10 Settembre, 2013

SOMMARIO: 1.Introduzione – 2.Beni della società concessi in godimento ai soci in regime di trasparenza fiscale – 3.L’ACE nella tassazione per trasparenza – 4.Considerazioni conclusive.
1.Introduzione

 

Il regime di tassazione per trasparenza delle società di capitali introdotto dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n.344, inattuazione della legge delega 7 aprile 2003, n. 80, agli artt. 115 e 116 del TUIR, prevede – pur nell’ambito di rigide limitazioni soggettive ed oggettive – che l’imposizione avvenga in capo ai soci in relazione alla quota di partecipazione agli utili, indipendentemente dalla effettiva distribuzione degli stessi.

Questo metodo, naturalmente previsto per le società di persone di cui all’art. 5 del TUIR, è stato esteso anche alle società di capitali con la finalità di  uniformare il nostro sistema di tassazione a quello maggiormente diffuso nell’Unione europea, dove l’eliminazione del credito d’imposta, consentendo il passaggio dal metodo d’imputazione [1] al metodo dell’esenzione, ha determinato l’indeducibilità delle minusvalenze e delle svalutazioni relative alle partecipazioni.

È evidente, infatti, che in mancanza della possibilità di deduzione delle perdite della società partecipata sotto forma di svalutazione delle partecipazioni, sancita dal nuovo sistema IRES [2], con l’ingresso dell’istituto della participation exemption [3] si è reso necessario introdurre quel meccanismo che consenta, comunque, al socio di portare in diminuzione le perdite della società, rilevandole in diminuzione dal reddito dei soci stessi e ovviando così all’intrasferibilità delle perdite.

Tralasciando di esaminare in questa sede [4] gli aspetti ricostruttivi e procedimentali della tassazione per trasparenza delle società di capitali, intendiamo ora effettuare alcune applicazioni del regime di trasparenza fiscale a particolari fattispecie. Segnatamente, l’art. 2 (dai commi da 36-quinquies a duodevicies) del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), mediante la leva fiscale ha voluto ostacolare che vengano concessi in godimento ai soci i beni acquistati dalla società, senza di fatto poterli utilizzare nel ciclo produttivo dell’impresa e naturalmente senza che i soci abbiano partecipato, neppure parzialmente, all’acquisto e al mantenimento dei predetti beni.

Questa disposizione, ulteriormente chiarita dalla circolare dell’Agenzia delle entrate 15 giugno 2012, n. 24/E [5], ha previsto che i costi sopportati dalla società per l’acquisto di beni concessi, successivamente, in godimento ai soci o ai familiari dell’imprenditore per un ammontare inferiore a quello di mercato, non siano deducibili dal reddito d’impresa e, inoltre, che il differenziale intercorrente tra il corrispettivo annuo ed il valore di mercato contribuisca a formare il reddito del socio includendolo nella fattispecie dei redditi diversi.

Altre considerazioni si muoveranno in relazione al D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) che, all’art. 1 come finalità premiale per i contribuenti che privilegiano il finanziamento delle imprese con il capitale proprio in luogo del capitale di terzi, ha contemplato una misura incentivante per la crescita economica qualificata come ACE (Allowance for Corporate Equity).

Prendendo le mosse da questo nuovo contesto normativo, dai successivi documenti di prassi, nonché, dalla circolare dell’Istituto di ricerca del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, si profilano interessanti spunti di osservazione in relazione alla tassazione per trasparenza applicata all’ACE ed ai beni della società concessi in godimento ai soci.

 

[-protetto-]

 

2.Beni della società concessi in godimento ai soci in regime di trasparenza fiscale

 

All’interno della struttura organizzativa dell’impresa è frequente che i soci utilizzino in godimento i beni della società; nelle società a ristretta base sociale in particolar modo, considerato lo stretto legame che tiene uniti i soci alla società. Al fine di contrastare la concessione di beni in godimento dalla società ai soci, è intervenuto l’art. 2, commi da 36-quinquies  a duodevicies, del D.L. n. 138/2011.

