17 Giugno, 2013

Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Motivazione per relationem – Obbligo di allegare o riprodurre gli atti cui si fa riferimento – Sussiste – Omissione – Nullità dell’accertamento – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Obbligo dell’Ufficio di valutare criticamente gli atti richiamati dall’accertamento – Sussiste – Omessa allegazione o riproduzione degli atti richiamati – Nullità dell’accertamento – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Motivazione – Costituisce requisito di legittimità e delimita la materia del contendere in sede giudiziale – Contenuto minimo – Obbligo di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che fondano la pretesa, evidenziando i momenti ricognitivi e logico deduttivi essenziali – Riferimento ad altri atti non conosciuti né ricevuti dal contribuente (motivazione per relationem) – Allegazione all’accertamento o riproduzione del loro contenuto essenziale – Necessità – Omissione – Nullità dell’accertamento – Consegue.

È nullo per carenza assoluta di motivazione l’avviso di accertamento che si limiti a fare mero rinvio al processo verbale di constatazione mancante degli allegati ivi richiamati a conferma delle contestazioni mosse al contribuente, impedendo così alla Commissione tributaria adita di valutare l’effettiva esistenza delle contestazioni medesime, da cui il giudice non può che trarre la convinzione che la rettifica sia frutto di una serie di congetture e valutazioni soggettive dei verificatori prive di giuridica rilevanza, perché non supportate da prove o indizi gravi, precisi e concordanti, e anche perché l’Ufficio impositore mostra di aver rinunciato a svolgere il ruolo che la legge gli attribuisce, qualora si rimetta alle mere valutazioni dei verificatori facendole proprie in modo del tutto passivo, senza selezionare tra tutti i fatti esposti dal verbale di constatazione quelli fondati su riscontri oggettivi e scartare invece quelli frutto di valutazioni soggettive prive di valore giuridico.
La motivazione dell’avviso di accertamento, richiesta a pena di nullità dalla vigente legislazione tributaria, quale requisito di legalità dell’accertamento e di legittimità formale dell’atto, adempie le finalità di porre in grado il contribuente di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, e quindi di contestarne efficacemente l’an e il quantum debeatur svolgendo la propria piena e tempestiva difesa, e nel contempo di delimitare la materia del contendere sottoposta alla verifica del giudice in caso d’impugnazione del relativo atto, di talché l’obbligo di motivazione risulta soddisfatto solo quando, in correlazione alle predette finalità, siano indicate nel provvedimento, sia pure in forma concisa, le ragioni del medesimo e siano pertanto evidenziati i momenti ricognitivi e logico deduttivi essenziali che fondano la pretesa addotta, mentre nel caso di motivazione per relationem redatta con riferimento ad altri atti non conosciuti né ricevuti dal contribuente questi ultimi devono essere allegati all’atto che li richiama o riprodotti nel loro contenuto essenziale, non essendo invece necessario, per la validità dell’atto, che sia esposta la prova dei fatti posti a giustificazione della pretesa avanzata, la quale deve essere offerta nel successivo giudizio a dimostrazione della fondatezza sostanziale della pretesa stessa.

[Commissione trib. provinciale di Ragusa, sez. I (Pres. Cannata, rel. Lucifora), 17 aprile 2012, sent. n. 258, ric. Autokino s.r.l. c. Agenzia delle entrate]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società Autokino srl, esercente l’attività commerciale di vendita di autoveicoli, l’avviso d’accertamento n. …, per Ires, Irap e Iva anno d’imposta 2005, e l’avviso di accertamento n. …, per l’anno d’imposta 2006.
L’Ufficio – visto il PVC redatto e notificato il 10.3.2008 dalla GdF di Pozzallo a seguito d’ispezione presso la sede della contribuente; tenuto conto che il controllo è stato eseguito su segnalazione di iniziativa pervenuta dal Nucleo Polizia Tributaria di Ragusa nella quale era evidenziato che la contribuente aveva utilizzato dal 21.4.2005 al 27.2.2006 fatture per operazioni inesistenti in acquisto dalla ditta individuale T.A., con sede in Comiso; che dalla verifica della contabilità della contribuente è emersa la registrazione e dichiarazione di acquisti ritenuti operazioni inesistenti e relative a vendite fittizie ricevute dalla ditta T. (prestanome della srl), volte all’evasione dell’Iva; considerato che il vero destinatario delle autovetture acquistate dalla ditta T. era la Autokino che utilizzava la T. per fare ricadere sulla stessa gli obblighi dell’Iva sugli acquisti, creandosi un credito Iva di fatto non spettante – una maggiore Iva indebitamente detratta per Euro 158.661,67.
L’Ufficio, ancora – vista la segnalazione scaturita dal PVC redatto dalla GdF di Pozzallo il 21.6.2005, dalla quale è sta constata dai militari la cessione di autovetture senza l’emissione della fattura di vendita – accerta la cessione di n. 4 autovetture cedute senza l’emissione della fattura, per un imponibile, quantificato attraverso il ricarico medio applicato dalla società, per un imponibile complessivo di Euro 37.840,00 ed Iva al 20% di Euro 7.560,00.
L’Ufficio, poi – esaminato il Pvc della GdF di Pozzallo del 5.4.2006, con il quale è constatato che la ditta T. è una “scatola vuota”; che i pagamenti, come attestato nel foglio n. 9 del pvc, venivano effettuati tramite bonifico estero direttamente dalla Autokino srl ai fornitori UE; che le fatture erano annotate in acquisto come regime del margine mentre in vendita venivano emesse nei confronti della Autokino con l’esposizione dell’Iva sull’intero – accerta acquisti relativi a operazioni soggettivamente inesistenti relativi a vendite ricevute dalla ditta T. di Comiso per complessivi Euro 462.791,67 ed Iva al 20% di Euro 92.558,33; rettifica in Euro 88.980,00 il reddito dichiarato in Euro 51.140,00.
L’Ufficio, per i tre rilievi contestati, accerta un maggiore reddito ai fini delle imposte dirette di Euro 37.840,00; un imponibile ai fini Irap di Euro 104.287,00; una maggiore Iva di Euro 258.780,00.

