22 Ottobre, 2012

1. premessa

 

Nella prassi aziendale, non è raro che – nel corso delle vicende giudiziarie connesse a una controversia innanzi al giudice – si debba riconoscere il pagamento di competenze a periti di parte o periti coinvolti dal giudice per esprimere un proprio parere tecnico professionale in ordine alla materia oggetto di decisione del Tribunale.

È quindi utile esaminare i risvolti operativi, sotto il profilo dell’applicazione dell’IVA e degli adempimenti della sostituzione d’imposta, che debbono essere seguiti nella fattispecie di cui trattasi, posto che talune incertezze possono derivare sul piano operativo in relazione alla corretta individuazione dei soggetti intestatari dei documenti di addebito emessi dai professionisti interessati.

A tale riguardo, va innanzitutto ricordato che in base alle disposizioni di codice di procedura civile [1] il giudice del Tribunale, ai fini di acquisire tutti gli elementi di valutazione utili alla formazione della decisione, può richiedere il parere di un esperto sulla materia oggetto della controversia o su particolari cognizioni scientifiche o tecniche.

Il consulente tecnico d’ufficio (il cosiddetto C.T.U.) svolge dunque la funzione di ausiliario del giudice [2] lavorando per lo stesso in un rapporto strettamente fiduciario nell’ambito delle rigide e precise competenze definite dal codice di procedura civile. Scopo del consulente è quello di rispondere in maniera puntuale e precisa ai quesiti che il giudice formula nell’udienza di conferimento dell’incarico e di relazionarne i risultati nell’elaborato peritale che prende il nome di Consulenza Tecnica d’Ufficio.

Con specifico riguardo ai profili fiscali che in questa sede interessa sviluppare, è utile osservare che il “committente” del C.T.U., vale a dire il soggetto che commissiona il lavoro professionale al consulente, è senza dubbio l’Amministrazione giudiziaria, posto che il C.T.U. deve essere sintetico e preciso rispetto alle domande che gli vengono poste, così da potere chiarire al giudice esattamente quegli elementi che egli intende valutare per giungere ad una decisione.

Nell’ambito del procedimento giudiziario, inoltre, è possibile [3] che l’intervento del professionista operante in un determinato campo tecnico/scientifico sia richiesto non dal giudice chiamato a emettere la sentenza, ma piuttosto dalle parti in causa affinché il professionista affianchi il consulente tecnico nominato dal giudice nell’esecuzione del suo incarico e svolga le proprie osservazioni a supporto o critica del risultato al quale il perito del giudice è pervenuto. In tale evenienza, il ruolo di “committente” è assunto dalla parte in causa che ha commissionato l’intervento del consulente e il ruolo del professionista è denominato consulente tecnico di parte (C.T.P.).

 

2. la liquidazione dei compensi di consulenza tecnica

 

Proprio in relazione alla differente posizione assunta dalle parte in causa, diversa è la procedura di liquidazione dei compensi per il C.T.U. e per il C.T.P.

Per il C.T.U., essendo la relativa prestazione commissionata dal giudice del Tribunale, è il giudice stesso che liquida il compenso al perito con apposito decreto con il quale dispone il pagamento della relativa somma a carico delle parti in giudizio, in solido tra loro, dando mandato alla cancelleria di notificare detto decreto al C.T.U. stesso e alle parti interessate.

Per quanto riguarda, invece, il C.T.P., sarà la singola parte giudiziaria, committente della prestazione, che darà luogo alla liquidazione delle competenze sulla base degli accordi intervenuti direttamente tra la parte stessa e il professionista interessato.

