22 Ottobre, 2012

Per l’accertamento del reddito di una società l’Amministrazione finanziaria può utilizzare anche i dati risultanti dai conti correnti bancari intestati ai suoi soci, solo a condizione che risulti provata la natura fittizia di tali intestazioni e la riconducibilità delle relative movimentazioni alla società stessa, nel puntuale assolvimento di un onere di prova che incombe sull’Ufficio finanziario.

[Commissione trib. provinciale di Pesaro, sez. I (Pres. Mensitieri, rel. Bellitti), 29 aprile 2011, sent. n. 86]

 

IN FATTO – Con ricorso depositato in data 18 maggio 2010, la “F.F. & C.” S.n.c., in persona del legale rappresentante, nonché socia, signora S.B., ha impugnato l’avviso di accertamento n° …, con cui l’Agenzia delle Entrate-Ufficio di Fano procedeva alle seguenti rettifiche: 1) ai fini dell’accertamento del reddito da imputare ai soci, un maggior utile per E. 99.024,36=; 2) ai fini Irap, un maggior valore della produzione per E. 99.024,36=; 3) ai fini IVA, un importo dovuto di E. 5.471,00=; veniva altresì irrogata la sanzione amministrativa per E. 8,206,50. Le contestazioni sono state mosse a conclusione di una indagine bancaria effettuata esclusivamente sui conti correnti dei quattro soci della S.n.c.: F.F. e S.B. (coniugi), e F.A. e B. (figli). Poiché le giustificazioni fornite dai soci non sono state ritenute sufficienti dall’Ufficio, i relativi  movimenti bancari sono stati presuntivamente attribuiti alla Società quali utili extrabilancio.

In ricorso la parte privata deduce: a) nullità dell’accertamento per difetto di motivazione e per errata valutazione dei fatti; b) la violazione degli artt. 39 e 41bis DPR n° 600/73, nonché dell’art. 54 del DPR n° 633/72, per mancanza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza delle presunzioni applicate dall’Ufficio. Conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso, ed il conseguente annullamento dell’avviso impugnato.

L’Ufficio, ritualmente costituitosi in data 8 luglio 2010, sostiene la legittimità del proprio operato, sia in riferimento alla valutazione dei fatti posti a base dell’imposizione fiscale, sia in relazione al corretto utilizzo di presunzioni legali relative. Conclude chiedendo il rigetto del ricorso, con vittoria di spese.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE – Il caso che occupa richiama alla mente, per certi aspetti, il noto “paradosso di Epimenide” (“Tutti gli ateniesi, e solo essi, sono mentitori. Io sono ateniese”), inteso come premessa che capovolge sè stessa al momento dell’affermazione.

In realtà, la vicenda in questione è, in estrema sintesi, cosi riassumibile: in sede di accesso alla Società (soggetta al procedimento fiscale) nessun rilievo viene effettuato: vengono però effettuate indagini sui quattro soci, dalle cui risultanze si ritiene di far “discendere” il meccanismo presuntivo applicato – si badi – non in capo ai medesimi, bensì, alla Società, alla quale vengono conseguentemente attribuiti maggiori ricavi; da ultimo, sulla base dei così accertati maggiori ricavi societari, si fanno scaturire in capo ai soci i relativi maggiori imponibili. Ed ecco che il richiamo al precitato paradosso logico assume consistenza.

Come s’è anticipato, la costruzione logica dell’Ufficio fonda su un presupposto giuridico più che labile: e cioè che il meccanismo di presunzione legale (relativa) applicato alla Società sia corretto. È accaduto, invece, che l’Ufficio, sulla base delle indagini condotte sui conti correnti bancari dei soci, ha ritenuto che quei movimenti (o gran parte di essi) fossero in realtà riconducibili ad operazioni poste in essere dalla Società. È qui appena il caso di ricordare che i soci non sono obbligati alla tenuta di alcuna contabilità. Eppure, negli avvisi il rinvio alla contabilità dei soci appare più volte. Vero è che se l’Ufficio avesse dimostrato che i conti dei soci erano riferibili ad intestazioni fittizie, e che le relative movimentazioni dovevano essere ricondotte alla Società, l’accertamento sarebbe stato legittimo. Ma anche questo non è stato fatto.

