12 Ottobre, 2018

SOMMARIO: 1. Introduzione: lo spreco alimentare – 2. La nozione di derrate alimentari e il principio di prevenzione – 3. La legge 19 agosto 2016, n. 166 – 4. Cessioni gratuite ed esenzione IVA – 5. Riflessioni sulla natura di tributo ambientale delle norme analizzate – 6. Dalle derrate alimentari ai rifiuti organici: il ruolo della fiscalità.

1. Introduzione: lo spreco alimentare

Nel corso degli ultimi anni, il tema della gestione delle derrate alimentari è stato oggetto di numerosi studi e analisi, con l’obiettivo della diminuzione degli sprechi (1): varie sono state le iniziative di politica legislativa, a livello sia comunitario sia nazionale.
Da ultimo, nel dicembre 2015 la Commissione europea ha emanato un pacchetto di misure volte al raggiungimento della c.d. “economia circolare”: un modello che pone al centro la sostenibilità del sistema, in cui non vi siano prodotti di scarto e in cui le materie vengano costantemente riutilizzate (2).
Queste tecniche legislative sono state seguite, nel panorama europeo, da numerosi Paesi.
A titolo esemplificativo, l’Assemblea nazionale francese ha approvato il 15 maggio 2015 tre emendamenti a una legge che sanzionano penalmente (con multe fino a 75 mila euro e la reclusione fino a due anni) i supermercati delle grandi catene che omettono di donare gli alimenti invenduti ad associazioni di beneficenza.
In particolare, per indurre consumatori e produttori ad adottare comportamenti più sostenibili è stata utilizzata anche la leva fiscale, come si vedrà nel prosieguo della trattazione.
La genesi delle menzionate iniziative volte alla riduzione degli sprechi alimentari si rinviene nei dati allarmanti sullo spreco alimentare (3).
Inoltre, la gestione sostenibile delle risorse alimentari è fortemente connessa con tematiche di carattere economico, ambientale e sociale (4).
Nell’ordinamento italiano sono state accolte tali esigenze mediante l’approvazione della legge 19 agosto 2016, n. 166, recante «Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi».
Quest’ultimo intervento positivo può costituire l’occasione per puntualizzare alcuni aspetti in merito alla fiscalità delle derrate alimentari, sia dal punto di vista delle imposte sui redditi e dell’IVA, sia dal punto di vista delle accise e dei tributi locali.

2. La nozione di derrate alimentari e il principio di prevenzione

Prima di analizzare la nuova disciplina degli sprechi, è necessario definire l’espressione “derrata alimentare”, con la quale si fa solitamente riferimento (nella legislazione) a prodotti agro-alimentari idonei all’alimentazione umana, a prescindere dalla circostanza che vengano immessi in commercio o meno (5). Utilizzeremo quindi in questa sede il termine derrata alimentare riferendolo al prodotto alimentare in generale e, solo laddove specificato espressamente, al prodotto alimentare ceduto per scopi di solidarietà sociale.
Occorre partire da una constatazione che potrebbe apparire ovvia: le derrate alimentari vengono solitamente commercializzate. In tal caso esse vengono acquistate e a seguito di consumo producono scarti, che sono costituiti da materiale di imballaggio e confezionamento oltre che da residui vegetali e animali non commestibili o non facilmente riutilizzabili dal consumatore finale.
Può accadere anche che una derrata alimentare non venga commercializzata, e ciò si verifica principalmente in due casi. Innanzitutto, allorquando il prodotto alimentare non possa essere immesso in commercio o, se immesso in commercio, venga ritirato (e ciò si verifica quando è spirata la data di scadenza o è decorso il termine minimo di conservazione). L’art. 9, primo comma, lett. f), del Regolamento UE n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011 prevede il termine minimo di conservazione e la data di scadenza, quali indicazioni che devono essere obbligatoriamente riportate sull’etichetta dei prodotti alimentari (6).
A norma dell’art. 10-bis del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 – come modificato dal D.Lgs. 23 giugno 2003, n. 181 – la data di scadenza indica il termine entro il quale il prodotto deve essere consumato. Per i prodotti confezionati deperibili che possano costituire un pericolo per la salute, essa sostituisce il termine minimo di conservazione e viene espressa con la dicitura «Da consumarsi entro» alla quale deve seguire una data che deve essere espressa seguendo la scansione giorno, mese e anno, oltre l’enunciazione delle condizioni di conservazione. Poiché tale data – come peraltro precisato dall’art. 24 del Regolamento UE n. 1169/2011 – riguarda i prodotti alimentari molto deperibili, che pertanto comporterebbero, dopo un breve periodo, un pericolo immediato per la salute umana, una volta decorsa la medesima, il prodotto è considerato a rischio a norma dell’art. 14 del Regolamento CE n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002 e non può essere immesso in commercio o, se è già stato immesso, deve essere ritirato.
A norma dell’art. 10 del D.Lgs. n. 109/1992 – come modificato dal D.Lgs. n. 181/2003 – il termine minino di conservazione si riferisce invece alla data entro la quale il prodotto, se correttamente conservato, mantiene intatte le sue proprietà. Viene espresso con le diciture «Da consumarsi preferibilmente entro …» o «Da consumarsi preferibilmente entro la fine di …»; quest’ultima solo qualora la data non contenga l’indicazione del giorno.
La violazione delle disposizioni di cui agli artt. 10 e 10-bis del D.Lgs. n. 109/1992 è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria (7).
In secondo luogo, la derrata alimentare può non essere immessa in commercio per motivi estetici, economici, o perché risultato di un eccesso di produzione, o perché la decorrenza del termine di cui all’art. 9 del Regolamento UE 1169/2011 è imminente. In questo caso la soluzione preferibile è evitare che tali prodotti diventino rifiuti, allo scopo di prevenirne quanto più possibile la produzione.
Infatti la Direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 e il D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, di attuazione della stessa, delineano una vera e propria gerarchia di principi per la gestione del rifiuto nel rispetto dell’ambiente al cui vertice si pone il principio di prevenzione (8).
Il suo fondamento giuridico risiede essenzialmente in considerazioni di tipo economico (prevenire la produzione del rifiuto è infatti più economico che gestirlo una volta prodotto) e ambientale (maggiori sono i rifiuti prodotti, maggiore sarà il relativo impatto ambientale ed economico dal momento che gli stessi processi di trattamento del rifiuto per il riciclo e il recupero producono a propria volta inquinamento).
In questa prospettiva, una delle soluzioni preferibili è la raccolta delle eccedenze della produzione agricola, dell’industria (alimentare e della grande distribuzione), della ristorazione organizzata, seguita dalla cessione alle persone in difficoltà (9).

