16 Settembre, 2013

Imposte e tasse – Cancellazione di società dal registro delle imprese – Estinzione della società – Consegue – Successione dei soci nei rapporti giuridici facenti capo alla società estinta, trasferimento delle obbligazioni ai soci e loro responsabilità per i debiti sociali – Limiti e condizioni.

Imposte e tasse – Cancellazione di società dal registro delle imprese – Estinzione della società – Consegue – Successione dei soci nei rapporti giuridici facenti capo alla società estinta – Limiti e condizioni – Trasferimento ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa dei diritti e dei beni non compresi nel bilancio di liquidazione – Può verificarsi – Trasferimento delle mere pretese e dei crediti incerti o illiquidi – Esclusione.

Procedimento – Cancellazione volontaria della società dal registro delle imprese – Estinzione della società e perdita della capacità e della legittimazione processuali – conseguono.

Procedimento – Cancellazione di società dal registro delle imprese – Cancellazione in pendenza di giudizio – Estinzione della società – Consegue – Evento interruttivo del processo disciplinato dagli artt. 299 e segg. c.p.c. – Si configura.

Procedimento – Cancellazione di società dal registro delle imprese – Cancellazione in pendenza di giudizio – Estinzione della società – Consegue – Successione dei soci nei rapporti processuali facenti capo alla società estinta – Condizioni.

Procedimento – Cancellazione di società dal registro delle imprese – Cancellazione in pendenza di giudizio – Mancata constatazione dell’evento interruttivo nei modi previsti dagli artt. 299 e segg. c.p.c. – Impugnazione della sentenza pronunciata nei confronti della società estinta – Deve provenire o essere indirizzata dai soci o nei confronti dei soci succeduti.

Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato.

La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio; se l’estinzione della società cancellata dal registro delle imprese intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 299 e segg. c.p.c., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci, mentre ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.

 

[Corte di Cassazione, sez. un. (Pres. Triola, rel. Rordorf), 12 marzo 2013, sent. n. 6070, ric. Comune di Avellino c. Compagnia Generali Servizi e Finanza s.p.a.]

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO –La Corted’appello di Napoli, con sentenza depositata in cancelleria il 23 dicembre2008, inparziale riforma di una precedente pronuncia del Tribunale di Avellino, condannò il Comune di Avellino a pagare alla s.a.s. Rainone Costruzioni di Vinko Mladen & C. in liquidazione (d’ora innanzi indicata come Rainone) la somma di Euro 402.649,22, oltre ad interessi, a titolo di corrispettivo per l’esecuzione di lavori pubblici eseguiti da detta società su incarico dell’ente locale.

La sentenza è stata impugnata dal Comune di Avellino con ricorso per cassazione notificato ai procuratori domiciliatari della Rainone nel giudizio d’appello.

L’ammissibilità del ricorso è stata però contestata dalla Compagnia Generali Servizi e Finanza s.p.a. (in prosieguo indicata come Compagnia Generali), che ha depositato un controricorso nel quale, premesso che il 15 giugno 2005 il credito dedotto in lite le era stato ceduto dalla Rainone, ha fatto presente che quest’ultima società è da considerare estinta sin dal 25 maggio 2007, data in cui è stata cancellata dal registro delle imprese, onde l’impugnazione non avrebbe potuto essere ad essa indirizzata.

Altro ricorso avverso la medesima sentenza della Corte d’appello di Napoli, notificato al Comune di Avellino ed alla società Rainone, è stato proposto dall’avv. R.G., difensore dell’anzidetta società nel giudizio di merito, il quale si è lamentato della mancata distrazione delle spese processuali in suo favore.

Riuniti i due ricorsi, la prima sezione di questa corte, con ordinanza n. 9943 del 2012, ne ha sollecitato la rimessione alle sezioni unite affinchè sia decisa la questione di massima di particolare importanza consistente nell’individuare la sorte dei rapporti processuali pendenti nel momento in cui una società (nella specie una società di persone) venga cancellata dal registro delle imprese.

I ricorsi riuniti sono stati perciò discussi all’odierna udienza dinanzi alle sezioni unite.

 

[-protetto-]

 

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. La corte è chiamata a prendere posizione su un nodo tematico – gli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese, dopo la riforma organica del diritto societario attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003 – in parte già esaminato da alcune sentenze delle sezioni unite nel corso dell’anno 2010. Giova dir subito che non v’è ragione per rimettere qui in discussione i principi in quelle sentenze affermati, dalle quali occorre invece partire, senza ovviamente ripercorrerne l’intero percorso motivazionale ma ricapitolandone brevemente i punti salienti, per cercare di far chiarezza su una serie di ulteriori ricadute derivanti dalla suaccennata riforma del diritto societario.

Con le sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010 le sezioni unite di questa corte hanno ravvisato nelle modifiche apportate dal legislatore al testo dell’art. 2495 c.c. (rispetto alla formulazione del precedente art. 2456, che disciplinava la medesima materia) una valenza innovativa. Pertanto, la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad esso facenti capo fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi senz’altro produttiva di quell’effetto estintivo: effetto destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma, o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente. Per ragioni di ordine sistematico, desunte anche dal disposto del novellato art. 10 della legge fallimentare, la stessa regola è apparsa applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione del menzionato art. 2495 e sia rimasto per loro in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 (integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324). La situazione delle società di persone si differenzia da quella delle società di capitali, a tal riguardo, solo in quanto l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con prova contraria. Ma è bene precisare che tale prova contraria non potrebbe vertere sul solo dato statico della pendenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società, perchè ciò condurrebbe in sostanza ad un risultato corrispondente alla situazione preesistente alla riforma societaria. Per superare la presunzione di estinzione occorre, invece, la prova di un fatto dinamico: cioè che la società abbia continuato in realtà ad operare – e dunque ad esistere – pur dopo l’avvenuta cancellazione dal registro. Ed è questa soltanto la situazione alla quale la successiva sentenza n. 4826 del 2010 hapoi ricollegato anche la possibilità che, tanto per le società di persone quanto per le società di capitali, si addivenga anche d’ufficio alla “cancellazione della pregressa cancellazione” (cioè alla rimozione della cancellazione dal registro in precedenza intervenuta), in forza del disposto dell’art. 2191 c.c., con la conseguente presunzione che la società non abbia mai cessato medio tempore di operare e di esistere.

 

2. Ferme tali premesse, si tratta ora di mettere meglio a fuoco le conseguenze che ne possono derivare in ordine ai rapporti, originariamente facenti capo alla società estinta a seguito della cancellazione dal registro, che tuttavia non siano stati definiti nella fase della liquidazione, o perché li si è trascurati (li si potrebbe allora definire “residui non liquidati”) o perché solo in seguito se ne è scoperta l’esistenza (li si suole definire “sopravvenienze”).

Converrà farlo tenendo separati, per maggiore chiarezza espositiva, i rapporti passivi, cioè quelli implicanti l’esistenza di obbligazioni gravanti sulla società, dai rapporti attivi, in forza dei quali prima della cancellazione la società poteva vantare diritti; e converrà esaminare anzitutto i profili di diritto sostanziale e poi le conseguenze che se ne debbano trarre sul piano processuale.

 

3. Il legislatore del codice civile, anche in occasione della già ricordata riforma del diritto societario, si è preoccupato espressamente soltanto di disciplinare la sorte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società dal registro.

Il secondo comma del citato art. 2495 (riprendendo, peraltro, quanto già stabiliva in proposito il secondo comma del previgente art. 2456) stabilisce, a tal riguardo, che i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. È prevista, inoltre, anche la possibilità di agire (deve intendersi, però, per risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui; ma di tale ulteriore previsione non occorre qui occuparsi, non essendo stata esercitata azione alcuna contro il liquidatore nella vertenza in esame.

Un’analoga disposizione è dettata, per le società in nome collettivo, dal secondo comma del pure già citato art. 2312, salvo che, in tal caso, pur dopo la dissoluzione dell’ente ma coerentemente con le caratteristiche del diverso tipo societario, non opera la limitazione di responsabilità di cui godono i soci di società di capitali. La stessa regola si ripropone per la società in accomandita semplice, ma l’ultrattività dei principi vigenti in pendenza di società fa sì che, anche dopo la cancellazione, l’accomandante risponda solo entro i limiti della sua quota di liquidazione (art. 2324).

Lo scarno tessuto normativo cui s’è fatto cenno non sembra autorizzare la conclusione che, con l’estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, si estinguano anche i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo. Se così fosse, si finirebbe col consentire al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui (magari facendo venir meno, di conseguenza, le garanzie, prestate da terzi, che a quei debiti eventualmente accedano), e ciò pare tanto più inammissibile in un contesto normativo nel quale l’art. 2492 c.c. neppure accorda al creditore la legittimazione a proporre reclamo contro il bilancio finale di liquidazione della società debitrice, il cui deposito prelude alla cancellazione. Ipotizzare – come pure si è fatto da taluni – che la volontaria estinzione dell’ente collettivo comporti, perciò, la cessazione della materia del contendere nei giudizi contro di esso pendenti per l’accertamento di debiti sociali tuttora insoddisfatti significherebbe imporre un ingiustificato sacrificio del diritto dei creditori; sacrificio che non verrebbe sanato dalla possibilità di agire nei confronti dei soci, alle condizioni indicate dalla citata disposizione dell’art. 2495, se quest’azione fosse concepita come diversa ed autonoma rispetto a quella già intrapresa verso la società, non foss’altro che per la necessità di dover riprendere il giudizio da capo con maggiori oneri e col rischio di non riuscire a reiterare le prove già espletate.

Ma se allora, anche per non vulnerare il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione, deve escludersi che la cancellazione dal registro, pur provocando l’estinzione dell’ente debitore, determini al tempo stesso la sparizione dei debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi, è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a dei successori e che, pertanto, la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l’appunto, un meccanismo di tipo successorio, che tale è anche se si vogliano rifiutare improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica.

La ratio della norma dianzi citata, d’altronde, palesemente risiede proprio in questo: nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati. Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori (sembra dubitarne Cass. 13 luglio 2012, n. 11968[1], ma in base ad una motivazione in buona parte imperniata sulla disposizione dell’art. 36, terzo comma, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, operante solo nello specifico settore del diritto tributario). Puntualmente autorevole dottrina ha affermato che la responsabilità dei soci trova giustificazione nel “carattere strumentale del soggetto società: venuto meno questo, i soci sono gli effettivi titolari dei debiti sociali nei limiti della responsabilità che essi avevano secondo il tipo di rapporto sociale prescelto”.

Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica (si veda, in argomento, Cass. 3 aprile 2003, n. 5113). Come, nel caso della persona fisica, la scomparsa del debitore non estingue il debito, ma innesca un meccanismo successorio nell’ambito del quale le ragioni del creditore sono destinate ad essere variamente contemperate con quelle degli eredi, così, quando il debitore è un ente collettivo, non v’è ragione per ritenere che la sua estinzione (alla quale, a differenza della morte della persona fisica, concorre di regola la sua stessa volontà) non dia ugualmente luogo ad un fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi rapporti sociali.

Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Infatti, se la società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente vuol dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. D’altro canto, alla tesi – pure in sè certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (tesi propugnata da Cass. 16 maggio 2012, nn. 7676[2] e 7679[3], nonché da Cass. 9 novembre 2012, n. 19453), sembra da preferire quella che individua invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione (anche, come si dirà, ai fini processuali), fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto cenno. Il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo.

Della correttezza della ricostruzione sistematica dell’istituto in termini (almeno lato sensu) successori è d’altronde lo stesso legislatore a fornire un indizio assai significativo, disponendo che la domanda proposta dai creditori insoddisfatti nei confronti dei soci possa essere notificata, entro un anno dalla cancellazione della società dal registro, presso l’ultima sede della medesima società (art. 2495 cit., secondo comma, ultima parte). Non interessa qui soffermarsi sulle perplessità che da talune parti sono state solevate quanto all’idoneità di tale disposizione ad assicurare adeguatamente il diritto di difesa dei soci nei cui confronti la domanda sia proposta. Importa notare come il legislatore, inserendo siffatta previsione processuale nel corpo di un articolo del codice civile, si sia palesemente ispirato all’art. 303 c.p.c., secondo comma, che consente, entro l’anno dalla morte della parte, di notificare l’atto di riassunzione agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto: testimonianza evidente di una visione in chiave successoria del meccanismo in forza del quale i soci possono esser chiamati a rispondere dei debiti insoddisfatti della società estinta. Ed è appena il caso di aggiungere che, per ovvie ragioni di coerenza dell’ordinamento, la medesima conseguenza sistematica non potrebbe non esser tratta anche per quel che concerne gli effetti successori della cancellazione dal registro di una società di persone che non abbia liquidato interamente i rapporti pendenti, quantunque a questo tipo di società non si applichi la speciale disposizione del citato secondo comma dell’art. 2495.

 

4. Meno agevole è individuare la sorte dei residui attivi non liquidati e delle sopravvenienze attive della liquidazione di una società cancellata dal registro, perché il legislatore ne tace.

 

4.1. È ben possibile che la stessa scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza sia da intendere come una tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa (si veda, ad esempio, la fattispecie esaminata da Cass. 16 luglio 2010, n. 16758); ma ciò può postularsi agevolmente quando si tratti, appunto, di mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale di liquidazione. Ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel caso in cui un diritto di credito, oltre che magari controverso, non sia neppure liquido: di modo che solo un’attività ulteriore da parte del liquidatore – per lo più consistente nell’esercizio o nella coltivazione di un’apposita azione giudiziaria – avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti sociali. In una simile situazione la scelta del liquidatore di procedere senz’altro alla cancellazione della società dal registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo. Ma quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti), un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata, e dunque non ci si può esimere dall’interrogarsi sul regime di quei residui o di quelle sopravvenienze attive.

 

4.2. Escluso, per le ragioni già da principio accennate, che l’esistenza di tali residui o sopravveniente sia da sola sufficiente a giustificare la revoca della cancellazione della società dal registro, o che valga altrimenti ad impedire l’estinzione dell’ente collettivo, sono state prospettate tanto l’ipotesi di una successione dei soci, per certi versi analoga a quella che si è visto operare per i residui e le sopravvenienze passive, quanto l’ipotesi che i beni ed i diritti non liquidati vengano a costituire un patrimonio adespota, assimilabile alla figura dell’eredità giacente, per la gestione e la rappresentanza del quale qualunque interessato potrebbe chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale in applicazione analogica dell’art. 528 e segg. c.c.

Quest’ultima soluzione non è però persuasiva. Troppo dissimili appaiono, infatti, i presupposti sui quali riposa l’istituto dell’eredità giacente, e non vi sono ragioni che impongano di ricorrere ad esso in presenza di altre più plausibili ipotesi ricostruttive.

Il subingresso dei soci nei debiti sociali, sia pure entro i limiti e con le modalità cui sopra s’è fatto cenno, suggerisce immediatamente che anche nei rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale venga a determinarsi un analogo meccanismo successorio. Se l’esistenza dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s’instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione.

 

5. Occorre ora spostare l’attenzione sul piano processuale, traendo le conseguenze di quanto appena detto.

È del tutto ovvio che una società non più esistente, perché cancellata dal registro delle imprese, non possa validamente intraprendere una causa, nè esservi convenuta (salvo quanto si dirà a proposito del fallimento).

Problemi più complicati si pongono però qualora la cancellazione intervenga a causa già iniziata.

In situazioni di tal fatta questa corte ha già in più occasioni avuto modo di affermare l’inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla società estinta (si vedano Cass. 15 aprile 2010, n. 9032; e Cass. 8 ottobre 2010, n. 20878), così come di quella proposta nei suoi nei confronti (Cass. 10 novembre 2010, n. 22830); e si è ritenuto che, nei processi in corso, anche se non siano stati interrotti per mancata dichiarazione dell’evento interruttivo da parte del difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art. 110 c.p.c., ai soci, che, per effetto della vicenda estintiva, divengono partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, e, se ritualmente evocati in giudizio, parti di questo, pur se estranei ai precedenti gradi del processo (Cass. 6 giugno 2012, n. 9110[4]; e Cass. 30 luglio 2012, n. 12796; si veda anche, per un’applicazione di tali principi mediata dalla peculiarità della normativa tributaria, Cass. 5 dicembre 2012, n. 21773[5]).

 

5.1. Le indicazioni giurisprudenziali cui da ultimo s’è fatto cenno appaiono meritevoli di essere avallate.

L’aver ricondotto la fattispecie ad un fenomeno successorio – sia pure connotato da caratteristiche sui generis, connesse al regime di responsabilità dei soci per i debiti sociali nelle differenti tipologie di società – consente abbastanza agevolmente di ritenere applicabile, quando la cancellazione e la conseguente estinzione della società abbiano avuto luogo in pendenza di una causa di cui la società stessa era parte, la disposizione dell’art. 110 c.p.c. (come già affermato anche da Cass. 6 giugno 2012, n. 9110). Tale disposizione contempla, infatti, non solo la “morte” (come tale riferibile unicamente alle persone fisiche), ma altresì qualsiasi “altra causa” per la quale la parte venga meno, e dunque risulta idonea a ricomprendere anche l’ipotesi dell’estinzione dell’ente collettivo.

Non parrebbe invece altrettanto plausibile, in simile circostanza, invocare il disposto del successivo art. 111: per la decisiva ragione che il fenomeno successorio di cui si sta parlando non è in alcun modo riconducibile ad un trasferimento tra vivi, o ad un trasferimento mortis causa a titolo particolare che postuli al tempo stesso l’esistenza di un diverso successore universale. Non v’è alcun soggetto diverso dal successore (cioè dai soci) nei cui confronti possa proseguire il processo di cui era parte la società frattanto cancellata dal registro.

Stando così le cose, non v’è motivo per non ritenere applicabili a tale fattispecie le disposizioni dettate dall’art. 299 e segg. c.p.c. in tema di interruzione e di eventuale prosecuzione o riassunzione della causa (così anche Cass. 16 maggio 2012, n. 7676). La “perdita della capacità di stare in giudizio”, cui dette norme alludono, è infatti inevitabile conseguenza della sopravvenuta estinzione dell’ente collettivo che sia parte in causa; e ricorrono qui tutte le ragioni per le quali il legislatore ha dettato la suaccennata disciplina dell’interruzione e dell’eventuale prosecuzione o riassunzione del giudizio, così da contemperare i diritti processuali del successore della parte venuta meno e quelli della controparte.

Una sola eccezione va segnalata – ma si tratta, appunto, di un’eccezione, come tale destinata ad operare sono nello stretto ambito in cui il legislatore la ha prevista – con riguardo alla disciplina del fallimento. La possibilità, espressamente contemplata dall’art. 10 l. fall., che una società sia dichiarata fallita entro l’anno dalla sua cancellazione dal registro comporta, necessariamente, che tanto il procedimento per dichiarazione di fallimento quanto le eventuali successive fasi di impugnazione continuino a svolgersi nei confronti della società (e per essa del suo legale rappresentante), ad onta della sua cancellazione dal registro; ed è giocoforza ritenere che anche nel corso della conseguente procedura concorsuale la posizione processuale del fallito sia sempre impersonata dalla società e da chi legalmente la rappresentava (si veda, in argomento, Cass. 5 novembre 2010, n. 22547). È una fictio iuris, che postula come esistente ai soli fini del procedimento concorsuale un soggetto ormai estinto (come del resto accade anche per l’imprenditore persona fisica che venga dichiarato fallito entro l’anno dalla morte) e dalla quale non si saprebbero trarre argomenti sistematici da utilizzare in ambiti processuali diversi.

 

5.2. Ulteriori interrogativi sorgono quando, essendosi il giudizio svolto senza interruzione, la necessità di confrontarsi con la sopravvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese si ponga nel passaggio al grado successivo. Il che può accadere o perchè in precedenza siano mancate la dichiarazione dell’evento estintivo (o il suo accertamento in una delle altre forme prescritte dai citati art. 299 e segg.), oppure perché quell’evento si è verificato quando ormai, nel grado precedente, non sarebbe più stato possibile farlo constare, ovvero ancora perchè l’estinzione è sopravvenuta dopo la pronuncia della sentenza che ha concluso il grado precedente di giudizio e durante la pendenza del termine d’impugnazione.

Pur nella consapevolezza di indicazioni giurisprudenziali non sempre univoche sul punto, le sezioni unite ritengono che l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte, se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nel modi di legge, debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione. Viceversa, è principio generale, condiviso dalla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, quello per cui il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero, come anche si usa dire, della “giusta parte” (si vedano, tra le altre, Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1760; Cass. 13 maggio 2011, n. 10649; Cass. 7 gennaio 2011, n. 259; Sez. un. 18 giugno 2010, n. 14699; Cass. 8 giugno 2007, n. 13395; Sez. un. 28 luglio 2005, n. 15783).

Non appare davvero un onere troppo gravoso – né tanto meno un’ingiustificata limitazione del diritto d’azione, a fronte dell’esigenza di tutelare anche i successori della controparte, che potrebbero essere ignari della pendenza giudiziaria – quello di svolgere, per chi intenda dare inizio ad un nuovo grado di giudizio, i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte che sono normalmente richiesti al momento introduttivo della lite. Né giova qui soffermarsi a discutere del se ed in quale eventuale misura tale regola sia suscettibile di attenuazione o di correttivi quando la parte impugnante non sia in condizione, neppure adoperando l’ordinaria diligenza, di conoscere l’evento estintivo che ha interessato la controparte, nè quindi d’individuare i successori nei cui confronti indirizzare correttamente l’atto d’impugnazione. L’evento estintivo del quale qui si sta parlando, ossia la cancellazione della società dal registro delle imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), non appare quindi ammissibile che l’impugnazione provenga dalla – o sia indirizzata alla – società cancellata, e perciò non più esistente, giacché la pubblicità legale cui l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le controparti processuali, ne siano a conoscenza; e la necessaria visione unitaria dell’ordinamento non consente di limitare al solo campo del diritto sostanziale la portata delle suaccennate regole inerenti al regime di pubblicità, escludendone l’applicazione in ambito processuale, salvo che vi siano diverse e più specifiche disposizioni processuali di segno contrario (come accade per il verificarsi dell’evento interruttivo nell’ambito del singolo grado di giudizio).