In particolare il decreto in esame presuppone che la disciplina si applica ove sussista un rapporto societario o familiare tra l’imprenditore o la società ed i beneficiari dei beni conferiti in godimento [6];  il provvedimento ha stabilito, inoltre, che si applica ai soci ed ai familiari residenti e non nel territorio dello Stato, al soggetto residente e non che utilizza nella sfera privata i beni in godimento della sua impresa commerciale.

A tal riguardo, l’Agenzia delle entrate con la citata circolare n. 24/E/2012 ha precisato che la disposizione in oggetto si estende anche ai soci o ai familiari che usufruiscono dei beni provenienti dalla società controllata o collegata, ai sensi dell’art. 2359 c.c., e quella partecipata dai medesimi soci. Dal tenore letterale della norma sembra che rientrino soltanto i soci ed i familiari [7], invece, l’Agenzia delle entrate, per ragioni di completezza, ha chiarito che la disciplina in esame, involge anche l’imprenditore individuale che usufruisca a titolo privato dei beni della sua attività economica.

Il legislatore ha introdotto questa disposizione con l’intento di contrastare quel fenomeno che induceva i soci ad utilizzare i beni della società per motivi strettamente personali e, quindi, a condizioni più vantaggiose di quelle di mercato [8].

Tale statuizione normativa ha contemplato che i costi sostenuti per l’acquisto dei beni dell’impresa [9], concessi in godimento ai soci o ai familiari dell’imprenditore per un importo inferiore a quello previsto dal valore di mercato, non sono deducibili dal reddito d’impresa, inoltre, il differenziale che consegue dal valore di mercato ed il corrispettivo annuo, concorre a formare il reddito del socio o del familiare ed è individuabile come una nuova tipologia di reddito diverso [10].

Generalmente il «valore di mercato» del diritto di godimento coincide con il valore normale dei prezzi o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi simili di cui al comma 3 dell’art. 9
del TUIR.

Diverso è il caso in cui il socio assuma la qualifica di dipendente o amministratore, in quanto i beni in godimento saranno tassati come fringe benefit, la disposizione in oggetto, dunque, non si applica, poiché l’art. 67 del TUIR prevede che rientrino le fattispecie che non sono individuabili in altre categorie reddituali.

Questa interpretazione è stata ulteriormente confermata dall’Agenzia delle entrate [11] che ha stabilito che, in particolari fattispecie, la disposizione di cui all’art. 67, comma 1, lett. h-ter), del TUIR, non si applica quando il soggetto utilizzatore, oltre a rivestire la qualità di socio, sia anche lavoratore autonomo, allora quest’ultimo sarà assoggettato alla disciplina impositiva dei fringe benefit, di cui all’art. 54 del TUIR.

Ragionando a contrario, si evince che l’indeducibilità dei costi, in buona sostanza, equivale a dire che i beni concessi in godimento saranno sottoposti a doppia tassazione, per cui questa previsione appare sfavorevole per i contribuenti.

Con particolare riferimento alle società che optano per la tassazione per trasparenza, si può verificare che il socio di società trasparenti di cui all’art. 116 del TUIR, sia sottoposto ad una doppia imposizione sullo stesso presupposto d’imposta.

La società rappresenta uno schermo dietro cui operano i soci, infatti, da un lato, si determinerebbe un maggior reddito d’impresa imputato al socio che opta per la trasparenza, dall’altro lato, l’indeducibilità dei costi in capo alla società per i beni concessi in godimento ai soci, pertanto, la tassazione del reddito diverso è determinato secondo le disposizioni contenute nell’art. 67, comma 1, lett. h-ter).

Al fine di evitare la duplice tassazione, la citata circolare dell’Agenzia delle entrate n. 36/E/2012 ha precisato come il reddito diverso in oggetto, da sottoporre ad imposizione in capo all’utilizzatore, «deve essere ridotto del maggior reddito d’impresa imputato allo stesso utilizzatore (imprenditore individuale o socio tassato per trasparenza) a causa dell’indeducibilità dei costi del bene concesso in godimento che ha generato il reddito diverso».

