bensì i termini spedizione e trasporto (2).

Pur vero dunque che il trasferimento del bene nel territorio dell’altro Stato membro è l’implicito presupposto della mancata tassazione nello Stato di cessione, è altrettanto vero che esso risultato non inerisce alla semantica delle parole così utilizzate.

Ci interessa affrontare la questione della prova di questo trasferimento fisico del bene fuori dal territorio italiano, in particolare, quando il soggetto venditore trasmette all’acquirente il potere di disporre del «bene come proprietario» presso la sua fabbrica. Quando cioè il trasporto del bene verso lo Stato comunitario di destinazione avviene attraverso un vettore oppure direttamente a cura dell’acquirente.

In questi casi il fornitore riceve una lettera di vettura o una bolla di consegna che, come tali, sono documenti che non attestano, sul piano ontologico, il materiale trasferimento del bene nello Stato di destinazione.

Il più recente orientamento della giurisprudenza, ivi compresa quella europea, impone al venditore l’onere di provare che i beni da lui venduti abbiano materialmente lasciato il territorio dello Stato. L’esibizione della documentazione di cui sopra, attestante la trasmissione in capo all’acquirente del potere di disporre della merce presso la sede aziendale, non basta dunque a dare la prova del trasferimento della stessa.

Dopo la soppressione dei controlli doganali, risulta difficile per le Autorità tributarie verificare se le merci hanno lasciato fisicamente il territorio dello Stato di cessione, condizione oggettiva per fruire del regime di tassazione “a destino” previsto per le cessioni intracomunitarie. È dunque comprensibile che gli Uffici italiani procedano alla verifica del presupposto impositivo sulla base delle risultanze documentali a mani dei soggetti residenti che hanno partecipato all’operazione.

Il fatto è che le Direttive comunitarie sugli obblighi facenti carico ai soggetti passivi riguardano soltanto alcuni aspetti dell’operazione, come ad esempio quelli che attengono all’identificazione dei contribuenti e al contenuto della fattura, ma nulla dicono in relazione alla prova della spedizione o del trasporto nello Stato di destinazione. Non dicono, soprattutto, come provare che, in seguito a tale spedizione o trasporto, i beni hanno lasciato fisicamente il territorio dello Stato di cessione.

Sono dunque gli Stati membri che debbono fissare le condizioni per assicurare una corretta applicazione delle norme sull’IVA intracomunitaria, al fine di prevenire e reprimere ogni possibile evasione, elusione e abuso. Nel fare questo, l’unico limite a cui sono tenuti è quello del rispetto dei principi generali che informano l’ordinamento, fra questi quelli la certezza del diritto, l’affidamento e la buona fede (3).

Lo Stato italiano nulla ha previsto a questo proposito. La stessa Agenzia delle entrate riconosce, responsabilmente, che «la legge non contiene alcuna specifica previsione in merito ai documenti che il cedente deve conservare, ed eventualmente esibire in caso di controllo, per provare l’avvenuto trasferimento del bene in un altro Stato».

Nella risoluzione 25 marzo 2013, n. 19/E (4), da cui abbiano tratto l’asserto di cui sopra, l’Agenzia ricorda di aver già trattato l’argomento della prova dell’avvenuta cessione, con particolare riguardo alla clausola “franco fabbrica”, nella risoluzione 28 novembre 2007, n. 345/E (5). Allora, per dimostrare l’uscita delle merci dal territorio dello Stato, aveva ritenuto che, oltre al documento di trasporto, agli elenchi Intrastat e alle fatture, fosse prova idonea anche qualsiasi «altro documento attestante gli impegni contrattuali che hanno dato origine alla cessione ed al trasporto dei beni in un altro Stato membro».

Posto il silenzio della norma, l’Agenzia delle entrate era perfettamente consapevole di doversi aprire alla prova logica, soprattutto per le cessioni franco fabbrica, in cui «il cedente nazionale si limita a consegnare i beni al vettore incaricato dal cliente e molto difficilmente riesce ad ottenere da quest’ultimo una copia del documento di trasporto controfirmata dal destinatario per ricevuta».

Di certo era altrettanto consapevole che se avesse preteso, nonostante le premesse di cui sopra, precise prove da parte del venditore, diverse da quelle da lui ottenute in occasione della consegna dei beni, avrebbe escluso le vendite “franco fabbrica” dal novero di quelle praticabili dagli operatori del settore, a motivo del rischio fiscale che, di fatto, su di esse avrebbe scaricato.