 

[-protetto-]

 

L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla Autokino srl, l’avviso d’accertamento n. …, per IVA anno d’imposta 2006.
L’Ufficio – visto il PVC redatto e notificato il 10.03.2008 dalla GdF di Pozzallo a seguito d’ispezione presso la sede della contribuente;
tenuto conto che il controllo è stato eseguito su segnalazione di iniziativa pervenuta dal Nucleo Polizia Tributaria di Ragusa nella quale era evidenziato che la contribuente aveva utilizzato dal 21.4.2005 al 27.2.2006 fatture per operazioni inesistenti in acquisto dalla ditta individuale T.A., con sede in Comiso; che dalla verifica della contabilità della contribuente è emersa la registrazione e dichiarazione di acquisti ritenuti operazioni inesistenti e relative a vendite fittizie ricevute dalla ditta T. (prestanome della srl), volte all’evasione dell’Iva; considerato che il vero destinatario delle autovetture acquistate dalla ditta T. era la Autokino che utilizzava la T. per fare ricadere sulla stessa gli obblighi dell’Iva sugli acquisti, creandosi un credito Iva di fatto non spettante – accerta l’indebita detrazione di Iva per Euro 30.450,00 e applica sanzioni per Euro 38.062,50.
La ricorrente deduce:
– L’infondatezza delle contestazioni contenute nel PVC e nei relativi avvisi di accertamento, perché fondati sulla contestazione mossa nei confronti della società T.A. – la quale acquista automobili in Germania per rivenderle in Italia – che avrebbe frodato Iva all’erario mediante l’emissione di fatture soggettivamente false nei confronti di diversi clienti, ivi compresa l’odierna ricorrente, applicando illecitamente il regime del margine;
– L’infondatezza dell’assunto che effettivo destinatario finale delle autovetture acquistate in Germania era l’odierna ricorrente e non la società T., perché carente di prova;
– Di avere acquistato autovetture dalla società T. e di avere pagato le relative fatture con assegni o bonifici bancari, per cui spetta all’Ufficio fornire la prova che si tratta di operazioni inesistenti;
– Che l’Agenzia delle Entrate, riprendendo l’apodittico assunto della GdF, asserisce che la ditta T. sarebbe una “scatola vuota” senza spiegare nemmeno le ragioni, di fatto o giuridiche che siano, di tale deduzione;
– Che le dichiarazioni rese da terzi nel verbale di accertamento tributario non sono utilizzabili nel processo tributario, perché si pongono in contrasto con l’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992;
– Che le dichiarazioni di terzi hanno natura di meri indizi che necessitano di altri elementi convergenti per assurgere al rango di prova, che nel caso in esame mancano;
– Che l’Amministrazione finanziaria per disconoscere un costo debitamente documentato da una fattura registrata deve provare l’inesistenza dell’operazione gestionale;
– Che i costi derivanti da fatture ritenute soggettivamente inesistenti devono essere riconosciuti, come ribadito dalla cassazione con sentenza n. 19353/06;
– Che la Corte di Giustizia Europea ha affermato il principio che un’impresa che ha in- consapevolmente ad un “illecito carosello” non può subirne le conseguenze, per cui le sue operazioni devono essere valutate indipendentemente dal disegno complessivo di terzi;
– Che non provato è l’assunto che, al fine di frodare l’Iva, la ricorrente avrebbe interposto un terzo soggetto, definito “prestanome”, per l’acquisto delle vetture in Germania;
– L’infondatezza del rilievo n. 2 dell’avviso di accertamento per l’anno 2005, atteso che la quantificazione dell’acquisto di n. 4 vetture senza fatture, per un imponibile di Euro 37.840,00 ed Iva per Euro 7.560,00, è arbitraria e illegittime, perché è parametrata a non meglio specificate percentuali di ricarico, che non vengono né motivate né esplicitate, applicate dalla società alle vendite effettuate nello stesso periodo;
– L’inapplicabilità delle sanzioni, in applicazione del principio contenuto nell’art. 5 del D.Lgs. n. 472 del 1997;
– Che l’applicazione delle sanzioni è da censurare perché non tiene conto del fatto che con il medesimo processo verbale l’Agenzia delle Entrate ha già emesso altri avvisi di accertamento e due atti di contestazione, con analoghi rilievi per gli anni 2003 e 2004.
Chiede: in via principale, l’annullamento dell’atto impugnato per carenza di prova; in via subordinata, l’annullamento dell’atto impugnato nella parte concernente le sanzioni, non avendo la parte commesso alcuna violazione punibile ai sensi degli artt. 5 e 6 D.Lgs. n. 472 del 1997 ovvero rideterminando le stesse, tenendo conto della continuazione, in applicazione del principio sancito dall’art. 12 D.Lgs. n. 472 del 1997; la condanna di controparte alle spese di giudizio; la trattazione in pubblica udienza.
L’Agenzia delle Entrate, costituita in giudizio, controdeduce:
– Che gli atti impugnati non sono carenti di motivazione, perché quando è contestata, come nel caso in esame, l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, l’onere della prova grava sul contribuente;