Non ci si nasconde che ad una logica parzialmente difforme sembra rispondere il principio affermato da queste sezioni unite nel caso d’impugnazione proposta nei confronti di società incorporata a seguito di fusione, nel regime anteriore alla riforma societaria del 2003. La sentenza 14 settembre 2010, n.19509, hainfatti ammesso che, in quel caso, l’impugnazione possa essere validamente notificata al procuratore costituito di una società che nel precedente grado, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si era estinta per incorporazione, qualora l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità giuridica della società mediante la notificazione di esso. Sennonché tale affermazione appare condizionata, in quel caso, dal preliminare diniego dell’effetto processuale interruttivo della fusione e dalla considerazione che, nell’incorporazione per fusione, la società incorporante, già prima della citata novella del 2003, partecipando essa stessa alla fusione, non è mai totalmente distinta dalla parte già costituita, onde quel tipo di operazione dipende interamente dalla volontà degli stessi organi delle due società che ne sono protagoniste, ivi compresa l’incorporante che è destinata a subentrare nella posizione processuale dell’incorporata (nello stesso senso si veda anche la quasi coeva Sez. un. 19 settembre 2010, n. 19698). Ben diverso è il caso dell’estinzione conseguente a cancellazione della società dal registro delle imprese, che certamente può anch’essa dipendere da un atto volontario della parte, ma alla quale non può dirsi partecipe il soggetto (il socio) destinato a succederle nel processo, al quale può essere sì talvolta imputato di aver concorso con la sua volontà a porre la società in liquidazione, ma di regola non certo di averne determinato l’estinzione, a seguito di cancellazione dal registro, nonostante la pendenza di rapporti non ancora definiti. Sicché riemergono appieno, in questo caso, le già accennate esigenze di tutela del successore che sono a base tanto dell’istituto dell’interruzione quanto del principio per cui il giudizio d’impugnazione deve esser sempre instaurato nei confronti della “giusta parte”, cui soltanto ormai fa capo il rapporto litigioso.

 

5.3. In caso di violazione del principio appena ricordato, quando cioè l’impugnazione non sia diretta nei confronti della “giusta parte”, o non provenga da essa, l’impugnazione medesima dev’essere dichiarata inammissibile.

È vero che la giurisprudenza di questa corte è apparsa talora incline a ritenere nullo, per errore sull’identità del soggetto (anziché inammissibile), l’atto d’impugnazione rivolto ad una parte ormai estinta anzichè ai successori (si vedano, ad esempio, Cass. 30 marzo 2007, n. 7981; e Cass. 8 giugno 2007, n. 13395). Ma tale indicazione appare difficilmente condivisibile, ove si rifletta sul fatto che la nullità, in coerenza con la funzione anche informativa dell’atto introduttivo del giudizio, è contemplata dagli artt. 163, comma 3°, n. 2, e 164, comma 1°, c.p.c. nel caso in cui la lettura di quell’atto evidenzi l’omissione o l’assoluta incertezza degli elementi che occorrono per la corretta identificazione delle parti. Non di questo si tratta nella situazione di cui si sta qui discutendo: perché, lungi dall’esservi incertezza sull’identità della parte, questa è ben chiara, ma accade che il giudizio sia stato promosso, oppure che in esso sia stata evocata, una parte (la società estinta) diversa da quella (i relativi soci) che quel giudizio avrebbero potuto promuovere, o che avrebbero dovuto esservi evocati. Non è, insomma, l’identificazione della parte del processo ad essere in gioco, bensì la stessa possibilità di assumere la veste di parte per l’autore o per il destinatario della chiamata in giudizio. Ed allora, ove tale possibilità di assumere la veste di parte faccia difetto, si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo: donde l’inammissibilità dell’atto che lo promuove.

 

6. Traendo le fila del discorso svolto, in relazione alle questioni per le quali i ricorsi sono stati portati all’esame delle sezioni unite, si possono dunque enunciare i seguenti principi di diritto:

“Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato”.

“La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dall’art. 299 e segg. c.p.c., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.”

 

7. Inapplicazione di tali principi il ricorso proposto dal Comune di Avellino nei confronti della ormai estinta società Rainone deve essere dichiarato inammissibile.

A diversa conseguenza non può condurre la circostanza che la cessionaria del credito a suo tempo azionato da detta società sia intervenuta nel giudizio di cassazione depositando un controricorso, non essendo tale intervento idoneo a sanare l’originaria inammissibilità del ricorso proposto contro un soggetto non più esistente.

 

8. Il ricorso dell’avv. R., inammissibile per le medesime ragioni nella parte in cui è rivolto nei confronti dell’ormai estinta società Rainone, lo è anche nella parte in cui è riferito al Comune di Avellino (onde non occorre porsi un problema di eventuale integrazione del contraddittorio in questa sede nei confronti dei soci della Rainone), perchè, in caso di omessa pronuncia sull’istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un’espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta di distrazione qualificarsi come domanda autonoma (si vedano, in tal senso, Sez. un. 7 luglio 2010, n. 16037; e Cass. 30 gennaio 2012, n. 1301).

 

9. La novità dei profili giuridici esaminati suggerisce di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M. – La corte dichiara inammissibili entrambi i ricorsi e compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

 

 

La cancellazione delle società dal Registro delle imprese tra profili di diritto sostanziale e

conseguenze processuali: in attesa chela Consulta

si pronunci sulla costituzionalità degli artt. 2495 c.c. e 328 c.p.c., “risponde”la Cortedi Cassazione

 

1. Premessa e inquadramento sistematico

 

Con la pronuncia in commento le Sezioni Unite approfondiscono il tema della cancellazione delle società dal Registro delle imprese, già affrontato dalla stessa Corte di Cassazione con le sentenze 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061 e 4062 (1), le quali definitivamente decretavano l’attribuzione alla cancellazione di un effetto estintivo dell’ente societario (fosse esso una società di capitali ovvero di persone), ravvisando nelle modifiche apportate all’art. 2495 c.c. dal legislatore della riforma del 2003 una valenza innovativa che imponeva un ripensamento del pregresso (unanime) orientamento giurisprudenziale (2).

Se infatti nella vigenza dell’art. 2456 c.c., che disciplinava la materia ante riforma, si era portati a ritenere che la cancellazione della società dal Registro non valesse a provocarne l’estinzione fin quando non fossero stati definiti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo (3), nel nuovo regime normativo se ne afferma per le società di capitali la valenza costitutiva, esplicitata nel 2010 dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (4).

Al fine di garantire «una soluzione unitaria al problema”, l’efficacia estintiva veniva peraltro estesa in via interpretativa alle società di persone, pur in permanenza della natura dichiarativa della cancellazione stessa (5).

Quanto poi ai profili temporali dell’applicabilità della innovata previsione legislativa (rilevante per quanto sopra in riferimento a tutti i tipi societari),la Suprema Cortesanciva il principio per il quale l’effetto estintivo è destinato ad operare in coincidenza della cancellazione se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1° gennaio 2004 (data di entrata in vigore della riforma) ovvero a partire da tale data nel caso di cancellazione intervenuta in un momento antecedente, così escludendo la retroattività della norma.

Non erano indagate in quella sede le ricadute pratiche di simili statuizioni, destinate inevitabilmente a suscitare l’interesse degli operatori (6).

In questo senso la pronuncia in esame appare il frutto della sollecitazione della Sezione Semplice a decidere a Sezioni Unite «la questione di massima di particolare importanza consistente nell’individuare la sorte dei rapporti processuali pendenti nel momento in cui una società (nella specie una società di persone) venga cancellata dal registro delle imprese».

Ne risulta una sentenza volutamente didascalica che, muovendo da profili di diritto sostanziale, giunge a trarne le conseguenze processuali, con il fine espresso di «cercare di far chiarezza su una serie di ulteriori ricadute derivanti dallariforma del diritto societario».

Non si rimettono dunque in discussione i principi a suo tempo affermati dalle richiamate decisioni del 2010 ma se ne approfondiscono taluni aspetti problematici ripercorrendo, nell’iter argomentativo, la giurisprudenza di legittimità a queste successiva.

Vengono così affrontati i seguenti nodi tematici:

1) quali siano le condizioni per addivenire all’eventuale rimozione della cancellazione dal Registro delle imprese in precedenza avvenuta, questione già affrontata dalle Sezioni Unite (7): si tratta di un profilo al quale la pronuncia accenna solo incidentalmente, sottolineandone tuttavia un aspetto rilevante;

2) che conseguenze sostanziali abbia l’estinzione della società e dunque quale sorte spetti, dal lato dei rapporti attivi, ai “residui non liquidati” e alle “sopravvenienze attive”; da quello dei rapporti passivi, ai debiti sociali rimasti insoddisfatti;

3) infine, quali siano le conseguenze processuali della cancellazione in corso di causa, così sciogliendo finalmente il dubbio se dall’estinzione dell’ente derivi la cessazione della materia del contendere ovvero la successione nel processo dei soci in luogo della società.

 

2. I temi affrontati dalla Corte di Cassazione e le loro ricadute fiscali

 

2.1. La rimozione della cancellazione ex art. 2191 c.c.

 

Il tema della “rimozione” di una cancellazione dal Registro delle imprese in precedenza avvenuta è stato affrontato dalle Sezioni Unite a soli due mesi di distanza dalle tre pronunce già citate nn. 4060, 4061 e 4062 del febbraio 2010.

Si affermava in quella sede il principio secondo cui, avuto luogo la cancellazione «in assenza delle condizioni richieste dalla legge», può legittimamente farsi luogo al suo annullamento con effetto retroattivo, così “ripristinandosi” l’esistenza della società della quale sia stata irregolarmente disposta la cancellazione (8).

Tale riconoscimento apriva (ed apre) all’evidenza uno spazio di manovra per i creditori di società cancellate (9), purché ci si intenda sul significato della statuizione resa, operazione cui aiuta la sentenza della Corte di Cassazione in commento.

Le Sezioni Unite con la già citata sentenza n. 8426/2010, decidevano in relazione al caso di una società a responsabilità limitata, cancellata dal Registro delle imprese a seguito del trasferimento della sede all’estero, la cui cancellazione era stata tuttavia a sua volta rimossa dal giudice del Registro nel presupposto che detto trasferimento fosse fittizio ed operato per sole finalità fiscali – in particolare in danno all’erario quanto ai debiti già sorti – continuando la società a svolgere la propria attività in territorio italiano.

La Cortedi Cassazione osservava che se era vero che la cancellazione aveva prodotto l’estinzione della società di capitali, tuttavia «la novella della riforma del 2003 non ha modificato la residua disciplina della pubblicità nel registro delle imprese, incidendo nel sistema solo con la configurazione di un effetto analogo per le società commerciali di persone sulla loro limitata soggettività, che non esclude la natura comunque dichiarativa della iscrizione nel registro delle imprese come forma di pubblicità che, come afferma la relazione al codice civile, non può essere costitutiva se non per espressa disposizione di legge (art. 2193 c.c.)».