3. La legge 19 agosto 2016, n. 166

La legge 19 agosto 2016, n. 166, c.d. “anti-sprechi”, è stata fortemente voluta dal Governo italiano per recuperare circa un milione di tonnellate di cibo che annualmente vengono eliminate, seppur ancora consumabili (10). In particolare, la legge è finalizzata al recupero e alla donazione dei beni alimentari e farmaceutici, in favore di soggetti che svolgono attività senza scopo di lucro.
La legge n. 166/2016 definisce anzitutto come “spreco alimentare” l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare ancora consumabili, ma destinati a essere smaltiti come rifiuti; e come “eccedenze alimentari” i prodotti alimentari che, pur in possesso dei requisiti di igiene e sicurezza, rimangono invenduti per varie cause.
In estrema sintesi, l’art. 3 della citata novella legislativa consente agli operatori del settore alimentare, i quali saranno comunque responsabili della salubrità dei beni ai sensi del Regolamento CE n. 852/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, di cedere le eccedenze prodotte durante lo svolgimento dell’attività commerciale. Ovviamente, tale cessione dovrà essere a titolo gratuito e, inoltre, gli alimenti ceduti dovranno essere destinati in via prioritaria al consumo umano; al contrario, vista la perdita delle qualità organolettiche, verranno destinati all’alimentazione animale o al compostaggio tutti i prodotti rientranti nella nozione di “spreco alimentare”.
Tale cessione di beni da parte degli operatori è ricondotta all’istituto giuridico della donazione ma, in deroga alle norme del codice civile in materia, non è richiesta la forma scritta. Quest’ultima sarà sostituita da una comunicazione telematica agli uffici dell’Amministrazione finanziaria, contenente tutti gli elementi essenziali per l’identificazione del prodotto e del soggetto cedente. Infine, gli operatori alimentari non saranno obbligati a trasmetterla, nel caso in cui gli alimenti ceduti non superino il valore complessivo di euro 15.000, ovvero qualora la cessione riguardi beni deperibili.
Le descritte liberalità consentono ai cedenti di poter fruire di benefici fiscali: infatti, l’art. 17 della legge n. 166/2016 ha modificato la legge 27 dicembre 2013, n. 147, prevedendo che i Comuni potranno «applicare un coefficiente di riduzione della tariffa proporzionale alla quantità, debitamente certificata, dei beni e dei prodotti ritirati dalla vendita e oggetto di donazione». Pertanto, nel caso in cui i Comuni dovessero accogliere positivamente tale norma promozionale, gli operatori economici sarebbero particolarmente incentivati alla donazione dei beni finora menzionati, data la conseguente riduzione della tassazione sui rifiuti.
Un’ulteriore disposizione di particolare interesse è data dal quinto comma del citato art. 3 della legge n. 166/2016, il quale prevede che le operazioni di raccolta o di ritiro delle eccedenze agricole possano essere svolte direttamente dai soggetti donatari, ovviamente nel rispetto delle norme in materia di igiene e di sicurezza. Questa fattispecie possiede numerosi risvolti positivi anche per gli imprenditori agricoli, dal momento che essi potranno beneficiare dell’aiuto da parte di soggetti terzi per la rimozione di prodotti non più destinati alla vendita (11).
È quindi possibile affermare che tale legge abbia attuato gli obiettivi prefissati dall’Unione europea nel corso degli ultimi anni: in particolare, il legislatore italiano è riuscito, con la legge n. 166/2016, a dare un importante segnale agli operatori economici del settore alimentare.
Permangono ovviamente elementi che necessitano di ulteriori approfondimenti. Tra questi – ad esempio – vi potrebbe essere una possibile estensione dei benefici fiscali anche a cittadini privati i quali, soprattutto nel caso in cui dimorino in strutture abitative ad elevata densità come i condomini, potrebbero anch’essi beneficiare delle agevolazioni fiscali in caso di comportamenti virtuosi.

