24 Maggio, 2017

SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Posizione OCSE: le holding non sono conduit “tout court” – 3. Holding vs conduit: le decisioni ISS e Prévost Car – 4. Agenzia delle entrate e trends internazionali a confronto – 5. Piercing corporate’s veil: giurisprudenza internazionale – 6. Piercing corporate’s veil: libertà di stabilimento – 7. Conclusioni.

1. Introduzione

La circolare 30 marzo 2016, n. 6/E (1), ha riconosciuto la legittimità delle operazioni di “leveraged buy-out” (“LBO”), affrontando, in particolare (paragrafo 3.4) il trattamento fiscale da assegnare ai dividendi distribuiti ad un veicolo estero (“HoldCo”, non residente in Italia) da una società “MergerCo” (residente in Italia, e risultante dalla fusione della NewCo con la Target) attraverso l’impiego di strutture intermedie conduit, impiegate allo scopo di beneficiare di una riduzione della ritenuta applicabile sui dividendi outbound (normalmente pari al 26 per cento) a quella minore prevista dalla convenzione applicabile, o addirittura ad un suo azzeramento, nel caso di detenzione di partecipazione qualificata da parte di soggetto residente in un Paese UE (2) (3). Secondo l’Agenzia delle entrate è possibile procedere al disconoscimento ai fini convenzionali del veicolo intermedio – ed applicare la ritenuta nella misura piena – qualora sia privo della necessaria sostanza economica (4); ciò si verifica, inter alia, nel caso di strutture organizzative “leggere”.
Ciò posto, la generica assimilazione tra struttura organizzativa leggera e conduit rischia di includere nel concetto di conduit company quello di holding company, giungendo alla conclusione – inaccettabile sul piano giuridico – per cui tutte le holding sarebbero da considerare alla stregua di mere conduit.

2. Posizione OCSE: le holding non sono conduit “tout court”

In ambito OCSE (5), il termine “beneficial owner” è stato introdotto nell’art. 10, paragrafo 1, del modello OCSE del 1977, al fine di escludere esplicitamente che i benefici convenzionali siano conseguiti da soggetti localizzati in Stati terzi, attraverso l’intervento di meri intermediari, quali agenti e rappresentanti. A tale proposito viene evidenziato come non sia possibile rinvenire alcuna intenzione originaria di assimilare le holding a tali figure. Segnatamente, ipotizzando che la holding (“HoldCo”) detenga partecipazioni nella società “X”, HoldCo è – di regola – considerata beneficial owner dei dividendi derivanti dalle partecipazioni detenute in “X”. Negare tale conclusione porterebbe alla conseguenza estrema di considerare beneficial owner del dividendo non già la holding, bensì i suoi soci, il che è escluso dalla scelta di utilizzare il termine “beneficial owner”, in luogo di “final recipient”, come evidenziato dallo stesso professor Stef van van Weeghel, chiamato ad esprimere la propria posizione sul tema, nella causa Prévost Car.
Ciò posto, in base al modello OCSE, di regola le holding – non già i soci delle stesse – devono essere considerate beneficial owner dei dividendi ad esse corrisposti, salvo che l’Amministrazione finanziaria fornisca solide prove di abuso del trattato. Solo in questo caso la holding può essere trattata, sotto il profilo fiscale, alla stregua di una conduit company. Tali conclusioni sono state recepite in toto dalla giurisprudenza internazionale (6), che ha confermato la natura eterogenea e distinta tra holding e conduit companies.