Ne faceva discendere la permanenza della facoltà del giudice del Registro, con decreto reclamabile al Tribunale e sentito l’interessato, di procedere ex art. 2191 c.c. alla cancellazione delle iscrizioni di vicende societarie (inclusa la cancellazione della società) avvenute senza l’esistenza delle condizioni richieste dalla legge, con attribuzione alla «cancellazione della cancellazione» di un’efficacia dichiarativa.

Chiariva al contempo che il provvedimento del giudice non ha natura decisoria né definitiva ed è inidoneo a divenire giudicato, potendo sempre ottenersene una modifica dallo stesso giudice ovvero proporsi un’ordinaria azione di cognizione sull’esistenza dei requisiti ritenuti insussistenti dal giudice del Registro (10).

E tuttavia, come esplicitato dalla sentenza in commento, la prova contraria (che consentirebbe di superare una pubblicità di tipo dichiarativo) non può vertere sul solo dato statistico della pendenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società.

In tal modo si finirebbe infatti per ottenere un risultato corrispondente alla situazione preesistente alla riforma, ciò che è ovviamente da escludersi per non porre nel nulla le modifiche normative intervenute.

Quello che può consentire di superare la presunzione di estinzione è allora la prova di un fatto dinamico, ovvero la prosecuzione dell’attività produttiva e dunque la dimostrazione che la società ha continuato nei fatti ad esistere, pur dopo l’avvenuta cancellazione dal Registro.

È questa, secondo la Cortedi Cassazione, l’unica situazione che consente di addivenire alla «cancellazione della cancellazione» in forza dell’art. 2191 c.c., presumendosi che la società non abbia mai medio tempore cessato di operare e di esistere (ciò che dunque legittima una cancellazione dagli effetti retroattivi ed esclude che si tratti di una singolare ed anomala “reviviscenza” societaria) (11).

Il chiarimento reso pare coerente rispetto al quadro complessivamente delineato dalla Corte, la quale – a bilanciamento dell’interpretazione restrittiva operata rispetto alla questione della rimozione della cancellazione – esclude d’altro canto che sia nella disponibilità dei privati (i quali pure possono liberamente determinare la cessazione dell’esistenza di una società) incidere sui diritti e sugli obblighi già sorti in capo all’ente comportandone la “sparizione” (12) (13), ciò che significherebbe consentire al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui (14).

Vale dunque procedere all’analisi di quanto statuito in punto di effetti sostanziali e processuali della cancellazione dal Registro delle imprese, anticipando che secondo la Cortecosì come alla “scomparsa” della società non si accompagna l’estinzione di posizioni giuridiche soggettive già sorte, parimenti non cessano i rapporti processuali di cui sia parte: in tutte e tre le ipotesi con un “subingresso” dei soci alla società, riconducibile ad un fenomeno latu sensu successorio.

 

2.2. La sorte dei rapporti attivi già facenti capo alla società a seguito dell’estinzione dell’ente

 

Richiamati dunque i principi generali e reso il chiarimento sintetizzato al precedente paragrafo quanto alla «cancellazione della cancellazione» dal Registro delle imprese, la pronuncia si sofferma su come l’estinzione della società incida, dal punto di vista del diritto sostanziale, sui rapporti attivi e passivi già imputabili all’ente, rilevando che «il legislatore del codice civile, anche in occasione della già ricordata riforma del diritto societario, si è preoccupato espressamente soltanto di disciplinare la sorte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società dal registro» (15).

Il riferimento è per le società di capitali al già richiamato art. 2495, secondo comma, c.c., ai sensi del quale «ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi».

Pare importante sottolineare che la Suprema Cortemuove dall’affermazione di principio per la quale il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività dell’ente collettivo (sia esso o meno persona giuridica) fa emergere naturalmente il sostrato personale che in qualche misura ne è comunque alla base.

Il richiamo espresso è a quell’orientamento che assegna carattere strumentale al soggetto società, con la conseguenza che una volta che esso si sia estinto sono i soci a divenire titolari dei crediti e dei debiti dell’ente, in quest’ultimo caso nei limiti della responsabilità che essi avevano in costanza del rapporto sociale (16), in una sorta di “sostituzione” di una determinata posizione giuridica da un soggetto ad un altro.

Rappresenta questa la premessa per ricostruire il fenomeno del subingresso dei soci nei rapporti già facenti capo alla società in termini successori, insieme al richiamo alla tutela del diritto di difesa (nella specie del creditore sociale) che verrebbe inevitabilmente leso se la cancellazione dal Registro delle imprese comportasse tout court l’estinzione anche dei debiti pregressi.

Dal lato dei rapporti attivi, osserviamo dunque che nelle affermazioni della Corte di Cassazione l’esistenza di beni ovvero di diritti di credito non conosciuti al tempo della liquidazione o in tale sede trascurati – e il cui valore economico sarebbe stato ripartito tra i soci – comporta su detti beni l’instaurazione di un regime di contitolarità o di comunione indivisa.

Viene di contro escluso che attività sopravvenute dopo l’estinzione dell’ente possano giustificare la revoca della cancellazione (17) – da cui un effetto estintivo per così dire “tombale” della stessa (18) – ovvero dare origine ad un patrimonio adespota assimilabile all’eredità giacente, tesi pure propugnate dalla giurisprudenza e dalla dottrina (19).

Gli effetti di simili statuizioni in ambito tributario appaiono interessanti (ricordiamo che la pronuncia in commento non riguarda la materia fiscale, con le conseguenze che si segnaleranno al successivo paragrafo 3) ed attengono alle modalità di erogazione da parte dell’Agenzia delle entrate di rimborsi spettanti a società che medio tempore siano state cancellate dal Registro delle imprese, tema da ultimo affrontato con la risoluzione 27 luglio 2011 n. 77/E (20), dalla Direzione normativa, in risposta ad una richiesta di consulenza avanzata da una Direzione regionale.

L’Amministrazione finanziaria dava conto proprio delle opposte tesi: la prima, che ipotizzava la necessità della nomina di un curatore speciale, deputato al completamento delle attività non ultimate dal liquidatore prima della cancellazione, con assimilazione alla situazione dell’eredità giacente e dunque ad un caso di «patrimonio alla ricerca di un titolare»; la seconda, che invocava il potere del giudice del registro di «cancellare la cancellazione», poiché effettuata in difetto delle condizioni richieste dalla legge; la terza, che sosteneva la tesi di una comunione tra gli ex soci per quote uguali a quelle di liquidazione sui beni mobili e immobili non liquidati.

L’Agenzia delle entrate condivideva l’orientamento da ultimo richiamato, oggi confermato dalla sentenza in commento (21). Si mostra in questo senso corretta e adeguata, anche alla luce della pronuncia in esame, la modalità adottata dall’Amministrazione finanziaria nell’erogazione dei rimborsi di imposte pagate dalla società estinta e che muovono dalla considerazione, avallata dalla Suprema Corte, che «non può esservi rappresentante legale di un soggetto estinto», cui nel caso di specie erogare le somme in restituzione.

Con la conseguenza che ai rimborsi possono applicarsi i principi enunciati per gli elementi patrimoniali attivi, da cui il riconoscimento direttamente ai soci della titolarità del diritto alla restituzione pro quota delle imposte (22).

 

2.3. Il rapporto tra cancellazione e fallimento successivo ex art. 10, secondo comma, della legge fallimentare

 

L’analisi degli effetti dell’estinzione della società sulle sopravvenienze attive, anche di natura tributaria (rimborsi d’imposta), si presta a condurre l’attenzione sul rapporto tra cancellazione dal Registro delle imprese e fallimento della società cancellata.

Si può infatti innanzitutto osservare che diretta conseguenza della scelta della Corte di Cassazione di escludere la revoca della cancellazione in caso di sopraggiunti residui patrimoniali attivi è l’impossibilità per gli eventuali creditori insoddisfatti (fisco incluso) di ottenere una declaratoria di fallimento decorso un anno dalla cancellazione, essendo questo il termine decadenziale prescritto dal vigente art. 10 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), come modificato nel senso indicato dalla citata pronuncia della Corte Costituzionale n. 319/2000 (23).

Anche un altro aspetto appare tuttavia meritevole di indagine e attiene alla questione degli effetti del fallimento, questa volta intervenuto entro l’anno dalla cancellazione, sintetizzabile nel seguente interrogativo: se la società cancellata, una volta che la stessa sia fallita, “riviva” con riattribuzione di soggettività e conseguente legittimazione ad agire nella procedura.

Si erano sul punto avanzati dubbi sul “se” e sul “come” la ricostruzione della cancellazione come fenomeno di estinzione del soggetto potesse conciliarsi con la regolamentazione propria del c.d. fallimento successivo, in virtù del quale sono (ancora) imputate alla società fallita le residue attività e passività, a dispetto del fatto che l’ente sia stato in precedenza cancellato e sia dunque estinto (24).

Non può non constatarsi, infatti, che il fallimento è istituto giuridico che consente il concorso dei creditori sul patrimonio sociale, eventualmente ricostruito con azioni di pertinenza della massa; e tuttavia se si applicasse il dettato dell’art. 2495 c.c., i creditori di una società cancellata, poi dichiarata insolvente, non potrebbero insinuarsi nel passivo fallimentare, potendo al più rivalersi sui soci.

Si era dunque da taluno sostenuto che l’effetto estintivo della cancellazione dovesse venire meno in caso di fallimento, a meno di non voler ipotizzare un fallimento “senza soggetto” come per l’insolvenza dell’imprenditore defunto, fattispecie nella quale si imputano agli eredi solo alcuni aspetti della procedura (25).

Ebbene, concorda con l’eccezionalità dell’ipotesi fallimentare la pronuncia della Corte di Cassazione in commento, che dà risposta ai dubbi relativi al rapporto tra la previsione dell’art. 2495 c.c. e quella dell’art. 10, secondo comma, della legge fallimentare.

Afferma la Suprema Corteche esiste un solo caso di non operatività della disposizione del codice civile e questa coincide con la possibilità, espressamente contemplata dal R.D. n. 267/1942, che una società sia dichiarata fallita entro l’anno dalla sua cancellazione, ciò che comporta che «tanto il procedimento per dichiarazione di fallimento quanto le eventuali successive fasi impugnatorie continuino a svolgersi nei confronti della società (e per essa del suo legale rappresentante), ad onta della sua cancellazione dal registro; ed è giocoforza ritenere che anche nel corso della conseguente procedura concorsuale la posizione processuale del fallito sia sempre impersonata dalla società e da chi legalmente la rappresentava».

Si tratta in altri termini, secondo la Cortedi Cassazione, di una fictio iuris che postula come esistente ai soli fini del procedimento concorsuale un soggetto ormai estinto, ciò che accade anche per l’imprenditore persona fisica che venga dichiarato fallito entro l’anno dalla morte e che proprio per l’eccezionalità del caso non può trovare estensione in ambiti diversi.