Il reddito diverso sottoposto a tassazione è determinato attraverso la differenza tra il valore attribuito al bene concesso in godimento ed il corrispettivo pagato con il reddito d’impresa, inoltre, nell’ipotesi in cui venga concesso in godimento un bene ai soci di una società che ha optato per la tassazione per trasparenza di cui all’art. 116 del TUIR, «il maggior reddito della società derivante dall’indeducibilità dei costi andrà imputato esclusivamente ai soci utilizzatori» [12].

Dal punto di vista degli adempimenti, la società che concede il bene deve darne comunicazione all’Agenzia delle entrate, indicando la tipologia di beni concessi in godimento, in modo tale da garantirne il controllo. A tal riguardo è stato emanato il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate 16 novembre 2011, n. 166485 [13], il quale ha chiarito che l’adempimento [14] deve essere effettuato anche nell’ipotesi in cui il corrispettivo non è inferiore al valore di mercato del diritto di godimento [15] e quando è compiuta «qualsiasi forma di finanziamento o capitalizzazione nei confronti della società concedente». Questo adempimento mira a potenziare l’attività accertativa con metodo sintetico.

Certamente questa nuova disposizione porta a rivedere i comportamenti sia della società, sia dei soci, perché, se fin ora era conveniente concedere ai soci beni in godimento, allo stato attuale è necessario compiere una valutazione di opportunità, ovvero, vagliare se diventa più vantaggioso estromettere il bene dalla società e assegnarlo direttamente ai soci.

Valutare l’opzione più conveniente non è semplice, perché l’estromissione del bene che determina inevitabilmente una diminuzione del patrimonio netto della società o dell’imprenditore, deve essere valutata sotto molteplici aspetti quali l’incidenza delle imposte dirette ed indirette per la società e per i soci, le caratteristiche del bene e la quota partecipativa del socio.

 

3.L’ACE nella tassazione per trasparenza

 

Con l’obiettivo di incoraggiare il finanziamento delle imprese attraverso il proprio patrimonio in luogo del capitale di debito, il governo Monti con l’art. 1 del D.L. n. 201/2011 ha previsto come misura premiale un aiuto alla crescita economica definito ACE.

Questo incentivo consente di portare in deduzione dal reddito d’impresa il “rendimento nozionale” [16] riferibile ai nuovi conferimenti in denaro effettuati dai soci o attraverso la destinazione di utili a riserva [17].

È chiaro che l’intento del legislatore sia stato proprio quello, mediante la leva fiscale, di incoraggiare l’investimento con il capitale di rischio e favorire, pertanto, la capitalizzazione delle imprese scoraggiando, così, l’indebitamento ed agevolare lo sviluppo economico [18].

L’ACE sotto il profilo soggettivo si applica: alle società di capitali, alle società cooperative e di mutua assicurazione, agli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché ai trust, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, che siano residenti nel territorio dello Stato; alle stabili organizzazioni di società ed enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello stato; al reddito d’impresa di persone fisiche, società in nome collettivo e in accomandita semplice, in regime di contabilità ordinaria [19].

Il decreto attuativo del nuovo provvedimento, emanato il 14 marzo 2012, nell’interpretare la nuova disposizione, effettua alcune precisazioni, nello specifico l’art. 7 disciplina che nell’ipotesi di società tassate per trasparenza di cui agli artt. 115 e 116 del TUIR, «la società partecipata trasparente determina la sua quota Ace e la deduce dal suo reddito complessivo netto. In caso di eccedenza questa sarà attribuita a ciascun socio in misura proporzionale alla sua quota di partecipazione agli utili». Ogni socio può usufruire di tale eccedenza per ridurre il proprio reddito, con la differenziazione che, nell’ipotesi di tassazione per trasparenza di cui all’art. 115 del TUIR, ci si riferisce al reddito complessivo, invece, nel caso di cui all’art. 116 del TUIR, si rivolge al reddito d’impresa.

Questa eccedenza concorre a ridurre soltanto il reddito d’impresa, facendo riferimento anche ai redditi di partecipazione, in altre società di persone o società trasparenti a ristretta base sociale, per cui la persona fisica socia della srl che opta per la piccola trasparenza non può utilizzare la predetta eccedenza per ridurre redditi diversi da quelli d’impresa.

