6 Febbraio, 2014

 SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Il sequestro probatorio – 3. Lo “scudo fiscale-ter” 4. I benefici dello scudo fiscale 5. La sentenza n. 14089/2013 della Corte di Cassazione 6. La sentenza n. 35970/2010 della Corte di Cassazione.

1. Introduzione

Si premette in linea generale che il c.d. “scudo fiscale” è una tipologia di regolarizzazione in materia tributaria e penale simile ad un condono perché inibisce l’azione penale e di accertamento tributario nel caso di alcuni illeciti tributari e penali. Esso sana alcuni eventuali comportamenti illeciti o irregolari effettuati dal contribuente riguardo alla produzione e detenzione di capitali detenuti all’estero derivanti da redditi non denunciati e presumibilmente imponibili e dall’acquisto di immobili con i suddetti capitali, tramite il pagamento di una imposta forfetaria, una tantum, di valore inferiore alle normali aliquote tributarie.

 In questo contesto si innesta la sentenza 26 marzo 2013, n. 14089 (1), con la quale la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito, in tema di misure cautelari reali, che è illegittimo il sequestro probatorio sui conti correnti del contribuente che abbia espatriato ricavi in nero e poi abbia avviato la pratica di adesione allo scudo fiscale.

 Tale arresto della Suprema Corte ci offre lo spunto per una riflessione in merito sia allo scudo fiscale sia al sequestro probatorio.

 La vicenda riguarda un procedimento penale attivato per violazione dell’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per avere l’imputato, rappresentante legale di una società immobiliare, al fine di evadere le imposte sul redditi e sul valore aggiunto, indicato nella dichiarazione annuale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo e per avere dato disposizione di trasferire all’estero un’ingente somma di denaro, frutto di una cessione di due unità immobiliari dalla società dallo stesso gestita ad altra società di capitali. Incorre nel reato di dichiarazione infedele chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro cinquantamila;

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a euro due milioni.

 Nell’ambito delle indagini per tale ipotesi di reato, il Pubblico Ministero ha disposto il sequestro probatorio di vario materiale documentale e cartaceo, il cui decreto, impugnato dall’imputato, è stato confermato dal Tribunale del riesame.

 Avverso il provvedimento del Tribunale l’imputato ha proposto opposizione in cassazione con il quale ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione per assenza del vincolo pertinenziale tra quanto sequestrato e il reato contestato, considerato che il sequestro probatorio non costituisce un mezzo di ricerca della notizia di reato, come invece sarebbe avvenuto, secondo la prospettazione dell’imputato, nel caso di specie, ma deve tendere all’acquisizione delle prove perché finalizzato alla ricerca della prova. Il Tribunale non ha esplicitato con chiarezza i motivi della decisione assunta, avendo descritto in modo sommario i beni sequestrati, impedendo la possibilità di valutare l’eventuale “esuberanza” del sequestro per assenza di collegamento tra i beni appresi e le finalità del provvedimento (ad esempio, sono stati sequestrati anche carnet di assegni non utilizzati).

 In secondo luogo il ricorrente censura il provvedimento del Tribunale per erroneità delle proprie determinazioni assunte a proposito dell’operatività del c.d. “scudo fiscale”, essendo stata prodotta in giudizio documentazione idonea a provare di aver dato corso alla procedura prevista dall’art. 13-bis del D.L. 1° luglio 2009, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102), ed era perciò doveroso darsi luogo ad una declaratoria di improcedibilità dell’azione penale ex art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, mentre il giudice di merito ha osservato che, ai sensi dell’art. 13-bis, solo il reale pagamento dell’imposta determina l’effetto estintivo invocato.

 Perciò negare l’operatività dello scudo fiscale equivarrebbe a vanificare anche gli effetti premiali discendendi dalla regolarizzazione, considerato che, trattandosi di dichiarazione segretata, il solo documento idoneo a dimostrare l’avvenuta operazione di rimpatrio sono le dichiarazioni riservate rilasciate dagli intermediari (nelle quali si indica l’ammontare della somma rimpatriata), mentre il versamento sarebbe dovuto avvenire tramite intermediari abilitati (istituti bancari, società fiduciarie, ecc.).

 

[-protetto-]

 

2. Il sequestro probatorio

 

 All’esito del giudizio di cassazione si assume che il codice di procedura penale prevede tre distinti tipi di sequestro:

 1. il sequestro probatorio,

 2. il sequestro preventivo,

 3. il sequestro conservativo.

