20 Dicembre, 2018

SOMMARIO: 1. L’origine del principio della vicinanza alla prova – 2. I criteri applicativi – 3. Cenni sulle applicazioni, nel processo tributario, del principio di vicinanza alla prova – 4. Le principali casistiche scrutinate dal giudice tributario: a) il transfer pricing; b) le frodi carosello; c) l’abuso del diritto; d) la validità della sottoscrizione dell’accertamento; e) il saldo negativo di cassa; f) il regime IVA del margine.

1. L’origine del principio della vicinanza alla prova

La regola dell’onere della prova, sostanzialmente basata sul brocardo “onus probandi incumbit ei qui dicit”, è presente nel nostro ordinamento ed è, in via generale, rappresentata dalla regola scandita dall’art. 2697 c.c., che entra in gioco – in realtà – soltanto nel momento della decisione, ed opera in modo “oggettivo” in funzione della verifica finale, operata dal giudice, circa l’esistenza o non esistenza di prove che dimostrino i fatti giuridicamente rilevanti. Questa circostanza si esprime comunemente affermando che la regola dell’onere della prova è essenzialmente una regola di giudizio, in quanto la sua funzione è di rendere sempre possibile la decisione del giudice, anche in assenza di sufficienti prove dei fatti, evitando così pronunce di non liquet; in pratica l’art. 2697 c.c. finisce con il dettare una disciplina secondo la quale l’onere di rappresentare gli accadimenti che concretizzano una fattispecie astratta di legge grava sulla parte che, dall’applicazione della norma sostanziale, possa ricavare effetti per sé favorevoli; tuttavia, la determinazione dell’onere finisce poi così per essere posta all’esame del giudice che la applica sulla base di criteri che completano e qualificano la fattispecie legale adeguandola al caso concreto, quali l’apparenza, l’interesse, la normalità, il carattere negativo del fatto da dimostrare.
A tal proposito si segnala, negli ultimi anni, il richiamo prevalente – da parte della giurisprudenza – al criterio della vicinanza (o riferibilità, prossimità, facilità) della prova, cioè di un principio in virtù del quale i carichi probatori vanno ripartiti tenuto conto della maggiore o minore difficoltà che le parti incontrano nel fornire la relativa prova.
La giurisprudenza di legittimità e di merito – che talvolta è giunta a parlare di “dogma” della vicinanza della prova (1) – nel tentativo di superare il potenziale conflitto tra diritto positivo (da un lato) e regola di matrice giurisprudenziale (dall’altro), ha cercato di spiegare tale principio come il correttivo necessario al fine di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2697 c.c.
Il principio, che aveva iniziato a fare la sua comparsa tra la metà e la fine degli anni ’90 (2), riceveva una definitiva consacrazione e diventava un criterio rilevante, per lo scrutinio dell’istruzione probatoria, nel nostro sistema giurisprudenziale con la pronuncia n. 13533/2001 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (3), quando si rese necessaria la composizione di un contrasto, esistente in giurisprudenza, circa l’applicazione della regola dell’onere della prova nelle cause in cui fosse chiesta la risoluzione per inadempimento del contratto.
Il Supremo Collegio di nomofilachia – aderendo all’orientamento minoritario, inaugurato dal citato responso n. 973/1996 – affermava che «In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l’onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Ed appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99)». Sul presupposto di questa argomentazione, le Sezioni Unite Civili ritenevano «conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento» (4). In altre parole, nell’impossibilità di imputare l’onere della prova alla parte che allega il fatto, ma non ha la disponibilità degli elementi indispensabili per rappresentarlo, la giurisprudenza agisce “accollando” il rischio degli effetti di tale allegazione alla parte che non fornisce la prova di cui ha la relativa disponibilità.

