20 Dicembre, 2018

GLI ATTUALI ASPETTI PENALI DELL’ELUSIONE FISCALE
E DELL’ABUSO DEL DIRITTO*

Con il D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, molto è cambiato in relazione all’elusione fiscale e all’abuso del diritto. E tali cambiamenti riguardano anche direttamente conseguenze di carattere penale.
Vediamo come.
Innanzitutto va ricordato che con la normativa sopra indicata – che ha introdotto nella legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) l’art. 10-bis relativo alla “disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale” – i due fenomeni sono stati fra loro equiparati.
Infatti, mentre in precedenza si distingueva fra l’elusione (prevista normativamente all’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) e l’abuso del diritto (di creazione giurisprudenziale), ora, alla luce della nuova disciplina, i due istituti sono stati equiparati e così, entrambi, previsti normativamente.
Con specifico riferimento agli aspetti penalistici, il comma 13 del nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000 prevede espressamente: «Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».
Il tema e il problema sembrerebbero così completamente superati, nel senso di escludere in radice ogni conseguenza di carattere penale dell’abuso (e dell’elusione).
Ma il precedente comma 12 di tale nuova disposizione ha cominciato a suscitare, a riguardo, non pochi “distinguo”.
Ciò in quanto detto comma prevede che l’abuso (e quindi l’elusione) può essere configurato in sede di accertamento «… solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie».
Questa disposizione è stata da subito enfatizzata dalla giurisprudenza; infatti la Corte di Cassazione penale (1), pur riconoscendo la portata innovativa del nuovo comma 13, ha però voluto sottolineare quanto segue: «In tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi».
Tale interpretazione è stata poi confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 41755/2015 (2) [che a tal fine distingue fra ipotesi di “abuso” e ipotesi di “macchinazione priva di sostanza economica” (3)] e con sentenza n. 35575/2016 (4), che esplicita nel ritenere di escludere che vi sia elusione (e quindi mancato rilievo penale) in presenza di una diretta violazione di norme penali (oltre che amministrative).
Incline, invece, ad una generale irrilevanza penale delle condotte di abuso è la successiva sentenza della Corte di Cassazione n. 48293/2016 (5) che – affrontando il caso concreto di una operazione di scissione proporzionale di una società immobiliare che in realtà dissimulava una cessione di immobili – ha ritenuto che si debba escludere che operazioni esistenti e volute, ancorché prive di sostanza economica e capaci di realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti (il caso riguardava la contestazione di un reato di “dichiarazione infedele”); e ciò proprio sulla base del disposto di cui al comma 13 dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000.
Ma il tema è stato poi drasticamente riproposto, e risolto, recentemente, dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 38016/2017 (6), secondo la quale una cessione di immobili, dissimulata rappresentandola come una cessione di quote, determinerebbe la ricorrenza di un delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (evidentemente nel caso di superamento delle soglie quantitative di punibilità previste).
Nella specie infatti, secondo questa giurisprudenza, la simulazione posta in essere determinerebbe una falsità ideologica, penalmente rilevante, e dunque una condotta non qualificabile come abuso essendosi realizzata la violazione di una norma penale.
Orbene, una tale decisione lascia però grandemente perplessi, poiché dovrebbe essere chiaro che ogni ipotesi di abuso del diritto (ed elusione fiscale) passa necessariamente attraverso un mendacio finalizzato a conseguire vantaggi fiscali indebiti (primo comma dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 così come riformato) pur nel rispetto formale delle norme fiscali.
E ciò avviene nel contesto di una normativa che al comma 12 ulteriormente ribadisce come non si possa ravvisare un abuso qualora sia mancato tale “rispetto formale” e vi sia invece stata “una violazione di specifiche disposizioni tributarie”.
Dunque la disposizione di cui al comma 12 ribadisce e fortifica quella del precedente primo comma che richiama espressamente il rispetto formale delle norme fiscali.
Da tali disposizioni non sembra proprio si possa ricavare che il richiamo alle “disposizioni tributarie violate” riguardi anche le norme penali tributarie.
E ciò per l’ovvia considerazione che, seguendo una tale argomentazione, il successivo comma 13 sarebbe assolutamente inutile e pleonastico: in pratica si ridurrebbe ad affermare che non vi può essere reato se non vi è stata la violazione di una norma penale (!).