 Il primo è collocato tra i mezzi di ricerca della prova, gli altri due tra le misure cautelari.

 Il sequestro probatorio è un istituto processuale previsto e disciplinato dagli artt. 253 e segg. c.p.p., di competenza della Polizia giudiziaria e del Pubblico Ministero, finalizzato alla ricerca degli elementi di prova. È strettamente collegato alla perquisizione essendone spesso una diretta conseguenza.

 Il decreto di adozione del provvedimento è motivato dell’Autorità giudiziaria, d’ufficio o su richiesta, al fine dell’acquisizione del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti. Tra le motivazioni che possono portare ad un sequestro probatorio vi è l’acquisizione del corpo del reato o di cose pertinenti.

 Laddove non sia possibile l’intervento tempestivo dell’Autorità giudiziaria, è consentito agli ufficiali di Polizia giudiziaria sequestrare i medesimi beni prima che essi si disperdano nelle more dell’intervento del Pubblico Ministero (art. 354 c.p.p.).

 Il sequestro riguarda, come già detto, il corpo del reato e le cose ad esso pertinenti: il codice di rito disciplina, in particolare, il sequestro di corrispondenza, titoli, valori, e somme in conti correnti.

 Fondamentale importanza svolge la motivazione del decreto di sequestro, consentendo la stessa di valutare la sussistenza dei requisiti di legge e, dunque, la legittimità del provvedimento.

 Contro il decreto di sequestro, infatti, tanto l’imputato quanto la persona cui le cose sono state sequestrate, nonché la parte che avrebbe diritto alla restituzione di esse, possono proporre richiesta di riesame ai sensi dell’art. 324 c.p.p. Richiesta, questa, che non sospende l’esecuzione del provvedimento.

 I beni sequestrati sono custoditi nella cancelleria del giudice ovvero nella segreteria del Pubblico Ministero; laddove ciò non fosse possibile od opportuno, l’Autorità giudiziaria provvede ad indicare altro luogo adatto, nominando all’uopo un custode e avvertendolo dei suoi doveri e delle responsabilità penali cui va incontro in caso di violazione.

 Il sequestro cessa laddove vengano meno le esigenze che lo hanno determinato; solitamente all’esito delle indagini preliminari. Nulla toglie infatti che ad esso, sui medesimi beni, possano subentrare i sequestri previsti dalle misure cautelari reali (sequestro preventivo e sequestro conservativo).

3. Lo “scudo fiscale-ter”

 

 Con specifico riguardo dello “scudo fiscale-ter” (2), occorre rilevare che la ridefinizione della normativa volta a consentire l’emersione delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero da soggetti residenti in Italia, è avvenuta ad opera dell’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009, poi ulteriormente ritoccato dall’art. 1 del D.L. 3 agosto 2009, n. 103 (convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2009, n. 141), e dal D.L. 30 dicembre 2009, n. 194 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25, c.d. “Milleproroghe”).

 Il D.L. n. 78/2009 ha così istituito un’imposta straordinaria per regolarizzare la posizione fiscale di chi, fino alla data del 31 dicembre 2008 e successive proroghe, ha esportato o detenuto all’estero capitali o altre attività in violazione dei vincoli valutari e degli obblighi tributari sanciti dalle disposizioni sul c.d. “monitoraggio fiscale” previsto dal D.L. 28 giugno 1990, n. 167 (convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227), nonché degli obblighi di dichiarazione dei redditi imponibili di fonte estera (3).

 L’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009, recante la nuova versione dello “scudo fiscale”, interviene in presenza di una normativa antiriciclaggio che, rispetto al 2001, è stata profondamente rivisitata, in ottemperanza alla III Direttiva europea n. 2005/60/CE del 26 ottobre 2005 (relativa alla prevenzione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo), recepita nel D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo).

 Infatti, l’art. 13-bis, quarto comma, del D.L. n. 78/2009, rinvia agli artt. 14, 15 e 17 del D.L. 25 settembre 2001, n. 350 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 409), quanto al permanere degli obblighi antiriciclaggio sulle operazioni “scudate”.