 

2.4. Il titolo in forza del quale i soci rispondono dei debiti sociali insoddisfatti: un fenomeno successorio

 

Ferma la peculiarità della cancellazione della società in relazione all’ipotesi di fallimento c.d. successivo, anche dal lato dei rapporti passivi la Cortedi Cassazione sancisce il “subingresso” dei soci nei debiti sociali insoddisfatti, principio tutt’altro che pacifico nella pregressa giurisprudenza (26) nonché in dottrina (27).

Il meccanismo derivativo-successorio (28) trova in questo caso la propria ratio nella necessità di impedire che la società debitrice possa – con un comportamento unilaterale che sfugge al controllo del creditore – espropriarlo del suo diritto (29).

L’affermazione dell’esistenza di un fenomeno di questo tipo interviene tuttavia in un contesto non concorde nell’individuare il titolo in forza del quale i soci divengono responsabili (nei limiti di cui all’art. 2495 c.c.) nei confronti dei creditori sociali.

Secondo una prima ricostruzione (30) avversata dalla pronuncia in commento, infatti, non vi sarebbe alcuna successione – a titolo universale o particolare – nei debiti sociali, poiché l’obbligazione degli ex soci avrebbe un oggetto diverso da quello preesistente in capo alla società, proprio in quanto circoscritta alla quota di liquidazione.

Si tratterebbe di un debito nuovo da far valere con un’apposita azione da parte del creditore insoddisfatto e sempre che il socio abbia goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione; con possibilità di rivalersi anche sul liquidatore alle condizioni legislativamente previste.

Su tale ultimo profilo, peraltro, proprio la Cassazionein più occasioni (31) ha qualificato la responsabilità del liquidatore come «una responsabilità civile concorrente, subordinata, ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c., al fatto che il mancato pagamento del debito sociale sia dipeso da colpa (o a fortiori da dolo);una responsabilità, cioè, che rileva a titolo risarcitorio, per l’illecito (anche penalmente rilevante: art. 2633 c.c.) discendente dall’aver chiuso la liquidazione senza aver provveduto al previo soddisfacimento di un creditore sociale» (32).

Accogliendo simile orientamento ed estendendolo alla responsabilità dei soci, dall’estinzione della società sorgerebbe dunque per i creditori solo un’azione (nuova e diversa) da esercitare autonomamente davanti al giudice ordinario contro gli ex soci, gli ex liquidatori ovvero gli ex amministratori della società estinta: diversa poiché differenti sarebbero – come rilevato (33) – la fattispecie costitutiva, l’obiettivo conseguibile e le modalità di attivazione e gestione.

E tuttavia si discostano da tale posizione le Sezioni Unite con l’annotata pronuncia che identifica il debito del socio nel «medesimo debito che faceva capo alla società»; società nei cui rapporti il primo è destinato a succedere, fermo il diritto di opporre al creditore agente il limite di cui al menzionato art. 2495 c.c.

Simile responsabilità – si è osservato (34) – non sarebbe allora altro che la prosecuzione di quella per le obbligazioni sociali assunte dai soci con la creazione della società medesima, con la conseguenza che «il debito insoddisfatto è e rimane un debito della società [ma] da essi [i soci] garantito» (35).

Le ricadute processuali di tali affermazioni sono evidenti e vengono di seguito analizzate.

 

2.5. Successione dei soci nei rapporti processuali della società ed esclusione di un diverso giudizio per l’“attivazione” della loro responsabilità

 

Affermata l’esistenza di un meccanismo di successione (automatico) dei soci nei rapporti giuridici facenti capo alla società,la Cortedi Cassazione applica tale principio alla realtà processuale e così:

– da un lato, rifiuta quell’indirizzo secondo il quale sarebbe necessario, per il creditore insoddisfatto, un diverso giudizio ai fini dell’“attivazione” della responsabilità degli ex soci (ciò che costituisce diretta conseguenza dell’identità del loro debito con quello sociale);

– dall’altro, esclude che il processo iniziato da o nei confronti di un ente medio tempore estintosi debba concludersi con una declaratoria di cessata materia del contendere.

Viene sconfessata quella giurisprudenza (di merito) che aveva finora adottato simile soluzione interpretativa e che tuttavia sollevava forti dubbi sull’effettività della tutela del creditore sociale insoddisfatto, peraltro richiedendo – per la necessità di attivare nuovi giudizi contro i soci – un dispendio di energie processuali effettivamente sproporzionato, oltre che fondato su una scelta ermeneutica contestabile (36).

Più cauta si era invece mostrata la giurisprudenza di legittimità pregressa che, pur riconoscendo l’esistenza di un fenomeno di “ingresso” dei soci nel processo della società, sembrava avversarne l’“automatismo”, ravvisando nell’esistenza di un residuo attivo di cui i soci avessero goduto una condizione della successione (37).

Di diverso avviso la Cortedi Cassazione nella isolata pronuncia 5 dicembre 2012, n. 21773 (38), che decideva in merito ad una società in nome collettivo cancellata dal Registro delle imprese e tuttavia trovava nei caratteri propri delle società di persone (anche quanto ai profili fiscali) la risposta all’interrogativo concernente la sorte dei rapporti giuridici (tributari) già facenti capo all’ente. Affermava infatti che «in materia tributaria, e con specifico riferimento all’accertamento del reddito da partecipazione in una società di persone, la suddetta qualità di successore universale dell’ente si radica, in capo al socio, per il fatto stesso dell’imputazione al medesimo del reddito della società, in forza del menzionato principio di trasparenza ex art. 5 del D.P.R. n. 917 del 1986. Con la conseguenza che i soci assumono, in materia, la legittimazione attiva e passiva alla lite instaurata nei confronti della società (con, o senza, la partecipazione originaria anche dei soci stessi) per effetto della mera estinzione della società medesima per cancellazione, e senza che – ovviamente – si ponga alcun problema di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente ormai estinto».

La successione automatica del socio alla società viene con la sentenza in commento riconosciuta principio di carattere generale e non più esclusiva specificità (tributaria) delle società di persone.

Argomento ritenuto idoneo a supportare la tesi – oltre alla ricostruzione del fenomeno sociale in termini di emersione del sostrato personale al dissolvimento della struttura organizzativa dell’ente collettivo – è quello di tipo letterale che guarda alla previsione dell’art. 2495, secondo comma, ultima parte, c.c., la quale ricalcando l’art. 303 c.p.c. consente di notificare la domanda proposta dai creditori insoddisfatti nei confronti dei soci presso l’ultima sede sociale entro un anno dalla cancellazione della società dal Registro.

Simile disposizione sarebbe testimonianza, secondola Corte, di una visione in chiave successoria tale da legittimare l’applicazione delle previsioni processuali che per l’appunto di tale fenomeno si occupano.

Più in particolare, se da un lato la cancellazione della società e la contestuale perdita di soggettività impediscono alla stessa di intraprendere una causa ovvero di esservi convenuta (39), dall’altro l’estinzione in corso di processo rende per la Cortedi Cassazione applicabile la disposizione di cui all’art. 110 c.p.c. (40), in conformità al quale «quando la parte vien meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto» (41).

Che il socio risponda nei limiti del riparto non esclude né condiziona la successione, salvo comportare un onere in capo alla controparte processuale di dimostrare l’esistenza del suo interesse a proseguire il giudizio nei confronti del socio e dunque l’esistenza di somme che siano residuate (e distribuite) a seguito della liquidazione. Ciò che peraltro non sarebbe neppure sempre e comunque necessario tenuto conto che il creditore, come affermala Cassazione, potrebbe avere interesse ad agire ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie previo accertamento del proprio diritto.

Ma il fenomeno estintivo (e quello successorio correlato) costituisce un evento interruttivo del processo poiché la società, per effetto della cancellazione, perde la capacità di stare in giudizio.

È dunque questa la ragione per la qualela Cassazioneafferma l’applicabilità alla fattispecie in esame anche degli artt. 299 e segg. c.p.c. che necessariamente interessano gli enti che si cancellino dal Registro delle imprese in pendenza di giudizio poiché, quale diretta conseguenza, la società si estingue.

Interrogativi sorgono per l’ipotesi in cui l’evento interruttivo non sia stato dichiarato/accertato ovvero intervenga quando nel grado di giudizio non sia più possibile farlo rilevare o ancora dopo la pronuncia della sentenza.

Anche tale questione viene affrontata dalla Suprema Corte nella pronuncia in esame, la quale afferma che in simile ipotesi il giudizio d’impugnazione deve essere promosso da o contro i soggetti effettivamente legittimati (la “giusta parte” del processo) ovvero i soci successori, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione proposta da o contro la società estinta (42).

 

3. I rapporti tra l’art. 2495 c.c. e l’art. 36 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602

 

Più di una voltala Cortedi Cassazione nella sentenza in commento, resa come già rammentato in ambito non fiscale, richiama la specificità del diritto tributario.

Occorre dunque chiedersi se e in che misura le affermazioni rese dalla Corte trovino applicazione in tale settore nonché in quali rapporti si pongano con le previsioni di cui all’art. 36, primo e terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ai sensi del quale:

– i liquidatori dei soggetti all’IRPEG che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori, rispondono in proprio del pagamento delle imposte se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari;

– i soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione denaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi.

Tali responsabilità per espressa previsione dell’art. 36, quinto comma, del D.P.R. n. 602/1973, devono essere accertate dall’Amministrazione finanziaria con atto motivato da notificare ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

L’interpretazione prevalente è che i principi civilistici trovino applicazione a tutti i debiti sociali, quelli fiscali inclusi, anche tenuto conto dell’inciso contenuto nella citata previsione dell’art. 36 secondo il quale sono comunque fatte salve «le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile».

La conseguenza è che l’estinzione della società cancellata riverbera i propri effetti sia sull’individuazione del soggetto cui destinare la pretesa erariale derivante da pregressi comportamenti dell’ente realizzati in violazione di norme tributarie (soggetto destinatario dell’avviso di accertamento di nuova emissione), sia sulla sorte degli atti impositivi notificati a società che siano state cancellate dopo aver agito in giudizio per il loro annullamento ovvero dopo che tali atti siano divenuti definiti (con riflessi sul profilo della riscossione).

I fenomeni descritti si verificano peraltro con frequenza in una materia caratterizzata dallo sfasamento temporale, la maggior parte delle volte anche significativo, tra insorgenza del debito fiscale (o comunque la realizzazione dei comportamenti da cui lo stesso deriva) e il suo accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Appare allo stato pacifico che l’Amministrazione non possa più limitarsi alla notifica di atti a società cancellate dal Registro delle imprese in persona del loro ultimo rappresentante legale per debiti tributari pregressi (43).

L’avviso di accertamento andrà piuttosto intestato e notificato ai soci (44) – con specificazione della matrice della loro responsabilità – ed eventualmente ai liquidatori se il pagamento è dipeso da loro colpa (45).

