20 Giugno, 2013

SOMMARIO: 1.Introduzione – 2.Regime patrimoniale di comunione/separazione e vendite di beni relativi all’impresa: problematiche in materia di accertamento e rilevanza dell’“attività separata” – 3.Dichiarazione congiunta e “vicende” della responsabilità tributaria del coniuge co-dichiarante obbligato principale.

 

1.Introduzione

 

La dinamica dell’iniziativa imprenditoriale nella dimensione tipica delle piccole imprese italiane con molta lentezza presenta fenomeni evolutivi della forma, la quale, per tradizione, resta ancora ancorata a quella individuale [1] e vive, notoriamente, di una fisiologica duplicità di sfere giuridiche: quella “istituzionale” non imprenditoriale e quella, invece, imprenditoriale; tale duplicità rischia di diventare pluralità ogniqualvolta il coniuge dell’imprenditore (o dell’imprenditrice) sia coinvolto quale parte (interveniente) in atti di trasferimento di beni relativi all’impresa (individuale).

Il coinvolgimento di uno dei due coniugi, peraltro, ricorreva anche in tutti i casi – ormai sempre più rari nell’esperienza – in cui sussisteva una coobbligazione solidale del coniuge-co-dichiarante ai sensi dell’abrogato art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114; il punto potrebbe, peraltro, rivelarsi di attualità laddove si introducesse una tassazione del reddito della famiglia in quanto tale.

 

[-protetto-]

 

 

2.Regime patrimoniale di comunione/separazione e vendite di beni relativi all’impresa: problematiche in materia di accertamento e rilevanza dell’“attività separata”

 

Una prima problematica si evidenzia in ragione degli effetti tributari del regime patrimoniale tra coniugi [2].

Si pone il dubbio se il reddito derivante da atti dispositivi realizzati in costanza di uno o di altro regime patrimoniale (comunione legale o separazione) sia diversamente imputabile in ragione del singolo regime e se l’atto dispositivo stesso si debba considerare effettuato nella sua totalità o parzialità nell’esercizio di un’impresa commerciale ai fini dell’applicazione dell’IVA su tutto il corrispettivo o solo su di una parte e di quella di registro in misura proporzionale o fissa.

Un caso frequente può rimarcare l’attualità della questione: si ipotizzi che un imprenditore in regime di comunione legale acquisti un terreno edificabile, successivamente modifichi il proprio regime patrimoniale e, quindi, provveda alla vendita del terreno realizzando una “plusvalenza”; in tal caso la “plusvalenza” potrebbe essere dichiarata o integralmente dall’imprenditore secondo un principio di competenza oppure solo parzialmente con dichiarazione da parte del coniuge non imprenditore secondo un principio, questa volta, di cassa.

Le regole civilistiche di riferimento sono costituite dagli artt. 177, 178 e 179 c.c. [3].

A una prima impressione sembra che nella comunione siano destinati a cadere, tra l’altro, i frutti di beni personali, i proventi dell’attività “separata”, le aziende ma, in quest’ultimo caso, solo se gestite assieme da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio e gli utili e incrementi delle aziende se, questa volta, appartenenti a uno solo dei coniugi anche se gestite da entrambi.

Nella scia del solo dettato civilistico le eventuali plusvalenze realizzate dalla vendita dell’azienda, di un ramo d’azienda e di beni relativi all’impresa del coniuge imprenditore individuale sembrerebbero riferibili anche al coniuge non imprenditore, anche quando il vincolo della comunione sia stato sciolto prima dell’atto realizzativo.

Peraltro, già la giurisprudenza tributaria ha evidenziato la necessità di differenziare il caso in cui i beni alienati siano riferibili a un’impresa esercitata esclusivamente da uno dei coniugi da quello in cui l’azienda sia gestita in comune da entrambi i coniugi, ritenendosi che alla comunione siano sottratti i beni della prima specie [4] ma non quelli della seconda [5].

Il disposto normativo tributario induce, però, ad altra e più netta conclusione.

L’art. 4, primo comma, lett. a), del TUIR, infatti, prevede che «i redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale di cui agli articoli 177 e seguenti del codice civile sono imputati a ciascuno dei coniugi per metà del loro ammontare netto o per la diversa quota stabilita ai sensi dell’articolo 210 dello stesso codice. I proventi dell’attività separata di ciascun coniuge sono a lui imputati in ogni caso per l’intero ammontare».