4. Cessioni gratuite ed esenzione IVA

Viste le caratteristiche essenziali della nuova legge n. 166/2016, possiamo ora approfondire la normativa relativa al trattamento fiscale della cessione gratuita di derrate alimentari, sia ai fini IVA che in tema di imposta sui redditi.
Per una corretta analisi è necessario partire dal D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, che ha disciplinato, appunto per la prima volta, la cessione gratuita di derrate alimentari a soggetti senza finalità lucrative (fra i quali, ad esempio, figurano le ONLUS).
In particolare, l’art. 13 del citato decreto, al secondo comma (12), reca una speciale disciplina che, al fine di incentivare le erogazioni in natura a favore delle ONLUS, neutralizza gli effetti dell’art. 85, secondo comma, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), il quale considera ricavi – tra l’altro – il valore normale dei beni, alla cui produzione e scambio sia diretta l’attività di impresa, destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa stessa.
Successivamente, tale disciplina è stata rivista e resa più efficiente riguardo gli aspetti procedurali. Oggi, in particolare, le modifiche introdotte semplificano ulteriormente le modalità di prova del carattere gratuito delle cessioni beneficiarie dell’esenzione IVA, sempre se effettuate in favore di enti no profit.
A tale proposito l’art. 13, terzo comma, del D.Lgs. n. 460/1997 (13), nel testo in vigore prima della novella del 2007 (14), non conteneva alcuna disposizione agevolativa ai fini IVA delle cessioni gratuite di beni alle ONLUS, limitandosi a prevedere il trattamento fiscale di dette cessioni ai fini delle imposte sui redditi. Pertanto, ai fini IVA, le cessioni gratuite in esame venivano ricondotte al regime di esenzione previsto in via generale dall’art. 10, n. 12, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per le cessioni gratuite di beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa effettuate in favore, tra l’altro, delle ONLUS.
Il regime di esenzione non consentiva la detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti ai sensi dell’art. 19, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972, e, pertanto, l’impresa donante aveva l’obbligo della rettifica della detrazione dell’imposta pagata al momento dell’acquisto o dell’importazione.
Successivamente, il nuovo terzo comma dell’art. 13 del D.Lgs. n. 460/1997 ha previsto invece che i beni oggetto di cessione gratuita alle ONLUS si considerino, alle condizioni e ai limiti indicati, distrutti agli effetti dell’IVA. Ciò comporta che l’impresa donante può, dal 1° gennaio 2008, cedere i beni senza applicazione dell’IVA, e senza subire limitazioni del diritto alla detrazione (15).
Infine, il D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134), all’art. 58, primo comma, ha istituito, presso l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, un fondo per il finanziamento dei programmi nazionali di distribuzione delle derrate alimentari alle persone indigenti nel territorio della Repubblica mediante organizzazioni caritatevoli, conformemente alle modalità previste dal Regolamento CE n. 1234/2007 del Consiglio del 22 ottobre 2007, lasciando a un decreto ministeriale, da emanarsi ciascun anno, le relative modalità di attuazione nonché l’identificazione delle tipologie di prodotto e le organizzazioni non lucrative beneficiarie.
Il terzo comma dispone, ai fini fiscali, l’applicazione della disciplina dell’art. 13 del D.Lgs. n. 460/1997.

5. Riflessioni sulla natura di tributo ambientale delle norme analizzate

È opportuno interrogarsi ora sulla natura giuridica delle disposizioni, sicuramente incentivanti, sinora esaminate per capire se siano tali da poter essere considerate disposizioni fiscali di natura ambientale.
È necessario premettere che, in tal senso, il legislatore non fornisce alcuna indicazione chiarificatrice.
Occorre quindi identificare la natura giuridica di tali norme in maniera sostanziale, indagando i caratteri delle disposizioni esaminate, per verificare se le stesse, sia pur implicitamente, realizzino finalità di tutela ambientale alla luce dei principi di diritto ambientale.
Ora, le diposizioni di cui all’art. 13, secondo e terzo comma, del citato D.Lgs. n. 460/1997, incoraggiano la cessione di prodotti che sarebbero destinati a divenire rifiuti. In tal senso le disposizioni sono, in linea di principio, rispettose del principio di prevenzione nella gestione del rifiuto di cui al D.Lgs. n. 205/2010, di attuazione della Direttiva n. 2008/98/CE.
Esse paiono rispondere a esigenze di tutela ambientale, alla luce anche di una considerazione ulteriore. Il D.M. 17 dicembre 2012 fa riferimento all’esigenza di ridurre gli sprechi e recuperare le derrate alimentari. Tale finalità, definita come un dovere morale ed etico delle istituzioni (16), pone un obbligo giuridicamente vincolante, e il riferimento allo scopo di riduzione dello spreco implica una gestione sostenibile delle risorse e consente di affermare la natura di tributo ambientale alle imposizioni di cui all’art. 58 del D.L. n. 83/2012 e all’art. 13 del D.Lgs. n. 460/1997 (17).
Tali disposizioni lasciano libera scelta al produttore, che sarà portato a orientare le proprie scelte in base a considerazioni di opportunità economica: in questa prospettiva è possibile considerarli incentivi fiscali rientranti nel novero degli strumenti di mercato per la tutela dell’ambiente (18).
Affinché l’incentivo sia efficace dal punto di vista della tutela ambientale, occorre che sia più conveniente rispetto all’alternativa meno sostenibile (ossia consentire che la derrata diventi un rifiuto).
In tal senso la disciplina attuale della TARI, nel parametrare gli scaglioni della tariffa ai metri quadri (anziché alla quantità di rifiuti prodotti) tende potenzialmente a pregiudicare l’effettività delle disposizioni di cui all’art. 13, secondo e terzo comma, del D.Lgs. n. 460/1997 (19).
I produttori di rifiuti meno sensibili alle tematiche sociali e ambientali, infatti, potrebbero ritenere più rapido e meno impegnativo proseguire con metodi non ecologicamente corretti, piuttosto che adoperarsi per porre in essere gli adempimenti richiesti (attivare cioè la procedura di comunicazione per la cessione delle derrate per scopi di solidarietà sociale). In particolare, la legge n. 147/2013, istitutiva della TARI (20), dispone al comma 646 dell’art. 1 che per l’applicazione della TARI si considerano le superfici dichiarate o accertate ai fini dei precedenti prelievi sui rifiuti e dispone al comma 648 che per le unità immobiliari diverse da quelle a destinazione ordinaria iscritte o ascrivibili nel catasto edilizio urbano la superficie assoggettabile alla TARI rimane quella calpestabile.
Ancora, il comma 651 dell’art. 1 citato dispone che i Comuni, nella commisurazione della tariffa, debbano tener conto dei criteri determinati con il D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158. Esso ha istituito il c.d. metodo normalizzato (21), che avrebbe dovuto commisurare la tariffa, nella parte variabile, alla quantità di rifiuti prodotti da ciascuna utenza domestica specificati in chilogrammi. In realtà lo stesso art. 5 del D.P.R. n. 158/1999 autorizzava i Comuni, che non avessero adottato tali strumenti per una misurazione puntuale degli stessi, a fare ricorso a criteri presuntivi, prendendo a riferimento la produzione media comunale pro capite.
Di fatto, ad oggi, gli enti locali non hanno ancora adottato criteri per parametrare la tassa esclusivamente alla quantità di rifiuti conferiti, declinando la medesima alla stregua di un tributo ambientale (22).
Che tali criteri siano molto lontani dai problemi ambientali è ammesso implicitamente dalla stessa legge n. 147/2013 laddove, al comma 652, afferma che i Comuni, in alternativa ai criteri di cui al comma 651 e nel rispetto del principio “chi inquina paga”, di cui all’art. 14 della Direttiva n. 2008/98/CE (23), possono commisurare la tariffa alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia delle attività svolte, nonché al costo del servizio per i rifiuti, e che nel frattempo si applicano le disposizioni regolamentari di cui al D.P.R. n. 158/1999.

