22 Ottobre, 2012

L’agente della riscossione dei tributi è tenuto a dare attenta e responsabile applicazione alla normativa vigente sia per ciò che riguarda la regolarità formale e sostanziale dei ruoli di riscossione, comprese l’esistenza del credito e l’aggredibilità dei beni dell’esecutato, sia per ciò che ne discende nella fase dell’esecuzione di cui è l’esclusivo titolare, di talché, a norma dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., la negligenza manifestata dall’ente preposto alla riscossione nell’adempimento dei suddetti obblighi ne comporta la condanna, anche d’ufficio, al pagamento a favore del contribuente esecutato di una somma equitativamente determinata dal giudice, e ciò a prescindere dalla sussistenza del dolo o della colpa grave, atteso che la predetta norma intende prevalentemente tutelare l’ingiusto danno processuale subito dalla parte a seguito del comportamento processuale della controparte.

Il giudice competente alla valutazione del danno per responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. è il giudice della causa, e quindi il giudice tributario qualora si controverta innanzi ad esso, considerato che la relativa domanda può essere conosciuta e decisa soltanto dal giudice competente per il merito, perché nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume temeraria, e perché la valutazione della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di un contrasto di giudicati.

 

[Commissione trib. regionale della Toscana, sez. I (Pres. Cicala, rel. Pichi), 3 giugno 2011, sent. n. 257, ric. Equitalia]

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE – A seguito della morte del sig. Br.Ra. avvenuta in data 20.4.1998, gli eredi accettavano l’eredità con beneficio di inventario, previo inventario e nomina del Notaio liquidatore. In data 25.7.2005 la Cerit notificava agli eredi la cartella esattoriale n. (…) per il pagamento di Euro 20.619,46 sì che gli stessi eredi e unitamente al Notaio notificavano alla Cerit e all’Agenzia delle Entrate, la richiesta di annullamento delle cartelle esattoriali.

La Cerit S.p.A., in data 28.2.2006, notificava il fermo amministrativo per tre auto intestate rispettivamente ai tre eredi.

In data 9.5.2008 l’Equitalia Cerit (subentrata alla Cerit) avvertiva il sig. Ra.Br. di aver iscritto ipoteca su di un suo bene immobile per Euro 52.577,92.

Il sig. Br.Ra. impugnava il provvedimento ipotecario davanti alla Commissione Tributaria di Firenze contro la società Equitalia al fine di annullare l’ipoteca. Si costituiva l’Equitalia concludendo “Voglia la Commissione rigettare il ricorso in quanto infondato in fatto ed in diritto e conseguentemente dichiarare la legittimità dell’operato della Equitalia nonché la carenza di legittimazione passiva della stessa in materia di formazione del ruolo, respingere le domande tutte così come avanzate da parte del ricorrente”. La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, con sentenza n. 36/19/09 del 2.12.2008, accoglieva il ricorso e condannava la convenuta al pagamento delle spese ritenendo l’ipoteca, sui beni personali degli eredi, illegittima in quanto vi era in atto l’accettazione con beneficio. La Equitalia presentava appello alla Commissione Tributaria Regionale chiedendo la dichiarazione 4 di carenza della sua legittimazione passiva relativa alla illegittimità della iscrizione a ruolo nonché all’annullamento della condanna alle spese.

Si costituiva il contribuente concludendo per la conferma della sentenza di primo grado e condanna dell’appellante alle spese legali del II grado.

L’Equitalia premetteva ed asseriva che la sentenza di I grado aveva condannato l’Agente della Riscossione sul motivo che la procedura di iscrizione a ruolo era viziata mentre la successiva attività di iscrizione ipotecaria era legittima.

Tale ricostruzione non è corretta in quanto la sentenza aveva annullato l’iscrizione di ipoteca richiesta dalla Equitalia in quanto si era in presenza di accettazione con beneficio. Infatti la sentenza correttamente ricordava e statuiva, anche se in maniera succinta, che in caso di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, l’A.F. può procedere alla riscossione nei limiti dei beni devoluti agli eredi, che al termine della fase liquidatoria e non verso i beni personali dagli eredi.