L’art. 7 del decreto attuativo chiarisce che le eccedenze di rendimento nozionale registrate dalla società partecipata prima che sia esercitata l’opzione per la trasparenza di cui agli artt. 115 e 116 del TUIR,  non possono essere ascrivibili ai soci e non devono essere portate in deduzione dal reddito complessivo netto della società partecipata.

Non è prevista, invece, alcuna precisazione in merito alle eccedenze Ace prodotte dai soci prima dell’opzione, in queste ipotesi possono essere utilizzate sia dai soci, sia dalle società, per diminuire «il reddito imputato per trasparenza dalla partecipata dopo l’esercizio dell’opzione» [20].

Il decreto attuativo all’art.10 hacontemplato diverse disposizioni antielusive, le quali sono finalizzate ad evitare che i gruppi di imprese possano impropriamente utilizzare le agevolazioni, ma nel regime de qua, non sussiste alcun profilo di controllo tra le società, bensì, di collegamento, quindi, non sembrerebbero applicabili le disposizioni antiabuso di cui all’art. 10 del decreto attuativo; fermo restando che la disapplicazione può sempre avvenire mediante interpello disapplicativo di cui all’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Dal punto di vista procedimentale, la società partecipata deve indicare nel modello di dichiarazione, il reddito ridotto dell’importo Ace.

L’art. 8, comma 3, del decreto in esame, dispone che «Ai fini della determinazione dell’imposta ai sensi dell’art. 11 del Tuir nonché delle detrazioni spettanti ai sensi dei successivi articoli 12, 13, 15 e 16, la quota dedotta dal reddito d’impresa concorre alla formazione del reddito complessivo delle persone fisiche e dei soci delle società partecipate beneficiarie delle deduzioni».

L’Agenzia delle entrate, mediante l’aggiornamento del modello Unico 2012, dal punto di vista dichiarativo, equipara ai fini ACE i redditi prodotti in forma associata con quelli in forma individuale, eliminando ai fini della determinazione dell’imposta dovuta la differenziazione tra le predette categorie reddituali.

Prima dell’inserimento del nuovo quadro nel modello Unico, i soci di una società che opta per la tassazione per trasparenza percepivano pro-quota il reddito al netto ACE già usufruita dalla società, non trovando applicazione il predetto comma.

In buona sostanza, avveniva un effetto distorsivo per l’imprenditore individuale, infatti, in sede di rideterminazione dell’imposta, veniva presa in considerazione la quota ACE fruita, applicando il comma 3 dell’art. 8 del decreto in oggetto.

Per effetto dell’inserimento del quadro RS del fascicolo 3 del modello Unico, ai fini della determinazione dell’imposta dovuta dai soci di società trasparenti, si ritiene rilevante, come per gli imprenditori individuali anche la quota Ace dedotta in capo alle società partecipate, in altri termini, la quota Ace beneficiata dalla società partecipata assume rilevanza ai fini della determinazione dell’imposta dovuta dal socio.

In altri termini, i soci di una società trasparente ricevono le stesse restrizioni previste per le persone individuali, pertanto, subiscono entrambi le limitazioni previste dal citato decreto.

 

4.Considerazioni conclusive

 

Orbene, in conclusione non possiamo non rilevare come i recenti interventi normativi abbiano cercato mediante la leva fiscale di limitare l’utilizzo di beni concessi in godimento ai soci tramite società di comodo, anche se in tale fattispecie (ipotesi) evidenziamo come il presupposto d’imposta non si fonda su un indice di redditività che tende ad accrescere il patrimonio del contribuente, bensì su un mero risparmio di spesa.

Riteniamo, pertanto, come sia criticabile l’inserimento della lett. h-ter) dell’art. 67 del TUIR, poiché questa nuova tipologia di reddito diverso non trae spunto da un reddito realmente acquisito dal contribuente, ma da un mero risparmio di spesa. E, infatti, il socio che utilizza in godimento il bene non lo possiede e, quindi, è probabile che anche i costi di mantenimento di quest’ultimo siano a carico della società.