 La norma in esame, rubricata «Disposizioni concernenti il rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute fuori del territorio dello Stato», prevede il beneficio dello “scudo fiscale” attraverso l’istituzione di una imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali, da una data precedente al 31 dicembre 2008:

 a) detenute fuori del territorio dello Stato senza l’osservanza delle disposizioni del D.L. n. 167/1990;

 b) a condizione che le stesse siano rimpatriate in Italia da Stati non appartenenti all’Unione europea, ovvero regolarizzate o rimpatriate perché detenute in Stati dell’Unione europea e in Stati aderenti allo Spazio economico europeo che garantiscono un effettivo scambio di informazioni fiscali attraverso i canali amministrativi.

 Il termine entro cui doveva essere effettuato il rimpatrio o la regolarizzazione era originariamente compreso tra il 15 settembre 2009 e il 15 dicembre 2009. Successivamente, il D.L. n. 194/2009 ha prorogato i detti termini al 30 aprile 2010, sia pure con la previsione di una diversa aliquota percentuale: per i rimpatri o le regolarizzazioni effettuati entro il 15 dicembre 2010, l’imposta sostitutiva era del 5 per cento; per quelli sino al 28 febbraio 2010, l’imposta è stata elevata al 6 per cento ed al 7 per cento per i rimpatri e le regolarizzazioni tra il 1° marzo ed il 30 aprile 2010.

 Si aggiunge altresì che il D.L. n. 78/2009 presenta anche un esplicito richiamo agli adempimenti antiriciclaggio previsti dall’art. 17 del D.L. n. 350/2001, cui devono adeguarsi gli intermediari e i professionisti che sono chiamati a seguire le operazioni di “emersione”, i quali “devono” rispettare gli obblighi di adeguata verifica della clientela, registrazione e segnalazione previsti dal D.Lgs. n. 231/2007.

4. I benefici dello scudo fiscale

 

 L’effettivo pagamento dell’imposta straordinaria produce, in tema di emersione di attività detenute all’estero, gli effetti di cui agli artt. 14 (Effetti del rimpatrio) e 15 (Regolarizzazione delle attività finanziarie detenute all’estero) del D.L. n. 350/2001 e rende applicabili le disposizioni di cui all’art. 17 del medesimo decreto, come espressamente previsto dalla prima parte del quarto comma dell’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009.

 La stessa disposizione afferma nel prosieguo che, fermo quanto sopra previsto, e per l’efficacia di quanto sopra, l’effettivo pagamento dell’imposta comporta, in materia di esclusione della punibilità penale, limitatamente al rimpatrio e alla regolarizzazione di cui allo stesso art. 13-bis, l’applicazione della disposizione di cui all’art. 8, sesto comma, lett. c), della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni.

 Per conseguire tuttavia tali effetti “premiali” delle dichiarazioni di emersione di cui al paragrafo precedente, occorre verificare la sussistenza dei presupposti per accedere alle operazioni di emersione delle attività detenute all’estero di cui all’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009.

 A tal fine, occorre appurare, da parte dell’Amministrazione finanziaria, l’effettiva operatività degli effetti preclusivi ed estintivi previsti dall’art. 14, primo comma, del D.L. n. 350/2001, opposti dal contribuente con riguardo agli imponibili o maggiori imponibili dei quali sia contestata l’omessa dichiarazione e alle connesse sanzioni amministrative, tributarie e previdenziali, conseguentemente irrogabili (4).

 A questo riguardo va tenuto presente che, ai sensi del richiamo operato dal quarto comma dell’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009 agli artt. 14 e 15 del D.L. n. 350/2001, l’effetto di “scudo” contro possibili pretese dell’erario in relazione ai capitali fatti emergere è possibile solo se alla data di presentazione della dichiarazione non sia ancora stata constatata una violazione della disciplina in materia di monitoraggio, non siano iniziati accessi, ispezioni o verifiche, nonché altre attività di accertamento tributario o contributivo, di cui l’interessato abbia avuto formale conoscenza, mediante la notifica, ritualmente eseguita, dei connessi atti.

 La ratio dell’indicata previsione è evidente. Laddove, infatti, fosse consentito al contribuente di adire i procedimenti de quibus, anche qualora fosse già stata avviata un’attività di controllo nei suoi confronti, gli stessi diverrebbero facili strumenti attraverso cui ottenere indebiti risparmi d’imposta, costituendo i valori dichiarati «base imponibile con riguardo gli importi rimpatriati», in quanto tali idonei a definire la posizione fiscale e previdenziale del contribuente.