Occorre ricordare che dopo l’inventario deve essere iniziata la liquidazione dell’eredità in funzione dei debiti ascritti sia ai sensi dell’art. 495 c.c. sia ai sensi dell’art. 498 c.c. Nel caso concreto è stato nominato un Notaio per la liquidazione dell’eredità ai sensi dell’art. 498 c.c.

I crediti tributari, come quelli ordinati, devono essere comunicati al liquidatore il quale deve predisporre la cosiddetta “graduazione” prevista dall’art. 501 c.c., e procedere alla di liquidazione previa eventuale vendita dei beni mobili ed immobili su autorizzazione della magistratura competente.

I pagamenti da parte della massa ereditaria con beneficio di inventario, devono essere fatti con i termini codicisti e di procedura civile senza nessuna soprattassa.

Invece, secondo l’Equitalia, l’erede è responsabile nei limiti dei valori dei beni ereditati “senza che a fronte di tale accettazione venga comunque esclusa la sua posizione debitoria personale”. Così argomenta Equitalia ritenendo che sia legittimo eseguire ipoteche sui beni personali degli eredi pur nei limiti dell’attivo ereditario non facendo venir meno il beneficio di inventario la responsabilità personale dell’erede.

L’appellante sosteneva, altresì, che il Concessionario non può entrare nel merito della legittimità dell’iscrizione ipotecaria, ma si limita a procedere alla riscossione coattiva del credito senza alcuna facoltà di interrompere o sospendere la propria attività esecutiva fino all’avviso di sgravio dell’Ente impositore.

L’Equitalia, infine, concludeva per la dichiarazione di inammissibilità delle contestazioni delle attività svolte dopo la notifica della cartella esattoriale ed in particolare le attività cautelari ed esecutive.

Così impostata la difesa dell’operato della Equitalia, l’appello deve essere respinto.

È pacifico che sui beni personali degli eredi accentanti con beneficio di inventario, non è possibile un’aggressione da parte dei creditori del de cuius. E tale principio deve essere applicato da Equitalia che non è un “computer” né un “automa” che esegue gli ordini senza coscienza e scienza, bensì un Ente preposto all’incasso dei crediti in base alle leggi e dei regolamenti cioè previo esame della regolarità dell’ordine impartito dagli Enti Pubblici richiedenti; nonché valutazione dei limiti entro cui l’ordine stesso può essere eseguito.

Infatti l’Equitalia ha l’obbligo di controllare la regolarità formale e sostanziale dei ruoli nonché predisporre le cartelle esattoriali e ad eseguire la procedura esecutiva seguendo le leggi. Equitalia è obbligata a verificare la sussistenza del credito presupposto all’esecuzione, predisponendo, anche in autotutela, l’eventuale prescrizione o decadenza del titolo.

La grave negligenza nell’adempimento di questi doveri può dar luogo a responsabilità ex art. 96, III comma c.p.c.; che deriva dal mancato uso di un minimo di diligenza e controllo della legittimità dei propri atti.

L’Equitalia è sottoposta alla trasparenza e alla correttezza nell’attività di riscossione, a quanto stabilito dal Codice del Consumo, in ordine alla correttezza, buona fede e diligenza nei rapporti con le controparti.

Dagli atti risulta che una volta comunicato il credito dell’Agenzia delle Entrate, l’Equitalia era stata avvertita che gli eredi avevano accettato con beneficio di inventario.

L’Equitalia doveva immediatamente controllare presso il Tribunale e l’Agenzia delle Entrate la conferma della segnalazione avuta e, di conseguenza, soprassedere ad ogni ulteriore attività compresa quella cautelare ed esecutiva.

Il Concessionario ha palesato, con estrema superficialità, un comportamento contrario al principio di trasparenza, di coscienza e di conoscenza sulla legittimità del tributo accertato. E questo comportamento trova sanzione nel l’art. 96 c.p.c.

A seguito della riforma del codice di procedura civile, nell’art. 96 è stata introdotta la possibilità per il Giudice di condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativa determinata (Cass. 3.3.2010 n. 5069).