Concordiamo, quindi, con chi [21] sostiene che «siamo in presenza di una nozione di reddito improvvisata, … il soggetto il quale utilizzi gratuitamente i beni appartenenti ad una società, oppure li utilizzi verso pagamento di un corrispettivo inferiore a quello che avrebbe pagato se si fosse rivolto al mercato, “risparmia”, ma non aumenta il proprio patrimonio. Tale soggetto “preserva” il proprio patrimonio, ma non lo accresce». Fermo restando, pertanto, che non esiste una definizione univoca di reddito, il legislatore può discrezionalmente attribuire alla locuzione reddito il significato di entrata o di consumo, oppure di reddito come prodotto, ma «non è libero di chiamare reddito tutto ciò che gli pare e piace» [22].

Nel rispetto del principio di capacità contributiva, ex art. 53 Cost., a rispondere del debito d’imposta è solo colui a cui l’indice di capacità è attribuito [23]. Il sacrificio economico da cui scaturisce la decurtazione patrimoniale deve essere sopportato effettivamente dal soggetto alla cui capacità contributiva si riferisce.

In questa ipotesi tranne che non si dimostri l’interposizione fittizia, il legislatore sembra aver sottoposto ad imposizione un soggetto che registra, senz’altro dei risparmi di spesa, ma che non esprime alcun un indice di capacità contributiva [24].

Come rilevato precedentemente, questa disposizione porta senz’altro a rivedere i comportamenti sia delle società, sia dei soci, valutando opportunamente se sia più conveniente estromettere il bene dalla società e concederlo direttamente ai soci.

Quanto al provvedimento normativo che introduce l’ACE, esso, invece, rappresenta una misura premiale alla crescita economica volta ad incentivare le imprese ad investire con il capitale di rischio in luogo del capitale di terzi. Anche se il solo incentivo a sostegno del capitale proprio non è sufficiente, sarebbe opportuno introdurre delle misure volte a contenere l’onere fiscale sui redditi che promanano dal finanziamento di capitale di rischio.

Come già rilevato, la società partecipata determina la quota ACE e la deduce dal reddito complessivo, l’eventuale eccedenza è attribuita ai soci in misura proporzionale alla quota di partecipazione agli utili, con la differenza che nell’ipotesi di tassazione per trasparenza di cui all’art. 115 del TUIR, le eccedenze sono utilizzate in diminuzione dal reddito complessivo nella trasparenza fiscale delle società a ristretta base sociale partecipata da soci persone fisiche (art. 116 del TUIR), tale eccedenza concorre, invece, a scomputare solo il reddito d’impresa.

In buona sostanza, la quota ACE non è utilizzabile dal socio persona fisica per ridurre il reddito complessivo e, pertanto, l’eventuale eccedenza attribuita in un determinato periodo d’imposta, se risulta incapiente nel reddito d’impresa, è riportabile nei periodi d’imposta successivi.

Considerato che il rendimento nozionale “eccedente” è attribuito al socio in corso d’anno, proprio per consentire al socio di fruirne subito, perché porre il limite di portarlo in diminuzione solo dal reddito d’impresa e non dal reddito complessivo?

Sarebbe consigliabile, infatti, consentire ai soci di fruire di tale aiuto sul reddito complessivo e nell’immediato senza rinviare per incapienza nei periodi d’imposta successivi.

Tutto ciò determina effetti disincentivanti all’opzione del regime di trasparenza, il quale nel corso del tempo non ha trovato grande applicazione per le società a ristretta base sociale in quanto i soci, effettuando un’analisi comparativa rispetto al regime ordinario caratterizzato da un imposizione proporzionale, dovranno valutare se sia conveniente o meno essere sottoposti ad aliquote progressive, in virtù della rimodulazione (revisione) delle detrazioni e delle esenzioni.

Dott. Santa De Marco

Università di Messina

 


[1] Il credito d’imposta è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 16 dicembre 1977, n. 904, con l’obiettivo di contrastare la doppia imposizione economica.