– Che la legittimità della detrazione dell’iva esposta nella fatture riferite a operazioni spetta al contribuente fornirne la prova, e nel caso in esame ciò non è avvenuto.
Conclude, chiedendo il rigetto del ricorso e la conferma degli atti impugnati, con la condanna alle spese.
La società con Memoria, depositata il 24.12.2010, ulteriormente contestando l’accertamento e insistendo nelle richieste, precisa che l’Ufficio finanziario non ha fornito alcuna prova circa la consapevolezza del ricorrente in ordine alla asserita truffa posta in essere dalla società T.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE – Il Collegio, letti gli atti ed esaminati i documenti, osserva quanto segue.
Gli accertamenti per cui è causa, per gli anni d’imposta 2005 e 2006, si fondano sul PVC del 10.3.2008, con il quale sarebbe stato evidenziato che la ricorrente, dal 21.4.2005 al 27.2.2006, avrebbe utilizzato fatture per operazioni inesistenti in acquisto dalla ditta individuale T.A., con sede in Comiso.
I verificatori ritenevano inesistenti le cessioni di autovetture dalla T. alla Autokino sul presupposto che il vero destinatario delle cessioni delle autovetture da parte di rivenditori intracomunitari non era la prima ma la seconda. I verificatori ritenevano che la T. non fosse altro che un prestanome dell’odierna ricorrente, per fare ricadere su se stessa gli obblighi connessi alle operazioni intracomunitarie. Così facendo, la ricorrente si creava un credito iva di fatto non spettante.
L’Agenzia delle Entrate ha fatto propria tutta l’attività posta in essere dai verificatori, facendo espresso richiamo nell’atto impugnato alle motivazioni contenute nel pvc del 10.3.2008.
L’Agenzia delle Entrate, con la sua costituzione in giudizio ha prodotto in atti il pvc del 10.3.2008, dalla lettura del quale si rileva che i verificatori, per la loro verifica, hanno fatto rinvio, facendoli propri, ai rilievi contenuti nella nota, n. 5336/8903 di Sched. del 16.11.2007, del Nucleo Provinciale Polizia Tributaria di Ragusa.
Nel pvc si legge: “Pertanto, in data odierna, dalla predetta segnalazione di iniziativa pervenuta dal Comando Nucleo Provinciale Polizia Tributaria di Ragusa è emerso che la SRL Autokino ha dichiarato e registrato acquisti afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti relative a vendite ricevute dalla ditta T. di Comiso (RG) per gli anni d’imposta 2005 e 2006”.
I verificatori, ancora, scrivevano: “in particolare emerge come le operazioni commerciali avvenivano di fatto tra i vari commercianti di autoveicoli (in specie direttamente dalla Srl Autokino effettivo destinatario finale delle autovetture), ed i vari operatori comunitari, mentre il ruolo della ditta T. era solo quello di permettere il passaggio fittizio volto all’evasione dell’Iva dovuta, nonché di agevolare i vari clienti italiani che acquistando le autovetture ad un prezzo inferiore a quello di mercato, possono così rivendere tra l’altro le medesime autovetture presentandosi sul mercato in posizione dominante, in quanto possono offrire in molti casi prodotti ad un prezzo inferiore addirittura a quello praticato dal fornitore U.E.”.
I verificatori concludevano: “In sostanza la funzione della ditta T. è stata quella di prestanome della Srl Autokino, che l’ha utilizzata come mera “scatola vuota” su cui fare ricadere gli obblighi Iva connessi alle operazioni intracomunitarie, consentendo così di detrarre l’Iva sugli acquisti e crearsi così un credito IVA di fatto non dovuto; detrazione che se la srl Autokino avesse acquistato direttamente nei paesi comunitari, per la particolare disciplina degli acquisti intracomunitari, sarebbe stata immediatamente azzerata per la contemporanea registrazione della fattura di acquisto sia nel registro degli acquisti che in quello delle vendite ai sensi del D.L. n. 331 del 1993”.
L’Agenzia delle Entrate ha fatto proprio, senza nulla aggiungere, l’operato dei verificatori.
La nota del 16.11.2007 non è prodotta in atti.
La verifica della GdF, seppure sviluppata su un iter argomentativo complesso, manca di qualsiasi riscontro non solo probatorio ma anche di presunzioni gravi precise e concordanti.
I verificatori, infatti, partendo dalle premesse arrivano direttamente alle conclusioni senza passare per la fase intermedia della prova.
L’avviso di accertamento, per la motivazione, facendo mero rinvio al pvc, è conseguentemente affetto da carenza assoluta di motivazione.
Tutto quanto sopra affermato per il pvc del 10.3.2008 vale anche per i pvc del 5.4.2006 e 21.6.2005, i quali risultano anche mancanti degli allegati ivi richiamati per conferma delle contestazioni mosse al contribuente.
La Commissione non è messa dall’Ufficio accertatore nelle condizioni di effettuare controlli sull’effettiva esistenza delle contestazioni mosse al contribuente.
L’ufficio, partendo dalle sollecitazioni dei verificatori, avrebbe dovuto porre in essere tutta una serie di controlli per selezionare tra tutti i fatti riscontrati dagli ispettori quelli fondati su riscontri oggettivi e scartare quelli frutto di valutazioni soggettive prive di alcun valore giuridico.