In definitiva, l’accertamento nei confronti della Società appare viziato da una errata applicazione delle norme di legge. Esso merita, pertanto, la sanzione dell’annullamento.

Circa le spese di giudizio, richieste solo dall’A.F. resistente, sussistono giusti motivi per disporne la compensazione tra le parti.

 

P.Q.M. – Accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla l’impugnato avviso di accertamento. Spese compensate.

 

Gli accertamenti bancari e il paradosso del mentitore

 

La regola è ormai nota. I dati e gli elementi attinenti ai rapporti intrattenuti con le banche e gli altri enti pubblici e privati che gestiscono attività finanziarie e creditizie possono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nella redazione della dichiarazione o che non hanno rilevanza allo stesso fine.

È altrettanto noto che, vertendosi in tema di società, questa regola può applicarsi anche in relazione ai conti e alle operazioni finanziarie intestate ai soci o agli amministratori, allorché risulti provata, anche attraverso la prova logica, la natura fittizia dell’intestazione.

Una volta assodato che il conto dell’amministratore è in realtà un conto della società, scatta nei confronti di quest’ultima l’inversione dell’onere della prova. Per conseguenza, le movimentazioni di cui la società non è in grado di dimostrare le circostanze di cui sopra, sono poste a base delle rettifiche e degli accertamenti.

Anche se il giudice delle leggi ha statuito che in questi casi la prova per vincere una tale presunzione non deve essere necessariamente soltanto quella documentale, valendo anche quella logica, è certo che, anche così, si tratta di prova non sempre facile. In particolare, può diventare problematica, per certi versi impossibile, in ipotesi come quelle di cui ci stiamo occupando, di conti correnti intestati ai soci e che magari, per un mero accidente, siano stati utilizzati a favore della società.

Nel caso deciso, la norma era stata utilizzata dall’Amministrazione finanziaria con inusuale asprezza. I conti dei soci erano stati ritenuti conti della società per il solo motivo che erano intestati ai soci. Niente di più, niente di meno. L’avviso di accertamento si basava esclusivamente sulle discrepanze rinvenute su questi conti, nulla essendo emerso nel corso dell’ispezione a carico della società.

Il simpatico rompicapo del paradosso del mentitore, attorno al quale si snoda la sobria motivazione della sentenza: tutti i cretesi sono mentitori, ed io sono cretese, ci riporta indietro nel tempo. Addirittura agli albori del sillogismo aristotelico. Meglio ancora, alla nascita della logica e, dunque, al tempo in cui il pensiero non aveva ancora diviso le affermazioni dalle negazioni, quando nessuno ci aveva ancora spiegato che è vero ciò che non è falso e non viceversa, e che l’essere innocenti fino a prova contraria non è la stessa cosa che l’essere colpevoli, sempre fino a prova contraria.

È su questo piano, di pura e splendida logica, che la Commissione ha indagato, per poi concludere che l’accertamento del maggior reddito non era legittimo. Mancava un passaggio logico: l’ufficio non si era per nulla preoccupato di dimostrare che i conti correnti dei soci erano in realtà conti della società. La sola condizione, dice la Commissione, per cui le relative movimentazioni avrebbero potuto essere ricondotte a quest’ultima.

Nulla di nuovo, si dirà. Il concetto è stato già espresso dalla stessa Corte di Cassazione, da ultimo nella sentenza 24 settembre n. 2010, n. 20199 (1), ove è stato ribadito che la regola di cui agli artt. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 51 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, può applicarsi anche ai conti e alle operazioni finanziarie intestate ai soci o agli amministratori di una società, allorché dovesse risultare la natura fittizia di tale intestazione. «Una volta assodato che il conto dell’amministratore è in realtà un conto della società, dato necessariamente oggettivo anche se provato attraverso la prova logica, scatta dunque l’inversione dell’onere della prova, e l’amministrazione finanziaria può rettificare su basi presuntive la dichiarazione del contribuente utilizzando i dati relativi ai detti movimenti sui conti bancari, gravando sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria» (2).