L’art. 96 c.p.c. stabilisce che, se la parte soccombente abbia agito e resistito in causa con mala fede o colpa grave, lo condanna alle spese e al risarcimento del danno liquidandolo d’ufficio. Con l’aggiunta dell’art. 45, comma 12 Legge 69/2009, è stato stabilito che il Giudice, anche d’ufficio, possa condannare il soccombente al pagamento a favore della controparte di una somma di denaro determinata in via equitativa.

Il nuovo comma ha altresì escluso la necessità, per la condanna, della sussistenza del dolo o della colpa grave ed i vincoli a carico del giudicante. In quanto la norma intende prevalentemente tutelare “il danno ingiusto processuale” subito dalla parte a seguito del comportamento processuale della controparte. Per altro nel caso di specie sussiste un’evidente negligenza dell’appellante. Ritiene, poi, il Collegio di aderire al filone giurisprudenziale secondo cui il giudice competente su tale valutazione di danno è il giudice della causa. E dunque nel caso di specie il giudice tributario.

“Infatti tale domanda può essere conosciuta e decisa nella sua probabilità soltanto dal Giudice competente per il merito, perché nessun Giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume temeraria, ma anche perché la valutazione della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di un contrasto di giudicati” (Commissione Tributaria Regionale Puglia sez. VII n. 11 dell’11.1.2011; Cassazione 6.8.2010 n. 18344; Cassazione n. 24538/2009; CTR Lazio sentenza n. 179/14/10 del 14.4.2010). Si deve cioè riconoscere che il principio della effettività della tutela giudiziaria dei diritti (art. 24 Cost.) impedisce di separare l’accertamento del fatto processuale fonte di responsabilità dalla condanna al ristoro pecuniario del contribuente. Sia per la stretta connessione fra le due operazioni logiche, sia perché imporre al contribuente (o all’ente impositore) di promuovere un secondo giudizio determinerebbe un onere eccessivamente gravoso, oltre che snaturare la portata della norma che prevede che l’intervento sanzionatorio possa essere emesso dal giudice anche d’ufficio. Si veda ad esempio Cass. 28 aprile 2010, n. 10230 secondo cui l’opposizione alla dichiarazione di fallimento e l’azione di responsabilità aggravata, introdotta ai sensi dell’art. 96 c.p.c., con riguardo all’iniziativa assunta con l’istanza di fallimento, sono legate da un nesso d’interdipendenza da cui consegue la competenza funzionale, esclusiva ed inderogabile del giudice della predetta opposizione su entrambe e l’improponibilità in separato giudizio dell’azione risarcitoria (nella specie, la suprema corte ha confermato la pronuncia di secondo grado che aveva dichiarato inammissibile, in ordine ad entrambe le domande, l’impugnazione proposta oltre i termini, più ristretti, previsti per l’opposizione alla dichiarazione di fallimento).

Ed ancora Cass. 6 maggio 2010, n. 10960: chi intende chiedere il risarcimento del danno per l’eseguita esecuzione forzata illegittima può agire soltanto, ai sensi dell’art. 96, 2° comma, c.p.c. (quale norma speciale rispetto all’art. 2043 c.c.), dinanzi al giudice dell’opposizione all’esecuzione, funzionalmente competente sia sull’an che sul quantum; pertanto, è inammissibile una domanda di condanna generica, con riserva di agire in un separato giudizio per il quantum, che, per espressa previsione normativa, può essere liquidato anche d’ufficio.