L’Agenzia delle Entrate ha rinunciato a svolgere il ruolo che la legge le attribuisce, rimettendosi alle mere valutazioni dei verificatori che in modo del tutto passivo ha fatto proprie.
Il collegio non può che trarre la convinzione che la verifica sia frutto di una serie di congetture e valutazioni soggettive prive di giuridica rilevanza, perché non supportate da prove o indizi gravi, precisi e concordanti.
L’eccezione di nullità per carenza di motivazione dell’atto impugnato trova accoglimento.
L’art. 56 del D.P.R. n. 633 dispone, in via generale al primo comma, che gli avvisi con i quali vanno notificati al contribuente le rettifiche e gli accertamenti devono essere motivati, a pena di nullità. Si deve osservare che la motivazione, quale requisito di legalità dell’accertamento, adempie la finalità di porre in grado il contribuente di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, e quindi di contestarne efficacemente l’an e il quantum debeatur svolgendo la propria piena e tempestiva difesa, e nel contempo di delimitare la materia del contendere sottoposta alla verifica del giudice in caso d’impugnazione del relativo atto da parte del contribuente: si ritiene, pertanto, soddisfatto l’obbligo di motivazione quando, in correlazione a tali finalità, siano indicate nel provvedimento, sia pure in forma concisa, le ragioni del medesimo e siano pertanto evidenziati i momenti ricognitivi e logico deduttivi essenziali che fondano la pretesa, nel mentre non è necessaria – ai fini della validità dell’atto – che sia ivi contenuta la prova dei fatti addotti a giustificazione della pretesa stessa (prova che deve essere invece offerta in giudizio a dimostrazione della fondatezza sostanziale della medesima pretesa). La motivazione dell’accertamento, secondo consolidata giurisprudenza, attiene unicamente alla legittimità formale dell’atto e l’obbligo relativo è soddisfatto quando la stessa abbia un contenuto minimo che consenta al contribuente di risalire alle ragioni giuridiche che hanno determinato l’emanazione dell’accertamento medesimo e che realizzi l’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Essa deve essere tenuta distinta dalla prova dei fatti che attiene, invece, alla fondatezza della pretesa tributaria e deve essere verificata solo nel corso del processo instaurato dal contribuente.
Questa conclusione, ripetutamente affermata in giurisprudenza, porta a ritenere valido l’avviso di rettifica o d’accertamento motivato per relationem a precedenti atti conosciuti o almeno conoscibili dal contribuente. Le conclusioni a cui è arrivata la giurisprudenza, tuttavia devono ora essere esaminate alla luce della norma introdotta dall’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente), secondo il quale, in via generale, gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati, come prescritto dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi), indicando non solo i presupposti di fatto ma anche le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione stessa. Di particolare rilievo è, poi, l’ulteriore previsione che nel caso di motivazione “con riferimento ad altro atto” non conosciuto né ricevuto dal contribuente questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che nel primo non sia riprodotto il contenuto essenziale dell’atto richiamato (come dispone l’art. 2 del D.Lgs. n. 32 del 2001).
Il collegio, nel caso in esame, ha riscontrato che gli avvisi d’accertamento non rispondono ai criteri sopra enunciati, in quanto che l’amministrazione finanziaria ha fondato il suo operato sul presupposto che la ricorrente abbia acquistato autoveicoli dalla ditta T. ad un prezzo inferiore a quello pagato dallo stesso ai fornitori comunitari. Sul punto l’ufficio non ha fornito nessun documento.
Nulla è stato prodotto in giudizio che ha riguardato l’attività svolta dalla ditta T. né documenti riguardanti l’attività accertativa condotta nei confronti della stessa. Non esistono in atti e documenti comprovanti che il prezzo pagato dal T. ai fornitori comunitari un prezzo inferiore a quello praticato alla società ricorrente.
Non esistono ancora in atti quei documenti contabili della T. che dimostrerebbero le violazioni IVA contestate.
Tutto il ragionamento dell’Ufficio finanziario è fondato sull’assunto che le fatture emesse dalla T. nei confronti della ricorrente sono “soggettivamente inesistenti”, in quanto questa avrebbe assunto la qualifica d’interposto fittizio nelle transazioni economiche. Tutto ciò non è corroborato da prova alcuna.
La Commissione, per quanto sopra, dichiara fondato il primo motivo del ricorso.
Non si dà luogo all’esame degli altri che restano assorbiti nell’accoglimento del primo.
I verificatori affermano che l’imposta esposta in fattura potrebbe non essere stata pagata dalla società.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e liquidate nel dispositivo.