Laddove le condotte simulate e fraudolente, che fondano la responsabilità per il delitto di frode fiscale ex art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000 (e non ex art. 4!), sono del tutto antitetiche alle ipotesi di abuso del diritto [ciò si ricava agevolmente dall’art. 1, lett. g-bis) e g-ter), del D.Lgs. n. 74/2000, che esplicita l’interpretazione da dare alla stessa fattispecie di frode fiscale e ai suoi contenuti].
Il problema dunque si pone seriamente: se le decisioni della Corte di Cassazione si attesteranno sull’interpretazione ultimamente data, assisteremo all’“abrogazione di fatto” – da parte della giurisprudenza – del comma 13 dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000; fenomeno peraltro già realizzatosi, nel passato, con riferimento all’art. 47, terzo comma, c.p.; all’art. 59, secondo comma, c.p.; all’art. 7 del D.Lgs. n. 74/2000 antecedente alla riforma del 2015; e l’elenco potrebbe continuare.
In relazione a tutto ciò va sottolineato e ribadito come l’irrilevanza penale del fenomeno elusivo – che, quindi, non può più essere semplicisticamente accomunato, in prospettiva sanzionatoria, a quello evasivo – imponga oggi un più preciso utilizzo del concetto di “elusione/abuso”, in linea, del resto, con quanto previsto dallo stesso art. 10-bis della legge n. 212/2000, il quale, come già detto, al comma 12 precisa che «in sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie».
Infatti, pur se l’assenza di “violazione di specifiche disposizioni tributarie” caratterizzava già lo stesso concetto di elusione, ricavabile dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (ormai abrogato), e anzi ne rappresentava l’“essenza”, valendo a distinguere tale fenomeno dall’“evasione”, la giurisprudenza tendeva a parlare di “elusione” anche nel caso di diretta violazione di norme tributarie sostanziali (volte quindi a disciplinare il tributo), aventi semplicemente “ratio antielusiva”, com’è il caso, ad esempio, della disciplina concernente la residenza in materia di imposte sui redditi delle società (art. 73 del TUIR).
La stessa giurisprudenza di legittimità sopra richiamata (7), del resto, nella prima pronunzia in cui ha fatto applicazione della nuova disciplina, non ha mancato di rimarcare come «rimanga impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali – sempre, naturalmente, che ne sussistano i presupposti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive»; la precisazione appare corretta, sempre che il riferimento a «disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive» venga letto come relativo alla disciplina di carattere sostanziale, volta cioè a disciplinare i tributi, e per la quale la finalità antielusiva rappresenta tutt’al più la ratio ispiratrice.
È infatti sempre “dietro l’angolo” il pericolo di sovrapporre e confondere i concetti di “elusione” ed “evasione”.
Ed invero, già la stessa sentenza della Corte di Cassazione appena richiamata, sembra confermare il rischio di fraintendimenti.
Secondo la Suprema Corte, infatti, il nuovo art. 10-bis prevederebbe che l’abuso del diritto potrebbe essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possano essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni anche penali; ne deriverebbe, come già ricordato, che «la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare l’evasione e la frode; fattispecie che vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre».
Tali considerazioni, sviluppate anteriormente alla riforma dei reati tributari attuata con il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, hanno portato il giudice di legittimità a precisare, con un obiter dictum, che rimane salva «la possibilità di ritenere, nei congrui casi, che – alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici … – operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione».
In realtà, tali considerazioni sono il frutto di un’inaccettabile inversione concettuale, forse indotta anche dallo stesso disposto del comma 12 dell’art. 10-bis che, nel verosimile tentativo di escludere in radice ogni dubbio, esprime, come visto, un concetto già ricavabile dalla stessa definizione di “abuso/elusione” fornito dal primo comma, ribadendo che non si ha abuso quando vi sia “violazione di specifiche disposizioni fiscali”.
Tale ultima previsione vale in realtà semplicemente per ribadire che l’abuso si sostanzia nel procurarsi “vantaggi indebiti”, ottenuti “nel rispetto formale delle norme fiscali” (ved. art. 10-bis, primo comma): non v’è dubbio, infatti, che, laddove si violi una specifica disposizione fiscale, viene meno il «rispetto formale delle norme fiscali».
Parte della giurisprudenza, invero, sembra ricavare dal dettato normativo la possibilità di una sorta di “marginalizzazione” e “relativizzazione” del concetto di abuso, nel senso che, ove sia possibile ravvisare la violazione anche di una norma penale, non si sarebbe più in presenza di abuso.