L’art. 4, quindi, se, da un lato, riconosce la riferibilità anche al coniuge non imprenditore di una parte dei redditi oggetto di comunione, dall’altro sancisce in modo inequivoco, con l’inciso “in ogni caso”, che ai fini della tassazione i proventi dell’attività “separata” del coniuge debbano essere a questi imputati interamente.

Sotto questo è, quindi, rilevante l’eventuale esclusività nella gestione dell’impresa e necessario meglio definire il concetto di bene personale e di attività separata del coniuge.

Poiché l’art. 4 del TUIR assume la natura “separata” dell’attività del coniuge quale elemento necessario per imputare allo stesso l’interezza dei proventi dell’attività “separata”, per il coniuge imprenditore ai fini tributari sarebbe separata l’attività di impresa svolta con un’azienda costituita sia prima che dopo l’instaurarsi del regime di comunione legale.

Non sembra che a una diversa conclusione porti l’applicazione dell’art. 178 c.c. avulsa dalla presenza dell’art. 4 del TUIR, tale che quando i coniugi si trovano nel regime della comunione legale, i beni, inclusi gli immobili acquistati da uno dei coniugi e da questo destinati all’esercizio dell’impresa costituita dopo il matrimonio, rientrino a far parte della comunione “de residuo”.

L’art. 178 c.c. si rivela, infatti, di natura generale rispetto alla disposizione tributaria speciale rappresentata dall’art. 4, primo comma, lett. a), del TUIR.

Solo nella cogestione dell’impresa esercitata con beni acquistati dall’imprenditore l’imputazione del reddito potrebbe avvenire sulla base del criterio della contitolarità della fonte in quanto la cogestione giustificherebbe l’assoggettamento degli incrementi aziendali e degli utili alle regole della comunione; laddove, però, la vendita abbia ad oggetto, ad esempio, un immobile o un terreno acquistato solo dal coniuge imprenditore o un edificio da questi costruito, non si è di fronte a un’impresa cogestita di modo che, a fronte di un’attività separata di natura imprenditoriale del coniuge, i proventi dell’impresa non potrebbero essere imputati al coniuge non imprenditore.

Che tale debba essere la conclusione si evince, peraltro, dall’art. 4 del TUIR (laddove si prevede che «debbano essere imputati in ogni caso per intero al coniuge i proventi dell’attività separata») il quale, nell’inciso “in ogni caso”, in modo perentorio attribuisce ai fini fiscali prevalenza al criterio della natura individuale della gestione imprenditoriale su di un’eventuale natura comune dell’azienda.

Si aggiunga l’irragionevole situazione che si creerebbe a seguito di un’imputazione pro quota in base alla proprietà dei beni aziendali: se così fosse, per assurdo, l’imprenditore avrebbe un vantaggio nel ridurre il proprio imponibile e il coniuge non imprenditore un’ingiustificata penalizzazione in quanto sarebbe obbligato al pagamento di imposte su redditi che non ha mai concorso a produrre e che non gli spettano in base alle regole civilistiche.

Dal combinato disposto dell’art. 178 c.c. ora richiamato e dell’art. 4, lett. a), del TUIR, i redditi prodotti dall’impresa individuale in comunione andrebbero attribuiti al solo coniuge imprenditore, potendosi prescindere dalla proprietà personale o comune dei beni, bensì rilevando il solo possesso esclusivo dei medesimi in capo al titolare dell’azienda [6].

Simile conclusione trova conferma anche sul fronte dell’IVA alla luce di quelle sentenze che si sono occupate all’assoggettamento ad IVA dei negozi traslativi di immobili costruiti dal coniuge imprenditore in regime di comunione legale [7].

La Cortedi Cassazione è chiara nel ritenere che l’operazione di vendita degli immobili realizzati sui terreni in comunione debba essere considerata in modo unitario e l’intero importo percepito dal coniuge imprenditore debba essere assoggettato ad IVA anche quando il coniuge non imprenditore intervenga all’atto; più specificamente, la cessione del bene da parte del coniuge imprenditore integrerebbe un atto d’impresa il cui assoggettamento ad IVA risulta assorbente, non potendo «non abbracciare l’atto nella sua unità e globalità» mentre il terzo acquirente non potrebbe «rivestire, di fronte ad un atto per lui unico ed economicamente inscindibile, la qualità di contribuente inciso dall’Iva e di debitore solidale pro quota, della normale imposta di registro» [8].