P.Q.M. – La Commissione tributaria accoglie il ricorso. Condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese di giudizio che liquida in complessivi Euro 3.366,24, di cui Euro 29,24 per spese e Euro 3.337,00 per compensi di difensore, oltre IVA e cassa previdenziale.

Costi da reato: indeducibilità e disapplicazione

della sanzione per infedele dichiarazione

1. La deducibilità delle operazioni soggettivamente fittizie

L’annotata sentenza, ancorché abbia annullato gli accertamenti per vizi formali attinenti alla motivazione dell’atto, offre l’occasione per occuparci di un argomento di grande attualità: la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi da reato.
Come è noto, l’art. 14, comma 4-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, è stato profondamente modificato con l’art. 8, primo comma, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44), e, tra l’altro, l’indeducibilità è stata disposta “solo” per i componenti negativi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi.
Restando aderenti alla vicenda di Ragusa, in questa nota ci occuperemo delle ripercussioni della modifica legislativa sulle operazioni soggettivamente inesistenti.
Secondo l’Amministrazione finanziaria ragusana la società Alfa, ancorché avesse effettivamente acquistato autovetture da un fornitore europeo, aveva ricevuto le fatture di acquisto da un operatore italiano, che si sarebbe interposto per consentire al contribuente Alfa «di detrarre l’IVA sugli acquisti e crearsi così un credito IVA di fatto non dovuto; detrazione che se la società Alfa avesse acquistato direttamente nei paesi comunitari, per la particolare disciplina degli acquisti intracomunitari, sarebbe stata immediatamente azzerata per la contemporanea registrazione della fattura di acquisto, sia nel registro degli acquisti che in quello delle vendite ai sensi del D.L. n. 331 del 1993».
Secondo l’Amministrazione, la società Alfa avrebbe interposto, nell’acquisto di autovetture da fornitori UE, a favore dei quali direttamente effettuava i pagamenti tramite bonifici, un operatore italiano, creandosi, a seconda dei casi, crediti IVA non spettanti (1).
L’accertamento, quindi, è stato effettuato solo ai fini IVA, laddove, invece, ai fini delle imposte dirette – per le stesse operazioni – non è stato effettuato alcun recupero, e, quindi, i costi sono stati considerati deducibili.
Invero occorre riconoscere che l’Amministrazione siciliana, omettendo il recupero ai fini delle imposte dirette, ha anticipato, correttamente (2), quanto chiarito nella relazione illustrativa al citato decreto-legge che ha modificato l’art. 14, comma 4-bis, laddove si afferma che «Per effetto di tale disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa IVA … e in tema di deduzione previste dal TUIR; pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi».
Anche la circolare 3 agosto 2012, n. 32/E (3), al punto 2.3, ha chiarito che i costi documentati da fatture per operazioni soggettivamente (4) inesistenti, poiché non rappresentano, solo per tale motivo, quello dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per la commissione del reato stesso (5), sono deducibili (6), ove ovviamente ricorrano i requisiti di effettività, inerenza, competenza, certezza (7), determinatezza o determinabilità previsti dal TUIR.

2. La posizione della Corte di Cassazione

Volendo dare un riscontro pratico-operativo ai requisiti generali di deducibilità previsti dal TUIR, è sufficiente offrire una sintetica lettura delle sentenze della Corte di Cassazione.
Ed invero, nella pronuncia dell’11 novembre 2011, n. 23626 (8), la deducibilità è subordinata «alla condizione che il contribuente ne dimostri … il preciso ammontare (a conferma del fatto che l’interposizione scredita l’ordinaria efficacia probatoria della fattura) ed altresì l’inerenza».
Nell’arresto del 30 novembre 2009, n. 25141 (9), si legge che «trattandosi di documenti falsi, perché emessi da chi non era venditore» non è stato provato «con scritture diverse dalle fatture false e dalle false registrazioni l’ammontare effettivo dei costi sopportati per acquisire la merce poi rivenduta».
Ancora, nella sentenza del 27 settembre 2011, n. 19786 (10), viene sostenuto che «l’effettività del costo esposto postula, pur sempre, la dimostrazione della sua precisione e certezza sul piano oggettivo (prova dell’esistenza di detto elemento negativo del reddito e del suo preciso ammontare), ancorché il soggetto che ha effettuato la prestazione, che dà luogo alla spesa dedotta, sia diverso dall’emittente le fatture per operazioni inesistenti (cfr. Cass. 3305/2009; 1147/2010.)».
Poi nella sentenza della Corte di Cassazione 11 marzo 2010, n. 5912 (11), ancorché emessa in tema di IVA, si legge che «non è sufficiente addurre la generica circostanza che l’impresa abbia comunque acquistato i beni fatturati da soggetti differenti da quelli indicati in fatture, atteso che non viene fornito alcun elemento certo e minimamente rassicurante circa la correttezza della quantificazione del costo indicato, della sua inerenza e della sua riferibilità all’anno di imposta in contestazione».
E ancora la decisione della Suprema Corte 8 settembre 2006, n. 19353 (12), è degna di particolare rilievo, perché, analogamente alla fattispecie decisa dalla sentenza in commento (13), l’effettivo fornitore era conosciuto e, pertanto, il giudice di legittimità non ha avuto problemi ad affermare che «se alcuni costi contabilizzati e portati in deduzione dal reddito siano rappresentati da fatture che l’Amministrazione finanziaria ritiene irregolari, il contribuente è ammesso a provare che l’operazione ed il corrispondente esborso sono reali, a prescindere dalla falsità della fattura; dovendosi, in caso di esito positivo della prova, riconoscere la deducibilità del costo inerente alla produzione del reddito, nella misura in cui risulta contabilizzato ed imputato al conto dei profitti e delle perdite relativo all’esercizio di competenza».

3. Casi pratici

Chiarito ciò, si analizzano le varie ipotesi che si possono verificare, nella consapevolezza che non è possibile disciplinarle nello stesso modo.
Occorre ricordare che la giurisprudenza, sia italiana e sia della Corte di Giustizia UE, è concorde nel dare rilevanza all’aspetto soggettivo dell’operazione, nel senso che la criticità “fiscale” nasce allorquando l’avente causa della prestazione sia consapevole o avrebbe dovuto (usando la normale diligenza) sospettare della fittizietà dell’operazione. In particolare, secondo i giudici europei (14) spetta all’Amministrazione finanziaria dimostrare che il soggetto passivo fosse o sarebbe dovuto essere a conoscenza della fittizietà dell’operazione.

1) Operazione effettiva (consapevolmente) “in nero” e fatturazione fittizia. Deducibilità.