Dal punto di vista fiscale, qualche incertezza può derivare nella prassi amministrativa per quanto concerne:

– l’IVA, e in concreto se essa debba essere rivalsata indifferentemente sulla parte che liquida le spettanze del C.T.U. (in solido con l’altra parte nella causa giudiziaria), a prescindere dal ruolo di committente assunto dal giudice del Tribunale;

­ l’applicazione della ritenuta di acconto sull’importo degli onorari che la parte del procedimento giudiziario, sostituto di imposta, è chiamata a corrispondere per effetto del decreto del giudice, ancorché la prestazione consulenziale sia stata commissionata da altro soggetto, vale a dire dall’Amministrazione giudiziaria.

 

3. la questione della rivalsa iva

 

L’art. 18 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, disciplina l’istituto della rivalsa come un diritto-dovere.

Chi cede il bene o presta il servizio deve, infatti, addebitare l’imposta in fattura all’altra parte contraente, in aderenza al carattere del tributo destinato a colpire i consumi.

L’addebito in fattura dell’imposta attribuisce all’acquirente l’esercizio del diritto alla detrazione, realizzandosi così quel meccanismo di rivalsa/detrazione (sistema di compensazione tra IVA “a valle” e IVA “a monte”) nei vari passaggi del ciclo produttivo che rende l’IVA (diversamente dalla previgente IGE) neutrale rispetto alla formazione del prezzo al consumo.

In base al primo comma del citato art. 18, «il soggetto che effettua la cessione di beni o prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente».

Si tratta, dunque, di un rapporto bilaterale tra il soggetto attivo (cedente o prestatore) e il soggetto passivo (cessionario o committente) autonomo rispetto alle altre vicende giuridiche intercorrenti tra le due parti.

In pratica, una volta che tra due soggetti è posta in essere un’operazione rilevante agli effetti dell’IVA, è tra questi due soggetti che deve intercorrere il rapporto di rivalsa/detrazione e tale condizione resiste e prevale rispetto alle vicende giuridiche eventualmente successive aventi ad oggetto le posizioni patrimoniali derivanti dall’operazione medesima (come, ad esempio, la cessione a terzi del credito/debito).

Occorre, in pratica, avere riguardo a due momenti:

a) il momento civilistico dell’insorgenza del credito/debito per l’esecuzione dell’operazione rilevante agli effetti IVA. Detto momento, per le prestazioni di servizio, è individuabile nella data della loro ultimazione e, per la cessione di beni mobili, nella data della loro consegna o spedizione;

b) il momento, tutto proprio dell’ordinamento IVA, della rivalsa dell’imposta, rivalsa che – come visto – deve essere effettuata tra i due soggetti tra i quali è intervenuta l’operazione commerciale “ivata”. Detto momento coincide con la data dell’assolvimento formale dell’obbligo della fatturazione da parte del cedente/prestatore, data delineata dall’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 e comporta per il soggetto attivo la maturazione di un credito aggiuntivo, per l’IVA, accessorio rispetto a quello dipendente dall’operazione principale (credito commerciale = credito per fattura da emettere + credito per l’IVA rivalsata).

D’altra parte, lo schema delineato dal citato art. 18 è assai fondato sotto il profilo logico: prima si vede se tra due soggetti c’è stata un’operazione rilevante agli effetti dell’IVA e in caso affermativo il soggetto prestatore/cedente deve rivalsare l’IVA al soggetto committente/cessionario.

Ciò stante, nell’ipotesi in cui una parte del giudizio riceva notifica del decreto emesso dal giudice di liquidazione delle competenze del C.T.U., spetta al C.T.U. stesso il pagamento non solo degli onorari, ma anche dell’importo corrispondente all’IVA, ma il C.T.U. potrà richiedere tale ultimo ammontare non a titolo di rivalsa, essendo tale rapporto instaurabile con esclusivo riguardo al proprio committente Amministrazione giudiziaria, ma in base al decreto del giudice che ne costituisce titolo esecutivo.

In pratica il C.T.U., a norma degli artt. 18 e 21 del D.P.R. n. 633/1972, deve emettere fattura nei confronti del Tribunale dal quale ha ricevuto il mandato professionale, avendo cura di evidenziare nella quietanza della fattura che il pagamento dell’ammontare è effettuato in solido dalle parti del giudizio [4].