In tema di responsabilità aggravata, l’art. 96 c.p.c. – che sanziona l’uso strumentale del processo in vista di scopi diversi da quelli per cui è preordinato, contemplando una tutela di tipo aquiliano con carattere di specialità rispetto all’art. 2043 c.c. – non detta una regola sulla competenza, giacché disciplina un fenomeno endoprocessuale, quale quello dell’esercizio, da parte del litigante, del potere di formulare un’istanza collegata e connessa all’agire o al resistere in giudizio, che non può configurarsi come potestas agendi esercitabile fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata e, quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice, salvo i casi in cui la possibilità di attivare il mezzo sia rimasta preclusa in forza dell’evoluzione propria dello specifico processo dal quale la stessa responsabilità aggravata ha avuto origine (Cass. 6 agosto 2010, n. 18344); Cass. 20 novembre 2009, n. 24538: l’azione di risarcimento danni ex art. 96 c.p.c. non può, di regola, essere fatta valere in un giudizio separato ed autonomo rispetto a quello dal quale la responsabilità aggravata ha avuto origine; ne consegue che competente a decidere sull’an e sul quantum della relativa domanda, qualora riguardi l’instaurazione illegittima di un procedimento di esecuzione forzata, è il giudice dell’opposizione alla stessa.

In materia analoga si veda Cass. civ., sez. III, 17 marzo 2009 n. 6439: la corte di cassazione è competente ad ordinare, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive contenute nei soli scritti ad essa diretti, con la conseguenza che è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si chieda la cancellazione delle frasi del suddetto tenore contenute nelle fasi processuali anteriori, essendo riservata la relativa statuizione al potere discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità; per la stessa ragione non è proponibile per la prima volta in cassazione la richiesta di risarcimento danni per responsabilità aggravata, prevista dall’art. 96 c.p.c., quando venga riferita al comportamento delle parti tenuto nelle fasi precedenti del giudizio.

Per quanto attiene alla materia tributaria, si può richiamare la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 14499 del 16 giugno 2010(1): in base al principio di concentrazione della tutela, le Commissioni Tributane possono riconoscere al contribuente non soltanto il rimborso delle imposte indebitamente versate, ma pure gli accessori come gli interessi ovvero il maggior danno o l’importo eventualmente pagato per la prestazione di cauzioni non dovute. Cui si affianca la sentenza n. 14704 del 18 giugno 2010(2): è devoluta al giudice tributario la controversia con cui il contribuente contesti la legittimità di un pignoramento presso terzi adducendo che il credito tributario (per IRPEF ed ILOR è inesistente o/e prescritto e chiedendo il risarcimento dei danni, patrimoniali, non patrimoniali e per responsabilità aggravata).

Il comportamento della Equitalia, tenuto anche in appello deve essere dunque sanzionata per aver determinato un danno esistenziale ed economico all’erede inconsapevole, costringendolo a tutelare i suoi diritti in sede giudiziaria nel disagio insito nella ricerca di un difensore tecnico.

In conclusione il gravame dell’appellante deve essere respinto in quanto il fermo auto prima e l’ipoteca dopo sono interventi cautelari eseguiti senza verificare la legittimità e l’attualità della pretesa tributaria nonché la natura dell’apertura della successione.

Il relativo pregiudizio viene liquidato in via equitativa in Euro 10.000.

Le spese seguono la soccombenza con applicazione dell’art. 96 c.p.c.

 

P.Q.M. – Respinge l’appello. Condanna l’Equitalia a pagare al sig. Br.Ra. le spese del presente giudizio che tassa e liquida in Euro 3.000,00 oltre accessori e condanna, altresì, ex art. 96 comma 3° c.p.c.,  l’Equitalia a pagare a favore dell’appellato la somma di Euro 10.000,00 oltre interessi dalla sentenza al saldo.

 

(1) In Boll. Trib. On-line.

(2) In Boll. Trib. On-line.

 

 

La condanna dell’Amministrazione finanziaria

e dell’agente della riscossione

per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.

 

1. Premessa

 

La giurisprudenza è impegnata in un meritorio sforzo di riequilibrio, in sede processuale, delle posizioni dei contendenti, a lungo sbilanciate a favore della mano pubblica. Un’azione, quella in corso, che tocca più versanti e alla quale tutti gli operatori devono guardare con viva attenzione in modo da correggere, alla bisogna, atteggiamenti talora dati frettolosamente per scontati, la cui superficiale sottovalutazione può nascondere rischi non secondari (alla lunga, anche davanti al giudice della responsabilità amministrativa). Il dato appare evidente, ad esempio, con il brusco revirement della Corte di Cassazione in materia di accollo delle spese di lite in dipendenza della mancata adizione degli strumenti di autotutela (1), ma non è da meno il mutamento di rotta compiuto dalla Suprema Corte sul delicato tema delle responsabilità (sostanziali di merito e non solo procedurali di forma) che gravano sul titolare della fase della riscossione.