3. Holding vs conduit: le decisioni ISS e Prévost Car

Sul piano del diritto internazionale, la giurisprudenza ha evidenziato che disconoscere alle holding la possibilità di essere beneficiarie effettive dei dividendi creerebbe insanabili distorsioni e contraddizioni all’interno dell’ordinamento giuridico. Il tema è stato specificamente affrontato dalla Corte danese (Ostre Landsret) nel caso ISS (7) (8), in cui un pool di private equity funds risulta avere costituito una holding in Danimarca (Dan 1), effettuato una contribuzione in conto capitale, e ricevuto in cambio le azioni di Dan 1. Successivamente le azioni di Dan 1 sono conferite ad una holding lussemburghese (Lux 1) che a sua volta conferisce le azioni di Dan 1 ad un’ulteriore subholding lussemburghese (Lux 2). Si crea, pertanto, una catena societaria in cui il pool detiene Lux 1 che a sua volta detiene Lux 2 che a sua volta detiene Dan 1.
Secondo quanto previsto dal Danish Corporate Income Act i dividendi outbound distribuiti da società residenti in Danimarca sono assoggettati ad una ritenuta alla fonte, salva l’applicazione della esenzione derivante dalle direttive comunitarie, ovvero la riduzione derivante dall’applicazione della convenzione applicabile. Nel caso de quo, mentre il taxpayer ritiene che i dividendi distribuiti da Dan 1 a Lux 2 siano soggetti alla aliquota convenzionale, prevista dal trattato Danimarca-Lussemburgo, l’Amministrazione finanziaria ne contesta l’applicazione, ritenendo che Lux 2 sia una mera conduit company posta in essere per trasferire i dividendi – in un meccanismo “circolare” – da Lux 2 a Lux 1 e da questa al pool di investitori residenti in Stati privi di trattato con la Danimarca. Decidendo in favore del taxpayer, la Corte conclude che uno Stato non può applicare una presunzione di abuso basata solamente sul fatto che una holding company riceva dividendi da una subsidiary residente in un altro Stato. Segnatamente, negare in via di principio alle holding la possibilità di essere beneficial owner dei dividendi distribuiti dalle proprie subsidiaries (9) porterebbe alla conseguenza paradossale per cui l’ordinamento giuridico, da un lato, autorizzerebbe le società holding a detenere partecipazioni ed a conseguirne i dividendi (tramite la predisposizione di norme di diritto commerciale ad hoc) dall’altro tuttavia in modo contraddittorio negherebbe a tali soggetti la qualifica di beneficiario effettivo degli stessi dividendi così percepiti. Da ciò consegue – ad avviso della Corte – che nel caso di holding intermedia non dovrebbe avere alcuna importanza la collocazione della compagine sociale della stessa né il semplice fatto che detta entità svolga attività di ordinaria gestione e coordinamento delle partecipate. Al contrario, la qualifica di beneficial owner deve essere riconosciuta fintanto che non sia dimostrato dall’erario che le citate attività di gestione e coordinamento eccedano gli ordinari canoni manageriali dei gruppi internazionali e, segnatamente, che l’ultimo proprietario eserciti controlli sulla società conduit al di là della ordinaria pianificazione e coordinamento normalmente esistenti in tali gruppi.

4. Agenzia delle entrate e trends internazionali a confronto

L’approccio alle strutture holding riservato dall’Agenzia delle entrate appare così distonico rispetto a quello internazionale. L’Agenzia delle entrate sottolinea – nella circolare 8 luglio 2011, n. 32/E (10) – che in merito alle strutture holding vige una sorta di presunzione di artificiosità, desunta dal fatto che le holding di regola non sviluppano nella loro attività una “presenza fisica significativa”. L’Amministrazione finanziaria italiana utilizza come criterio discretivo l‘attività che la holding svolge, evidenziando che «vi sono holding che esercitano concretamente attività di gestione e coordinamento delle partecipazioni detenute ed erogano servizi in modo accentrato alle società controllate, ed holding che, diversamente, si limitano a detenere partecipazioni e ad incassare i relativi frutti senza svolgere attività». Secondo l’Agenzia delle entrate queste ultime non svolgono un’attività economica, e quindi non possono essere considerate beneficiarie effettive dei dividendi da esse percepiti. Ma il criterio dell’attività non è quello dell’ambiente internazionale, che ben capisce come esso finisca per appiattire il concetto di holding in quello di conduit.