2. I criteri applicativi

Detto principio, che innanzi al giudice ordinario trova spazio soprattutto in tema di obbligazioni contrattuali e anche in materia di responsabilità medica (5), si è posto spesso come una regola avente lo stesso valore dell’art. 2697 c.c. anche nelle liti fiscali ma, prima di descrivere brevemente su quali profili essa trova maggiore allocazione, è bene segnalare in quali vesti il principio in questione venga a porsi nell’ambito del contraddittorio e delle decisioni che ne seguono (6).
L’opinione prevalente ritiene che il principio de quo corrisponda a una deroga al principio dell’onere della prova disciplinato dall’art. 2697 c.c. ovvero trovi uno spazio operativo in quelle ipotesi in cui la prova è di difficile dimostrazione per un comportamento ascrivibile al responsabile contro il quale il fatto da provare è invocato, con la conseguenza che l’onus probandi “slitta” a carico della parte prossima alla fonte di prova. La conclusione è giustificata, sia in dottrina sia in giurisprudenza (7), riconducendo il principio della vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio.
È stato, inoltre, precisato che proprio il predetto precetto costituzionale, nel garantire a tutti la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, presuppone la non impossibilità o difficoltà di azione, obiettivo che proprio tale tecnica probatoria mira ad evitare nel rispetto sia del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., sia del dovere di solidarietà economico e sociale di cui all’art. 2 Cost., sia del principio del giusto processo ex artt. 24 e 111 Cost. (8). A ciò deve aggiungersi, a sommesso parere di chi scrive, che sembrano rilevanti, al fine dell’onere probatorio di cui si sta trattando, anche i doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., nonché il principio generale di valutazione delle prove sancito dall’art. 116, secondo comma, c.p.c.
Talvolta la “vicinanza” è impiegata per spiegare il criterio di riparto dell’onere della prova, cioè per identificare un canone che si “frammenta” nel diverso oggetto di due prove e che perciò si distingue da quello dell’inversione dell’onere della prova (ove vi è un medesimo oggetto di prova ma cambia soltanto il soggetto cui è richiesto di fornirla) (9); questo parametro del “riparto”, che è frequente (come vedremo) nelle sentenze che riguardano il contenzioso tributario, è di puntuale applicazione innanzi al giudice ordinario. In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, ove il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare il titolo dell’obbligazione e la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento.
Tanto detto, deve aggiungersi che, nelle motivazioni delle sentenze, la “vicinanza” spesso compare come una ratio decidendi alternativa, nel senso che a una decisione finale, sorretta da una motivazione che di per sé sola potrebbe legittimare il decisum, se ne aggiunge una ulteriore, motivata sul punto della vicinanza della prova. Altre volte la “vicinanza” si distingue come elemento di una presunzione, finendo con il capovolgere l’assetto appena deciso, poiché si parte dalla vicinanza della prova per arrivare implicitamente ad una pronuncia che può essere motivata altrimenti (10).

3. Cenni sulle applicazioni, nel processo tributario, del principio di vicinanza alla prova

Tale principio, come accennato, è applicato anche al processo tributario e va osservato che la “vicinanza” spesso è un criterio che è adottato in relazione al giudizio di inerenza ovvero alla ripartizione o imputazione dei costi, per i quali occorre eseguire un riscontro della loro correlazione all’attività produttiva dei ricavi in termini di effettiva utilità (11); in questi casi (più che altrove) la giurisprudenza di legittimità (e di merito) ha fatto ricorso al principio emergente dalla considerazione secondo la quale la dimostrazione va fornita da chi è più vicino ai fatti da provare, per cui è il contribuente a essere gravato dell’onere probatorio dell’esistenza o inerenza di tali spese, compreso quello di consentire all’Amministrazione finanziaria di verificare il valore normale dei corrispettivi applicati. Un assetto, quello appena descritto, che risulta coerente con quella giurisprudenza che, costantemente, ritiene che al fisco compete dimostrare i maggiori ricavi mentre è il contribuente a dover provare i costi, anche in considerazione del fatto per cui il costo rappresenterebbe un fatto impeditivo dell’obbligazione tributaria o una situazione soggettiva di vantaggio del contribuente (in quanto costitutiva del diritto alla deduzione) (12).
La stessa (non esaustiva) elencazione che segue, sull’incidenza della “vicinanza” nella giurisprudenza tributaria, evidenzia come (appunto) i costi siano una materia che assume assoluta centralità in ordine al principio di cui trattasi. Non mancheranno, tuttavia, descrizioni di fattispecie diverse.