6. Dalle derrate alimentari ai rifiuti organici: il ruolo della fiscalità

Le attività di commercializzazione, consumo e trasformazione del prodotto alimentare producono scarti o eccessi di lavorazione, vale a dire residui non commestibili che costituiscono la frazione umida dei rifiuti organici.
Pare opportuno premettere qualche breve cenno alla disciplina sui rifiuti, per agevolare la comprensione della normativa fiscale.
L’art. 183, primo comma, lett. a), del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – come modificato dal D.Lgs. n. 205/2010 emanato in attuazione della Direttiva n. 2008/98/CE – definisce rifiuto qualsiasi sostanza di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione, o l’obbligo, di disfarsi.
La c.d. “gestione del rifiuto” è disciplinata nelle sue linee generali dallo stesso D.Lgs. n. 152/2006. L’art. 179, primo comma, di tale decreto, dispone che essa sia effettuata nel rispetto della seguente gerarchia: prevenzione, preparazione per il riutilizzo, riciclaggio, recupero di altro tipo (come il recupero di energia) e smaltimento. Essa, come specificato dal secondo comma, stabilisce un ordine di priorità di ciò che costituisce la migliore opzione ambientale.
Il comma quinto dello stesso articolo prosegue sottolineando l’importanza della promozione del recupero e del riutilizzo dei rifiuti per la produzione di energia (24).
L’art. 180, primo comma, lett. a) (25), dispone poi che le pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di promuovere il ricorso a strumenti economici per prevenire la produzione di rifiuti e ridurre la loro nocività. Un ulteriore riferimento alla valorizzazione del ruolo di tali strumenti nella gestione dei rifiuti è presente all’art. 180-bis, primo comma, lett. a). La locuzione “strumenti economici” si riferisce agli strumenti di mercato per la tutela dell’ambiente, all’interno dei quali sono ricompresi anche quelli di natura fiscale, come i tributi ambientali in senso lato e gli incentivi fiscali di tipo ambientale. Tali strumenti, per essere effettivi, devono essere progettati e attuati in conformità con le linee guida tracciate a livello comunitario (26).
L’art. 181 del D.Lgs. n. 152/2006 (27) si occupa del recupero e riciclaggio dei rifiuti e sottolinea l’importanza della raccolta differenziata.
Infine, gli artt. 182 e 182-bis (28) sono dedicati allo smaltimento, che viene espressamente relegato a fase residuale della gestione dei rifiuti (29). L’attività di smaltimento è, in estrema sintesi, ispirata ai principi di sicurezza (nel senso che lo smaltimento deve avvenire con modalità non dannose per la salute umana), extrema ratio (nel senso che può darsi luogo allo smaltimento solo se risulta accertata l’impossibilità di recupero del rifiuto), autosufficienza (nel senso che è vietato smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in Regioni diverse da quelle dove gli stessi sono stati prodotti, salvo eventuali accordi regionali e internazionali) (30) e prossimità (nel senso di permettere lo smaltimento e il recupero dei rifiuti urbani indifferenziati in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione o raccolta, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti).
Il D.Lgs. n. 152/2006 lascia poi spazio alla disciplina dettata da leggi speciali, come il D.Lgs. 11 maggio 2005, n. 133, e il D.Lgs. 13 gennaio 2003, n. 36, di recepimento della Direttiva n. 1999/31/CE del Consiglio del 26 aprile 1999, che all’art. 5 richiede l’approvazione di specifici piani regionali per la riduzione dei rifiuti biodegradabili da collocare in discarica.
I rifiuti vengono classificati dall’art. 184 del D.Lgs. n. 152/2006, in rifiuti urbani e speciali e in rifiuti pericolosi e non pericolosi. Sono rifiuti urbani: a) i rifiuti domestici, anche ingombranti, provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di civile abitazione; b) i rifiuti non pericolosi provenienti da locali e luoghi adibiti ad usi diversi da quelli di cui alla lett. a), assimilati ai rifiuti urbani per qualità e quantità, ai sensi dell’art. 198, secondo comma, lett. g); c) i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade; d) i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade e aree pubbliche o sulle strade e aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei corsi d’acqua; e) i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali; f) i rifiuti provenienti da esumazioni ed estumulazioni, nonché gli altri rifiuti provenienti da attività cimiteriale diversi da quelli di cui alle lett. b), c) ed e).
Sono rifiuti speciali: a) i rifiuti da attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2135 c.c.; b) i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall’art. 184-bis; c) i rifiuti da lavorazioni industriali; d) i rifiuti da lavorazioni artigianali; e) i rifiuti da attività commerciali; f) i rifiuti da attività di servizio; g) i rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acquee dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi; h) i rifiuti derivanti da attività sanitarie. Sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all’allegato I della parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006. Sono rifiuti organici, ai sensi dell’art. 183, primo comma, lett. d), i «rifiuti biodegradabili di giardini e parchi, rifiuti alimentari e di cucina prodotti da nuclei domestici, ristoranti, servizi di ristorazione e punti vendita al dettaglio e rifiuti simili prodotti dall’industria alimentare raccolti in modo differenziato».
Con riferimento ai rifiuti organici, le Regioni e i Comuni sono incaricati, ai sensi dell’art. 182-ter (31) del D.Lgs. n. 152/2006, di predisporre piani per promuovere la raccolta separata dei rifiuti organici, nonché il loro trattamento, in modo da realizzare un livello elevato di protezione ambientale e l’utilizzo di materiali sicuri per l’ambiente ottenuti dai rifiuti organici al fine di proteggere la salute umana e l’ambiente (32).
La relazione intercorrente tra l’art. 182-ter e l’art. 184 del D.Lgs. n. 152/2006 parrebbe essere ricostruibile nel senso che il rifiuto organico normalmente ricade nella categoria dei rifiuti urbani e viene indicato con l’espressione frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU), ma esso potrebbe rientrare anche nella categoria dei rifiuti speciali, ed è il caso, ad esempio, della frazione organica stabilizzata (FOS), che la giurisprudenza ha di recente qualificato come rifiuto speciale (33).
Detta frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU) è costituita dalla frazione umida (composta da scarti vegetali e alimentari provenienti dalla cucina e dalla tavola) e dalla frazione verde (composta da potature e scarti di giardino). Al pari di tutte le altre frazioni merceologiche di rifiuti, anche la frazione organica deve essere gestita secondo la gerarchia della Direttiva n. 2008/98/CE e del D.Lgs. n. 152/2006 (34).
Diventa quindi essenziale prevenire la produzione di rifiuti. A tal fine il compostaggio, sia domestico (c.d. auto compostaggio) che su piccola scala (come il compostaggio di quartiere) è in grado di ridurre alla fonte la quantità totale di frazione organica da trattare negli impianti. Il legislatore fiscale prevede una serie di incentivi per l’auto compostaggio e l’art. 1, comma 658, della legge n. 147/2013, impone ai Comuni di assicurare delle agevolazioni per la raccolta differenziata riferibile alle utenze domestiche (35).
A mero titolo di esempio, il Comune di Bologna ha previsto una riduzione della tariffa per lo smaltimento di rifiuti, ai contribuenti che dimostrino di praticare con continuità il compostaggio oppure che depositino rifiuti in forma differenziata direttamente alla stazione ecologica attrezzata (36).
Il compost idoneo per l’uso agronomico perde la qualità di rifiuto e acquisisce la qualità di prodotto in base all’art. 184-ter del D.Lgs. n. 152/2006 (37). Con riferimento all’attività di recupero, poi, dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani è possibile ricavare compost su scala più vasta. Tale modalità di recupero va accolta con favore, perché il compost è in grado di migliorare la qualità e la resa dei terreni, e di ridurre le percentuali di immissione di CO2 nell’atmosfera.
In generale, a parte l’agevolazione ora vista, la disciplina dell’attuale tassa destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (TARI), istituita con legge n. 147/2013, è ancora legata a modalità di calcolo della base imponibile prive di collegamento con la quantità di rifiuti conferiti. La mancanza di criteri di commisurazione della base imponibile al quantitativo di rifiuto conferito al servizio di raccolta se, da un lato, non incentiva il contribuente a produrre meno rifiuti, dall’altro, lo lascia pressoché indifferente di fronte al problema ambientale.
Diversamente, l’esperienza di altri Paesi europei mostra una sempre maggiore diffusione di sistemi di tariffazione puntuale in applicazione del principio “pay as you throw” (38).