 

3.Dichiarazione congiunta e “vicende” della responsabilità tributaria del coniuge co-dichiarante obbligato principale

 

Una seconda problematica, che fino a tempi recenti ricorreva e che potrebbe rivivere laddove, in una prospettiva de iure condendo, si intendesse apprezzare l’unitarietà economica della famiglia nella produzione e possesso di un reddito, si collega al disposto dell’art. 17, comma 5, della legge n. 114/1977, il quale prevedeva che i coniugi fossero «responsabili in solido per il pagamento dell’imposta, pene pecuniarie e interessi iscritti».

Tale disposizione ha sempre posto (e nei limiti della sopravvivenza di residui contenziosi ancora pone) una serie di questioni attinenti alla partecipazione del coniuge coobbligato all’accertamento e al processo relativo al coniuge dichiarante e al condizionamento che le vicende di questi ultimi due momenti dell’attuazione dell’obbligazione tributaria dispiegano sul coinvolgimento del coniuge codichiarante.

In particolare, si rinvengono alcune criticità nel caso in cui al coniuge codichiarante coobbligato solidale sia stata notificata la sola cartella di pagamento (ovviamente per accertamenti anteriori all’introduzione dell’avviso di accertamento c.d. impoesattivo) e nel caso in cui l’accertamento principale relativo all’altro coniuge, per diverse ragioni, si sia rivelato infondato.

A) In ordine al primo aspetto, se la responsabilità dell’obbligato dipendente si fonda su quella dell’obbligato principale, l’effettività della tutela non può che essere garantita dalla notifica dell’avviso di accertamento, salvo ritenere sufficiente che il coniuge co-dichiarante che non abbia ricevuto l’avviso possa contestare il merito della pretesa avanzata nei confronti del coobbligato dipendente impugnando l’avviso contestualmente alla cartella ai sensi del terzo comma dell’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Si aggiunga che, se l’esistenza della coobbligazione dipendente si posa sul medesimo accertamento in fatto di cui al coobbligato principale, si potrebbe ipotizzare un litisconsorzio ai sensi del combinato disposto degli artt. 102 c.p.c. e 14 del D.Lgs. n. 546/1992.

La disciplina tributaria contenuta nell’art. 14, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 546/1992 [9], assume dei connotati più stringenti rispetto alla norma processual-civilistica di cui all’art. 102 c.p.c. [10], disponendo che, qualora l’oggetto del ricorso riguardi inscindibilmente più soggetti, questi debbono essere tutti parte del medesimo processo, ricadendo sul giudice l’obbligo di ordinare l’integrazione del contraddittorio.

Tale norma configura un litisconsorzio necessario in presenza di due specifiche condizioni rappresentate, rispettivamente, dall’oggetto del ricorso e dalla inscindibilità della causa tra più soggetti.

Con riguardo al litisconsorzio necessario nella fase di impugnazione, in base all’art. 331 c.p.c. [11] il giudice è tenuto a ordinare l’integrazione del contraddittorio qualora una sentenza pronunciata tra più parti, in una causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, non sia stata impugnata nei confronti di tutte.

Come ha sancito la Cortedi Cassazione, con indirizzo, ormai, consolidato, l’inscindibilità emerge a seguito del rapporto tra atto impugnato e contestazione del contribuente allorquando la fattispecie costitutiva dell’obbligazione sia caratterizzata da elementi comuni a una pluralità di soggetti e l’impugnazione proposta da uno o più degli obbligati investa siffatti elementi, rendendosi doveroso un accertamento giudiziale unitario della fattispecie costitutiva dell’obbligazione [12].

Dal dettato delle richiamate norme discende che l’integrazione del contraddittorio è obbligatoria non solo in ipotesi di situazione di litisconsorzio necessario sostanziale, quando cioè i rapporti dedotti in causa siano assolutamente inscindibili e non suscettibili di soluzioni differenti nei confronti delle varie parti del giudizio, ma, altresì, in ipotesi di cause che riguardino due (o più) rapporti scindibili ma logicamente interdipendenti tra di loro o dipendenti da un comune presupposto di fatto e, pertanto, meritevoli dell’adozione di soluzioni uniformi nei confronti delle diverse parti.

In corrispondenza di un regime di dichiarazione congiunta ai sensi della disposizione citata e del regime di solidarietà ai fini del pagamento delle imposte, sarebbe richiesto un accertamento giudiziale unitario nei confronti dei coniugi, posta la natura comune a entrambi i co-dichiaranti degli elementi alla base della contestazione.