5. Piercing corporate’s veil: giurisprudenza internazionale

Più profondamente: negare alle holding la possibilità di essere beneficial owner dei dividendi porta come conseguenza a disconoscerne la stessa personalità giuridica, attribuita loro dall’ordinamento nel quale sono state costituite con ricadute che vanno al di là di quelle solo tributarie.
Del tema, la giurisprudenza internazionale si è occupata nei casi Prévost Car, Velcro Canada e nel caso ISS.
In Prévost Car, la società Prévost Car. Inc. (residente in Canada) è controllata da Prévost Holding BV (sub-holding olandese) a sua volta partecipata al 51 per cento da Volvo Bussar A.B. (società svedese) ed al 49 per cento da Henlys Group PLC (società del Regno Unito). A Prévost viene contestata l’applicazione dell’aliquota convenzionale ridotta (i.e., 5 per cento, prevista dal trattato Canada-Paesi Bassi) sui dividendi outbound distribuiti alla propria controllante olandese (Prévost Holding BV) negando la natura di beneficial owner di quest’ultima, in quanto dotata di struttura “leggera” (i.e., assenza di uffici e di personale in Olanda, esistenza di un accordo parasociale per la distribuzione periodica di almeno l’80 per cento degli utili, indicazione degli azionisti svedesi ed inglesi quali beneficiari economici ai fini della normativa antiriciclaggio).
In applicazione della nozione elaborata in sede internazionale, secondo cui il beneficial owner è il soggetto che riceve il reddito in nome proprio e per proprio uso, assumendo il rischio ed il controllo di quanto ricevuto, la Corte canadese ritiene che Prévost Holding BV sia beneficiaria effettiva dei dividendi, in quanto iscritti nel suo bilancio, aggredibili dai suoi creditori (confluendo nel suo patrimonio) e soggetti a distribuzione – nonostante l’esistenza di accordi parasociali sul quantum da distribuire – conseguente ad autonoma delibera da parte dell’organo assembleare della holding stessa, delibera che non può che dipendere dalle condizioni di legittimità formale e sostanziale dell’ordinamento. In Prévost è stato, dunque, confermato – apertis verbis – che alle holding companies non può essere negata la qualifica di beneficiario effettivo, in relazione alla loro struttura “leggera” (per utilizzare il linguaggio dell’Agenzia delle entrate), con impossibilità dunque di attribuire agli shareholders della stessa la qualifica di beneficiario effettivo dei dividendi. Per giungere a tale conclusione occorre un quid pluris: la holding deve possedere una struttura conduit, il che accade – interpretando a contrario gli indici individuati dalla Corte canadese – ogniqualvolta la stessa non abbia il potere di disporre dei fondi ricevuti poiché, ad esempio, gli stessi non rientrano nel suo patrimonio, non sono, dunque, aggredibili da parte dei suoi creditori, e la società non ha pieno potere di disporne. Solo in quest’ultimo caso è consentito infrangere il “velo” della personalità giuridica della legal entity e considerare come beneficial owner del reddito i soci della holding stessa (11).
Quanto appena esposto trova conferma nel caso Velcro Canada, nel quale una società residente nei Paesi Bassi – Velcro Industries BV – stipula un accordo con Velcro Canada Inc., attribuendo a quest’ultima il diritto all’utilizzo della proprietà intellettuale per la fabbricazione e la vendita dei prodotti, prevedendo come corrispettivo il pagamento di royalties dovute in base ad un License Agreement, sulle quali viene operata la ritenuta convenzionale del 10 per cento, in luogo dell’aliquota domestica del 25 per cento. A seguito di riorganizzazione societaria, Velcro Industries sposta la propria residenza nelle Antille Olandesi, Paese privo di convenzione contro le doppie imposizioni con il Canada; per ovviare a ciò, la società mantiene la titolarità dell’originario License Agreement e assegna i diritti e obblighi da questo derivanti a Holdings BV (una subsidiary residente nei Paesi Bassi) trasmettendole il diritto di concedere licenze sulla proprietà intellettuale a Velcro Canada e di ricevere da quest’ultima il pagamento delle royalties. A sua volta, Holdings si impegna a corrispondere a Velcro Industries una somma pari al 90 per cento delle royalties ricevute da Velcro Canada, entro 30 giorni dal loro ricevimento applicando la ritenuta convenzionale ridotta e addirittura – a partire da una certa data – pari a zero, a seguito delle modifiche del trattato vigente. L’Autorità fiscale canadese contesta la mancata applicazione della ritenuta interna del 25 per cento, disconoscendo a Holdings la natura di beneficial owner ed attribuendola agli shareholders di quest’ultima, residenti nelle Antille Olandesi. La ratio consiste nell’affermazione che la holding non ha il possesso, l’uso, il rischio, il controllo dell’ammontare ricevuto dal Canada (applicando i quattro criteri elaborati nel caso Prévost).