 L’Amministrazione finanziaria ha affermato al riguardo (5) che tra gli atti inibitori degli effetti dell’operazione di emersione sono compresi anche gli inviti, i questionari e le richieste di cui agli artt. 51, secondo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (per l’IVA), e 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (per le imposte sui redditi), validamente notificati prima del perfezionamento delle operazioni di emersione. Negli stessi documenti di prassi è stato altresì chiarito che il contribuente non può invocare gli effetti dello scudo fiscale solo con riferimento all’anno o agli anni d’imposta per i quali sono stati notificati avvisi di accertamento o di rettifica ovvero sia stata iniziata un’attività di accertamento.

 Va inoltre aggiunto che non deve essere considerata causa ostativa la comunicazione derivante dalla liquidazione delle imposte in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti, effettuata dall’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973, né quella derivante dal controllo formale delle medesime dichiarazioni a norma dell’art. 36-ter dello stesso decreto.

 Occorre pertanto sempre accertare se alla data di presentazione della dichiarazione riservata, rilevata dalla copia acquisita presso l’intermediario, non risultava pendente un’attività istruttoria finalizzata al controllo sostanziale della posizione fiscale del contribuente e, in presenza di evidenze in tale senso, chiedere agli Uffici o ai Reparti della Guardia di finanza procedenti se, alla suddetta data, il contribuente ne avesse avuto formale conoscenza.

 Ai fini di cui trattasi, quindi, deve essere presa in considerazione ogni evidenza esistente a sistema pendente alla data di presentazione della dichiarazione riservata riferibile a tutti i periodi d’imposta, per qualsiasi motivo ancora accertabili a partire dal 2008 (6).

 Allo stesso riguardo occorre anche considerare che:

 gli effetti della dichiarazione riservata non si producono automaticamente nei confronti di soggetti che detengono attività all’estero in comunione con altri soggetti qualora soltanto questi ultimi abbiano effettuato le operazioni di emersione;

 nel caso in cui la dichiarazione riservata sia stata presentata dagli eredi, essi godono della preclusione degli accertamenti tributari relativi ai redditi del de cuius per i quali sono solidalmente obbligati e non anche per le attività detenute all’estero in proprio in violazione degli obblighi di legge;

 allorché ricorra la detenzione all’estero di attività patrimoniali o finanziarie per tramite di un soggetto interposto dovrà essere chiesta al contribuente ogni informazione ritenuta utile per stabilire un collegamento univoco tra lo stesso e l’attività che ha formato oggetto di emersione (ad esempio, per i trust interposti fittiziamente nella detenzione estera di attività, gli effetti preclusivi della dichiarazione riservata presentata dal trustee potrebbero essere invocati efficacemente dal settlor o dal beneficiario).

 Va infine tenuto presente che, ai sensi dell’art. 14, primo comma, lett. a), del D.L. n. 350/2001, la preclusione di ogni accertamento tributario e contributivo opera «limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme o dalle altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio».

 Detta preclusione opera (7):

anche con riferimento a tributi diversi dalle imposte sui redditi, sempreché si tratti di accertamenti relativi ad “imponibili” che siano riferibili alle attività oggetto di emersione;

 automaticamente, ovvero senza che via sia la necessità di prova specifica da parte del contribuente, in tutti i casi in cui sia possibile, anche astrattamente, ricondurre gli imponibili accertati alle somme o alle attività costituite all’estero oggetto di emersione.

 Sulla scorta della suddetta chiave interpretativa, gli effetti preclusivi ed estintivi possono quindi prodursi, oltre che nel caso in cui gli imponibili o maggiori imponibili accertati siano direttamente rappresentati dalle attività oggetto di emersione, anche qualora – seguendo un ragionamento logico/inferenziale – gli imponibili o maggiori imponibili accertabili possono porsi come premessa assai probabile della costituzione all’estero delle attività medesime.

5. La sentenza n. 14089/2013 della Corte di Cassazione

 

 Decidendo la vertenza, con la citata sentenza n. 14089/2013, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso, annullando per violazione di legge (motivazione apparente) il provvedimento impugnato.