4. Le principali casistiche scrutinate dal giudice tributario

a) Il transfer pricing

Il transfer pricing è un fenomeno concepito nell’ottica di sfruttare i sistemi fiscali dei vari Stati per ottenere il maggior risparmio di imposta possibile, poiché il suo scopo è quello di spostare reddito tra un Paese e un altro attraverso l’applicazione nelle operazioni infragruppo di corrispettivi più elevati o più bassi di quelli che sarebbero fissati tra imprese indipendenti (13). Con questo mezzo assumono rilievo le operazioni internazionali poste in essere tra due o più imprese facenti capo allo stesso soggetto economico, ma domiciliate fiscalmente in Paesi diversi, aventi il fine di minimizzare il prelievo fiscale a livello di gruppo attraverso l’alterazione strumentale dei prezzi di scambio.
In tal materia incidono le recenti novità in materia di prezzi di trasferimento recate dall’art. 59 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96 (c.d. Manovra correttiva 2017), che hanno modificato interamente il comma 7 dell’art. 110 del TUIR, per cui viene abbandonato il rinvio al concetto di “valore normale”, così come definito dall’art. 9, terzo comma, del medesimo TUIR, optando invece per un rimando al principio di “libera concorrenza” (arm’s length principle) tratto dall’art. 9 del modello di Convenzione contro le doppie imposizioni elaborato dall’OCSE e recepito nei rispettivi commentari oltre che nelle Linee guida sulla determinazione dei prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali e le Amministrazioni fiscali, approvate dal Consiglio della medesima Organizzazione (nella versione più aggiornata) il 22 luglio del 2010.
Vale la pena ricordare che in precedenza, a norma degli artt. 9, terzo comma, e 110, settimo comma, del TUIR, ratione temporis, la disciplina nazionale sul transfer pricing disponeva che le transazioni intercorrenti tra una società residente nel territorio dello Stato e soggetti non residenti in Italia, entrambi appartenenti al medesimo gruppo multinazionale, dovessero avvenire al “valore normale”, con la conseguenza che si rendeva necessario operare ad un confronto tra tale transazione e transazioni “comparabili”, intercorrenti tra soggetti indipendenti; in pratica, la normativa sul transfer pricing – che pur nulla imponeva in merito ai prezzi di trasferimento effettivamente praticati tra le società del gruppo – finiva con l’intervenire nel successivo momento dichiarativo attraverso un’attività esclusivamente valutativa dell’erosione e di spostamento dell’imponibile fiscale – volta a individuare eventuali cessioni tra società appartenenti a uno stesso gruppo, con sedi in Paesi e giurisdizioni diverse, poste in essere a un prezzo effettivo inferiore o superiore al “valore normale” dei beni compravenduti, senza alcuna corrispondenza con quelli abitualmente praticati in un regime di libero mercato.
Ebbene, su questo tema si era sviluppato, in passato, un acceso dibattito in dottrina ed in giurisprudenza e non erano mancati richiami al principio di vicinanza alla prova, come testimonia la Suprema Corte, con la sentenza n. 10739/2013 (14); tale arresto indicava, infatti, come all’Amministrazione finanziaria spettasse soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate, riservandosi invece al contribuente, proprio secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., avvalorare che le transazioni fossero intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi dell’art. 9, terzo comma, del TUIR; così, praticamente, il giudice di legittimità teneva conto del fatto che, nella maggior parte dei casi, solo il contribuente poteva ragionevolmente acquisire elementi tali da determinare in modo realistico il valore normale delle sue stesse transazioni. Va annotato però che tale conclusione veniva poi ulteriormente approfondita dalla Corte di Cassazione (15), ove si manifestava che «l’onere della prova gravante sull’ufficio – nella materia in esame – resta limitato alla dimostrazione dell’esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell’operazione. Per contro, a fronte degli elementi probatori offerti dall’amministrazione, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare – in forza del principio di vicinanza della prova, desumibile dall’art. 2697 c.c. – non soltanto l’esistenza e l’inerenza dei costi dedotti, ma anche ogni altro elemento che consenta all’ufficio di ritenere che la transazione sia intervenuta per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua del disposto di cui all’art. 9, 3° comma, d.p.r. n. 917 del 1986».