La decisione in commento possiede una notevole importanza perché scardina l’inveterata, malsana opinione secondo la quale gli uffici dell’Amministrazione finanziaria sono chiamati a determinare an e quantum del tributo, rispondendone di conseguenza, mentre, dal ruolo in avanti, le carte sono nelle mani del riscossore e lui solo deve renderne conto. Gioco delle parti che spesso, in giudizio, ha indotto il portavoce del fronte pubblico a palleggiarsi la paternità delle misure sub iudice, con connesse, pesanti difficoltà organizzative in capo al contribuente (difficoltà onerose che sempre meno, in avvenire, secondo facile previsione, saranno passate sotto silenzio dal giudice tributario).

Non è dunque chi non veda la profonda novità racchiusa nell’affermazione per cui l’ente preposto all’incasso dei crediti deve essere considerato mallevadore, al pari dell’ente nel cui interesse agisce, della «regolarità formale e sostanziale dei ruoli», al punto da doversi attivare «anche in autotutela» qualora dal doveroso controllo emerga l’illegittimità della procedura instaurata.

Valga dunque il documento come perentorio richiamo alla responsabilità (che non è un’emozione, è un precetto di legge), a fronte di riscontri storico-giuridici certi e conosciuti (nella specie erano stati incautamente sottoposti ad esecuzione forzata i beni personali di eredi che avevano accettato la successione con beneficio di inventario). Veste non abdicabile da parte di un ente chiamato ad un pubblico servizio, quindi tenuto ad attivarsi con piena consapevolezza («con scienza e coscienza») della complessiva realtà in cui si cala. Salvo vedersi attribuita – come qui è avvenuto – la poco lusinghiera fama di “automa” o di “computer”, punita di conseguenza.

 

2. Responsabilità per danni processuali – Inquadramento della nozione

 

Per essere colta nella sua esatta portata, la questione affrontata dalla sentenza impone un succinto inquadramento sistematico dell’ampio tema, ad essa sovrastante, del risarcimento del danno.

Non è un caso se le prime prescrizioni da richiamare a fondamento della riflessione appartengono al diritto sostanziale. Si tratta di due pietre miliari dell’ordinamento, gli artt. 2043 c.c. (Risarcimento per fatto illecito) e 2059 c.c. (Danni non patrimoniali), da leggere sì in combinato disposto, ma anche in rigoroso rapporto di genus a species.

Infatti, se l’art. 2043 («Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno») stabilisce, in linea generale, la risarcibilità di tutti i danni prodotti dalla condotta dolosa o colposa di un terzo, l’art. 2059 («Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge») circoscrive il proprio raggio d’azione, configurandosi come «specificazione e norma selettiva dei [soli] danni non patrimoniali» (2).

I riscontri espressi dalla giurisprudenza civilistica, compatta sul punto, sono pacificamente applicabili al rito tributario (3). In primo luogo è predicata l’identità, nelle fattispecie regolamentate dalle due disposizioni, del presupposto sostanziale, consistente per entrambe nella illiceità del fatto causativo, requisito da leggersi come conflitto insuperabile con i dettami normativi e suscettibile di ledere l’altrui sfera giuridica, tanto individuale quanto collettiva; se ne trae poi, sul piano processuale, il corollario logico per cui è «preclusa [a fronte di un certo evento, del quale sia stata accertata in giudizio l’illiceità] la possibilità di invocare, con una domanda autonoma e concorrente, i principi generali della responsabilità per fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c.»; per concludere, sempre in stretta sequenza logica, che «la responsabilità processuale per danni ricade interamente, in tutte le sue possibili ipotesi, nell’ambito normativo dell’art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità» (4).