Le vicende sulle colossali frodi carosello hanno costretto gli organi di controllo a rendere più rigorosa la logica sottesa ad un tale atteggiamento.

Chiamata ad esprimersi sui mezzi di contrasto contro queste criminali derive, la Corte europea ha statuito che l’evasione fiscale giustifica talvolta prescrizioni severe quanto agli obblighi dei fornitori (6). Dopo aver ricordato che il termine “spediti” contenuto nella legge di cui sopra, lascia intendere che la non imponibilità dell’IVA è legata alla allegazione della «prova che tale bene è stato spedito o trasportato al di fuori dell’Unione e che, in seguito a tale spedizione o trasporto, esso ha lasciato fisicamente il territorio dell’Unione», la Corte ha tuttavia precisato che, nell’imporre queste prescrizioni in capo ai fornitori, gli Stati devono «rispettare i principi generali del diritto che fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione, quali, in particolare, i principi di certezza del diritto, di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento».

Certezza del diritto significa che gli obblighi facenti capo al cedente debbono essere chiari e precisi fin dall’inizio e che l’Amministrazione finanziaria, nel controllare il verificarsi dell’insorgenza del presupposto oggettivo, e dunque il movimento fisico dei beni tra gli Stati membri, non può gravare il cedente di adempimenti e prove non previsti al momento della vendita.

Una volta che la legge ha stabilito il dettaglio delle formalità correlate ad una cessione comunitaria, non è possibile pretendere dal fornitore l’assolvimento dell’imposta solo perché lo Stato non è in grado di ottenere dall’acquirente del bene, debitore dell’IVA nello Stato di destinazione, l’esibizione della prova storica di questo trasferimento. Prova di cui il medesimo, e non il fornitore, ha la disponibilità.

Questo significa che l’interesse del fornitore che agisce adottando tutte le misure in suo potere, che tiene un comportamento conforme alla lettera della legge, deve trovare il giusto contemperamento nei confronti di quello erariale.

In questo senso le esportazioni “franco fabbrica”, ove non è previsto alcun controllo da parte del venditore sullo sviluppo delle operazioni successive alla consegna dei beni all’acquirente, possono gravarlo del pagamento dell’imposta soltanto nella ipotesi in cui venga dimostrato, sulla base di elementi oggettivi, che egli «avrebbe dovuto sapere che l’operazione da esso effettuata rientrava in un’evasione posta in essere dall’acquirente e non ha adottato le misure cui poteva ragionevolmente ricorrere per evitare la propria partecipazione a detta evasione» (7).

Se questo non risulta, se il venditore non è parte più o meno attiva di una cessione intracomunitaria fittizia, non può pretendersi nei suoi confronti l’IVA, maggiorata delle sanzioni, soltanto perché il sistema normativo, così come costruito, presenta oggettive difficoltà nel verificare il trasferimento dei beni verso un altro Stato della comunità.

La lotta alle frodi non si risolve negando aprioristicamente i diritti che accedono ad una parte del rapporto d’imposta.

Si risolve obbligando l’Amministrazione a ricercare se la realtà dei fatti celi o meno una qualche frode.

Si risolve, ancora, intervenendo sulla norma, chiarendo e precisando le modalità operative come ad esempio è stato recentemente fatto con le dichiarazioni di intento di cui all’art. 8 del D.P.R. n. 633/1972 che gli esportatori abituali utilizzano per l’acquisto di merci senza il pagamento dell’imposta.

Mentre la vecchia disciplina prevedeva che il venditore comunicasse, per via telematica, all’Agenzia delle entrate l’utilizzo di tali dichiarazioni entro il termine della prima liquidazione periodica, l’art. 20 del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, ha innovato questa procedura, con l’evidente intento di consentire all’Amministrazione finanziaria controlli più tempestivi ed efficaci. Non è più il fornitore che inoltra all’Agenzia la dichiarazione d’intento una volta che questa è stata utilizzata, ma è il soggetto esportatore che deve farlo prima ancora di procedere all’acquisto dei beni senza l’applicazione dell’imposta. Il venditore deve semplicemente controllare che questo inoltro sia stato effettuato, prima di procedere alla consegna dei beni.