È, allora, chiara la violazione sia dall’art. 102 c.p.c. che dall’art. 14 del D.Lgs. n. 546/1992 laddove un giudice ritenesse legittima la cartella di pagamento notificata al coniuge co-dichiarante nonostante la mancata integrazione del contraddittorio nel giudizio instaurato dal coniuge dichiarante obbligato principale; le caratteristiche della responsabilità solidale c.d. dipendente (per distinguerla da quella c.d. autonoma) del coniuge co-dichiarante richiederebbero, infatti, l’integrazione del contraddittorio da parte dell’Agenzia delle entrate nel giudizio avente ad oggetto l’avviso di accertamento notificato all’obbligato principale.

Inoltre, il giudice d’appello dovrebbe rispettare il disposto dell’art. 59, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui il legislatore prevede il dovere perla Commissionetributaria provinciale di rimettere «la causa alla commissione provinciale che ha emesso la sentenza impugnata … b) quando riconosce» (o avrebbe dovuto riconoscere) «che nel giudizio di primo grado il contraddittorio non è stato regolarmente costituito o integrato».

B) Quanto, invece, al secondo aspetto, la natura dipendente della responsabilità solidale del coniuge co-dichiarante rispetto all’esistenza dell’obbligazione di un maggior reddito in capo al coniuge dichiarante quale obbligato principale impone di valorizzare tutti quegli eventi relativi sia al coniuge obbligato “principale” che a soggetti terzi a questo legati che possano rendere l’avviso notificato al coniuge obbligato principale definitivo in senso favorevole.

Per fare un esempio, si pensi al caso in cui la moglie/il marito di un socio di una piccola società di capitali riceva una cartella di pagamento che tragga origine dall’accertamento in capo alla società partecipata dal socio di una serie di operazioni ritenute per fatture inesistenti intestate e il contenzioso relativo all’accertamento in capo alla società emittente /o intestataria si concluda con l’accertamento dell’esistenza, invece, delle operazioni fatturate e, quindi, con la piena spettanza della detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti ad opera della società partecipata dal socio il cui coniuge abbia ricevuto la cartella.

C) Una finale osservazione merita l’irrogabilità delle sanzioni alla luce degli artt. 2 e 5 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

Dal dettato degli artt. 2, comma 2 [13], e 5 [14], del D.Lgs. n. 472/1997, risulta evidente che il coniuge co-dichiarante non può essere considerato autore materiale delle violazioni in quanto le stesse, consistendo nell’omessa dichiarazione di un maggior reddito, sono state commesse dal coniuge dichiarante e/o, in ipotesi, dalla società da questi partecipata, ove si tratti di accertamenti alle c.d. piccole società di capitali: se così non fosse sarebbe palese la violazione dei principi di personalità e di colpevolezza delle sanzioni tributarie.

Ad adiuvandum: che la ricostruzione ora operata paia corretta è dato desumersi dall’art. 8 del D.Lgs. n. 472/1997 ai sensi del quale «l’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi».

Dalla lettura della norma si desume l’intenzione del legislatore di non attribuire le sanzioni tributarie a persona diversa dall’autore materiale della violazione; l’esclusione dell’applicazione delle sanzioni agli eredi del soggetto che le abbia commesse conferma la generale necessità della personalità e colpevolezza.

Nel caso dell’erede, così come, per analogia, in quello della moglie co-dichiarante, non può instaurarsi una relazione tra le sanzioni derivanti dalla violazione della norma tributaria e un soggetto terzo che non abbia alcun legame con il comportamento contrario alle norme attribuibile al soggetto che l’abbia commesso

Si aggiunga la rilevanza dell’abrogazione del citato art. 17, comma 5, della legge n. 114/1977, proprio a seguito dell’introduzione del D.Lgs. n. 472/1997; l’art. 17, nella parte de qua, disponendo che «i coniugi sono responsabili in solido per il pagamento dell’imposta, pene pecuniarie e intessi iscritti», poteva lasciare margine a un’applicazione, anche nei confronti del coniuge co-dichiarante, delle sanzioni commesse dall’altro coniuge, estendendo in via solidale anche la responsabilità derivante dalle violazioni di legge.

L’art. 26 del D.Lgs. n. 472/1997 prevede espressamente che «il riferimento alla soprattassa e alla pena pecuniaria, nonché ad ogni altra sanzione amministrativa, ancorché diversamente denominata, contenuto nelle leggi vigenti, è sostituito con il riferimento alla sanzione pecuniaria, di uguale importo.

