11 Settembre, 2015

L’IVA TRIPLA

1. Quid est?

Come è noto, l’art. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, si occupa di determinare le condizioni di detraibilità dell’IVA, mentre l’art. 60-bis dello stesso decreto, disposizione insolitamente equa nel punitivo sistema tributario italiano, stabilisce la responsabilità solidale del cessionario in caso di mancato versamento dell’imposta da parte del cedente, quando le compravendite siano effettuate a prezzi inferiori al valore normale.

Nel caso di specie l’Agenzia delle entrate di Varese, sulla scorta di un processo verbale di constatazione emesso dalla consorella di Novara (che ha chiesto ed ottenuto in secondo grado l’applicazione dell’art. 60-bis del D.P.R. n. 633/1972, questione comunque ancora sub judice in Corte di Cassazione), ha ritenuto che l’IVA da versarsi in applicazione del già citato art. 60-bis non potesse poi essere detratta dal contribuente.

Siamo dunque di fronte alla richiesta del fisco di disapplicare, ex art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, il diritto alla detrazione dell’IVA che il contribuente, colpito dall’art. 60-bis, ha versato.

2. Art. 19 e art. 60-bis del D.P.R. n. 633/1972

Anche se è evidente la diversità delle due fattispecie e l’impossibilità di qualificare l’una come implicazione diretta dell’altra, è sempre utile partire dalle definizioni, ovvero dagli articoli di legge.

L’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 non detta esplicite disposizioni sanzionatorie, tuttavia la sua lettura coordinata con le norme comunitarie permette di desumere a quali condizioni l’imposta possa essere portata in detrazione. Per dirla con le parole della Corte di Cassazione (1), «la previsione degli artt. 17 e 19 del D.P.R. n. 633/1972, secondo la quale “è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa”, va letta – in coerenza con quanto prescritto dagli artt. 17 e 20 della VI Direttiva del Consiglio CEE n. 77/388 e del principio affermato dalla Corte di Giustizia CEE con sentenza 13 dicembre 1989 (C-342/87) – nel senso che il diritto alla detrazione non sorge immancabilmente, per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, che l’imposta sia effettivamente dovuta e, cioè, corrispondente ad operazione effettivamente soggetta all’IVA. Ciò perché, proprio in considerazione del particolare meccanismo che presiede al funzionamento dell’IVA, l’“infrazione fiscale si configura per il solo fatto oggettivo che il contribuente, con il proprio comportamento, doloso o colposo che sia, abbia determinato il rischio per l’Amministrazione di non conseguire il pagamento dell’imposta effettivamente dovuta” o l’abbia esposta a indebite detrazioni».

[-protetto-]

L’art. 60-bis, rubricato «solidarietà nel pagamento dell’imposta», stabilisce invece che «in caso di mancato versamento dell’imposta da parte del cedente relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale, il cessionario, soggetto agli adempimenti ai fini del presente decreto, è obbligato solidalmente al pagamento della predetta imposta. … L’obbligato solidale di cui al comma 2 può tuttavia documentalmente dimostrare che il prezzo inferiore dei beni è stato determinato in ragione di eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che comunque non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta».

Abbiamo quindi due norme utili a prevenire e reprimere le frodi in tema di IVA, le quali sono però radicalmente differenti nel loro ambito di applicazione soggettivo ed oggettivo.

L’art. 19 può essere richiamato per negare la detraibilità dell’imposta qualora l’Amministrazione finanziaria dello Stato membro appuri, per dirla con il noto adagio della Corte di Giustizia, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione di acquisto o vendita si collocava in uno schema in frode all’IVA.

L’art. 60-bis, invece, stabilisce la solidarietà nel pagamento dell’imposta nel caso in cui il contribuente compia acquisti incauti e pone, a presunzione relativa della frode, la sola presenza di un prezzo di cessione inferiore rispetto al valore normale del bene oggetto di compravendita.