b) Le frodi carosello

Su criteri e principi non dissimili (da quello appena descritto) si concentra la giurisprudenza sulle fatture soggettivamente inesistenti, fattispecie per la cui sussistenza «occorre, cioè, che uno dei soggetti dell’operazione rilevante sotto il profilo fiscale sia del tutto estraneo a detta operazione, non avendo assunto affatto nella realtà la qualità di committente o cessionario della merce o del servizio ovvero di pagatore o di percettore dell’importo della relativa prestazione» (16) (17); in questi casi la presenza di un soggetto “paravento” interposto impedisce la detrazione dell’imposta indicata in fattura (18), nonostante i beni o servizi ai quali la fattura si riferisce siano stati effettivamente acquistati dal cessionario o committente nell’esercizio dell’impresa, arte o professione. Ancor più precisamente, a fronte di queste ipotesi, la Corte di Cassazione ha osservato che, «qualora l’Amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sulla inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indebiti», all’uopo richiedendosi che lo stesso «fornisca, sul proprio stato soggettivo in ordine all’altruità della fatturazione, riscontri precisi», e segnatamente «di non avere avuto consapevolezza della falsità ideologica della fattura rilasciata a fronte dell’operazione, vale a dire della diversità del soggetto effettivamente cedente e quello indicato in fattura» (19).
Si scorge anche in tal caso il criterio-guida della vicinanza dei mezzi di prova descritta, ma deve tuttavia rammentarsi la distinzione in materia di deduzione dei costi e di detraibilità dell’IVA che viene alla luce nel caso delle operazioni soggettivamente inesistenti, stante la circostanza che il D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44), novellando le disposizioni in tema di costi da reato, non impedisce – in linea di principio e diversamente dalle statuizioni della precedente disciplina – la deducibilità dei costi relativi alle operazioni soggettivamente inesistenti e questo anche con efficacia retroattiva secondo il chiaro disposto normativo ex art. 8 del citato decreto; in buona sostanza, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nella formulazione introdotta con l’art. 8, primo comma, del D.L. n. 16/2012, l’acquirente può dedurre i costi dei beni oggetto di una “frode carosello”, indipendentemente dall’elemento soggettivo assunto, cioè dalla consapevolezza (o meno) del carattere fraudolento delle operazioni, fermo restando il fatto che il costo deve comunque rispondere ai requisiti imposti dal TUIR per quel che concerne il rispetto dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità che consentono, in via generale, la deducibilità de qua.
La nuova disciplina, pur rilevando ai fini delle imposte sul reddito e dell’IRAP, però non innova per ciò che concerne l’indetraibilità dell’IVA esposta in fatture relative a operazioni inesistenti, sicché la relativa imposta risulta indetraibile da parte del cessionario che non dimostri di avere adottato tutte le misure per evitare di restare coinvolto nell’eventuale frode, con la conseguenza che – a seguito di una contestazione operata sull’indetraibilità dell’IVA, operata dal fisco in seguito a un’operazione ritenuta fittizia anche a seguito di un iter logico di carattere presuntivo – spetta, come detto e in base ai criteri innanzi descritti, al contribuente dimostrare che non conosceva e comunque non avrebbe potuto conoscere, utilizzando la buona diligenza, che le operazioni erano inesistenti (20).