A questo punto l’inversione concettuale è evidente: il diritto penale non può essere la chiave di lettura di un concetto tributaristico, espressamente individuato dal legislatore proprio come limite all’intervento penalistico. In altri termini, è il diritto tributario a offrire la definizione di elusione/abuso e a precisare che si tratta di un concetto che rimane al di fuori della sfera di operatività delle disposizioni incriminatrici, operando, in sostanza, come limite esegetico delle stesse fattispecie incriminatrici.
Il diritto penale, quindi, non può che prenderne atto. Del resto, non a caso, il disposto del comma 12 esclude la possibilità di ravvisare l’abuso solo ove risulti violata una “specifica disposizione tributaria”: è chiaro che solo la violazione di una norma volta a disciplinare il tributo può determinare evasione, escludendo, ab origine, che la condotta che viene in considerazione sia riducibile al concetto di elusione/abuso. In relazione a tutto ciò, la disciplina penale non dovrebbe giocare alcun ruolo.
C’è solo da augurarsi che prima che sul punto si formi una nomofilachia inderogabile (resa ormai possibile grazie al nuovo comma 1-bis dell’art. 618 c.p.p.) si prenda finalmente atto della portata innovativa del D.Lgs. n. 128/2015 e non si ricorra alla filosofia della penalizzazione ad ogni costo anche dei fenomeni elusivi.
Inoltre, per quanto concerne l’efficacia temporale, ai fini penalistici, della riforma operata con il D.Lgs. n. 128/2015 e, in particolare, dunque, del comma 13 del nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000, va ricordato come si sia chiarito – sia in dottrina che in giurisprudenza – che la disciplina intertemporale dettata dal quinto comma dell’art. 1 del detto decreto legislativo non possa in realtà riguardare gli aspetti penali e segnatamente il menzionato comma 13.
Ne consegue dunque la retroattività di tale ultima disposizione e dei suoi effetti.
Il tema, in sede giurisprudenziale (8), è stato risolto ritenendosi che nella specie si sarebbe realizzato un caso di abolitio criminis, come tale sottoposto alla disciplina di cui all’art. 2, secondo comma, c.p. (9).
Recentemente tale impostazione è stata però criticata (10) quanto alla sua configurazione giuridica. Infatti si è sostenuto che nella specie non si tratterebbe di una abolitio criminis, ma di una causa di non punibilità riprodotta, dunque, in una legge favorevole (lex mitior), come tale retroattiva ma coi limiti di cui al quarto comma dell’art. 2 c.p. (applicabile ai fatti pregressi salvo che sia intervenuto un giudicato).
La questione non è di semplice soluzione e merita qualche considerazione:
– è vero che nella specie non si è verificata una completa abolitio criminis, dal momento che continuano ad esistere i reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione cui, in giurisprudenza, talvolta, si era fatto ricorso, e impiego, in casi di elusione fiscale; si sarebbe invero realizzata, con l’abrogazione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e l’introduzione del nuovo art. 10-bis della legge n. 212/2000, unicamente una modifica di norme integratrici del precetto penale; il che sarebbe comunque sufficiente per ricorrere alla disciplina di cui al comma secondo dell’art. 2 c.p.; ciò con il limite concettuale, però, che la rilevanza penale dell’elusione fiscale era il frutto di una interpretazione di parte della giurisprudenza – contrastata in dottrina (11) – e non della pura e semplice esistenza, nell’ordinamento, della norma ex art. 37-bis poi abrogata o di altre;
– per ritenere che la attuale disposizione di cui al comma 13 dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 costituisca, tecnicamente, una “nuova” causa di non punibilità, bisognerebbe, evidentemente, fare riferimento ai reati che ne sarebbero incisi (dichiarazione infedele e omessa dichiarazione); ma ancora una volta emerge la considerazione di come sia in realtà probabile (o almeno ampiamente possibile) che dette fattispecie delittuose non avessero assolutamente bisogno di una tale “nuova” causa di non punibilità; potendo un tale risultato già essere raggiunto considerando di per sé incapace la disposizione di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 di determinare la “penalizzazione” della propria violazione;
– in considerazione di tutto ciò può ritenersi allora che il nuovo comma 13 abbia concretizzato e dichiarato in modo inequivoco la “volontà legislativa” di non ritenere penalmente rilevante una condotta che si svolga all’interno del perimetro di fattispecie elusive (e abusive) e dunque tenuta nel rispetto formale delle norme fiscali (e pertanto al di fuori della violazione di specifiche disposizioni tributarie: comma 12 del nuovo art. 10-bis).