Decidendo a favore del taxpayer, la Corte canadese ritiene che Holdings sia la beneficial owner del reddito ricevuto, in quanto titolare del diritto contrattuale a ricevere il pagamento del reddito (che non è oggetto di trasferimento automatico a Velcro Industries, ma soggetto a deliberazione amministrativa in tal senso), riceve i pagamenti su conto corrente bancario a sua esclusiva disposizione (sul quale affluiscono anche somme diverse dalle royalties), sostiene il rischio di cambio (essendo i canoni corrisposti in valuta canadese) trasferisce a Industries una percentuale determinata dei canoni ricevuti (circa il 90 per cento), trattenendo la parte restante.
Nei leading cases testè esposti le Corti hanno affermato – come regola generale – che non è possibile negare alle holding la natura di beneficiarie effettive del reddito ad esse corrisposto, disconoscendone la personalità giuridica, in quanto legal entities dotate di propria personalità giuridica («it is not likely to pierce the corporate veil»).
Ciò è possibile solamente in casi eccezionali, qualora l’entità non abbia alcuna discrezionalità nell’utilizzo dei fondi che percepisce («absolutely no discretion regarding the use of the funds») o agisca su istruzione di soggetti terzi, senza possibilità di discostarsi da tali istruzioni («or has agreed to act on someone else’s behalf pursuit to that person’s istructions without any right to do other than what that person instructs it»).
In senso conforme è anche la decisione pronunciata dal Tax Tribunal coreano, circa la distribuzione di dividendi da parte di società holding residenti in Corea nell’ambito proprio di un’operazione di LBO. Secondo l’Autorità fiscale coreana tali holding devono essere considerate trasparenti sotto il profilo fiscale e il pagamento degli interessi tassato come se corrisposto direttamente agli investitori stranieri (soci delle holding residenti in Corea) in quanto – a parere dell’Autorità – l’operazione risulta priva di valide ragioni economiche («valid business purposes») diverse dall’elusione fiscale («other than to avoid taxes»).
Nello specifico, all’interno di un’operazione di LBO, alcuni fondi di private equity stabiliti nelle isole Cayman (c.d. “Cayman Funds”) costituiscono due società holding in Corea (c.d. “Domestic HoldCos”). Le Domestic HoldCos procedono all’acquisto del cento per cento delle azioni della società coreana Target, finanziandosi, prevalentemente, attraverso il ricorso a prestiti da banche coreane e fornendo in garanzia gli assets e le azioni della Target. Dopo l’acquisto delle azioni nella Target, le Domestic HoldCos impiegano i dividendi ricevuti dalla Target per rimborsare il capitale e gli interessi dei finanziamenti. Con riguardo ai dividendi corrisposti alle Domestic HoldCos, la Target non opera alcuna ritenuta alla fonte, in conformità alle disposizioni della Corporate Income Tax Law coreana, che prevede la non applicazione di ritenute sui pagamenti di dividendi tra società residenti in Corea. Questo comportamento viene contestato dall’Amministrazione fiscale coreana, secondo cui Target dovrebbe applicare le ritenute alla fonte, in quanto i beneficial owner dei dividendi sarebbero i Cayman Funds, titolari sostanziali dei dividendi.
Il Tax Tribunal coreano decide a favore del taxpayer, ponendosi in linea con quanto già affermato dalla costante giurisprudenza della Corte Suprema coreana, secondo cui una legal entity costituta in base alle leggi coreane non può essere considerata trasparente per il fatto di essere priva di una presenza “fisica” in loco. Al contrario, per giungere ad una tale conclusione l’Amministrazione finanziaria deve provare che non vi siano valide ragioni economiche («valid business purposes») sottostanti all’operazione, e che la stessa sia sorretta dal mero proposito di eludere la normativa fiscale («other than to avoid taxes»). Nel caso di specie, il Tribunale coreano ritiene sussistenti i valid business purposes, rappresentati dal fatto che le Domestic HoldCos siano state costituite al fine di raccogliere le risorse finanziarie necessarie per l’operazione e collocate nel medesimo paese della Target allo scopo di meglio gestire e controllare i finanziamenti necessari per l’operazione di LBO.