Entrambi gli articoli portano con sé difficoltà esegetiche e applicative di non trascurabile spessore: basti ricordare che l’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 implica oneri probatori in ordine alla conoscenza o, fattispecie assai più sfumata, alla conoscibilità della frode da parte del contribuente, mentre l’art. 60-bis impone, prima, la determinazione del valore normale di un bene e, successivamente, l’accertamento che gli acquisti (tutti? per la maggior parte?) siano stati effettuati a prezzi inferiori.

Nella sentenza in esame è lampante il malgoverno delle due norme da parte della Commissione tributaria regionale lombarda, particolarmente evidente laddove il giudice non opera la minima distinzione tra le condizioni oggettive che legittimano l’applicazione dell’art. 60-

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bis e la qualità soggettiva di partecipante alla frode ex art. 19 del D.P.R. n. 633/1972.

L’art. 60-bis attribuisce infatti all’acquirente la responsabilità per il mancato versamento dell’IVA da parte del venditore se il prezzo di alcuni beni, determinato con decreto ministeriale, è inferiore al loro valore normale. L’evasione fiscale del venditore e la compravendita effettuata a prezzi inferiori sono pertanto le condizioni che autorizzano il fisco a chiedere l’IVA al compratore ancorché egli l’abbia versata all’acquirente: l’art. 60-bis si riferisce quindi all’IVA dovuta all’erario dal venditore, mentre non prevede in alcuna sua parte che il fisco possa chiedere all’acquirente di restituire l’IVA sulla fattura del venditore evasore, IVA che il contribuente ha portato in detrazione. L’onere probatorio che l’Agenzia finanziaria deve assolvere è qui puramente quantitativo: i prezzi di acquisto devono essere inferiori al loro valore normale. E ben limitati sono gli effetti sanzionatori della disposizione: l’incauto acquirente deve versare l’IVA che il venditore ha sottratto all’erario.

Di tutt’altro tipo è invece il contesto in cui il fisco agisce quando vuole negare il diritto alla detrazione ex art. 19, dovendo poggiare la sua richiesta su argomentazioni inerenti la conoscenza o la conoscibilità della frode da parte del contribuente (mancanza di buona fede). La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 21 giugno 2012, nelle cause riunite C-80/11 e C-142/11 (2), ha fissato il principio secondo cui gli artt. 168 e 178 della Direttiva 2006/112/CEE, e per essi il nazionale art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, «ostano ad una prassi nazionale in base alla quale l’amministrazione fiscale nega ad un soggetto passivo il diritto di detrarre … l’importo dell’imposta dovuta o versata per i servizi che gli sono forniti, con la motivazione che l’emittente della fattura correlata a tali servizi … ha commesso irregolarità, senza che detta amministrazione dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che il soggetto passivo interessato sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrarre si iscriveva in un’evasione commessa dal suddetto emittente». Il principio di diritto è valido, evidentemente, anche in caso di fornitura di beni, ed infatti poco dopo la stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 6 dicembre 2012, causa C-285/11 (3), ha dichiarato che i suddetti articoli «ostano … a che venga negato ad un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta sul valore aggiunto relativa ad una cessione di beni con la motivazione che, tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse a monte o a valle di tale cessione, quest’ultima deve considerarsi non effettivamente avvenuta, senza che sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che detto soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa a monte o a valle».

Nell’annotata sentenza della Commissione tributaria regionale lombarda si legge, senza che l’affermazione sia sostenuta da una benché minima motivazione, che l’art. 60-bis, terzo comma, «ha il significato che l’imposta non può essere portata in detrazione». L’asserzione è due volte censurabile: nel merito, non essendo previsto da alcuna norma di legge che l’acquisto a prezzi inferiori al valore normale implica automaticamente la conoscenza o la conoscibilità, da parte dell’acquirente, di partecipare ad un meccanismo di frode all’IVA (per inciso, l’accertata inferiorità del 12%-13% appare molto poco significativa); nella forma, essendo una conclusione formulata apoditticamente in violazione agli obblighi di motivazione che la legge (art. 134 c.p.c. e art. 111, sesto comma, Cost.) impone al giudice.