Quanto all’ipotesi invece in cui la società si sia estinta dopo aver impugnato l’atto impositivo alla stessa notificato, pure varranno i principi espressi dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, che portano ad escludere – stante la successione nel debito, in questo caso tributario – che il fisco debba notificare autonomi atti nei confronti dei soci per attivare la loro responsabilità.

Più complessa risulta la verifica di come l’Amministrazione finanziaria debba procedere in fase di riscossione, laddove un atto notificato alla società sia divenuto definitivo ma l’esecuzione debba essere proseguita nei confronti dei soci per l’intervenuta cancellazione dell’ente dal Registro.

In questo caso, in cui presumibilmente sarà la cartella di pagamento a dover essere motivata quanto alle ragioni che inducono ad aggredire il socio per i debiti sociali resisi definitivi, torna in rilievo proprio la previsione del menzionato art. 36, che induce ad una riflessione alla luce dell’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ne ha reso.

La Suprema Corteha infatti in più di una occasione ripetuto che la responsabilità dei liquidatori ex art. 36 dipende dalla «conseguita certezza e definitività del debito tributario» e, più in particolare, che sarebbe esercitabile alla duplice condizione «che i ruoli in cui siano iscritti i tributi della società possano essere posti in riscossione e che sia acquisita legale certezza che i medesimi non siano stati soddisfatti con le attività di liquidazione» (46).

Sicché nell’ordine: prima si dovrebbe accertare il debito d’imposta in capo alla società (ipotizziamo ancora iscritta nel Registro delle imprese); questo debito, non soddisfatto, originerebbe un ruolo intestato alla società; solo dopo la verifica dei presupposti per la responsabilità dei soggetti indicati all’art. 36 potrebbe emettersi un avviso di accertamento ad hoc; a questo seguirebbe un’apposita iscrizione a ruolo (47).

In ragione dell’iter procedimentale descritto, non è mancato chi abbia ritenuto la previsione del D.P.R. n. 602/1973 implicitamente abrogata dalla nuova formulazione dell’art. 2495 c.c., non potendosi realizzare con la cancellazione della società dal Registro delle imprese il presupposto operativo dell’art. 36, ovvero la definitività dell’accertamento emesso nei confronti dell’ente (48).

In realtà pare che la previsione mantenga una propria sfera di autonomia (49), innanzitutto perché potrebbero esservi annualità d’imposta già accertate in via definitiva prima della cancellazione; in secondo luogo, poiché l’accertamento del reddito societario potrebbe comunque assumere carattere definitivo quando l’atto impositivo sia stato correttamente notificato dall’Amministrazione finanziaria ai soci ovvero questi siano succeduti all’ente in sede di giudizio conclusosi positivamente per il fisco.

Peraltro la responsabilità di cui all’art. 36 concorre con quella civilistica e assume portata più ampia, coprendo ipotesi (assegnazioni in corso di liquidazione ex art. 36, terzo comma, e occultamento di attività sociali da parte degli amministratori ex art. 36, quarto comma) che non rientrerebbero in tale previsione.

La norma fiscale permette in altri termini una “ricostruzione” del patrimonio sociale aggredibile da parte dell’erario (50), ciò che invece non è contemplato dalla previsione del codice civile e che costituisce un elemento rilevante tale da indurre a non svilirne la portata nonostante l’interpretazione restrittiva resane dalla giurisprudenza.

 

4. Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2495 c.c. apre la strada ad una pronuncia di inammissibilità della Consulta

 

A conclusione delle presenti annotazioni pare opportuno rilevare come la pronuncia in commento dia adeguata risposta a tutti gli argomenti che fondano il rinvio alla Corte Costituzionale, operato dalla Corte d’appello di Milano con ordinanza di rimessione 18 aprile 2012, n. 90320 (51), per il vaglio di legittimità degli artt. 2495 c.c. e 328 c.p.c. in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevedono in caso di estinzione della società per effetto di volontaria cancellazione dal Registro delle imprese, che il processo prosegua o sia proseguito nei gradi di impugnazione da o nei confronti della società sino alla formazione del giudicato.

Il caso affrontato dalla Corte d’appello di Milano coinvolgeva due società, delle quali la società in nome collettivo risultata vittoriosa nel giudizio di primo grado veniva cancellata dal Registro delle imprese nelle more dell’impugnazione.

La controparte notificava l’atto di appello presso il procuratore domiciliatario in primo grado ma anche al socio accomandatario e liquidatore della società, dando evidenza della vicenda societaria (estintiva) intervenuta.

L’appellata società eccepiva l’inammissibilità dell’impugnazione nei suoi confronti per intervenuta estinzione, mentre il socio rilevava l’inammissibilità dell’impugnazione nei suoi confronti per non essere stato parte del giudizio di primo grado e ritenendo insussistenti i presupposti di cui agli artt. 100 e 111 c.p.c.

I giudici, rilevato che si era realizzato un evento interruttivo del giudizio – per estinzione di una parte processuale – si interrogavano sulla possibilità che la notifica dell’atto di appello al socio accomandatario valesse a consentire la prosecuzione del giudizio di primo grado in sede di gravame, impedendo il formarsi del giudicato; ovvero più correttamente, se il socio accomandatario potesse ritenersi successore della estinta società.

Non riteneva, tuttavia, la Corteapplicabili le previsioni di cui agli artt. 110 e 111 c.p.c. e per tale via non riusciva a pervenire all’individuazione di un successore legittimato a proseguire il giudizio; sicché – osservava – «se il processo si interrompe sol per effetto di volontaria cancellazione, non rinvenendosi un successore della stessa legittimato a proseguirlo, la società estinta potrebbe agevolmente sottrarsi alle obbligazioni e finanche impedire la valida interposizione di un gravame, provocando in tal modo la formazione del giudicato per inammissibilità dell’impugnazione rivolta ad un soggetto non più esistente.L’irragionevolezza di un effetto interruttivo sul processo sol per effetto di una volontaria cancellazione dal registro delle imprese appare evidente, tanto più allorché ciò avvenga tra un grado e l’altro del giudizio, quando si debba evitare la formazione del giudicato attraverso la notifica dell’impugnazione alla parte vittoriosa, munita di legittimazione».

Sollevava conseguentemente questione di costituzionalità degli artt. 2495 c.c. e 398 c.p.c., assumendo quali parametri:

– l’art. 3 Cost., perché sarebbe evidente la sperequazione nella gestione delle cause tra persone fisiche e persone giuridiche;

– l’art. 24 Cost., poiché verrebbe concessa la facoltà a una delle parti di sottrarsi ai propri obblighi con un semplice atto formale di cancellazione dal Registro delle imprese;

– l’art. 111 Cost., tenuto conto che una parte processuale verrebbe costretta ad instaurare un nuovo giudizio, ripercorrendo gradi già esauriti.

Evidenziavano i giudici che un rinvio alla Corte Costituzionale si rendeva necessario nell’impossibilità «di fornire una interpretazione costituzionalmente orientata del plesso di norme sin qui esaminate, stante l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite sia sull’estinzione della società per intervenuta cancellazione ex art. 2495 c.c., sia sugli effetti interruttivi dell’estinzione tra un grado e l’altro del processo, allorché (come nella specie) noti alla parte impugnante» (52).

E tuttavia propriola Cortedi Cassazione, con l’annotata sentenza, pare aver reso un’interpretazione in grado di bilanciare interessi contrapposti, tenuto conto che il meccanismo successorio delineato salvaguarda la posizione del creditore sociale e della controparte processuale garantendo da un lato la soddisfazione del credito (ancorché nei limiti della responsabilità imputabile al socio), dall’altro il diritto di difesa per il mezzo del meccanismo successorio processuale ora descritto.

È dunque immaginabile una pronuncia di inammissibilità della questione costituzionale sollevata, salvo chela  Corte Costituzionalenon voglia intervenire in modifica dei principi affermati dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

 

Dott. Marta Proietti

 

 

(1) Cfr. Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060, inFall., 2010, 1403, con nota di m. cataldo, Gli effetti della cancellazione della società per i creditori, e in Società, 2010, 1010, con nota di d. dalfino, Le Sezioni Unite e gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese; Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, nn. 4061 e 4062, in Boll. Trib. On-line, e anche in Corr. trib., 2010, 1301, con nota di m. bruzzone, Per le Sezioni Unite la cancellazione estingue tutte le società, nonché in Riv. giur. trib., 2010, 390, con nota di b. briante, Effetti e decorrenza della cancellazione dal Registro delle imprese di tutte le società.

(2) Ne constatavano l’unanimità proprio le Sezioni Unite del 2010 con un’ampia rassegna giurisprudenziale, alla quale si rimanda.

(3) La scelta ermeneutica era nel senso di ritenere la cancellazione dal Registro delle imprese dell’iscrizione di una società commerciale – di persone o di capitali – mera pubblicità dichiarativa, confermata dall’art. 2193 c.c. e in linea con il principio sancito anche dalla Relazione al libro del lavoro del codice civile sul neo istituito Registro, secondo cui «l’iscrizione ha normalmente efficacia dichiarativa. Eccezionalmente, e solo in quanto la legge espressamente lo dichiari, come avviene ad es. per la costituzione delle società per azioni, delle società in accomandita per azioni, delle società a responsabilità limitata e delle cooperative, la iscrizione ha efficacia costitutiva». Ne conseguiva, secondo la pregressa giurisprudenza, che la legittimazione processuale permaneva in capo alla società anche nell’ipotesi di cancellazione e il processo già iniziato proseguiva nei confronti o su iniziativa delle persone che già la rappresentavano in giudizio. Un grave vulnus a tale tesi era tuttavia inferto da Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319, in Giur. it., 2000, 1857, sentenza di accoglimento additiva, che dichiarava costituzionalmente illegittimo l’art. 10 della legge fallimentare «nella parte in cui non prevede che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della stessa dal Registro del imprese». Tale pronuncia, pur non incidendo espressamente sulla questione della sopravvivenza dell’ente societario in seguito alla sua cancellazione, senza dubbio si poneva almeno all’apparenza come logicamente inconciliabile rispetto al granitico orientamento espresso dalla giurisprudenza. E infatti l’anno successivo alla sentenza interveniva la legge di delega per la riforma del diritto societario 3 ottobre 2001, n. 366, che all’art. 8, relativo allo scioglimento e alla liquidazione della società, al primo comma, lett. a), prevedeva che la legge delegata semplificasse le procedure di accertamento delle cause di scioglimento e dei procedimenti di nomina dei liquidatori, dando mandato al legislatore delegato di provvedere a «disciplinare gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese».

(4) Con la conseguenza che a seguito della riforma «il soggetto giuridico, creato con l’iscrizione, dopo la cancellazione non è più presente nell’ordinamento», come rileva m. porzio, La cancellazione, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, Torino, 2007, 80, evidenziando la simmetria tra iscrizione e cancellazione dal Registro delle imprese. L’Autore osserva peraltro come l’attribuzione di efficacia costitutiva alla cancellazione abbia senso solo laddove si voglia sottolineare la differenza con la pubblicità dichiarativa di cui all’art. 2193 c.c., essendo in realtà il concetto di “pubblicità costitutiva” frutto di una incerta ricostruzione dottrinale. Di talché sarebbe piuttosto conveniente limitarsi a prendere atto che «siamo dinanzi ad una di quelle ipotesi in cui la legge particolare attribuisce all’iscrizione una efficacia maggiore di quella dichiarativa, perché ha come effetto di modificare una situazione giuridica preesistente» (82-83).