Tizio acquista effettivamente da Sempronio “in nero” e riceve la fattura da Caio (quasi sempre una cartiera). La (sopravvenuta) conoscenza (da parte dell’Amministrazione) dell’effettivo fornitore, del preciso e certo (documentato) ammontare del pagamento corrisposto all’effettivo fornitore, comportano la deducibilità del costo.
È la fattispecie che coincide con quella prevista nella relazione al decreto legge che ha modificato il citato art. 14, comma 4-bis.
Ancorché in questo caso il principio della simmetria costi e ricavi (15) possa risultare spezzato (16), per volontà del legislatore il costo è ugualmente deducibile (17).
D’altro canto, in caso contrario, sarebbe nata una palese contraddizione rispetto all’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria, scoperto un acquisto “in nero”, ricostruisce il ricavo applicando a questo costo il ricarico normalmente applicato dall’operatore per beni simili, ma nello stesso tempo riconosce il costo “utilizzato” per la determinazione del maggiore reddito (18).

2) Operazione effettiva (consapevolmente) “in nero” e fatturazione fittizia. Indeducibilità.

L’effettivo fornitore non viene reso noto e i pagamenti documentati (19) sono solo quelli effettuati a favore del fornitore fittizio. In questo caso, il costo sarà indeducibile, in assenza di certezza in ordine alla competenza e al preciso ammontare del corrispettivo.

3) Operazione effettiva in nero e fatturazione fittizia. Indeducibilità da valutare in ragione della colpevolezza, ma, in ogni caso, non applicazione delle sanzioni.

In questo caso l’operazione è di fatto effettiva e il compratore dichiara di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore “effettivo” fosse persona diversa dal fornitore “cartolare”.
Dovendosi valutare il grado di inconsapevolezza, occorrerà verificare quali “misure” di verifica abbia assunto il soggetto per non potere dubitare che il fornitore fosse “effettivo” (20). Nell’ipotesi in cui sarà definitivamente accertata, quantomeno, la negligenza dell’operatore e, quindi, l’indeducibilità del costo a norma dei principi del TUIR, è indubbio, però, che (dovendo, tra l’altro, essere valutato il grado di colpevolezza) ci troviamo di fronte a una sanzione impropria, perché il costo, ancorché incerto sul quantum ma certo sull’an, è stato effettivamente sostenuto e, quindi, non potranno essere applicate le sanzioni per infedele dichiarazione, per il divieto del principio del ne bis in idem (21) (22).

4) Operazione effettiva da operatore estero, fatturazione da interposto italiano. Deducibilità.

Tizio acquista, paga e riceve direttamente la merce dal fornitore estero, ma la fattura viene emessa dall’interposto italiano per detrarre concretamente l’IVA.
In questo caso (come in quello in esame, spesso sono gli stessi verificatori che accertano la reale situazione) la deducibilità è assicurata dalla certezza del costo, dalla determinatezza del pagamento e dalla sicura riferibilità all’anno di competenza.

5) Acquisto da effettivo fornitore italiano partecipe in una frode carosello. Indeducibilità. Non applicazione delle sanzioni.

Tizio acquista (e riceve fattura) effettivamente da Sempronio che, quale soggetto madre di una frode carosello IVA, vende a un prezzo “slealmente” concorrenziale e/o inferiore al prezzo corrente di mercato, perché “depurato” da IVA.
Preme evidenziare che questa fattispecie non rientra in quella delineata nella relazione illustrativa al D.L. n. 16/2012, perché il fornitore effettivo è l’emittente della fattura.
Inoltre è logico ritenere (ai fini dell’applicazione del novellato art. 14, comma 4-bis) che il costo possa essere considerato “direttamente utilizzato per il compimento“ di un delitto non colposo, perché il costo de quo è “direttamente” ascrivibile alla frode fiscale IVA, infatti il costo “depurato” dell’IVA rappresenta il fine ultimo della frode stessa, finalizzata, appunto, a realizzare l’illecita concorrenza (23), e, quindi, la consapevolezza del contribuente fa sì che sussista una connessione “diretta” fra il costo de quo e il delitto non colposo di frode fiscale compiuto (24).
D’altro canto, la Corte di Giustizia (25) ha chiarito che il soggetto che, pur potendo intuire l’esistenza della frode, compie lo stesso l’operazione, è considerato parte della frode stessa (26).
Analizzando le posizioni della Corte di Giustizia, della Corte di Cassazione (27) e della dottrina, elemento centrale della questione è (l’aspetto soggettivo) la consapevolezza, di talché l’indeducibilità si atteggia alla stregua di una sanzione impropria.
Invero, la tesi che definisce questo recupero quale sanzione impropria potrebbe essere incrinata dalla relazione illustrativa al D.L. che ha modificato l’art. 14, comma 4-bis.
Infatti, si legge che «la presente modifica normativa si propone di sostituire l’attuale disposizione con altra più adeguata alla finalità di inibire in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, evitando che tale indeducibilità possa essere letta come una sanzione impropria, venendo invece la stessa inquadrata come regola generale nell’ambito della determinazione del reddito imponibile».
Com’è noto la dottrina quasi unanime, nell’interpretare il previgente art. 14, comma 4-bis, ha qualificato l’indeducibilità ivi prevista quale sanzione impropria.
Conseguentemente, appare come una forzatura la precisazione di non qualificare sanzione impropria l’indeducibilità del costo illecito, a meno che si intenda ritenere che la norma in esame avrebbe aggiunto, nell’ambito della disciplina generale della deducibilità dei componenti negativi, il principio per cui sarebbe “legislativamente” esclusa l’inerenza (rectius: la deducibilità) dei componenti negativi direttamente funzionali al compimento di delitti dolosi, e, quindi, la vera “preoccupazione” del legislatore, evitando in radice ogni discussione sulla possibile applicazione del principio del ne bis in idem, sarebbe stata quella di “salvaguardare” l’applicazione della sanzione di infedele dichiarazione (art. 1, secondo comma, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471) in conseguenza del recupero del costo “illecito”.
Attenta dottrina (28) ribadisce che l’indeducibilità, disciplinata dalla norma in esame, debba essere interpretata coma sanzione impropria (29). Coerentemente, gli stessi Autori, ipotizzando l’astratta configurabilità di due fattispecie sanzionatorie amministrative: a) quella dell’indeducibilità di cui all’art. 14, comma 4-bis (30); b) quella dell’infedeltà della dichiarazione di cui all’art. 1, secondo comma, del D.Lgs. n. 471/1997, invocando il principio del “ne bis in idem”, ritengono applicabile solo la fattispecie sanzionatoria speciale dell’art. 14, comma 4-bis.
Questa lettura della norma, d’altronde, sarebbe coerente con la stessa relazione illustrativa alla modifica legislativa dell’art. 14, comma 4-bis, laddove «si specifica che qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione e dei relativi interessi».
Invero, il mancato richiamo al rimborso delle sanzioni, lungi dal potere essere interpretato come una mera dimenticanza del legislatore, sarebbe giuridicamente giustificato proprio dalla inapplicabilità – nel caso di specie – della sanzione per infedele dichiarazione (31).
Avv. Carlo Papa