c) L’abuso del diritto

Come il transfer pricing e le “frodi carosello”, l’abuso del diritto appartiene al novero delle fattispecie per cui la vicinanza alla prova è vissuta processualmente come “riparto” dell’onere probatorio tra le parti; in effetti, in un’ottica proiettata tra presente e futuro prossimo, deve essere oramai esaminata l’incidenza della “vicinanza” nelle liti concernenti accertamenti che trovano fondamento in tale forma di abuso ovvero nella figura oggi descritta dall’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), e che presuppone «una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti». Tali operazioni, a mente della stessa norma, «non sono opponibili all’amministrazione finanziaria che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni», per cui le stesse operazioni si concretizzano in un vantaggio fiscale indebito che coincide con lo scopo essenziale della condotta, a sua volta esteriormente rappresentata da un’operazione consentita ma economicamente inapprezzabile.
Importanti, a proposito di una materia che continua quindi ad occupare gli operatori del diritto tributario, sono poi le novità ritrovabili nei commi ottavo e nono dell’art. 10-bis citato, ove tali disposizioni riguardano rispettivamente:
– l’obbligo di motivazione (in accertamento e a pena di nullità) in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusivi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al sesto comma (21) dell’art. 10-bis;
– la ripartizione degli oneri probatori.
In particolare detta ripartizione è così suddivisa: è rimessa all’Amministrazione finanziaria la dimostrazione della sussistenza della condotta abusiva (non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi primo e secondo della medesima norma), mentre si impone al contribuente la prova dell’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al terzo comma dell’art. 10-bis citato (22), che – proprio in ragione della vicinanza della prova – il legislatore ha inteso definire come onere del contribuente secondo l’esigenza, rimarcata da autorevole dottrina, di confutare la prova fornita dall’Amministrazione finanziaria «attraverso elementi conoscitivi diversi e integrativi di quelli prodotti dalla stessa; in tal caso l’abuso non è affermato in sede procedimentale e contestato (o smentito) in quella processuale, bensì costruito attraverso una dialettica ordinata, in cui lo stesso elemento viene integrato da istruttorie distinte e orientate verso fonti fattuali diverse, in virtù del principio della vicinanza della prova: quindi, in un’ottica “collaborativa” e di lealtà processuale» (23) (24).

d) la validità della sottoscrizione dell’accertamento

Risulterebbe erroneo però pensare che il principio di vicinanza alla prova sia frutto di uno slittamento del carico istruttorio solo sulle “spalle” del contribuente. Ben vero, proprio in relazione alle numerose ipotesi in cui il contribuente eccepisce la nullità dell’atto impositivo per difetto di sottoscrizione dello stesso, la giurisprudenza ha inteso attribuire all’Ufficio impositore il peso della prova sul rispetto dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973, ove proprio il primo comma di tale disposizione impone che gli avvisi di accertamento siano «sottoscritti dal capo dell’Ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato», sotto pena di nullità, come precisa il terzo comma; detto orientamento si è cristallizzato nella sentenza n. 22803/2015 della Corte di Cassazione (25), ove si è statuito che per riconoscersi la legittimità dell’avviso di accertamento sottoscritto da un soggetto validamente delegato deve esigersi la produzione, da parte dell’Ufficio convenuto in giudizio, la delega recante le “ragioni” del conferimento, il “termine di validità” e il “nominativo del soggetto delegato” (26) e questo poiché, come rappresentato in altre pronunce, in presenza di specifica contestazione, dedotta fin dal ricorso introduttivo (27), l’onere di provare la validità della delega grava sull’Ufficio finanziario proprio in virtù del principio della vicinanza della prova (28), non essendo consentito al giudice tributario «attivare d’ufficio poteri istruttori» (29).
È bene però sottolineare che è sufficiente siffatta delega, non rilevando infatti la qualifica dirigenziale rivestita dal capo dell’Ufficio e/o dal funzionario delegato, richiedendo che quest’ultimo sia un “impiegato della carriera direttiva”, quale il direttore tributario di nona qualifica funzionale [poi divenuta l’area C di cui all’art. 20, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 266/1987] (30)