(5) Critico rispetto alla soluzione adottata dalle Sezioni Unite di distinguere tra pubblicità costitutiva della cancellazione delle società di capitali e pubblicità dichiarativa delle società di persone, m. cataldo, op. cit., il quale osserva che volendo farne discendere soluzioni diverse rispetto alle questioni che si pongono nel caso in cui la società sia cancellata ma l’impresa prosegua ovvero nell’ipotesi di emersione di ulteriori attività o passività, si introdurrebbe nuovamente una disparità di trattamento nel regime dell’impresa esercitata in forma associata priva di giustificazione. Contra f. fimmanò – f. angiolini, Cancellazione, estinzione e cancellazione della cancellazione: quando la società di capitali può “risorgere” e fallire, in f. fimmanò (a cura di), Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, Milano, 2011, secondo cui mentre l’efficacia costitutiva comporterebbe un evento estintivo irreversibile, diversamente nelle società personali l’efficacia dichiarativa della cancellazione consentirebbe a coloro i quali ne hanno interesse di fornire una prova volta a superare la presunzione di estinzione: in buona sostanza la società si presumerebbe estinta in quanto cancellata, salvo riuscire a dimostrare l’esistenza di rapporti pendenti e, conseguentemente, il perdurarne dell’esistenza.

(6) E infatti si leggeva: «Fissato il punto che, per effetto della sua cancellazione avvenuta in data anteriore al 1° gennaio 2004, la società convenuta è da considerare estinta da tale data, la Corte sarebbe chiamata ad affrontare il problema, se sia valida la notifica che del ricorso per cassazione le è stata fatta, presso il difensore costituito nel giudizio di appello, indirizzandola a S.S., già amministratore e poi liquidatore della società, ma anche suo socio. E questo sotto l’aspetto del potere essere la notifica eseguita presso il difensore e non presso il socio personalmente, una volta cessata l’esistenza della società nel corso del giudizio di merito, senza che il difensore l’avesse dichiarato. Ritengono peraltro queste sezioni unite di poter prescindere da tale esame, perché, anche alla stregua dei principi di diritto prima enunciati, i motivi di ricorso si rilevano infondati». Nella citata sentenza n. 4062/2010, tuttavia, si dichiarava inammissibile il ricorso per cassazione presentato, per difetto di legittimazione a proporlo, rilevando che «la Cooperativa edilizia ricorrente come non era soggetto di diritto allorché ha resistito alle opposizioni proposte dal P. nel 2007 sin dal settembre 2004 e mancava quindi di legittimazione a resistere in quella sede, tale era anche al momento di proposizione del presente ricorso per cassazione, perché persona giuridica ormai estinta ad ogni effetto di legge dalla data dell’iscrizione della cancellazione dal settembre precedente, che ha per legge comportato la contestuale estinzione della società, evento che, se si fosse dichiarato o comunicato dal difensore nel corso del giudizio di merito ne avrebbe determinato l’interruzione».

(7) Cfr. Cass., sez. un., 9 aprile 2010, n. 8426, inBoll. Trib., 2010, 1335, con nota di g. selicato, Estinzione e reviviscenza di società cancellate dal registro delle imprese tra certezza dei rapporti giuridici e tutela del credito erariale.

(8) In questi termini m. cataldo, op. cit., il quale evidenzia come tale principio metta per certi aspetti in discussione quello dell’estinzione della società a seguito di cancellazione. Rileva la vera e propria inconciliabilità tra le diverse pronunce della Corte di Cassazione m.s. spolidoro, La cancellazione delle società davanti alle Sezioni Unite, in Notariato, 2010, 643.

(9) Per uno spunto di riflessione cfr. m. proietti, Patologie dell’accertamento con adesione: spunti critici attorno a una decisione che ha statuito l’inesistenza del relativo provvedimento sottoscritto dall’ultimo liquidatore di una società di capitali già cancellata dal Registro delle Imprese, in nota a Comm. trib. prov. di Latina, sez. III, 9 novembre 2010, n. 564, in Boll. Trib., 2012, 371, dove si segnalava come la «cancellazione della cancellazione» alla luce delle pronunce della Corte di Cassazione potesse rappresentare una via da perseguire nella gestione dei rapporti tra società “abusivamente” cancellate e fisco.

(10) Una critica alla pronuncia si rintraccia in g. selicato, op. cit., secondo il quale la sua motivazione non aiuterebbe a comprendere le ragioni per cui la continuazione (di fatto) dell’attività d’impresa impedirebbe il verificarsi dell’estinzione giuridica dell’ente, pur rimanendo apprezzabile il tentativo di difendere, da parte della Suprema Corte, l’interesse pubblico alla percezione di somme dovute da una società fittiziamente trasferita all’estero e frettolosamente cancellata dal Registro delle imprese al solo fine di impedire l’applicazione delle disposizioni del rito fallimentare. Manifesta perplessità anche m. cataldo, op. cit., per il quale è difficile ammettere che il giudice del Registro possa sovrapporre alla cancellazione già avvenuta un proprio successivo apprezzamento in fatto relativamente alla prosecuzione dell’impresa e si chiede se non sia più lineare e coerente, anche di fronte ad una cancellazione abusiva della società, determinata dall’intento di creare l’apparenza di una cessazione dell’attività sociale, assoggettare la prosecuzione dell’impresa al regime proprio delle società irregolari. Nel senso che l’Ufficio del Registro debba provvedere alla cancellazione senza poter in alcun modo valutare il merito o la legalità sostanziale della vicenda (c.d. controllo di tipicità), anche f. fimmanò – f. angiolini, op. cit., richiamando tuttavia dottrina di diversa posizione. Rileva infine che l’Ufficio del Registro deve accertare l’esistenza dei soli requisiti formali per la cancellazione secondo il procedimento previsto in via generale per le iscrizioni m. porzio, op. cit., 83.

(11) Ciò che paventava g. selicato, op. cit.

(12) Cosìla Cortedi Cassazione nell’annotata sentenza.

(13) Si domandava m. cataldo, op. cit., se fosse davvero nella disponibilità dei privati determinare la cessazione dell’esistenza in vita di una società o se non dovesse piuttosto assumersi che l’effetto della loro decisione potesse essere solo quello di rinunciare per il futuro ad imputare alla società i risultati di una attività imprenditoriale che si intendesse abbandonare, senza poter incidere – cancellandone appunto l’esistenza – sulla titolarità dei diritti e degli obblighi in precedenza sorti in capo alla società.

(14) Ciò sarebbe del tutto inammissibile, secondo la Cortedi Cassazione, in un sistema in cui il creditore non ha legittimazione a proporre reclamo contro il bilancio finale di liquidazione della società debitrice ex art. 2492 c.c.

(15) Già art. 2456, secondo comma, c.c., uguale al testo richiamato ad eccezione dell’inciso iniziale «ferma restando l’estinzione della società», di nuova introduzione. Quanto alle società di persone, il riferimento normativo è da rintracciarsi nell’art. 2312, secondo comma, c.c., in conformità al quale «dalla cancellazione della società i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci e, se il mancato pagamento è dipeso da colpa dei liquidatori, anche nei confronti di questi» (analogamente dunque a quanto previsto per le società di capitali, ma in questo caso senza limiti alla responsabilità). La previsione è integrata per le società in accomandita semplice dall’art. 2324 c.c., secondo cui «salvo il diritto previsto dal secondo comma dell’articolo 2312 nei confronti degli accomandatari e dei liquidatori, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti nella liquidazione della società possono far valere i loro crediti anche nei confronti degli accomandanti, limitatamente alla quota di liquidazione».

(16) In questi termini, in particolare, f. di sabato, Diritto delle società, Milano, 2011, 594.

(17) Come ad esempio sostenuto da m.s. spolidoro, Seppellimento prematuro. La cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese ed il problema delle sopravvenienze attive, in Riv. soc., 2007, 837, secondo il quale l’unica via concretamente percorribile è la «cancellazione della cancellazione». In giurisprudenza cfr. Trib. Como 24 aprile 2007, in Giur. comm., 2008, II, 700, con nota di a. pandolfi, L’estinzione della società di capitali e il problema delle sopravvivenze e delle sopravvenienze attive, nonché in Società, 2008, 889, con nota di p. d’alessandro, Cancellazione della società e sopravvivenze attive: opportunità e legittima riapertura della liquidazione, e anche in Giur. comm., 2008, II, 1247, con nota di a. zorzi, Sopravvenienze attive e cancellazione ex art. 2191 c.c. della cancellazione della società; e Trib. Milano 26 maggio 2010, inedita, secondo cui può essere disposta ex art. 2191 c.c. la «cancellazione della cancellazione» di una società a responsabilità limitata dal Registro delle imprese, effettuata ai sensi dell’art. 2490 c.c., qualora emerga che la liquidazione non è terminata sussistendo ancora un patrimonio da liquidare; non osterebbe a tale soluzione il disposto dell’art. 2495 c.c., trattandosi di cancellazione della società iscritta in assenza delle condizioni di legge.

(18) Per usare un’espressione di f. fimmanò – f. angiolini, op. cit.

(19) Sulla somiglianza dell’eredità giacente con l’ipotesi della cancellazione della società e della successiva emersione di sopravvenienze attive, tale da consentirne l’identità di trattamento delle due fattispecie, ved. v. salafia, Sopravvenienza di attività dopo la cancellazione della società dal Registro imprese, in Società, 2008, 931.

(20) In Boll. Trib., 2011, 1397.

(21) La Cortedi Cassazione esclude tuttavia il richiamo a «improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica». Si leggeva di contro nella risoluzione «che gli elementi patrimoniali attivi non compresi nel bilancio di liquidazione in quanto non conoscibili a quella data, devono essere attribuiti proporzionalmente ai soci, tra i quali si instaura un rapporto di comunione ordinaria ai sensi dell’art. 1100 del c.c., simile, in linea generale, a quello degli eredi».

(22) Si specificava nella risoluzione, con riferimento al soggetto cui materialmente eseguire i rimborsi, che per le società di persone il conferimento di una delega ad un solo socio per la riscossione del rimborso costituisce una mera facoltà. Tuttavia, tenuto conto della compagine sociale delle società di capitali, spesso costituita da un numero considerevole di soci, si esprimeva l’opportunità del conferimento di una delega alla riscossione ad uno di essi o ad un terzo, al fine di evitare l’erogazione del rimborso a ciascun socio in proporzione alle quote sociali. In questa prospettiva, si affermava «i soci titolari del diritto al rimborso potrebbero delegare all’incasso lo stesso ex liquidatore, previa comunicazione della predetta delega al competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate».

(23) Fermo il disposto dell’art. 10, secondo comma, della legge fallimentare, secondo il quale «In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma».

(24) m. cataldo, op. cit.