Prof. Marco Allena

(1) L’argomento, tra l’altro, ha non marginali implicazioni di carattere morale, come mette in evidenza la prestigiosa rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica in occasione dell’EXPO 2015 (cfr. G. SALVINI, La terra ed il cibo. Una riflessione nell’anno dell’Expo 2015, in La Civiltà Cattolica, quaderno 3957, 2 maggio 2015).
(2) Ved. European Commission, Report From The Commission To The European Parliament, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions On The Implementation Of The Circular Economy Action Plan, Brussels, 26.1.2017 COM(2017); European Enviromental Agency (Eea), Segnali ambientali 2014, Benessere e Ambiente, Creare in Europa un’economia circolare ed efficiente nell’impiego delle risorse, Copenaghen, 2014; Senato della Repubblica e Camera dei Deputati, Documentazione per le Commissioni, Esame di atti e documenti dell’Unione europea, Le proposte sull’economia circolare, Dossier XVII Legislatura, gennaio 2016.
(3) Si stima che ogni anno nella filiera mondiale dell’agroindustria circa 1/3 della parte edibile del cibo destinato al consumo umano (pari a circa 1,3 miliardi di tonnellate all’anno) viene perso o buttato. La perdita pro capite di cibo si attesta attorno ai 280/300 kg per anno almeno in Europa e in Nord America fonte FAO: J. GUSTAVSSON – C. CEDERBERG – U. SONESSON – R. VAN OTTERDIJK – A. MEYBECK, Global food losses and food waste. Extent, causes and prevention, Roma, 2011.
(4) Ved. Å. STENMARCK – C. JENSEN – T. QUESTED – G. MOATES – M. BUKSTI – B. CSEH – S. JUUL – A. PARRY – A. POLITANO – B. REDLINGSHOFER – S. SCHERHAUFER – K. SILVENNOINEN – H. SOETHOUDT – C. ZÜBERT – K. ÖSTERGREN, Estimates of European food waste levels, Stockholm 31 March 2016; A. VETTORI, Un nuovo programma generale d’azione dell’Unione in materia di ambiente fino al 2020, in Riv. giur. dell’ambiente, 2014, 283.
(5) Il riferimento è in particolare al D.M. 17 dicembre 2012, «Ai fini del presente decreto si intende per … 2. Derrate alimentari: le derrate alimentari destinate agli indigenti per il tramite delle Organizzazioni caritatevoli».
(6) Il Regolamento UE n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011, all’art. 9, primo comma, reca l’elenco delle indicazioni obbligatorie. Per i fini che ci occupano rilevano le lett. «f) il termine minimo di conservazione e la data di scadenza» e «g) le condizioni particolari di conservazione e/o le condizioni di impiego».
(7) Art. 18 del D.Lgs. n. 109/1992, Sanzioni «La violazione delle disposizioni degli articoli 3, 10-bis e 14 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro milleseicento a euro novemilacinquecento. La violazione delle disposizioni degli articoli 4, 5, 6, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 15, 16 e 17 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro seicento a euro tremilacinquecento». Per una panoramica della giurisprudenza sul tema ved. Cass., sez. III pen., 27 giugno 2008, n. 35415, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. III pen., 27 giugno 2008, n. 30858, in Ragiusan, 2009, 134; e Cass., sez. III pen., 18 giugno 2013, ord. n. 26413, in Boll. Trib. On-line.
(8) Tale principio è la declinazione a livello di fonti secondarie del principio di prevenzione di cui all’art. 191.II del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) nella sua versione consolidata del 26 ottobre 2012 (già art. 174 del TCE, trattato istitutivo della Comunità europea del 25 marzo 1957), per cui «2. La politica dell’Unione in materia ambientale … è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”». La Direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e abrogativa di alcune precedenti direttive, dispone all’art. 4, rubricato “Gerarchia dei rifiuti”: «1. La seguente gerarchia dei rifiuti si applica quale ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e e) smaltimento». Mentre il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (come modificato dal D.Lgs. n. 205/2010), all’art. 179: «1. La gestione dei rifiuti avviene nel rispetto della seguente gerarchia: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento. 2. La gerarchia stabilisce, in generale, un ordine di priorità di ciò che costituisce la migliore opzione ambientale».
(9) Tra i numerosi casi si veda ad esempio quello della Fondazione Banco Alimentare ONLUS.
(10) Anche tale intervento positivo è stato influenzato dall’ordinamento comunitario, da anni concentrato sulla prevenzione degli sprechi e sulla gestione sostenibile delle risorse alimentari nella relativa catena di distribuzione; vedasi Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 2012 su come evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare nell’UE, 2011/2175 (INI), Strasburgo, 2012.
(11) Per un approfondimento degli aspetti igienico-sanitari delle cessioni cfr. M.P. DE FILIPPO – A. SETINI, Igiene alimentare e HACCP, guida teorico pratica per i corsi professionali e per la redazione del manuale di autocontrollo, Milano, 2016.
(12) Ai sensi dell’art. 13, secondo comma, del D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, «Le derrate alimentari e i prodotti farmaceutici, nonché altri prodotti, da individuare con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, destinati a fini di solidarietà sociale senza scopo di lucro, alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa, che, in alternativa alla usuale eliminazione dal circuito commerciale, vengono ceduti gratuitamente agli enti pubblici, alle ONLUS e agli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d’interesse generale anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di mutualità, non si considerano destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ai sensi dell’articolo 53, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917».