e) il saldo negativo di cassa

Altro “terreno” argomentativo sul quale si sviluppa il tema che qui interessa è quello relativo al “saldo negativo di cassa”. La giurisprudenza di legittimità ritiene che tale anomalia di ordine contabile debba corrispondere a una presunzione di esistenza di ricavi non contabilizzati di ammontare corrispondente a quello del disavanzo di cassa rilevato (31). Il corollario di questa conclusione è che l’Amministrazione finanziaria è assolta da oneri probatori sulla omessa registrazione di entrate per ricavi conseguiti (32), e questo in conseguenza dell’impossibilità di provvedervi per la complessità dell’esame contabile che sarebbe richiesto per stabilire se il saldo negativo dipende da errori di contabilizzazione dei fatti a cui sono collegate le entrate e le uscite di denaro o da omessa contabilizzazione di cessioni di beni o prestazioni di servizi.
Anche in questo caso assume rilevanza il principio di riferibilità o di vicinanza alla prova che integra la regola generale di cui all’art. 2697 c.c., sull’onere della prova, a seguito del quale tutte le volte in cui l’Amministrazione finanziaria si trova nell’impossibilità di offrire la prova positiva, richiesta dalla norma civilistica ultima richiamata, si ribalta sul contribuente – quale soggetto a conoscenza o in possesso di da fatti e documenti che solo egli è in grado di rappresentare e produrre – l’onere di dover dimostrare che il saldo negativo non è causato da omessa contabilizzazione di ricavi, e ciò per la posizione in cui si trova rispetto alla fonte di prova della irregolarità che è ascrivibile allo stesso soggetto contribuente che ha provveduto a registrare le entrate e le uscite di denaro nel conto cassa.

f) Il regime IVA del margine

Non sfugge, infine, all’oggetto del presente scritto il regime IVA del margine, inteso a escludere una doppia imposizione e che consiste nella determinazione della base imponibile sulla quale si applica l’aliquota IVA prevista per la cessione del bene, non determinata, come normalmente avviene per le altre cessioni, sull’intero prezzo di vendita, ma solo sull’utile che risulta a favore dell’operatore economico dopo la rivendita di un bene che aveva già scontato l’IVA in via definitiva. Le liti fiscali che si generano a fronte di tale regime finiscono con riguardare l’esatta individuazione dei doveri di diligenza del contribuente che intende procedere all’applicazione del regime del margine e, quindi, contestualmente, entro quali limiti possano essere individuate della fattispecie che, in virtù di condotte artificiose, affermino delle responsabilità inerenti il profilo della frode (33).
Tradotto il tutto in termini di contraddittorio processuale, è di palmare evidenza che risulta determinante – ai fini di una ragionevole probabilità di vittoria in giudizio – il peso dell’onus probandi a carico dell’una o dell’altra parte; intorno a tale aspetto la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che la natura derogatoria del margine rispetto ai regimi ordinari impone al contribuente che si avvale del regime speciale la dimostrazione della sussistenza dei relativi presupposti (34); sempre ad avviso del giudice di ultima istanza, il difetto di tale prova produce il disconoscimento del regime, essendo irrilevante il profilo soggettivo – assunto nei fatti dal contribuente – sia esso consapevole o meno dell’inesistenza di tali presupposti (35). In buona sostanza, in questa fattispecie la “vicinanza” viene assunta a criterio rilevante poiché la giurisprudenza si preoccupa di indicare come il contribuente sia in una posizione di controllo privilegiata poiché ex ante rispetto a quella ex post dell’Amministrazione finanziaria.