Va osservato in conclusione che per il soggetto che – in esecuzione del decreto del giudice – sostiene la spesa del C.T.U., il pagamento della somma corrispondente all’IVA rileva solo come costo del processo, atteso che in base all’art. 19, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972, esso può detrarre dall’IVA esigibile esclusivamente l’IVA «addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa».

Nel caso di specie, invece, il C.T.U., conformemente al disposto dell’art. 18 del citato D.P.R. n. 633/1972, deve rivalsare l’IVA non nei riguardi della parte della causa giudiziaria, ma a carico dell’Amministrazione giudiziaria che gli ha commissionato la perizia e, pertanto, la parte giudiziale che ne sostiene il costo in attuazione della disposizione del giudice non può esercitare il diritto alla detrazione.

 

4. la questione dell’applicazione della ritenuta di acconto

 

In relazione all’osservanza degli obblighi della sostituzione di imposta derivanti dal disposto dell’art. 25 del D.P.R. n. 600/1973, particolari incertezze possono derivare in considerazione della circostanza che il soggetto che, in attuazione di un decreto giudiziario, liquida il compenso soggetto a ritenuta non ha instaurato con il beneficiario delle somme un rapporto di committenza, sicché si troverebbe ad applicare un prelievo di imposta su degli emolumenti riconosciuti da terze parti. Al riguardo, va considerato che, a più riprese [5], l’Amministrazione finanziaria ha avuto modo di precisare che l’art. 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in ossequio alla direttiva di estensione del sistema della ritenuta alla fonte, sancita dalla relativa legge delega, ha inteso ampliare l’area di applicazione della ritenuta stessa fino a comprendervi anche le remunerazioni di compensi per prestazioni professionali rese, al di fuori del sinallagma commissione-prestazione, a favore di un committente non esecutore del pagamento.

In altri termini, per effetto della citata norma, lo status di sostituto d’imposta è attribuito a chiunque corrisponda compensi per prestazioni professionali, anche se queste ultime sono state rese nell’interesse di terzi e anche se l’adempimento del pagamento è disposto in modo coattivo in base a decreto del giudice.

In estrema sintesi, pertanto, la parte giudiziaria chiamata ad adempiere al decreto del giudice di liquidazione delle spese del C.T.U. estingue pur sempre un debito qualificato dall’originario contenuto di corrispettivo dovuto per prestazioni professionali, ancorché soddisfatto da una terza parte rispetto al committente.

E tale qualificazione originaria comporta l’applicazione della ritenuta di acconto prevista dal citato art. 25 del D.P.R. n. 600/1973.

 

Dott. Giovanni Mocci



[1] Cfr. gli att. 191 e 201 del R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443.

[2] Cfr. l’art. 191 del R.D. n. 1443/1940.

[3] Cfr. l’art. 201 del R.D. n. 1443/1940.

 

[4] Conforme a tale avviso è la circ. 19 febbraio 1982, n. 9/333987, in Boll. Trib., 1982, 472, nella quale l’Amministrazione finanziaria ha espresso l’avviso che ai consulenti tecnici è fatto obbligo «a norma del successivo art. 18, di addebitare in via di rivalsa nei confronti del committente – sia esso una delle parti in causa o l’amministrazione della giustizia». Resta inteso che alle parti in causa va attribuita la veste di committente nel caso del cosiddetto C.T.P. (consulente tecnico di parte) mentre all’Amministrazione della giustizia compete la committenza nel caso del C.T.U. (consulente tecnico di ufficio).

[5] Cfr. ris. 8 novembre 1991, n. 8/1619, nonché circ. 6 dicembre 1994, n. 203/E-III-7-1260, rispettivamente in Boll. Trib., 1993, 70, e 1995, 48.

 

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