L’inosservanza a questo meccanismo, e cioè la cessione dei beni prima di aver ricevuto la dichiarazione di intento così inoltrata e, soprattutto, prima di aver «riscontrato telematicamente l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate», espone il venditore alla sanzione di cui al terzo comma dell’art. 7 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, «fermo l’obbligo del pagamento del tributo».

La norma è chiara, e la previsione di una disciplina transitoria collima con il principio di cui all’art. 3, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), secondo cui, «in ogni caso, le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dall’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti».

Questa è la strada da seguire per risolvere il problema della prova del trasferimento dei beni nelle cessioni intracomunitarie, la cui soluzione non può essere lasciata alle iniziative giurisprudenziali che, come tali, non giovano al principio dell’affidamento, alla coerenza e alla certezza dell’ordinamento giuridico, fermo restando il rispetto alle funzioni costituzionalmente riservate a questo potere.

Così come non può essere risolta, in ipotesi, da una norma di interpretazione autentica. Mancherebbero le condizioni che la Corte Costituzionale (8) ha ritenuto imprescindibili per impedire che una norma di interpretazione autentica possa violare il principio di irretroattività (9).

A parte il supporto di una «adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” ai sensi della Corte Edu», l’interpretazione autentica è ammessa quando il significato che viene attribuito alla disposizione interpretata è «un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario».

Solo in questo modo, questa la conclusione del giudice delle leggi, non si violano principi costituzionali quali quelli «della irragionevolezza, della disparità di trattamento di situazioni omogenee, della lesione del principio di legittimo affidamento nonché dell’eccesso dei cosiddetti limiti di coerenza e certezza dell’ordinamento giuridico».

Applicando questa regola al caso che ci occupa, ne risulta che il legislatore non potrebbe intervenire con una soluzione interpretativa volta ad obbligare il venditore a dare prova del trasferimento fisico dei beni nello Stato comunitario. Se da un lato è vero che questo è quanto l’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità intende affermare, è altrettanto vero che questa soluzione non è ascrivibile al novero delle possibili opzioni ermeneutiche del testo normativo che, varrà ripetere, si limita a dire che i beni possono essere trasportati o spediti «dal cedente o dall’acquirente, o da terzi per loro conto».

Se così è, se questo è il dettato della norma, viene dunque a mancare la condizione in grado di legittimare un ipotetico intervento legislativo volto a superare una situazione di oggettiva incertezza interpretativa, rendendo vincolante, anche per il passato, una delle possibili letture del testo originario.

Nei fatti, l’opzione ermeneutica che il legislatore dovesse attribuire alla disposizione che ci occupa, l’obbligo della prova del trasferimento nel caso di vendite “franco fabbrica”, verrebbe sostanzialmente a mutare le “regole del gioco” a procedimento già in corso. Il massimo della «legalità sleale», come avrebbe detto Pericle (10). Una vera e propria sopraffazione in tema di proporzionale bilanciamento degli interessi delle parti coinvolte.

La soluzione del problema che ci occupa passa dunque attraverso un intervento legislativo che rimodelli la norma alla luce dei principi sopra esposti.

L’applicazione dell’IVA non può essere una incognita, ma la conseguenza certa del verificarsi di un determinato presupposto impositivo. Chi partecipa ad operazioni commerciali come quelle per cui si discute, caratterizzate dalla tassazione a destino delle merci, deve sapere quali sono le misure che deve adottare per escludere qualsiasi rischio fiscale.

Deve sapere che, fatto salvo il caso di cui appresso, se consegna presso la sua fabbrica, ad un acquirente comunitario, abilitato a tale acquisto, beni che questi si impegna a trasferire fuori dallo Stato, il debitore dell’IVA è l’acquirente stesso e che tale resterà anche se non li dovesse trasferire o, il che è lo stesso, non dovesse dare prova di averlo fatto.

Fatta eccezione, come si diceva, del caso in cui, per usare le parole della Corte di Giustizia europea a cui si è già accennato (11), non venga «dimostrato, alla luce di elementi oggettivi» che il venditore «avrebbe dovuto sapere che l’operazione da esso effettuata rientrava in un’evasione posta in essere dall’acquirente» e che, nonostante ciò, non ha evitato di prendervi parte, così divenendone corresponsabile.

Su questa consapevolezza della frode, la posizione della Corte di Strasburgo è da tempo consolidata. Il fornitore del bene oggetto di una cessione intracomunitaria (12) il quale abbia agito in buona fede e sia estraneo alla frode, pur avendo esibito prove e documenti poi rivelatisi falsi, non può essere tenuto ad assolvere l’IVA.