Riassumiamo brevemente i risultati raggiunti. Nel panorama della responsabilità di tipo aquiliano, cioè di natura extracontrattuale, l’art. 96 c.p.c. costituisce estrinsecazione in chiave processuale della regola introdotta, con respiro generale, dall’art. 2059 c.c.; e posto che – per proprietà transitiva – ne mutua le caratteristiche, non sfugge alla conseguenza, anch’essa puntualmente fatta propria dalla giurisprudenza, di venire inquadrato, esso art. 96 c.p.c., come manifestazione di species rispetto all’art. 2043 c.c. (5).

 

3. Rapporti e differenze fra il comma primo e il comma terzo dell’art. 96 c.p.c.

 

Qui giunti, conosciamo meglio l’art. 96 c.p.c. Tramite  esso è stata introdotta, così come recita la rubrica, la responsabilità aggravata in sede processuale civile; il primo comma colpisce infatti la «parte soccombente [che] ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave», perché in tale caso «il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza». Prima di proseguire, vale la pena sottolineare subito alcune modalità tecniche di spiccato risalto: 1) la condanna al risarcimento costituisce un obbligo a carico del giudice (“condanna”, non “può condannare”) purché 2) egli ne sia stato espressamente richiesto (“su istanza dell’altra parte”) e laddove 3) inquadri l’atteggiamento censurato nella fascia alta del profilo soggettivo, ritenendolo cioè innervato da intenzionalità o da mancato dispiegamento della diligenza minima (“mala fede o colpa grave”), cioè ancora colorato da «un’imprudenza o trascuratezza elevata, per il mancato impiego di un minimo di diligenza, sufficiente a fare avvertire l’ingiustizia della pretesa avanzata in causa» (6), mentre 4) non necessariamente l’entità del pregiudizio patito va quantificata da chi lo allega (“anche d’ufficio”), essendo sufficiente che quegli fornisca un abbozzo di prova intorno all’an e al quantum debeatur, affinché «detti elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa» (7).

L’art. 96, primo comma, c.p.c., mira dunque a reintegrare la parte lesa del nocumento ricevuto, assolvendo a una funzione «riparatoria di un pregiudizio effettivamente sofferto, senza assumere carattere sanzionatorio o afflittivo» (8). Lì si radica lo spartiacque principale rispetto alla fattispecie enunciata nel terzo comma, quest’ultima avuta di mira dalla commissione tributaria fiorentina con la sentenza in commento. Interpretazione «avvalorata dall’art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69, il quale ha aggiunto un terzo comma all’art. 96 c.p.c., introducendo con esso una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario» (9).

Come si è detto, a fissare la rilevanza giuridica del pregiudizio disciplinato dal primo comma interviene il criterio del dolo o della colpa grave (10), consegnato a una pronuncia del giudice di merito che consolida «un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se la motivazione, in ordine alla sussistenza o meno dell’elemento soggettivo così come sull’an e il quantum dei danni, risponde ad esatti criteri logico-giuridici» (11), se cioè «la motivazione non è accompagnata dall’indicazione di ragioni palesemente illogiche e tali da inficiare, per la loro inconsistenza o l’evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale» (12). Per di più, «la motivazione non deve essere necessariamente esplicitata, potendo essere desunta dal contesto della decisione» (13).

Nella pratica, per essere rilevante, siffatto pregiudizio deve discendere da «avventate iniziative giudiziarie [essendo la norma intesa a reprimere] non solo l’abuso dell’agire o del resistere in giudizio, ma, in generale, l’uso strumentale del processo in vista di scopi diversi da quelli cui esso è preordinato» (14). Un processo cioè nel quale la persona danneggiata sia stata trascinata da un «comportamento contrario a quei principi di correttezza e trasparenza che dovrebbero sempre contraddistinguere i rapporti tra l’Amministrazione finanziaria e il cittadino-contribuente: rapporti che dovrebbero restare di fiducia e non essere incrinati [minati, si legge in un altro passaggio della decisione] da disfunzioni e irregolarità della stessa Amministrazione» tali da cagionare un danno ingiusto «sia da un punto di vista economico (spese per difesa tecnica) sia da un punto di vista morale (preoccupazioni e timori di un eventuale e rilevante danno al patrimonio)» (15). Come di recente è stato esemplarmente sostenuto, «il fondamento della fattispecie consiste nell’abuso del diritto o abuso del processo» (16), nel senso che la funzione istituzionale del processo, salvaguardata dal paradigma di lealtà e probità statuito dall’art. 88 c.p.c. (17), viene indebitamente deviata dal suo fine corretto (l’accertamento della verità tra parti onestamente convinte delle rispettive ragioni) ad un altro distorto, identificabile vuoi nella protrazione dei tempi con connessa dilazione del verdetto, vuoi nello sfiancamento dell’avversario in attesa di tempi migliori, cioè di realtà normative più favorevoli. In altre parole: nella violazione di un canone, il processo giusto e celere, di rango costituzionale.