(13) Ai sensi dell’art. 13, terzo comma, del D.Lgs. n. 460/1997: «I beni non di lusso alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa, diversi da quelli di cui al comma 2, che presentino imperfezioni, alterazioni, danni o vizi che pur non modificandone l’idoneità di utilizzo non ne consentono la commercializzazione o la vendita, rendendone necessaria l’esclusione dal mercato o la distruzione, qualora siano ceduti gratuitamente alle ONLUS, per un importo corrispondente al costo specifico sostenuto per la produzione o l’acquisto complessivamente non superiore al 5 per cento del reddito d’impresa dichiarato, non si considerano destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ai sensi dell’articolo 85, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. I predetti beni si considerano distrutti agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto».
(14) Recata dall’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, in vigore dal 1° gennaio 2008.
(15) In tal senso cfr. circ. 26 marzo 2008, n. 26/E, in Boll. Trib., 2008, 572.
(16) D.M. 17 dicembre 2012 (“Indirizzi, modalità e strumenti per la distribuzione di derrate alimentari agli indigenti”): «Considerato che in Italia una significativa percentuale di persone vivono in condizioni di povertà e non riescono ad avere accesso [ai] beni e servizi essenziali; Considerato che è un dovere etico e morale delle istituzioni quello di incoraggiare, facilitare e sostenere la riduzione degli sprechi e il recupero delle derrate alimentari …». Con riferimento al numero degli indigenti assistiti in Italia dalle organizzazioni caritatevoli, si veda il documento “Relazione piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti 2013 consuntivo delle attività realizzate al 30.04.2013”, pubblicato dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura.
(17) Per approfondire la nozione di tributo ambientale vedasi O. ESPOSITO DE FALCO, L’armonizzazione fiscale e le tasse ecologiche, in Riv. giur. dell’ambiente, 2004, 643.
(18) EEA, Environmental taxes: recent developments in tools for integration, Environmental issues series n. 18, november 2000, Copenhagen; J.H. SARGENT, “Economics of Energy and the Environment: The Potential Role of Market Based Instruments”, Canada-United States Law Journal, vol. 28, 499-510; R.J. PIERCE JR., “The Constitutionality of State Environmental Taxes”, Tulane Law Review, vol. 58, issue 1, (1983-1984) 169-214; M. LEE, “Eu environmental law: challenges, change and decision making”, Hart Publishing Oxford and Portland Oregon, 2005. Per una classificazione degli strumenti di mercato ved. COWI – ECORYS – CAMBRIDGE ECONOMETRICS, The role of market based instruments in achieving a resource efficient economy, Rotterdam, october 2011. Per un approfondimento sulla struttura e funzionamento degli strumenti di mercato per la tutela dell’ambiente, si vedano Commissione delle Comunità europee, Libro Verde sugli strumenti di mercato utilizzati ai fini della politica ambientale e ad altri fini connessi, Bruxelles, 28 marzo 2007; EEA, Using the market for cost-effective environmental policy. Market Based Instruments in Europe, EEA report, n. 1/2006, Luxembourg, Office for Official Publications of the European Communities, 2006; EEA, Environmental taxes: recent developments in tools for integration, op. cit.; D.M. DRIESEN, The Societal Cost of Environmental Regulation: Beyond Administrative Cost-Benefit Analysis, in Ecology Law Quarterly, vol. 24, issue 3, 1997, 545-618.
(19) Per un’analisi della evoluzione giuridica della TARI si vedano E. RIGHI, TARI, presupposto e criteri applicativi, prime valutazioni, in Boll. Trib., 2014, 503; G. LORENZON, La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni (“TARSU”) e la tariffa per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani “interni” ed “esterni” (tariffa “Ronchi”), in Riv. dir. trib., 2001, 261; L. DE VICO – G. DEBENEDETTO – L. LOVECCHIO – A. MAGLIARO – F. RUGGIANO – A. URICCHIO, Manuale dei tributi locali, Milano, 2014. Per una ricognizione dei tributi ambientali a livello locali ved. A. ZATTI, Tassazione ambientale e federalismo fiscale: potenzialità e sviluppi recenti con riferimento al caso italiano, in Riv. dir. fin., 2012, 352.
(20) Art. 1, comma 639: «È istituita l’imposta unica comunale (IUC). Essa si basa su due presupposti impositivi, uno costituito dal possesso di immobili e collegato alla loro natura e valore e l’altro collegato all’erogazione e alla fruizione di servizi comunali. La IUC si compone dell’imposta municipale propria (IMU), di natura patrimoniale, dovuta dal possessore di immobili, escluse le abitazioni principali, e di una componente riferita ai servizi, che si articola nel tributo per i servizi indivisibili (TASI), a carico sia del possessore che dell’utilizzatore dell’immobile, e nella tassa sui rifiuti (TARI), destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a carico dell’utilizzatore (A)».