Consapevolezza della frode non significa obbligo di garanzia dei successivi adempimenti tributari da parte dell’acquirente dei beni. La normale accezione di questa espressione è quella della giusta percezione cognitiva dello standard comportamentale di questo soggetto a cui si deve pervenire, sulla base del canone dell’id quod plerunque accidit, di fronte ad un determinato compendio di fatti e circostanze.

Ma questo sulla buona fede è un discorso a carattere generale, che non coinvolge soltanto chi partecipa ad una cessione intracomunitaria, ma qualsiasi soggetto di una transazione commerciale (13).

Avv. Bruno Aiudi

(1) Così Cass., sez. trib., 7 ottobre 2011, n. 20575, in Boll. Trib. On-line.

(2) Questo il testo dell’art. 138, capo 4, titolo IX, par. 1: «Gli Stati membri esentano le cessioni di beni spediti o trasportati, fuori del loro rispettivo territorio ma nella Comunità, dal venditore, dall’acquirente o per loro conto, effettuate nei confronti di un altro soggetto passivo, o di un ente non soggetto passivo, che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di partenza della spedizione o del trasporto dei beni». Nella sostanza la norma riprende il contenuto dell’art. 28-quater, parte A, lett. a), comma 1, della VI Direttiva 77/388, come modificato dalla Direttiva 95/7/CE del Consiglio del 10 aprile 1995.

(3) Cfr. Corte Giust. UE, sez. V, 19 dicembre 2013, causa C-563/12, in Boll. Trib. On-line.

(4) In Boll. Trib., 2013, 440.

(5) In Boll. Trib. On-line.

(6) Cfr. Corte Giust. UE causa C-563/12 del 2013, cit.

(7) Cfr. Corte Giust. UE, sez. II, 6 settembre 2012, causa C-273/11, in Boll. Trib. On-line.

(8) Cfr. Corte Cost. 10 aprile 2014, ord. n. 92, in Boll. Trib. On-line.

(9) L’art. 645 c.p.c. prevedeva che nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, i termini di comparizione fossero ridotti alla metà. Si discuteva se, in questi casi, fosse da intendersi ridotto anche il termine per la successiva costituzione in giudizio previsto dall’art. 165, cinque giorni invece di dieci. La questione non era di poco conto in quanto la tardiva costituzione dell’opponente avrebbe comportato l’improcedibilità dell’opposizione medesima, con la correlata definitività del decreto opposto. Secondo Cass., sez. un., 9 settembre 2010, n. 19246, in Giur. it., 2011, 1599, avanti la quale la questione era poi finita, l’abbreviazione del termine di comparizione previsto dalla norma di cui sopra comportava automaticamente il dimezzamento del termine di costituzione, irrilevante essendo il fatto che l’opponente avesse o meno assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario. La posizione così assunta incontrava tuttavia scarsi consensi, sia da parte della dottrina che dei giudici di merito. La stessa Corte Costituzionale, qualche tempo prima, con l’ordinanza 8 febbraio 2008, n. 18, in Giur. costit., 2008, 229, aveva ritenuto che la riduzione del termine per costituirsi in giudizio fosse legata alle scelte dell’opponente circa l’esercizio «della facoltà di dimidiare il termine di comparizione del debitore ingiunto». Prima che la questione tornasse avanti le Sezioni Unite, interveniva il legislatore che sopprimeva tout court la norma sulla riduzione dei termini di comparizione e disponeva che, nei procedimenti pendenti, la norma sulla riduzione del termine per la costituzione in giudizio doveva applicarsi «solo se l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all’articolo 163-bis».

(10) Così Pericle ad Alcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte.

(11) Cfr. Corte Giust. UE causa C-273/11 del 2012, cit.

(12) Cfr. Corte Giust. CE, sez. III, 27 settembre 2007, causa C-409/04, in Boll. Trib., 2009, 902, con nota di F. Cerioni, Cessioni intracomunitarie: non imponibilità e prova dell’uscita della merce dal territorio dello Stato.

(13) Su questo tema cfr. V. Busa, La fatturazione per operazioni inesistenti: la rilevanza del comportamento secondo buona fede ai fini dell’integrazione della condotta punibile, in Boll. Trib., 2014, 1370.

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