6. Piercing corporate’s veil: libertà di stabilimento

L’approccio del c.d. piercing corporate’s veil (i.e., superamento della personalità giuridica) della holding crea conflitti con l’esercizio delle libertà comunitarie e, segnatamente, la libertà di stabilimento. Come chiarito dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel leading case Cadbury Schweppes (12), l’obiettivo perseguito dal principio di libertà di stabilimento è favorire la compenetrazione economica e sociale nel territorio della Comunità degli attori economici degli Stati UE, con la conseguenza che non abusa della libertà di stabilimento chi esercita nello Stato membro ospite un’attività economica reale, a prescindere dai motivi sottostanti, anche se legati al differente livello impositivo previsto dallo Stato, che costituisce un legittimo fattore di localizzazione dell’investimento (13).
D’altro canto, l’esigenza di evitare la frammentazione del mercato unico in una pluralità di mercati deve essere bilanciata dalla sovranità degli Stati nell’imposizione diretta e dalla esigenza di evitare il proliferare di pratiche abusive. Punto di equilibrio di tali esigenze è fissato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea nel ritenere che una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale (14).
Ciò che identifica la pratica abusiva è l’assenza di contenuti economici reali, quale ad esempio una società fantasma, una società letter-box, uno schermo (15).
Con specifico riguardo al tema del rapporto tra libertà di stabilimento e personalità giuridica la Corte di Giustizia dell’Unione europea (16) ha ritenuto incompatibili con l’esercizio della libertà di stabilimento in ambito europeo le norme greche che prevedono l’estensione delle sanzioni irrogate nei confronti delle società (operanti nel settore televisivo) anche ai soci che ne detengono più del 2,5 per cento del capitale azionario. Come sottolineato dall’Avvocato Generale, l’art. 43 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea C2012/326/01 osta a qualsivoglia normativa nazionale che, sebbene applicabile senza discriminazioni basate sulla nazionalità, risulti tuttavia idonea ad impedire o a scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini comunitari, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato. Ciò comporta non solo il divieto di discriminazioni manifeste od occulte, ma anche il divieto di restrizioni, quali normative nazionali idonee ad impedire o anche solo “scoraggiare” l’esercizio della libertà stessa, che si verificherebbe nel caso di un eventuale superamento del principio di limitazione della responsabilità delle società per azioni. Il rischio di una responsabilità solidale e personale dei soci derivante dal piercing corporate’s veil comporterebbe, dunque, l’effetto di scoraggiare le imprese che intendano spostare la propria sede da un altro Stato membro, pregiudicando l’esercizio della libertà di stabilimento. Non si vedono ragioni giuridiche per cui tali considerazioni non possano spiegare i propri effetti anche a quelle ipotesi di disconoscimento della personalità giuridica che si concretano nella negazione alle holding della natura di beneficial owner, identificando quali beneficiari effettivi gli shareholders delle stesse.

7. Conclusioni

In sede internazionale le holding sono riconosciute come legal entities dotate di struttura “leggera” per antonomasia – ontologicamente distinte dalle conduit – e in linea di principio beneficial owner dei redditi derivanti dagli assets da esse detenuti, salvo che l’erario non provi, sulla base di specifici e concreti indici, che siano conduit. Il fatto che la holding non svolga un’attività “pesante” non è affatto sufficiente. Anzi, il “peso” dell’attività appare del tutto inconferente quale criterio discretivo. La giurisprudenza esaminata mostra di avere piena conoscenza che le holding hanno un’attività leggera e si concentra su criteri molto più specifici e pertinenti. Ad esempio, si pone il problema se la holding esaminata abbia o meno il controllo sul reddito, avendo il potere di deciderne la destinazione addirittura in violazione di specifici accordi contrattuali che le impongano certi comportamenti a favore dei propri soci o di terzi portatori di diritti, o se il reddito de quo sia aggredibile dai suoi creditori, o se la holding corra dei rischi nella gestione del reddito (ad esempio il rischio di cambio). In chiave comunitaria, poi, emerge con evidenza come il disconoscimento tributario della holding abbia molto a che vedere con il principio di libertà di stabilimento, e sia visto con un certo sfavore da parte dei giudici di Strasburgo. Conclusivamente ci sembra di potere affermare che l’Amministrazione finanziaria italiana stia assumendo posizioni che la pongono in conflitto con la giurisprudenza internazionale e con le regole europee. Si porrà così l’opportunità per chi sia soggetto ad accertamenti basati su simili posizioni di chiedere che la materia sia portata all’attenzione della Corte di Giustizia europea.