 A tal fine la Terza Sezione penale afferma che il provvedimento impugnato non è censurabile nella parte in cui ribadisce la pertinenzialità tra quanto sequestrato e il reato ipotizzato sul rilievo che è da considerare evidente il fatto che la documentazione attinente a depositi bancari dell’indagato sia «strettamente connessa e necessaria alla prova del reato in contestazione commesso mediante occultamento, tramite giroconti bancari da conti esteri su conti esteri, di proventi percepiti in nero».

 La motivazione fornita dal Tribunale del riesame risulta, invece, generica ed elusiva delle puntuali obiezioni difensive nonché delle plurime allegazioni documentali portate alla sua attenzione, nella parte in cui non sofferma la dovuta attenzione sul tema del rientro dei capitali illecitamente esportati tramite lo “scudo fiscale”. Nel ricorso la difesa ha precisato di aver prodotto dinanzi al Tribunale per il riesame documentazione idonea a provare di aver dato corso alla procedura prevista dall’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009, così che avrebbe dovuto darsi luogo a una declaratoria di improcedibilità dell’azione penale intrapresa per il reato di dichiarazione infedele cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000. Al contrario, il Tribunale ha disatteso questa circostanza osservando che, ai sensi dell’art. 13-bis, quarto comma, solo il reale pagamento dell’imposta determina l’effetto estintivo invocato.

 E infatti, spiega la Suprema Corte, la semplice considerazione secondo cui «solo l’effettivo pagamento dell’imposta determina l’effetto invocato» risulta non autosufficiente a fronte delle obiezioni sollevate dall’imputato circa le modalità probatorie previste per il rientro dei capitali scudati e, soprattutto, perché siffatta interpretazione del D.L. n. 78/2009 rischia di vanificarne gli effetti liberatori che le sono propri.

 È vero che l’assunto difensivo proposto dal contribuente – allorché ribadisce che «le dichiarazioni riservate rilasciate dagli intermediari (nelle quali si indica l’ammontare della somma rimpatriata) sono l’unico documento idoneo a dimostrare l’operazione, perché, secondo le disposizioni impartite dalla legge, il versamento sarebbe dovuto avvenire tramite intermediari abilitati» – «è tutto da dimostrare», ma è altrettanto vero, afferma la Corte di Cassazione, che lo stesso merita di sicuro un approfondimento che passa attraverso un apprezzamento della documentazione prodotta dal ricorrente al Tribunale del riesame che, risolvendosi in un accertamento di fatto, non può essere svolto in sede di legittimità.

Certo è che allo stato dei fatti il provvedimento impugnato, risolvendosi in mere affermazioni di principio, presta il fianco alla denunciata critica di motivazione apparente tale da integrare il vizio di violazione di legge censurabile in sede di legittimità ed emendabile con la declaratoria di annullamento del provvedimento impugnato.

 In definitiva, a mettere in discussione la prospettiva dei giudici in primo e in secondo grado secondo cui «solo il reale pagamento dell’imposta determina l’effetto estintivo invocato», ha provveduto il giudice di legittimità, annullando con rinvio il sequestro probatorio impugnato dal contribuente.

 Le problematiche connesse agli effetti penalistici dell’art. 13-bis, sotto il profilo dello “scudo fiscale”, quale condizione di non punibilità per una serie di reati tributari e per altri reati ritenuti connessi ai primi, nonché con riferimento alle eventuali responsabilità penali conseguenti ad un uso illegittimo dello scudo, erano state affrontate in precedenza dalla sentenza 19 luglio 2011, n. 28724 (8), con la quale la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che lo scudo fiscale si applica rigorosamente ai capitali rimpatriati e non copre il reato di omesso versamento IVA, affermando il conseguente principio di diritto secondo cui «È eseguibile anche in relazione ai capitali, alle somme e valori oggetto di rimpatrio e di c.d. “scudo fiscale” la misura cautelare del sequestro e della confisca per equivalente laddove la cautela non sia riferita al bene in quanto tale ma al valore equivalente del profitto e prezzo del reato contestato ed essendo la clausola di non punibilità circoscritta alle condotte che hanno determinato il capitale oggetto della procedura di rimpatrio».

 È vero che l’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009 – si legge in motivazione – prevede come misura incentivante il rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute fuori del territorio dello Stato, ma lo scudo fiscale non offre una generica e onnicomprensiva non punibilità della condotta per il solo fatto di aver operato un rimpatrio o una regolarizzazione di capitali (illecitamente) detenuti all’estero. Dal punto di vista dei reati coinvolti è, infatti, noto che tale sanatoria – come sopra rilevato – copre solo alcuni di essi, ossia quelli legati alla dichiarazione annuale (fraudolenta, infedele o omessa, ex art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000) e quelli legati all’occultamento e alla distruzione di documenti contabili (art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000).