[2] Sul punto si veda marino, I profili internazionali e comunitari della nuova imposta sul reddito delle società, Milano, 2003, il quale afferma che «la riforma recepisce una serie di istituti volti ad eliminare la doppia imposizione economica che sono stati i pilastri su cui alcuni sistemi tributari europei hanno fondato la loro concorrenza fiscale nell’arco degli anni Novanta: si pensi, fra tutti, alla participation exemption olandese e a quella lussemburghese, oppure alla tassazione consolidata a livello di gruppo presente nel diritto tributario francese e in quello danese».

[3] Le nuove norme in materia di plusvalenze su partecipazioni e dividendi, sono state inserite con una duplice finalità: da un lato l’abolizione di una molteplicità di possibili violazioni dei principi del diritto comunitario che potevano essere individuate nella normativa precedente soprattutto in materia di dividendi, d’altro, l’allineamento della normativa italiana con quella della maggior parte dei Pesi membri dell’Unione europea, al fine di eliminare la convenienza fiscale della costituzione di talune tipologie di società holding estere da parte di soggetti residenti in Italia. Uno dei principi ispiratori della riforma fiscale è il criterio di tassazione degli utili societari in capo alla società che li produce, rispetto alla tassazione previgente in capo al socio. In coerenza con questo principio, la ratio della norma sulla participation exemption è quella di evitare una duplicazione di tassazione del reddito prima in capo alla società partecipata, che ha prodotto gli utili d’esercizio, rimasti nell’economia dell’impresa, e poi in capo alla partecipante nel momento in cui realizza la plusvalenza. Con l’introduzione in Germania della riforma fiscale, nel luglio del 2000, l’Italia era rimasta uno dei pochi Paesi che ancora ammetteva un regime di tassazione dei dividendi basato sul credito di imposta. Ne conseguiva un effetto distorsivo del funzionamento del mercato, in quanto l’acquisizione di società residenti in Italia, da parte di soci non residenti, risultava molto meno onerosa dell’acquisizione di una società in qualsiasi altro Stato. Il sistema del credito di imposta consentiva di eliminare completamente i fenomeni di doppia imposizione (dello stesso reddito, prima in capo alla società e poi in capo al socio) in quanto l’IRPEG assolta dalla società diventava una sorta di anticipazione dell’imposta dovuta dal percettore dell’utile.

[4] Si veda de marco, Il principio di trasparenza per le società di capitali: dubbi su soggettività giuridica e responsabilità, in Dir. prat. trib., 2008, 1129; e id., Il trattamento fiscale delle perdite alla luce dei più recenti interventi normativi, ivi, 2012, 446.

[5] In Boll. Trib., 2012, 926.

 

[6] Sono stati inclusi tra i soggetti concedenti, purché, siano in possesso del requisito della residenza: l’imprenditore individuale, le società di persone (società in nome collettivo e in accomandita semplice), società di capitali, società cooperative, stabili organizzazioni di società non residenti, enti privati di tipo associativo.

[7] Ai sensi del comma 5 dell’art. 5 del TUIR, si considerano familiari, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.

[8] Cfr. beghin, I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamento del concetto di reddito, in Corr. trib., 2012, 1066, il quale giustamente afferma che «dietro a queste disposizioni sta pertanto l’esigenza di disinnescare gli effetti prodotti dallo schermo societario, sia pur limitatamente ai beni utilizzati, senza il pagamento di adeguato corrispettivo da parte dei soci: potrebbe spiegarsi in questi termini la scelta di inibire, presso la partecipata, la deduzione dei costi».

[9] Cfr. ferranti, Beni concessi in godimento a soci e familiari: prime istruzioni, in Corr. trib., 2011, 3813, rileva che «tra i beni dell’impresa sono ricompresi quelli strumentali, i beni-merce e gli immobili-patrimonio. Per l’imprenditore individuale si considerano relativi all’impresa, ai sensi dell’art. 65 del TUIR, i beni indicati nell’inventario. Per le società, sia di persone che di capitali, vanno presi in considerazione tutti i beni ad esse appartenenti. Per le società di fatto assumono, invece, rilevanza i beni-merce e i beni strumentali, compresi quelli iscritti in pubblici registri a nome dei soci ed utilizzati esclusivamente come strumentali per l’esercizio dell’impresa».