Altra è la ratio della fattispecie normata al terzo e ultimo comma dell’art. 96 c.p.c., aggiunto, come detto, dall’art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69. Esso stabilisce: «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata». Appunto perché si aggiunge (“altresì”) alla condanna alla rifusione delle spese di cui al primo comma (18), questo nuovo precetto funge (non da risarcimento, ma) da sanzione per il comportamento tenuto dal contendente scorretto (è stato definito anche “sanzione di ordine pubblico” o “danno punitivo”) (19) e prescinde non solo da una esplicita richiesta dell’avversario (20), ma anche – lo afferma chiaramente la decisione massimata – dal riscontro del livello di intenzionalità o di colpa in capo a colui che ha mancato. An e quantum di tale sanzione, da versarsi alla parte lesa, sono lasciati alla discrezionale determinazione del giudice del merito, neppure questa sindacabile da quello di legittimità.

 

4. Aspetti processuali

 

Nessun dubbio, oggi, sulla competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie a conoscere dei danni lamentati, nel corso di una lite tributaria avviata avanti ad esse, a seguito della condotta processuale illegittima dell’altra parte (21). È infatti opinione comune che l’art. 96 c.p.c. «non detta una regola sulla competenza, non indica cioè davanti a quale giudice va esercitata l’azione, ma disciplina un fenomeno endoprocessuale, consistente nell’esercizio, da parte del litigante, del potere di formulare un’istanza collegata o connessa all’agire o al resistere in giudizio» (22).

A ben vedere, messa in disparte tale (peraltro ineccepibile) ottica dogmatica e accantonata per un attimo l’evidente antieconomicità della duplicazione di azioni a fronte del medesimo problema, il valore si alimenta anche al comune buon senso, se è vero che «la domanda di risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata può essere proposta solo nello stesso giudizio dal cui esito si deduce l’insorgenza della detta responsabilità e del danno, non solo perché nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso giudice che decide sulla domanda che si assume temeraria, ma anche e soprattutto perché la valutazione del presupposto della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di un contrasto pratico di giudicati» (23).

Di qui l’inammissibilità di una potestas agendi azionabile «in via autonoma, consequenziale e successiva», cioè in altra sede che non sia quella – prioritaria e inscindibile (24) – in cui si è manifestata la condotta causativa della presunta responsabilità aggravata (25).

A ciò si aggiunga che la violazione delle regole processuali deve essersi verificata nel corso di quello specifico grado di giudizio in cui la relativa domanda è avanzata. Regola che vale indiscriminatamente per tutti i gradi del processo, anche – e a maggior ragione – per quello di legittimità, di talché «la richiesta di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. non è proponibile per la prima volta in Cassazione quando venga riferita al comportamento tenuto dalla parte nelle fasi precedenti del giudizio» (26). Con una doverosa, immediata precisazione: che è generalmente ammessa la possibilità di attivare il mezzo offerto dall’art. 96 c.p.c. in altra e successiva fase, ove detta facoltà sia rimasta «preclusa dall’evoluzione propria dello specifico processo dal quale la responsabilità aggravata ha tratto origine» (27), cioè «da ragioni attinenti alla stessa struttura del processo e non dipendenti dall’inerzia della parte» (28).

 

Avv. Valdo Azzoni

 

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