 L’esclusione dall’ambito di applicazione del beneficio di condotte non legate alla procedura prevista dall’art. 13-bis sembra infatti imposta dalla lettera della norma che, come rileva il giudice di legittimità, predica l’applicabilità dell’esonero della responsabilità penale «limitatamente al rimpatrio ed alla regolarizzazione di cui al presente articolo».

 Pertanto, l’interpretazione volta a limitare l’applicabilità della norma nel senso indicato si impone per non sconfinare in una sostanziale previsione di amnistia, che avrebbe richiesto la maggioranza qualificata stabilita dall’art. 79, primo comma, Cost.

 In altri termini, l’esonero riguarda esclusivamente le condotte che fanno riferimento ai capitali oggetto, prima di espatrio illegale e, dopo, di rimpatrio sanato attraverso lo scudo fiscale. Occorre, quindi, che ci si riferisca a reati di fraudolenta, omessa o infedele dichiarazione riconducibili alle somme che si sono riportate in Italia, ma l’assenza di un siffatto legame rende del tutto sterile la “protezione”, con la conseguenza che se non si riesce a dimostrare (come nel caso di specie) che le somme rimpatriate (o regolarizzate) sono quelle trasferite all’estero a seguito della commissione dei reati contestati, nessuna esclusione di punibilità – secondo la Suprema Corte – può essere invocata.

 Tale restrittiva interpretazione trova un puntuale riscontro nella espressa previsione dell’art. 13-bis, quarto comma, che predica l’applicabilità dell’esonero della responsabilità penale «limitatamente al rimpatrio e alla regolarizzazione di cui al presente articolo». Né ciò è contrastato dall’art. 8, sesto comma, lett. c), della legge n. 289/2002 (richiamato dall’art. 13-bis), che riferisce sì tale immunità alle “annualità” oggetto di integrazione, ma ciò fa perché in quel caso (legge n. 289/2002) la regolarizzazione (rectius, condono) aveva ad oggetto proprio annualità di reddito, mentre la regolarizzazione di cui all’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009 riguarda non già annualità di reddito, ma il trasferimento all’estero di determinati capitali.

 Quindi, analogamente, può dirsi che solo in riferimento ai capitali rimpatriati c’è il c.d. scudo fiscale con la relativa immunità penale per i reati previsti sia dall’art. 14 sia dall’art. 8; mentre per il resto rimane l’ordinaria rilevanza penale di condotte che – come nella fattispecie in esame – nulla hanno a che vedere con il trasferimento e il possesso all’estero di capitali.

 In ultima analisi, per espressa dizione normativa, lo scudo fiscale non può coprire reati legati agli omessi versamenti dell’IVA e delle ritenute alla fonte (rispettivamente artt. 10-ter e 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000) o reati legati a condotte illecite diverse da quelle espressamente previste, come il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000).

 Gli assunti della citata sentenza n. 28724/2011, sono stati poi confermati dalla successiva pronuncia 4 aprile 2012, n. 12757 (9), con la quale la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione chiarisce innanzitutto che è eseguibile anche in relazione ai capitali, alle somme e valori oggetto di rimpatrio e di c.d. “scudo fiscale” la misura cautelare del sequestro e della confisca per equivalente laddove la cautela non sia riferita al bene in quanto tale ma al valore equivalente del profitto e prezzo del reato contestato ed essendo la clausola di non punibilità circoscritta alle condotte che hanno determinato il capitale oggetto della procedura di rimpatrio e che il fatto di avere utilizzato la normativa dello scudo fiscale non consente di ritenere che la clausola di non punibilità di cui all’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009, possa estendersi a qualsiasi reato commesso.

 Quindi il pronunciamento n. 12757/2012 ribadisce che la causa di non punibilità prevista dall’art. 1 del D.L. n. 103/2009 si riferisce alle sole condotte afferenti i capitali oggetto della procedura di rimpatrio e va intesa in termini “rigorosamente restrittivi”, ciò per non sconfinare in una sostanziale previsione di amnistia, per cui «non c’è alcun effetto espansivo esterno nel senso di un’immunità soggettiva in relazione a reati fiscali nella cui condotta non rilevino affatto i capitali trasferiti e posseduti all’estero e successivamente oggetto di rimpatrio», sicché non è comunque esclusa la punibilità per delitti diversi, quali le indebite compensazioni o, come nella fattispecie, l’omesso versamento dell’IVA.