3. IVA tripla

Con buona pace del D.P.R. n. 633/1972, della direttiva 2006/112/CEE, di qualche decina di sentenze della Corte di Cassazione e altrettante della Corte di Giustizia (unico giudice, peraltro, deputato all’interpretazione delle norme IVA), la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha dunque stabilito il seguente principio di diritto: qualora un contribuente acquisti beni ad un prezzo inferiore al valore normale (anzi, l’agenzia delle entrate affermi che il contribuente ha acquistato ad un prezzo inferiore al valore normale, essendo nel caso di specie la questione ancora sub iudice), non solo il contribuente deve versare l’imposta evasa dal venditore, ma gli è automaticamente precluso il diritto di detrarla, senza che l’agenzia delle entrate provi, e la commissione tributaria accerti, che il contribuente abbia agito consapevolmente nel meccanismo fraudolento.

L’acquirente paga dunque l’IVA una prima volta al venditore, una seconda allo Stato in via solidale ed una terza restituendola nuovamente allo Stato, che gli nega il diritto alla detrazione.

Non solo: l’erario, che ha perso l’IVA evasa dal venditore a prezzi inferiori a quelli di mercato ma l’ha recuperata dall’acquirente, avrebbe titolo per riscuoterla una seconda volta, nella misura doppia per via della sanzione, dallo stesso acquirente che l’ha detratta. L’IVA perde quindi la sua neutralità e diventa fonte di arricchimento per l’erario, anche prescindendo dalla sanzione. Nella fattispecie in oggetto, quindi, si esce non solo dai canoni di giustizia, ma anche da quelli del buon senso.

Dott. Gualtiero Terenghi

(1) Cass., sez. trib., 22 dicembre 2006, n. 1950, in Boll. Trib. On-line.

(2) In Boll. Trib., 2013, 1370.

(3) In Boll. Trib., 2013, 1688.

 

 

IVA – Detrazione dell’imposta – Operazioni in frode all’IVA – Diritto del cessionario di detrarre l’IVA pagata al cedente – Estraneità alla frode – Necessità – Onere della prova – È a carico del cessionario – cessioni di beni effettuate a prezzi inferiori al valore normale – Responsabilità solidale del cessionario nel pagamento dell’imposta evasa – Sussiste.

Il diritto alla detrazione dell’IVA ex art. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è condizionato dallo stato soggettivo del cessionario, che non solo deve essere inconsapevole della frode carosello perpetrata a monte dal cedente, ma deve anche dimostrare di avere adottato tutte le misure necessarie per evitare di restarvi coinvolto, di talché deve provare che il prezzo pagato per l’acquisto sottocosto dei beni è stato determinato in ragione di eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che, comunque, non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta, poiché in caso contrario torna applicabile il secondo comma dell’art. 60-bis dello stesso D.P.R. n. 633/1972, per il quale in caso di mancato versamento dell’imposta da parte del cedente relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale il cessionario è obbligato solidamente al pagamento dell’imposta medesima, con ciò significandosi che quest’ultima non può essere portata in detrazione ai sensi del citato art. 19 e, qualora detratta, va versata allo Stato dallo stesso acquirente.

[Commissione trib. regionale della Lombardia, sez. V (Pres. Valenti, rel. Citro), 7 ottobre 2014, sent. n. 5190, ric. Agenzia delle entrate – Ufficio di Varese c. Runner s.p.a.]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Il p.v.c. rilasciato dai verificatori accertava che la ditta Promedit di S.A., vendeva computer provenienti dall’estero, tra gli altri, alla Runner Computer Spa ad un prezzo molto basso, in quanto fatturava con IVA ma non versava l’IVA a debito. Risultava che i clienti della Promedit acquistavano i computer ad un costo sensibilmente inferiore al costo che avrebbero dovuto sostenere se avessero acquistato direttamente dai fornitori comunitari. L’Ufficio delle imposte richiedeva alla Runner Computer Spa di versare l’importo dell’IVA dovuta e non versata dalla S. Non ricevendo detto versamento nel termine di sessanta giorni iscriveva a ruolo detta IVA e veniva emessa e notificata la relativa cartella di pagamento ricorsa dalla Runner.