 

(1) Cass., sez. trib., 19 settembre 2012, n. 15741, in Boll. Trib. On-line, ha recentemente ribadito che «Anche in questa ipotesi l’IVA che figura pagata al cedente in via di rivalsa non è detraibile dato che ad essa – con la consapevolezza o la partecipazione del cessionario – non solo non corrisponde un versamento all’erario ma non corrisponde un’attività economica effettiva ed il trasferimento all’intermediario formale ha il solo scopo abusivo di avvantaggiarsi della detrazione».
(2) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. staccata di Brescia, 18 giugno 2012, n. 133, in Boll. Trib., 2012, 1646, con nota di S. SERVIDIO, La deducibilità dei costi da reato tra imposte sui redditi e IVA. In una controversia simile a quella esaminata dall’annotata sentenza, i giudici lombardi, applicando retroattivamente il novellato art. 14, comma 4-bis, hanno annullato l’accertamento ai fini delle imposte dirette, perché l’acquirente italiano «ha indubbiamente effettuato le vendite delle autovetture che sono state realmente acquistate da terzi venditori, anche se diversi dagli apparenti fornitori; poiché i costi di acquisto sono reali, inerenti all’attività di commercio di autovetture da cui sono derivati i relativi ricavi, congrui con i prezzi di mercato».
(3) In Boll. Trib., 2012, 1182.
(4) In Il Sole 24 Ore del 25 febbraio 2012, R. LUPI ha affermato che l’indeducibilità dei costi da reato non si riferisce «alle modalità illecite di compimento di ordinarie attività d’impresa, come … l’acquisto di merci».
(5) Nella nota 5 della citata circ. n. 32/E/2012 si fa riferimento proprio all’operazione esaminata nella sentenza in commento: «utilizzo di fattura soggettivamente inesistente, per l’acquisto di merce, finalizzato al compimento di una frode in ambito IVA. In tale ipotesi, il costo esposto in fattura, effettivamente relativo all’acquisto della merce, non rappresenta l’onere sostenuto per porre in essere la frode IVA. Il costo della merce è deducibile in presenza dei requisiti previsti dal TUIR».
(6) Invero nelle operazioni soggettivamente fittizie non c’è dolo evasivo (quantomeno ai fini delle imposte sul reddito), perché il costo è realmente sostenuto.
(7) M. DAMIANI, Operazioni vere e fatture false: la deducibilità dei costi, in Corr. trib., 2010, 1025 ss., afferma che nell’ipotesi di operazione soggettivamente fittizia grava sull’acquirente l’onere di provare la quantificazione del costo «unitamente ad altri elementi, dotati dei requisiti di certezza e precisione (tali, ad esempio, possono essere i contratti o altra documentazione, come commissioni, lettere di conferma ecc., intercorsi con l’effettivo fornitore, da cui risulti l’ammontare del prezzo pattuito o documenti di consegna e trasporto, che trovino poi coerenza con i mezzi di pagamento). Le apparenze contabili, non affidabili, vengono in sostanza superate non solamente a scapito del contribuente ma anche a suo favore, se è possibile accertare aliunde i veri elementi soggettivi ed oggettivi dell’operazione, in conformità alla norma [art. 109 comma 4 lettera b) del TUIR] che prevede che siano certi e precisi anche se non risultanti dalle scritture contabili».
(8) In Boll. Trib. On-line.
(9) In Boll. Trib. On-line.
(10) In Boll. Trib. On-line.
(11) In Boll. Trib. On-line.
(12) In Boll. Trib., 2006, 1815.
(13) I pagamenti venivano effettuati, dall’utilizzatore della fattura falsa, tramite bonifico direttamente ai fornitori UE.
(14) Corte Giust. UE 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, punto 49, in Boll. Trib. On-line «Dato che il diniego del diritto a detrazione … è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, spetta all’Amministrazione fiscale dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuta a monte nella catena di fornitura».
(15) La deducibilità del costo è riconosciuta, perché un altro soggetto dichiara e assoggetta a tassazione il corrispondente ricavo. Cfr. Cass., sez. trib., 30 novembre 2011, n. 25501, in Boll. Trib. On-line, ancorché con riguardo al meccanismo dell’IVA, che ha concluso per l’indetraibilità della fattura soggettivamente fittizia, perché, tra l’altro, «risulta evasa l’imposta dovuta per l’operazione effettivamente realizzata».
(16) L’Amministrazione finanziaria non riesce entro il termine di decadenza ad accertare il corrispondente ricavo all’effettivo fornitore.
(17) Recentemente Cass., sez. trib., 20 giugno 2012, n. 10167, in Boll. Trib., 2013, 224, con nota di F. CERIONI, L’indetraibilità dell’IVA relativa alle operazioni inesistenti tra frode ed abuso del diritto di detrazione, ha affermato che, nell’ipotesi di utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente fittizie, «non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, venduti. Sicché non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relative alle predette operazioni. Resta comunque aperto il problema della concreta deducibilità dei costi in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità» dovendosi in ogni caso applicare il «seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4-bis, L. n. 537 del 1993 nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, D.L. n. 16 del 2012, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. ‘frode carosello’, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del TUIR siano in contrasto con i principi effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”».