 Ne segue in ogni caso che nella fattispecie trattata il fumus commissi delicti permane e giustifica la misura cautelare reale (squestro), avendo la stessa ad oggetto non già i capitali scudati in quanto tali, ma in quanto rappresentanti il valore equivalente a quello da sottoporre a vincolo nella fase cautelare, in correlazione al reato per cui si indaga, e a tale proposito non risulta imposto alcun onere della prova in capo all’indagato.

 

6. La sentenza n. 35970/2010 della Corte di Cassazione

 

 Nel concludere, occorre anche richiamare in argomento per l’analoga tematica affrontata, la sentenza 7 ottobre 2010, n. 35970 (10), con la quale la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la confisca delle somme fatte rimpatriare attraverso lo “scudo fiscale” di cui alla legge n. 289/2002 (ossia al c.d. “scudo-bis”) e versate dall’imprenditore, accusato di evasione, sul conto della moglie, con evidente accordo simulatorio.

 Nella specie, un imprenditore, accusato di evasione fiscale, faceva rientrare in Italia un’ingente somma, avvalendosi dello scudo fiscale approvato nel 2002. In seguito, l’imprenditore – nel frattempo deceduto – li aveva donati alla moglie, ma subito dopo era stato adottato il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente (art. 322-ter c.p.).

 In particolare, la vicenda processuale concerne un complesso sistema di “frodi carosello” (con capitali depositati all’estero) realizzato mediante false movimentazioni di merci di rilevante valore tra una società di capitali nazionale, di cui l’indagato era amministratore, e altre società con sede nel territorio dell’Unione europea.

 La truffa veniva attuata mediante emissione (cartiere) e utilizzazione di false fatturazioni al fine di realizzare notevoli evasioni di IVA, sicché i responsabili erano indagati di vari reati fiscali, in concorso tra loro, tra cui frodi ed evasioni ai sensi del combinato disposto degli artt. 81 c.p., 8 e 2 del D.Lgs. n. 74/2000.

 Il Tribunale del riesame ha rigettato i motivi di impugnazione dell’ordinanza impositiva della misura cautelare, con i quali era stata dedotta:

 a) l’estraneità dell’indagato alla commissione dei reati;

 b) la non appartenenza allo stesso delle somme sottoposte a sequestro, ma al suo coniuge.

 Si specificava, al riguardo, che una grossa somma di denaro, proveniente da una disponibilità estera dell’imprenditore e fatta rientrare in Italia, utilizzando lo “scudo fiscale” del 2002, era stata accreditata dall’indagato su un conto corrente della moglie, “regalia” avvenuta mediante una “donazione indiretta”.

 Peraltro, per far fronte all’emergenza di una forte esposizione bancaria dell’imputato, la moglie aveva messo a disposizione proprie somme di danaro, trasferendole su un conto corrente intestato al marito presso la stessa banca creditrice, sulle quali veniva poi operato il sequestro finalizzato alla confisca. Infatti, è ammissibile il sequestro preventivo di somme di denaro costituenti profitto del reato, sia allorquando la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa sia ogni qual volta sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato (11).

 Il Tribunale del riesame ha disatteso la narrativa dell’imputato secondo cui, in virtù dell’atto di liberalità, le somme reintrodotte in Italia erano divenute di proprietà della moglie e, quindi, non potevano essere sottoposte a sequestro, osservando in contrario che non si trattava di donazione indiretta, semmai di donazione diretta, ma comunque di una vera e propria simulazione in quanto le somme apparentemente trasferite al coniuge erano in realtà sempre rimaste nella disponibilità dell’indagato.

 D’altra parte, non poteva essere diversamente, atteso che erano proprio gli stessi contribuenti a confermare la provenienza dal marito delle somme di danaro poi utilizzate dalla consorte.

 Nel susseguente ricorso per cassazione viene dedotta un’asserita violazione delle leggi che disciplinano tale istituto, oltre carenza di motivazione in ordine alla ritenuta estromissione della donazione indiretta.