A questo precedente giurisprudenziale la Commissione non ha fatto alcun esplicito rinvio, ma si è fatta guidare soltanto dalla sua ragione, scegliendo così la strada più impervia ma sicuramente più completa: il classico percorso critico.

Quando un giudice di prime cure ragiona in questo modo, quando si attarda a controllare e verificare la coerenza interna dei fatti costitutivi la fattispecie normativa utilizzata dall’ufficio per l’accertamento dell’imposta, quando, nel fare ciò, si avvale di precisi schemi argomentativi che siano in grado di esprimere, più o meno esplicitamente, consolidati principi giurisprudenziali, chi per primo ne guadagna è la giustizia in quanto tale.

A differenza dei giudici di legittimità, che si muovono secondo una metodica del tutto peculiare, volta a impedire che sulla medesima disposizione di legge si possano adottare opzioni ermeneutiche diverse, a danno dell’uguaglianza di trattamento, le pronunce delle Commissioni sono rivolte esclusivamente alle parti in causa, le sole destinatarie, in un sistema di civil law, quale il nostro è, del loro dictum.

In questo senso, compito delle Commissioni non è quello di fare dottrina (3) né, ancora, enunciare principi con la pretesa che facciano stato anche in future controversie.

Quando il giudice di merito si attiene a questi principi, egli nobilita anche la funzione nomofilattica che l’art. 65 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, attribuisce alla Suprema Corte: garantire, attraverso l’autorevolezza del magistrato e la solidità dei percorsi argomentativi impiegati (4), l’uniforme interpretazione della legge e, dunque, l’unità del diritto oggettivo nazionale.

E allora, se alla Corte deve essere restituito il ruolo elitario di custode del pensiero giuridico che le compete, uno dei mezzi per pervenire a un tale risultato passa anche attraverso la redazione di sentenze di merito che si avvalgono di un elaborato e razionale percorso argomentativo attraverso il quale il giudice illustra il perché ha sussunto all’interno di una determinata fattispecie tributaria, ancora a livello di astrazione, i fatti e le circostanze riferibili al contribuente parte in causa.

Un conto è controllare se una determinata norma di legge è stata interpretata nel giusto modo, ed è stata poi correttamente applicata a fattispecie concrete che risultino effettivamente ad essa fattispecie ascrivibili, altro è doversi attardare a verificare un raffazzonato e improvvisato riepilogo di alcune massime giurisprudenziali a cui, purtroppo sempre più spesso, si stanno riducendo le sentenze delle Commissioni di merito.

A questo proposito, basta ad esempio osservare quanto accade, sempre in relazione alla prova presuntiva, in tema di maggior reddito percepito dai soci di una società di capitali a ristretta base sociale. La risposta delle Commissioni circa la critica che un tale elemento possa integrare i requisiti di gravità, precisione e concordanza menzionati dall’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, in altro non si risolve se non nella trascrizione di alcuni dictum della Corte di Cassazione, così traducendosi in una motivazione meramente assertiva, come tale del tutto apodittica.

Ben vengano, dunque, sentenze come queste che fanno riflettere. Che ci richiamano alla mente che i principi giuridici sono come le innovazioni tecnologiche o le scoperte scientifiche: possono essere usate ma, purtroppo, anche abusate.

Bruno Aiudi

 

(1) Cass., sez. trib., 24 settembre 2010, n. 20199, in Boll. Trib. On-line.

(2) Cass., sez. trib., 15 luglio 2008, n. 19362, in Boll. Trib. On-line.

(3) Così lupi, Evasione fiscale, paradiso e inferno, Milano, 2008, 304.

(4) Così mandrioli, Diritto processuale civile. Il processo di cognizione, Torino, 2002, 456.