(21) Il D.P.R. n. 158/1999 prevede all’art. 1 “Metodo normalizzato”: «È approvato il metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo da coprirsi con le entrate tariffarie e per la determinazione della tariffa di riferimento relativa alla gestione dei rifiuti urbani, riportato nell’allegato 1 al presente decreto»; all’art. 2 “Tariffa di riferimento”: «La tariffa di riferimento rappresenta l’insieme dei criteri e delle condizioni che devono essere rispettati per la determinazione della tariffa da parte degli enti locali. 2. La tariffa di riferimento a regime deve coprire tutti i costi afferenti al servizio di gestione dei rifiuti urbani e deve rispettare la equivalenza di cui al punto 1 dell’allegato 1»; all’art. 3 “Determinazione della tariffa”: «Sulla base della tariffa di riferimento di cui all’articolo 2, gli enti locali individuano il costo complessivo del servizio e determinano la tariffa, anche in relazione al piano finanziario degli interventi relativi al servizio e tenuto conto degli obiettivi di miglioramento della produttività e della qualità del servizio fornito e del tasso di inflazione programmato». 2. «La tariffa è composta da una parte fissa, determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una parte variabile, rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione»; all’art. 5 “Calcolo della tariffa per le utenze domestiche”: 1. «Stabilito, ai sensi dell’articolo 4, comma 2, l’importo complessivo dovuto a titolo di parte fissa dalla categoria delle utenze domestiche, la quota fissa da attribuire alla singola utenza domestica viene determinata secondo quanto specificato nel punto 4.1 dell’allegato 1 al presente decreto, in modo da privilegiare i nuclei familiari più numerosi e le minori dimensioni dei locali.» 2. «La parte variabile della tariffa è rapportata alla quantità di rifiuti indifferenziati e differenziati, specificata per kg, prodotta da ciascuna utenza. Gli enti locali che non abbiano validamente sperimentato tecniche di calibratura individuale degli apporti possono applicare un sistema presuntivo, prendendo a riferimento la produzione media comunale pro capite, desumibile da tabelle che saranno predisposte annualmente sulla base dei dati elaborati dalla Sezione nazionale del Catasto dei rifiuti».
(22) Sulla natura giuridica del prelievo per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, si veda S. MATTEINI CHIARI, La natura della “tariffa” istituita dall’art. 49 del D.Lgs. n. 22/1997, in Riv. giur. dell’ambiente, 1999, 459.
(23) F. GOISIS, Caratteri e rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nell’ordinamento nazionale, in Foro amm. CDS, 2009, 2711.
(24) D.Lgs. n. 152/2006, art. 179 “Criteri di priorità nella gestione dei rifiuti”: 5. «Le pubbliche amministrazioni perseguono, nell’esercizio delle rispettive competenze, iniziative dirette a favorire il rispetto della gerarchia del trattamento dei rifiuti di cui al comma 1 in particolare mediante: a) la promozione dello sviluppo di tecnologie pulite, che permettano un uso più razionale e un maggiore risparmio di risorse naturali; b) la promozione della messa a punto tecnica e dell’immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da non contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il loro uso o il loro smaltimento, ad incrementare la quantità o la nocività dei rifiuti e i rischi di inquinamento; c) la promozione dello sviluppo di tecniche appropriate per l’eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti al fine di favorirne il recupero; d) la determinazione di condizioni di appalto che prevedano l’impiego dei materiali recuperati dai rifiuti e di sostanze e oggetti prodotti, anche solo in parte, con materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il mercato dei materiali medesimi; e) l’impiego dei rifiuti per la produzione di combustibili e il successivo utilizzo e, più in generale, l’impiego dei rifiuti come altro mezzo per produrre energia».
(25) D.Lgs. n. 152/2006, art. 180 “Prevenzione della produzione di rifiuti”: 1. «Al fine di promuovere in via prioritaria la prevenzione e la riduzione della produzione e della nocività dei rifiuti, le iniziative di cui all’articolo 179 riguardano in particolare: a) la promozione di strumenti economici, eco-bilanci, sistemi di certificazione ambientale, utilizzo delle migliori tecniche disponibili, analisi del ciclo di vita dei prodotti, azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori, l’uso di sistemi di qualità, nonché lo sviluppo del sistema di marchio ecologico ai fini della corretta valutazione dell’impatto di uno specifico prodotto sull’ambiente durante l’intero ciclo di vita del prodotto medesimo».
(26) Ved. F. PEPE, Le agevolazioni fiscali “regionali” in materia ambientale, in Riv. dir. trib., 2012, 281; COWI – ECORYS – CAMBRIDGE ECONOMETRICS, op. cit.
(27) D.Lgs. n. 152/2006, art. 181 “Riciclaggio e recupero dei rifiuti”: 1. «Al fine di promuovere il riciclaggio di alta qualità e di soddisfare i necessari criteri qualitativi per i diversi settori del riciclaggio, sulla base delle indicazioni fornite dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, le regioni stabiliscono i criteri con i quali i comuni provvedono a realizzare la raccolta differenziata in conformità a quanto previsto dall’articolo 205. Le autorità competenti realizzano, altresì, entro il 2015 la raccolta differenziata almeno per la carta, metalli, plastica e vetro, e ove possibile, per il legno».