I riferimenti contenuti nelle singole leggi di imposta a disposizioni abrogate si intendono effettuati agli istituti e alle previsioni corrispondenti risultanti dal presente decreto».

 

Prof. Avv. Valerio Ficari

 

 



[1] Per approfondimenti, se si vuole, si rinvia a quanto osservato in ficari, Le trasformazioni imprenditoriali e societarie, in aa.vv., Le operazioni societarie straordinarie (assieme a della valle – marini), Torino, 2009, 223 ss., e id., Trasformazione societaria, “evoluzione” della forma soggettiva da collettiva in individuale ed assenza di effetti traslativi dell’azienda ai fini dell’imposta di registro, in Corr. trib., 2008, 1291 ss.

[2] Sul rapporto tra tassazione e dinamiche patrimoniali interne alla famiglia si veda la recente monografia di turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, Torino, 2012, spec. 230 ss., per l’analisi delle problematiche di cui al testo nonché per le indicazioni bibliografiche.

[3] Ai sensi dei quali costituiscono «oggetto della comunione: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati; d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi» (art. 177 c.c.); «I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa» (art. 178 c.c.); e «Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento; b) i beni acquistati successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento on è specificato che essi sono attribuiti alla comunione; c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori; d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione; …» (art. 179 c.c.).

[4] Cfr. Comm. trib. centr. 15 aprile 1994, n. 1101, in Comm. trib., 1995, I, 743.

[5] Cfr. Cass., sez. I, 23 febbraio 1998, n. 1934, in Guida al dir., 1998, 43; e Comm. trib. centr. 13 novembre 1996, n. 5629, in Comm. trib., 1996, I, 727.

 

[6] Così Cass., sez. trib., 24 febbraio 2005, n. 3866, in Boll. Trib. On-line.

[7] Su cui, di recente, anche la giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte Giust. UE, sez. II, 15 settembre 2011, cause riunite C-180/10 e C-181/10, in Boll. Trib. On-line) la quale ha evidenziato come la piena detrazione dell’IVA assolta a monte sull’acquisto del bene o servizio rivenduto o utilizzato dall’imprenditore individuale impedisca di assoggettare l’operazione per metà ad iva e per l’altra metà all’imposta di registro proporzionale.

[8] Cfr. Comm. trib. centr. 30 settembre 2002, n. 6801, in Dir. prat. trib., 2003, 509; Comm. trib. prov. di Lecce, sez. I, 29 novembre 2006, nn. 303 e 304, in Boll. Trib. On-line.; Cass., sez. I, 28 dicembre 1995, n. 13125, in Boll. Trib., 1996, 1318, cui hanno fatto seguito Cass., sez. I, 11 ottobre 1996, n. 8870, in Giur. imp., 1997, 207; Cass., sez. I, 24 aprile 1997, n. 3604, ibidem, 789; e Cass., sez. I, 12 settembre 1997, n. 9036, in Comm. trib., 1998, II, 30. Tale posizione si è consolidata con Cass. n. 1934/1998, cit., nella quale la Suprema Corte ha affermato che «la cessione da parte di coniugi, in regime di comunione legale dei beni, di un immobile realizzato da uno solo di essi nell’accertato esercizio della sua attività commerciale su un suolo di proprietà comune resta assoggettata, anche per la quota di comproprietà del coniuge non imprenditore, all’imposta sul valore aggiunto e all’imposta di registro in misura fissa; ne consegue che la cessione del bene, nella fattispecie, pone in essere un atto di impresa, il cui assoggettamento ad Iva è assorbente e non può non abbracciare l’atto nella sua unità e globalità, mentre il terzo acquirente non può rivestire di fronte ad un atto per lui unico ed economicamente inscindibile, la qualità di contribuente inciso ai fini dell’Iva e di debitore solidale pro quota dell’imposta proporzionale di registro».

[9] «Se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi. Se il ricorso non è stato proposto da o nei confronti di tutti i soggetti indicati nel comma 1 è ordinata l’integrazione del contraddittorio mediante la loro chiamata in causa entro un termine stabilito a pena di decadenza.”.

[10] Il quale prevede che, qualora la decisione non possa pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo («Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito»).

 

[11] «Se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario, l’udienza di comparizione».

[12] Così già da Cass., sez. un., 18 gennaio 2007, n. 1052, in Boll. Trib., 2007, 1143.

[13] La «sanzione amministrativa è riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione».

[14] Nelle «violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa».

 

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