I primi giudici facendo riferimento a due sentenze della Corte di Giustizia Europea, ritengono che senza la partecipazione e consapevolezza del cessionario, non si può negare la detrazione dell’IVA assolta “a monte” nell’operazione di acquisto dei beni e che nella fattispecie non appare provato che la Runner fosse a conoscenza della frode operata dalla Promedit. Essi accolgono il ricorso e condannano l’Ufficio al rimborso delle spese di giudizio.

L’appello dell’Ufficio evidenzia principalmente come il prezzo di vendita praticato ai clienti dalla S. sia inferiore ai valori normali di mercato del 12-13%, intendendo per valori normali il prezzo che avrebbero dovuto pagare se si fossero rivolti ad altri venditori per acquistare gli stessi articoli di merce. Ritiene che “i giudici di prime cure non abbiano centrato l’oggetto della domanda che non è la responsabilità della Runner ai sensi dell’art. 60-bis DPR 633/72”, perché su questo si è già pronunciata la CTR di Torino con sentenza n. 59/12/12, ricorsa in Cassazione dal contribuente, ma sulla applicazione dell’art. 19, primo comma, dello stesso decreto sul quale nessuna delle due Commissioni si è pronunciata. Cita diverse sentenze della Corte di Cassazione che hanno deciso sulle frode carosello ed anche i principi fissati dalla Corte di Giustizia Europea che ha stabilito: “il diritto alla detrazione è condizionato dallo stato soggettivo del cessionario che, non solo deve essere inconsapevole della frode, ma deve aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di restarvi coinvolto”. Insiste sulla provata responsabilità della contribuente e ritenendo che ai sensi dell’art. 19 DPR 633/72, l’IVA relativa a dette fatture è stata indebitamente detratta, chiede la riforma della sentenza di primo grado e la conferma della cartella impugnata.

La società contribuente controdeduce a quanto sostenuto dall’Ufficio con l’atto d’appello e confutandolo chiede la conferma della sentenza a riguardo. Con appello incidentale lamenta la manifesta incongruenza della liquidazione delle spese processuali e ne chiede la riliquidazione.

MOTIVI DELLA DECISIONE – I dati e le operazioni evidenziate dall’Ufficio compiute dalla Promedit, non lasciano luogo a dubbi sulla frode da essa messa in atto.

Ciò che è da accertare è la partecipazione o meno voluta dall’acquirente in detta frode, detta frode carosello, per poter estendere la responsabilità di essa allo stesso acquirente.

A riguardo si è già espressa la CTR di Torino con sentenza n. 59-12-12, che ha accertato la responsabilità della ricorrente.

La sentenza suddetta è stata ricorsa in cassazione ed ancora non si è formato giudicato definitivo, ma le conclusioni alle quali sono giunti i giudici d’appello sono condivisibili, come condivisibile è il percorso che ha portato a detta decisione. Il contribuente non ha affatto dimostrato che “il prezzo pagato per l’acquisto dei computer è stato determinato in ragione di eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che comunque non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta”.

Alla fattispecie è applicabile il secondo comma dell’art. 60-bis stesso decreto che detta: “in caso di mancato versamento da parte del cedente relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale, il cessionario, soggetto agli adempimenti ai fini del presente decreto, è obbligato solidamente ai pagamento della predetta imposta”. Ciò ha il significato che l’imposta non potrà essere portata in detrazione ai sensi dell’art. 19 e, se detratta, va versata allo Stato dallo stesso acquirente.

La Commissione in riforma della sentenza di primo grado ed accoglie l’appello dell’Ufficio.

Ritiene esistenti i motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M. – La Commissione accoglie l’appello dell’Ufficio. Spese compensate.

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