(25) In questo senso e per un approfondimento f. fimmanò – f. angiolini, op. cit., che si chiedevano se la proposizione del ricorso di fallimento durante la vigenza del periodo di cui all’art. 10 della legge fallimentare debba essere fatta valere, in caso di pregressa cancellazione, in contraddittorio con i soci, essendo venuta meno la legittimazione e la rappresentanza della società, ovvero se legittimato sia ancora il liquidatore quale ultimo rappresentante. Ritenevano gli Autori che la società, benché cancellata, continuasse a vivere solo ai fini della dichiarazione di fallimento nel limite temporale di un anno, richiamando la pronuncia di Cass., sez. I, 5 novembre 2010, n. 22547, in Fall., 2011, 749, che già aveva affermato il principio secondo cui in caso di fallimento di società cancellata dal Registro delle imprese la legittimazione al contraddittorio spetta al liquidatore sociale che può anche proporre reclamo avverso la sentenza di fallimento.

(26) Si veda la successiva nota n. 40 sulla giurisprudenza tributaria di merito che escludendo l’esistenza di un fenomeno successorio procedeva alla declaratoria di cessata materia del contendere dei giudizi incardinati da società successivamente estintesi.

(27) Si veda la successiva nota n. 37 quanto alla dottrina più critica rispetto alla ricostruzione del fenomeno in termini successori nell’ambito del processo tributario.

(28) Per utilizzare l’espressione di t. tassani, Cass. n. 7676 del 16 maggio 2012. Società di capitali cancellata dal registro delle imprese e successione del socio nei debiti fiscali: conseguenze processuali, in il fisco, 2012, 4509, che trova origine nella dottrina civilistica pure richiamata dall’Autore e a cui si rimanda.

(29) Con la precisazione pure resa dalla Corte che, anche riconosciuta un’esigenza di tutela del creditore, la responsabilità del socio non può comunque estendersi oltre i limiti dell’attivo distribuito in sede di liquidazione, salvi i casi in cui si tratti di socio illimitatamente responsabile. Né da tale limitazione deriverebbe pregiudizio per i creditori insoddisfatti, perché se la società è stata cancellata senza distribuzione dell’attivo, comunque non vi sarebbe stata capienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare.

(30) Cfr. Cass., sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11968, inBoll. Trib. On-line.

(31) Cfr. Cass., sez. trib., 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679, inBoll. Trib. On-line, e anche in il fisco, 2012, 3771, con nota di a. borgoglio, Cancellazione della società di capitali dal Registro imprese. Responsabilità di soci e liquidatori e successione nel processo; e Cass., sez. I, 9 novembre 2012, n. 19453, in Società, 2013, 81.

(32) In questo senso la prima pronuncia citata alla quale si conformano le altre richiamate.

(33) c. glendi, Cancellazione-estinzione delle società e cessazione della materia del contendere nei giudizi in corso, in nota a Comm. trib. prov. di Catania, sez. IX, 27 gennaio 2011, n. 80, in Riv. giur. trib., 2011, 512. Nello stesso senso, sulla diversità delle obbligazioni, a. querci, A oltre due anni dalle sentenze delle Sezioni Unite che hanno segnato la definitività dell’estinzione della società cancellate dal Registro delle imprese: questioni aperte e dubbi irrisolti, intorno al “requiem”, in Dir. prat. trib., 2013, 171.

(34) Così m. porzio, La cancellazione, cit., 94.

(35) In ambito tributario può correttamente affermarsi che la affermazione della responsabilità dei soci a seguito della cancellazione non fa venire meno l’autonoma riferibilità alla società del presupposto e della obbligazione tributaria, per usare una espressione di t. tassani, La responsabilità dei soci, amministratori e liquidatori per i debiti fiscali della società, in Rass. trib., 2012, 359.

(36) Cfr. Comm. trib. prov. di Catania n. 80/2011, cit., che dichiarava cessata la materia del contendere in un caso in cui la cancellazione dal Registro delle imprese era avvenuta in corso di causa. Diversa l’ipotesi in cui l’avviso di accertamento venga emesso nei confronti di società già cancellata, da cui l’inefficacia dell’atto emesso nei confronti di un soggetto estinto: sul tema, richiamando anche copiosa giurisprudenza in merito, da ultimo a. querci, A oltre due anni dalle sentenze delle Sezioni Unite, cit., che segnala come qualificare l’atto come “nullo” invece che “inesistente” e “privo di effetti” potrebbe indurre a ritenere, tuttavia non correttamente, tale nullità sanabile.

(37) Si vedano Cass. n. 7676/2012, cit.; Cass. n. 7679/2012, cit.; e Cass. n. 19453/2012, cit. Come osservano l. ambrosi – a. iorio, Cancellazione delle società dal Registro delle imprese: conseguenze nel processo tributario, in Corr. trib., 2012, 1943, secondo la Corte «il socio non è un successore universale della società. Egli lo diventa allorché riscuote la quota in base al bilancio finale di liquidazione». Rilevavano gli Autori come, ancora secondola Suprema Corte, fosse sempre l’Amministrazione finanziaria a dover dimostrare l’effettiva successione del socio, provando che la condizione di riscossione del saldo attivo di liquidazione si fosse effettivamente concretizzata.

(38) Cass., sez. trib., 5 dicembre 2012, n. 21773, inBoll. Trib. On-line. Per un commento a. borgoglio, Cancellazione della società di persone nelle more del processo concernente l’Irpef e successione nel contenzioso dei soci, in il fisco, 2013, 74; e a. russo, Estinzione delle società di persone durante il processo tributario, ibidem, 356, che solleva un dubbio sulla successione rispetto alle pretese sanzionatorie che sono involte dal principio di personalità della violazione, salvo che non si voglia fare appello alla “culpa in vigilando” del socio stesso sui fatti e sugli atti riferibili alla società.

(39) In questo senso già Cass., sez. trib., 3 novembre 2011, ord. n. 22863, inBoll. Trib. On-line, in cui si affermava che la causa non avrebbe potuto essere proposta su iniziativa del liquidatore di società estinta, trattandosi di un vizio insanabile originario del processo. A commento della pronuncia ved. a. cissello, Cass. n. 22863 del 3 novembre 2011. Cartella di pagamento ed estinzione di società, in il fisco, 2011, 7087, che tuttavia escludeva un fenomeno successorio tra soci e società, anche laddove si fosse trattato di società di persone: in armonia con le affermazioni della Corte di Cassazione (inesistenza del provvedimento intestato a soggetto estinto e inammissibilità dell’azione del liquidatore) la soluzione corretta sarebbe infatti stata rinvenibile, secondo l’Autore, nella declaratoria di estinzione della materia del contendere, trattandosi di una situazione analoga al caso in cui, a processo instaurato, deceda il contribuente senza eredi.

(40) Si era espressa in tal senso già Cass., sez. trib., 6 giugno 2012, n. 9110, inBoll. Trib. On-line.

(41) Non risulta invece applicabile l’art. 111 c.p.c. che regola la successione a titolo particolare nel diritto controverso per il fatto che il fenomeno successorio in questione non è riconducibile ad un trasferimento tra vivi ovvero ad un trasferimento particolare mortis causa, ipotesi queste contemplate dalla previsione in oggetto.

(42) Specificala Corteche non risulta configurabile un caso di nullità della notifica per incertezza dell’identità della parte, trattandosi piuttosto proprio della impossibilità di assumere la veste di parte per la società estinta e cioè dell’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale.

(43) Richiama la prassi di alcuni Uffici, fermi nel notificare atti a società cancellate dal Registro delle imprese, a. iorio, Il fisco continua a portare in giudizio la società estinta, in Il Sole 24 Ore del 25 marzo2013, a commento dell’annotata sentenza  n. 6070/2013.

(44) Cfr. g. selicato, I riflessi fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese, in Rass. trib., 2010, 868, il quale osservava che nell’ipotesi in cui la società fosse ancora esistente per non essere trascorso un anno dall’iscrizione della sua cancellazione nel Registro delle imprese, l’accertamento avrebbe dovuto essere notificato presso l’ultima sede della società ed intestato al suo liquidatore. Diversamente, nell’opposta ipotesi in cui la società fosse estinta per il decorso del termine indicato, l’accertamento avrebbe dovuto essere intestato direttamente ai soci (o al liquidatore laddove fosse incorso nelle responsabilità di cui all’art. 2495 c.c.) e notificato presso i rispettivi domicili fiscali.

(45) Come rileva d. stevanato, Dopo la liquidazione della società chi è l’interlocutore del Fisco?, in Dial. trib., 2008, 142.

(46) Cass., sez. trib., 15 ottobre 2001, n. 12546; Cass., sez. trib., 17 giugno 2002, n. 8685; e Cass., sez. trib., 18 maggio 2010, ord. n. 12149; tutte in Boll. Trib. On-line.

(47) Così a. buscema, I riflessi tributari dell’estinzione della società, anche in pendenza di debiti, ai sensi della riforma societaria del 2004, in Dial. trib., 2008, 142.

(48) In questo senso a. buscema, op. cit.; e r. lupi, Dividendi, palesi e occulti, in danno al fisco e carenze di attrezzature mentali, in Dial. trib., 2008, 142.

(49) Come osservato da d. stevanato, op. cit.; g. selicato, op. ult. cit.; e t. tassani, op. ult. cit.

(50) Ciò che rileva d. stevanato, op. cit., cui aderisce quanto alla maggiore ampiezza della norma fiscale rispetto a quella civilistica anche t. tassani, op. ult. cit., che peraltro evidenzia come l’art. 36 sia destinato ad operare indipendentemente dalla cancellazione/estinzione dell’ente.

(51) in Boll. Trib. On-line. Per un commento r. weigmann, Nota in tema di processo contro società estinta, in Giur. it., 2013, 384. L’Autore nota che la perentoria affermazione in ordine alla definitiva estinzione delle società cancellate sarebbe stata più “facile” quanto ai casi affrontati con le citate sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del2010 in quanto in quella sede le conseguenze negative della scomparsa della soggettività degli enti coinvolti ricadevano sui medesimi. Diversa la fattispecie affrontata dalla Corte d’Appello di Milano, nella quale a patire dell’estinzione sono le controparti processuali.

(52) Il riferimento è a Cass., sez. un., 16 dicembre 2009, n. 26279, inBoll. Trib. On-line, secondo cui «in caso di morte della parte vittoriosa, l’impugnazione della sentenza deve essere rivolta e notificata agli eredi, indipendentemente dal momento in cui il decesso è avvenuto e dalla eventuale ignoranza incolpevole del decesso da parte del soccombente, senza che sia possibile applicare l’art. 291 c.p.c. in caso di impugnazione rivolta al defunto», e a Cass., sez. un., 14 settembre 2010, n. 19509, ivi, che affermava il principio per cui «l’impugnazione notificata presso il procuratore costituito di una società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si sia estinta per incorporazione, deve ritenersi valida se l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notificazione di esso».

 



[1] In Boll. Trib. On-line.

 

[2] In Boll. Trib. On-line.

[3] In Boll. Trib. On-line.

 

[4] In Boll. Trib. On-line.

[5] In Boll. Trib. On-line.