[10] Il comma 36-terdecies dell’art. 2 del D.L. n. 138/2011 ha introdotto nell’art. 67, comma 1, del TUIR, la lett. h-ter), la quale prevede che «la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore».

[11] Cfr. circ. n. 24/E/2012, cit.; circ. 19 giugno 2012, n. 25/E, in Boll. Trib., 2012, 902; e circ. 24 settembre 2012, n. 36/E, ibidem, 1404.

[12] Così circ. 24/E/2012, cit. Si veda anche circ. n. 25/E/2012, cit.

[13] Nelle motivazioni del provvedimento è chiarito che «L’intervento normativo, volto a rafforzare le misure che presiedono il recupero della base imponibile non dichiarata, ha la finalità di riportare l’intestazione dei beni all’effettivo utilizzatore, scoraggiando l’occultamento anche attraverso lo schermo societario di beni che di fatto vengono posti nella disponibilità dei soci – comprese le persone fisiche che direttamente, ma anche indirettamente detengono partecipazioni nell’impresa concedente – o dei familiari dell’imprenditore, che ne traggono immediata utilità».

[14] Il termine per la trasmissione delle comunicazioni è fissato al 31 marzo dell’anno successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta in cui i beni sono concessi in godimento.

[15] In ipotesi di omissioni o infedeltà della comunicazione è dovuta in solido tra la società ed il socio una sanzione pari al 30% dato della differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo, invece, se il costo di acquisto del bene non è stato dedotto dalla società, allora, questa differenza ha contribuito a formare il reddito del socio, quindi, la sanzione è ridotta ad un importo compreso tra 258 e 2.065 euro.

[16] Si determina una riduzione del prelievo IRPEF o IRES parametrato al rendimento nozionale attribuibile al capitale versato nella società sotto forma di conferimenti in denaro o destinazione di utili a riserva. Il rendimento nozionale ai sensi dell’art. 3 del D.M. 14 marzo 2012, è determinato «mediante applicazione dell’aliquota percentuale individuata annualmente con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di cui al comma 3 dell’articolo 1 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 2011 da emanare entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello di riferimento. Per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2011 e per i due successivi l’aliquota di cui al comma 1 è fissata al 3 per cento. L’importo del rendimento nozionale che supera il reddito complessivo netto dichiarato può essere computato in aumento dell’importo deducibile, ai fini del presente decreto, dal reddito complessivo netto dei periodi d’imposta successivi”.

[17] Cfr. tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2012, 89.

[18] Cfr. accordino, ACE (Allowance for corporate equity).Evoluzione della normativa a sostegno della capitalizzazione delle imprese e potenzialità del nuovo incentivo, in Boll. Trib., 2012, 1312, evidenzia che «dall’art. 1 del citato decreto c.d. “Salva Italia”, si deduce che il Governo, con l’introduzione dell’Ace, vuole rafforzare la struttura patrimoniale delle imprese e del sistema produttivo italiano, per rilanciare lo sviluppo economico e la crescita del Paese».

[19] I soggetti esclusi ai fini ACE sono le società assoggettate al fallimento dall’inizio dell’esercizio in cui sopraggiunge la dichiarazione di fallimento; le società sottoposte alle procedure di liquidazione coatta amministrativa a partire dall’inizio in cui interviene il provvedimento che ne dispone la liquidazione; l’assoggettamento a procedure di amministrazione straordinaria ed, infine, le società che esercitano attività di cui all’art. 155 del TUIR.

[20] Si veda circ. Istituto Ricerca dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili 29 marzo 2012, n. 28.

 

[21] Così beghin, I rapporti tra società e soci: a piccoli passi verso lo smantellamenti del concetto di reddito, in Corr. trib., cit., 1064.

[22] Così de mita, Diritto tributario (giurisprudenza costituzionale), in Enc. dir., Milano, 2010, 257.

[23] Cfr. de mita, Fisco e Costituzione, Milano, 2003, 928 ss.

[24] Si veda ferlazzo natoli, Fattispecie tributaria e capacità contributiva, Milano, 1979, 62 ss.; e id., Il fatto rilevante in diritto tributario, Messina, 1994, 57.