In tale modo si sarebbe realizzata un’“interpretazione autentica” delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 74/2000 nella parte in cui vi sia il dubbio, e si realizzi la prospettiva, che si possano applicare a casi di elusione o di abuso. Un tale fenomeno (l’interpretazione autentica operata con legge) è certo presente nell’ordinamento, e a più riprese sia la Corte Costituzionale (12) che la Corte di Cassazione (13) ne hanno riconosciuto l’operatività e l’efficacia retroattiva, con il limite della “ragionevolezza” e della circostanza che essa non contrasti con valori e interessi altrui costituzionalmente protetti; e hanno altresì chiarito che non possa mai dirsi “irragionevole” nei casi in cui si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato che già era in essa contenuto, e per di più riconoscibile come una delle possibili letture del testo di legge interessato.
Orbene, alla luce di ciò, può dunque ritenersi che nella specie si sia realizzata proprio una sorta di interpretazione autentica, retroattiva e, si può ritenere, nella specie, parificabile, quanto ad effetti, alla abolitio criminis (14).

Prof. Alessio Lanzi
Ordinario di diritto penale
nell’Università di Milano Bicocca

* Il presente lavoro riproduce, in parte, il testo di una Relazione tenuta ad un convegno A.N.T.I., a Milano, in data 17 ottobre 2017 ed è in corso di pubblicazione anche sulla Rivista della Guardia di Finanza.
(1) Cfr. Cass., sez. III pen., 7 ottobre 2015, n. 40272, in Boll. Trib., 2016, 153, con nota di V. AZZONI, Sull’abuso del diritto e le sanzioni penal-tributarie.
(2) Cfr. Cass., sez. II pen., 16 ottobre 2015, n. 41755, in Boll. Trib. On-line.
(3) Così la massima: «La penale irrilevanza delle condotte di “abuso del diritto” e di elusione fiscale presuppone che l’operazione, pur principalmente finalizzata al conseguimento di un vantaggio tributario, sia tuttavia caratterizzata da una effettiva e reale funzione economico sociale meritevole di tutela per l’ordinamento, tale non potendosi ritenere un’operazione che sia, viceversa, meramente simulata e costituente un mero simulacro privo di qualsivoglia effettivo contenuto. In quest’ultimo caso, infatti, ci si troverebbe di fronte, non tanto ad una ipotesi di abuso di un pur sussistente e valido negozio giuridico, quanto ad una vera e propria macchinazione priva di sostanza economica, il cui unico scopo, anche attraverso il sapiente utilizzo di strumenti negoziali fra loro collegati, sarebbe quello di raggiungere un indebito e penalmente rilevante vantaggio fiscale».
(4) Cfr. Cass., sez. III pen., 29 agosto 2016, n. 35575, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Cass., sez. III pen., 16 novembre 2016, n. 48293, in Boll. Trib. On-line.
(6) Cfr. Cass., sez. III pen., 31 luglio 2017, n. 38016, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. Cass. pen. n. 40272/2015, cit.
(8) Cfr. Cass. n. 40272/2015, cit.; e Cass. n. 35575/2016, cit.
(9) Così anche, in dottrina, fra gli altri, F. MUCCIARELLI, Abuso del diritto e reati tributari: la Corte di Cassazione fissa limiti e ambiti applicativi, in wwww.penalecontemporaneo, 9 ottobre 2015.
(10) Cfr. L. PICOTTI, Riflessi penali delle recenti riforme sull’abuso del diritto in campo tributario, in www.penalecontemporaneo, 13 settembre 2017.
(11) Sul tema, in relazione alla normativa previgente, mi permetto rinviare ad A. LANZI – P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, Padova, 2014, 183 ss.
(12) Tra le tante Corte Cost. 30 settembre 2011, n. 257, in Giur. costit., 2011, 3428; Corte Cost. 12 novembre 2002, n. 446, ivi, 2002, 3658; e Corte Cost. 22 novembre 2000, n. 525, in Boll. Trib. On-line.
(13) Cfr. da ultimo, Cass., sez. II pen., 3 dicembre 2015, n. 47772, in Boll. Trib. On-line.
(14) Anche se diversi ne sono i contenuti dogmatici e concettuali, si veda F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2017, 83 s.

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