(28) D.Lgs. n. 152/2006, art. 182 “Smaltimento dei rifiuti”: 1. «Lo smaltimento dei rifiuti è effettuato in condizioni di sicurezza e costituisce la fase residuale della gestione dei rifiuti, previa verifica, da parte della competente autorità, della impossibilità tecnica ed economica di esperire le operazioni di recupero di cui all’articolo 181». 2. «I rifiuti da avviare allo smaltimento finale devono essere il più possibile ridotti sia in massa che in volume, potenziando la prevenzione e le attività di riutilizzo, di riciclaggio e di recupero e prevedendo, ove possibile, la priorità per quei rifiuti non recuperabili generati nell’ambito di attività di riciclaggio o di recupero». 3. «È vietato smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in regioni diverse da quelle dove gli stessi sono prodotti, fatti salvi eventuali accordi regionali o internazionali, qualora gli aspetti territoriali e l’opportunità tecnico economica di raggiungere livelli ottimali di utenza servita lo richieda». Art. 182-bis “Principi di autosufficienza e prossimità”: 1. «Lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani non differenziati sono attuati con il ricorso ad una rete integrata ed adeguata di impianti, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili e del rapporto tra i costi e i benefici complessivi, al fine di: a) realizzare l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e dei rifiuti del loro trattamento in ambiti territoriali ottimali; b) permettere lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani indifferenziati in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione o raccolta, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti».
(29) Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti, Bruxelles, 2 luglio 2014; Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT), I Quaderni della Formazione Ambientale, Rifiuti, maggio 2006.
(30) Cons. Stato, sez. VI, 19 febbraio 2013, n. 993, in Boll. Trib. On-line.
(31) D.Lgs. n. 152/2006, art. 182-ter “Rifiuti organici”. 1. «La raccolta separata dei rifiuti organici deve essere effettuata con contenitori a svuotamento riutilizzabili o con sacchetti compostabili certificati a norma UNI EN 13432-2002». 2. «Ai fini di quanto previsto dal comma 1, le regioni e le province autonome, i comuni e gli ATO, ciascuno per le proprie competenze e nell’ambito delle risorse disponibili allo scopo a legislazione vigente, adottano entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto misure volte a incoraggiare: a) la raccolta separata dei rifiuti organici; b) il trattamento dei rifiuti organici in modo da realizzare un livello elevato di protezione ambientale; c) l’utilizzo di materiali sicuri per l’ambiente ottenuti dai rifiuti organici, ciò al fine di proteggere la salute umana e l’ambiente».
(32) EEA, Una migliore gestione dei rifiuti urbani ridurrà le emissioni di gas a effetto serra, Agenzia europea dell’ambiente, Copenaghen, 2008; EEA, Segnali ambientali 2014, Benessere e Ambiente, Creare in Europa un’economia circolare ed efficiente nell’impiego delle risorse, Copenaghen, 2014.
(33) In tal senso cfr. Cons. Stato, sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5566, con nota di F. PERES, in Ambiente e Sicurezza, in Il Sole 24 Ore del 12 febbraio 2013.
(34) In tempi meno recenti la frazione organica non veniva raccolta in appositi contenitori e differenziata ma veniva raccolta assieme a tutti gli altri rifiuti e finiva nelle discariche o negli inceneritori. Queste destinazioni finali sono poco raccomandabili da un punto di vista ambientale perché la combustione dei rifiuti genera emissioni inquinanti nell’atmosfera, nell’acqua e nel terreno. Nelle discariche i rifiuti organici sprigionano percolato: un liquido che se assorbito dal terreno può contaminare le falde acquifere, oltre biogas composto in prevalenza da anidride carbonica e metano che ha un effetto clima alterante.
(35) Art. 1, comma 658, della legge n. 147/2013: «Nella modulazione della tariffa sono assicurate riduzioni per la raccolta differenziata riferibile alle utenze domestiche».
(36) Regolamento comunale per la disciplina della componente della Tassa Rifiuti (TARI) dell’Imposta Unica Comunale (IUC) del Comune di Bologna. Art. 17 “Agevolazioni per la raccolta differenziata e l’avvio al recupero”: 2. «La riduzione di cui al comma 1 relativa alle utenze domestiche trova applicazione in base ai seguenti criteri: a) la riduzione correlata alle stazioni ecologiche attrezzate è rapportata alla quantità dei rifiuti differenziati conferiti in stazione ecologica attrezzata nel corso dell’intero anno solare secondo la seguente formula: sconto pari a 0,10 euro/Kg di rifiuto conferito in stazione ecologica, con un limite minimo di 1 kg di rifiuto annuo, fino ad un ammontare massimo di sconto pari al 30% del tributo dovuto (comprensivo del tributo provinciale); b) la riduzione legata al compostaggio domestico è quantificata nella misura percentuale del 10%, della tariffa, con effetto dal primo giorno del bimestre solare successivo a quello della presentazione di apposita istanza in cui il contribuente attesta di voler praticare in modo continuativo il compostaggio».
(37) Art. 184-ter del D.Lgs. n. 152/2006 (“Cessazione della qualifica di rifiuto”): 1. «Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana».
(38) L’applicazione del principio “pay as you throw” (PAYT) si può riscontrare in alcuni Comuni italiani, specie in Trentino e in Veneto, ove si stanno sperimentando sistemi di tariffazione puntuale basati su codici a barre, tariffazione a transponder e utilizzo di sacchi prepagati.

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