Avv. Stefano Morri – Avv. Stefano Guarino

(1) In Boll. Trib., 2016, 616.
(2) A norma dell’art. 26-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la ritenuta non è applicata, o se applicata può essere chiesta a rimborso, per le società che detengono una partecipazione diretta non inferiore al 20 per cento del capitale della società che distribuisce gli utili se: a) rivestono una delle forme previste nell’allegato della Direttiva n. 435/90/CEE del Consiglio del 23 luglio 1990; b) risiedono, ai fini fiscali, in uno Stato membro dell’Unione europea, senza essere considerate, ai sensi di una Convenzione in materia di doppia imposizione sui redditi con uno Stato terzo, residenti al di fuori dell’Unione europea; c) sono soggette, nello Stato di residenza, senza fruire di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati, ad una delle imposte indicate nella predetta direttiva; d) la partecipazione sia detenuta ininterrottamente per almeno un anno.
(3) Inoltre, a norma dell’art. 26, comma 3-ter, del D.P.R. n. 600/1973, la ritenuta è operata a titolo di imposta e con l’aliquota dell’1,375 per cento sugli utili corrisposti alle società e agli enti soggetti ad un’imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella lista di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’art. 168-bis del TUIR, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ed ivi residenti, in relazione alle partecipazioni, agli strumenti finanziari di cui all’art. 44, secondo comma, lett. a), del predetto testo unico, e ai contratti di associazione in partecipazione di cui all’art. 109, nono comma, lett. b), del medesimo testo unico, non relativi a stabili organizzazioni nel territorio dello Stato.
(4) Attraverso il disconoscimento della struttura intermedia, verranno negati anche gli eventuali benefici previsti dalle direttive, trattati o convenzioni, sui dividendi corrisposti. Nello specifico, (i) esenzione della ritenuta in applicazione dall’art. 27-bis del D.P.R. n. 600/1973, (ii) ritenuta ridotta nei confronti di società ed enti soggetti ad un’imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell’UE e negli Stati SE, in applicazione del comma 3-ter dell’art. 27 del D.P.R. n. 600/1973, (iii) ritenuta convenzionale nei confronti dei soggetti extraUE residenti in uno Stato con cui esiste una convenzione contro le doppie imposizioni.
(5) Si tratta del parere espresso dal prof. Stef van Weeghel, nella causa Prevost Car di cui amplius infra. Cfr. https://www.pwc.com/ca/en/in-print/publications/pwc-beneficial-ownership-treaty-anti-avoidance-tool-2012-06-en.pdf.
(6) Cfr. nota n. 4.
(7) Ci si riferisce alle decisioni adottate dalla Corte danese (Ostre Landsret) in data 20 dicembre 2011, nel caso ISS, dalla Corte Federale canadese (Federal Court of Appeal), caso Prévost Car Inc., 26 febbraio 2009, dal Tribunale fiscale sud coreano (Tax Tribunal) caso, 28 dicembre 2015.
(8) Cfr. M. LENOTTI, Il rilievo internazionale del “beneficiario effettivo” nelle holding di partecipazioni, in Fiscalità & Commercio Internazionale, 2012, 14.
(9) Tax Treaties, Case Law around the Globe 2012, IBFD, 167.
(10) In Boll. Trib., 2011, 1125.
(11) Cfr. Presvost Car Inc. v The Queen, 2008 TCC, 231: «one does not look through a corporation to its shareholders as the beneficial owners of corporate property unless the corporation has no discretion to deal with the property on its own or is acting as a mere trustee».
(12) Corte Giust. CE, sez. grande, 12 settembre 2006, causa C-196/04, in Boll. Trib. On-line.
(13) Cfr. S. CIPOLLINA, Cfc legislation e abuso della libertà di stabilimento: il caso Cadbury Schweppes, in Riv. dir. fin., 2007, 3.
(14) Cfr. nota sub 10.
(15) Cfr. nota sub 10.
(16) Corte Giust. UE, sez. II, 21 ottobre 2010, causa C-81/09, in Boll. Trib. On-line.

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