Dott. Antonino Russo

(1) Così Cass., sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, in Giur. it., 2007, 1403, in relazione a un’azione di risarcimento del danno ex art. 2051 c.c.
(2) Cfr. Cass., sez. III, 7 febbraio 1996, n. 973, in Giur. it., 1997, I, 367; Cass., sez. I, 27 marzo 1998, n. 3232, in Corr. giur., 1998, 784; e Cass., sez. I, 15 ottobre 1999, n. 11629, ivi, 2000, 902.
(3) Cfr. Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769.
(4) Secondo la medesima pronuncia costituisce un’eccezione alla regola il caso dell’inadempimento di obbligazioni negative, in quanto non potendo giovarsi del principio di persistenza del diritto (che nasce solo con la violazione), né di quello di vicinanza della prova (dovendo egli provare un fatto positivo), è il creditore il soggetto deputato a provare l’inadempimento.
(5) Il principio è stato applicato anche alle obbligazioni di carattere professionale (cfr. Cass., sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, in Foro it., 2005, 2479).
(6) Per un’ampia panoramica sull’argomento ved. M. FRANZONI, La «vicinanza della prova» quindi …, in Contratto e impr., 2016, 360.
(7) Cfr. Cass., sez. lav., 25 luglio 2008, n. 20484, in Mass. giur. it., 2008.
(8) Sull’argomento cfr. A.A. DOLMETTA – U. MALVAGNA, Vicinanza della prova e prodotti d’impresa del comparto finanziario, in Banca Borsa, 2014; e S. LEUZZI, I mezzi di prova nel processo civile, Formazione, acquisizione, integrazione, Milano, 2013.
(9) Per comprendere la differenza tra inversione e riparto della prova si è soliti fare riferimento all’art. 1218 c.c., specie dopo la chiarificazione operata da Cass. n. 13533/2001, cit.; si rammenta che tale disposizione prevede che «Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
(10) Sull’argomento ved. M. FRANZONI, op. cit.
(11) È stato, ad esempio, affermato che «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere di provare i presupposti dei costi e oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe sul contribuente, anche in base al criterio della vicinanza della prova» (così Cass., sez. trib., 17 settembre 2014, n. 19600, in Boll. Trib. On-line, in ordine a un caso in cui il contribuente non aveva provato il nesso intercorrente tra la sua attività e le spese per consulenze relative al controllo di qualità e l’ottimizzazione della produzione di due società controllate).
(12) Sull’argomento cfr. D. CANÈ, Conseguenze del comportamento antieconomico dell’impresa nell’imposta sui redditi e nell’iva, in Dir. prat. trib., 2015, II, 191.
(13) Sull’argomento ved. M. MISCALI, Il transfer price tra abuso del diritto e riparto del potere impositivo tra gli Stati, in Boll. Trib., 2017, 993; F.M. GIULIANI, Il concetto di transfer pricing, l’elusione fiscale e l’onere della prova, ivi, 2013, 1128, in nota a Cass., sez. trib., 8 maggio 2013, n. 10739; M. FAGGION – M. ZILIOTTO, Transfer price, natura della norma e onere della prova: la confusione persiste, ibidem, 219, in nota a Cass., sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11949; e A. GAGGERO, Il transfer pricing, in Dir. prat. trib., 2015, 20978.
(14) Cfr. Cass. n. 10739/2013, cit., in Boll. Trib., 2013, 1125.
(15) Ved. Cass., sez. trib., 25 settembre 2013, n. 22010, in Boll. Trib. On-line.
(16) Così Cass., sez. III pen., 26 settembre 2014, n. 39869, in Boll. Trib. On-line; la medesima sentenza indica che «Tipiche ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti sono quelle che corrispondono alle fatturazioni provenienti dalle cosiddette società “cartiere”, cioè da società costituenti un mero simulacro, che non effettuano le operazioni commerciali nella realtà intercorse tra altri soggetti, ma emettono le relative fatture, al fine di consentire a colui che le riceve un’indebita imputazione di costi o più frequentemente dell’imposta sul valore aggiunta, mai sostenuti». In dottrina si vedano F. CERIONI, L’indetraibilità dell’IVA relativa alle operazioni inesistenti tra frode ed abuso del diritto di detrazione, in Boll. Trib., 2013, 233, in nota a Cass., sez. trib., 20 giugno 2012, n. 10167, Cass., sez. trib., 6 giugno 2012, n. 9107, Cass., sez. trib., 23 settembre 2011, n. 19530, Cass., sez. trib., 12 gennaio 2011, ord. n. 608, Cass., sez. trib., 11 aprile 2011, n. 8132, Cass., sez. trib., 20 gennaio 2010, n. 867, Cass., sez. trib., 25 marzo 2011, n. 6943, e Cass., sez. trib., 11 giugno 2008, n. 15395; F. PROVENZANO, Notazioni a margine della giurisprudenza di legittimità sulle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, ivi, 2011, 1569, in nota a Cass., sez. trib., 11 aprile 2011, n. 8132.