 Decidendo la vertenza, la Corte di legittimità ha ritenuto infondate le censure mosse dall’imputato che si opponeva alla misura preventiva, osservando che «la donazione indiretta è caratterizzata dal fatto che viene posto in essere, anziché il tipico negozio della donazione diretta, un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio, l’effetto indiretto dell’arricchimento senza corrispettivo del destinatario della liberalità».

 Inoltre, la Corte ha chiarito che la donazione indiretta, a differenza del negozio indiretto – che si presenta come un unico negozio volto al conseguimento di un risultato ulteriore, che non è normale o tipico – consiste in un complesso procedimento mediante il quale, per mezzo di atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., ciascuno dei quali produce l’effetto diretto a esso connaturato, per spirito di liberalità viene indirettamente arricchito il destinatario della liberalità medesima (12).

 Per tali ragioni sarebbe più corretto, secondo il giudice di legittimità, inquadrare il negozio in questione nella figura della donazione diretta.

 Pertanto, la Suprema Corte conferma l’impostazione del Tribunale del riesame affermando che «correttamente l’ordinanza ha escluso che il versamento di somme di denaro sul conto corrente del destinatario dell’atto di liberalità possa qualificarsi donazione indiretta, trattandosi, invece, eventualmente di donazione diretta». Perciò ricorre nella fattispecie il “carattere fittizio” dell’attribuzione patrimoniale costituita dal passaggio delle somme di danaro dall’indagato alla moglie.

 L’irrefutabile accordo simulatorio (art. 1414 c.c.) intercorso tra i due si desume dai seguenti inequivoci indici rilevatori, costituiti:

 dall’esistenza di una delega all’indagato per operare direttamente sul conto della moglie;

 dalla messa a disposizione dell’indagato della somma occorrente a ripianare la sua posizione debitoria, denaro di provenienza (illecita) da precedente fuga di capitali all’estero, poi “lavati” mediante lo scudo fiscale.

 La descritta concatenazione di eventi conferma l’evidente sussistenza nella vicenda del necessario rapporto pertinenziale (collegamento sostanziale) quale relazione diretta, attuale e strumentale tra il denaro sequestrato e il reato del quale costituisce il profitto illecito, in quanto utilità acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa (13).

Dott. Salvatore Servidio

 

 (1) In questo stesso fascicolo a pag. 1291.

 (2) Sullo scudo fiscale abbiamo già avuto modo di intervenire; si vedano U. Perrucci, Lotta ai paradisi, scudo fiscale e contrasto agli arbitraggi internazionali, in Boll. Trib., 2009, 1269; G. Polo, Riflessioni su alcuni aspetti controversi dell’applicazione della normativa sul c.d. “scudo fiscale-ter”, ibidem, 1583; A. Gaffuri, Aspetti critici riguardo alla fruibilità del nuovo scudo fiscale, ivi, 2010, 85; U. Perrucci, Scudo fiscale prorogato dopo il successo, ibidem, 88; e D. Irollo, Scudo fiscale e obblighi antiriciclaggio, ibidem, 579.

 (3) Cfr. circ. 10 ottobre2009, n. 43/E, in Boll. Trib., 2009, 1522; e ris. 29 novembre 2010, n. 122/E, ivi, 2010, 1789.

 (4) Cfr. circ. 8 ottobre 2010, n. 52/E, in Boll. Trib., 2010, 1451.

 (5) Ved. circ. 1° ottobre 2001, n. 85/E, in Boll. Trib., 2001, 1400; circ. 4 dicembre 2001, n. 99/E, ibidem, 1727; e circ. 10 ottobre 2009, n. 43/E, ivi, 2009, 1522.

 (6) Cfr. circ. n. 52/2010, cit.

 (7) Cfr. circ. n. 43/E/2009, cit.

 (8) In Boll. Trib. On-line.

 (9) In Boll. Trib. On-line.

 (10) In Boll. Trib. On-line.

 (11) Cfr. Cass., sez. un. pen., 9 luglio 2004, n. 29951, in Boll. Trib. On-line.

 (12) Cfr. Cass., sez. I, 14 dicembre 2000, n. 15778, in Giust. civ., 2001, I, 335.

 (13) Ved. Cass., sez. trib., 29 marzo 2007, n. 12910; e Cass., sez. VI pen., 8 ottobre 2010, n. 36201; entrambe in Boll. Trib. On-line.

 

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