(17) Cfr. Cass., sez. III pen., 23 gennaio 2009, n. 3203, in Boll. Trib. On-line.
(18) Ad esempio Cass., sez. trib., 10 aprile 2015, n. 7214, in Boll. Trib. On-line, evidenzia che la prova dell’inerenza del costo e dell’effettiva sussistenza dello stesso (oltre il suo preciso ammontare) grava sul contribuente e, per l’effetto, la genericità dell’indicazione “consulenza” in fattura non consente la deducibilità del costo stesso; il Collegio precisa che detta genericità produce effetti anche sulla (in)detraibilità dell’IVA in quanto tale connotazione collide con la indefettibile necessità di dimostrare la relazione tra costo e attività.
(19) Così Cass., sez. trib., 24 luglio 2009, n. 17377, in Boll. Trib. On-line.
(20) A parte queste distinzioni va segnalato però che, in entrambi i casi, non basta all’acquirente dare prova documentale del pagamento delle fatture contestate e dell’avvenuta consegna del bene alienato, essendo circostanze pienamente compatibili con il modello della frode fiscale posta in essere mediante l’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti.
(21) «Senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti per i singoli tributi, l’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto».
(22) «Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente».
(23) A. MARCHESELLI – L. COSTANZO, L’elusione fiscale nello specchio del giusto processo: l’abuso tra il diritto europeo e lo Statuto, in Corr. trib., 2016, 897.
(24) Secondo A. MARCHESELLI – A. CONTRINO, Art. 10-bis, legge n. 212/2000. Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale, in C. CONSOLO – C. GLENDI – A. CONTRINO (a cura di), Abuso del diritto e novità sul processo tributario. Commento al D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, Milano, 2016, 3 ss.: «nella dialettica degli oneri dimostrativi, l’allegazione dell’esistenza delle valide ragioni extrafiscali da parte del contribuente si atteggia, adesso, a “onere di confutare l’essenzialità del risparmio di imposta indebito” dimostrata dall’Amministrazione finanziaria, e ciò sulla base di dati ed elementi “ragionevolmente non conoscibili né verificabili” dalla parte pubblica, in sede istruttoria».
(25) Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22803, in Boll. Trib., 2015, 1737, con nota di V. AZZONI, 21 ottobre 2015, il Dirigent Day esprime tre decisioni che portano ulteriore chiarezza sulla sottoscrizione degli atti impositivi.
(26) Cfr. Cass., sez. trib., 23 giugno 2017, n. 15781, in Boll. Trib., 2017, 1448.
(27) Cfr. Cass., sez. trib., 13 gennaio 2016, n. 381, in Boll. Trib. On-line.
(28) Cfr. Comm. trib. prov. di Lecce, sez. V, 28 febbraio 2017, in Boll. Trib. On-line.
(29) Cfr. Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22800, in Boll. Trib., 2015, 1734, con nota di V. AZZONI, 21 ottobre 2015, il Dirigent Day esprime tre decisioni che portano ulteriore chiarezza sulla sottoscrizione degli atti impositivi, cit., secondo cui spetta all’Ufficio finanziario l’onere di provare la validità della delega, senza che possa supplirvi il giudice nell’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi (Cass. n. 22800/2015, cit.; Cass., sez. trib., 2 dicembre 2015, n. 24492, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 16 dicembre 2015, n. 25280, ivi; e Cass. n. 381/2016, cit.).
(30) Cfr. Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22810, in Boll. Trib., 2015, 1740.
(31) Cfr. Cass., sez. trib., 31 maggio 2011, n. 11988, in Boll. Trib. On-line.
(32) In Cass., sez. trib., 5 ottobre 2012, n. 17004, in Boll. Trib. On-line, si è data continuità al principio secondo cui «in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini IRPEG e IVA, ai sensi dell’art. 39 D.P.R. n. 600 del 1973, e art. 54 D.P.R. n. 633 del 1972, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo (Sez. 5, nn. 11998/2011, 27585/2008, 24509/2009)»; il medesimo responso si preoccupava di evidenziare che nel saldo negativo di cassa è ravvisabile “senza alcuna forzatura logica”, l’esistenza di altri ricavi, non registrati.
(33) Si veda da ultimo Cass., sez. un., 12 settembre 2017, n. 21105, in questo stesso fascicolo a pag. 1611, con nota di B. AIUDI, L’onere della prova e i connessi doveri di diligenza a carico del contribuente che intenda avvalersi dello speciale regime IVA del margine di utile.
(34) Ex plurimis Cass., sez. VI, 27 maggio 2014, ord. n. 11877, in Boll. Trib. On-line.
(35) Cfr. Cass., sez. trib., 31 gennaio 2011, n. 2227, in Boll. Trib. On-line.

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