(18) Il legislatore, uniformandosi a un costante orientamento giurisprudenziale di legittimità, ha stabilito [art. 109, quarto comma, lett. b)] all’ultimo periodo che «le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e gli altri proventi, che pur non risultando imputati al conto economico concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi».
(19) Peraltro sempre restituiti al netto dell’effettivo “costo” corrisposto alla cartiera per la mera emissione della fattura.
(20) Secondo la recente Cass., sez. trib., 19 ottobre 2012, n. 18009, in Boll. Trib. On-line, che richiama Cass., sez. trib., 11 aprile 2011, n. 8132, ivi, il contribuente conserva il diritto alla deducibilità se «provi che non sapeva o non poteva sapere di partecipare ad un’operazione fraudolenta e, in particolare, se dimostri almeno una di queste due circostanze e cioè di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, non sia stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione».
(21) S. CAPOLUPO, Indeducibilità dei costi da attività illecita, in Corr. trib., 2006, 1728 ss., nel commentare il previgente art. 14, comma 4-bis, parla di previsione normativa che «presenta una evidente valenza sanzionatoria di non agevole giustificazione sul piano della teoria generale … norma della specie, come una sorta di doppia sanzione per il contribuente».
(22) Il concetto di ne bis in idem, che poggia sull’assunto che non possa essere inflitta più di una pena per il compimento del medesimo fatto, è estensibile anche nell’ordinamento tributario. Ciò emerge incontestabilmente laddove si ponga attenzione a quello che è stato il percorso evolutivo in tema di sanzioni tributarie: se il previgente sistema di penalità delineato dalla legge 7 gennaio 1929, n. 4, aveva uno spiccato carattere risarcitorio, l’art. 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ha ridisegnato lo schema delle sanzioni tributarie. I tre decreti legislativi del 1997 (nn. 471, 472 e 473 del 18 dicembre) hanno ammodernato l’impianto normativo con un’impostazione che ricalca quella del codice penale. Pertanto, la valutazione della sussistenza della responsabilità personale dell’autore della violazione non può prescindere dall’analisi dei fatti concretamente posti in essere dallo stesso e dal giudizio circa la loro concreta offensività. Da quanto detto, discende che l’inflizione di una pena pecuniaria potrà essere effettuata solo una volta sulla base del medesimo presupposto, poiché diversamente operando tornerebbe a rivivere il vecchio sistema risarcitorio radicalmente mutato dalla riforma del 1997.
(23) I costi illeciti sono indeducibili allorquando siano serviti per realizzare un ingiusto profitto.
(24) Cass., sez. III pen., 16 ottobre 2012, n. 40559, in Boll. Trib. On-line, si è pronunciata in tema di applicazione della recente modifica legislativa dell’art. 14, comma 4-bis, ritenendo «corretta l’interpretazione della suddetta disposizione nel senso che sono indeducibili i costi comunque “riconducibili” alla condotta criminosa. Quindi: i costi sostenuti per la realizzazione di una frode carosello, essendo essi stessi lo strumento per realizzare l’evasione IVA, sono indeducibili».
(25) Ved. Corte Giust. UE 6 luglio 2006, cause riunite C-439/04 e C-440/04, Axel Kittel, in Boll. Trib. On-line.
(26) «Un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA, ai fini della sesta Direttiva, deve essere ritenuto partecipante a tale frode, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla vendita dei beni. In una tale situazione, infatti, il soggetto passivo collabora con gli autori della frode e ne diviene complice»: così Corte Giust. UE cause riunite C-80/11 e C-142/11 del 2012, cit., punti 56 e 57.
(27) La giurisprudenza di legittimità in tema di “frodi carosello” ha recentemente confermato (Cass., sez. VI, 1° agosto 2012, n. 13825, in Boll. Trib. On-line) che «in tema di IVA, nelle c.d. “frodi carosello” – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società o ditte filtro (“buffers”) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della Direttiva 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del dpr 633 art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari, come nella specie (v. pure Cass. sentenza n. 867 del 2010, sezioni unite n. 30055 del 2008). Gli stessi rilievi valgono anche in ordine alle altre imposte evase, trattandosi di effetti consequenziali alla “frode carosello”».
(28) G. ANDREANI – G. FERRARA, Indeducibilità dei costi da reato e soggettivamente inesistenti: sanzioni e “Reverse Charge”, in Corr. trib., 2012, 3491 ss.
(29) In questo senso B. SANTACROCE – D. STEVANATO – R. LUPI, Il restyling della regola d’indeducibilità dei costi finalizzati ad attività criminose, in Dial. dir. trib., 2012, 153 ss.
(30) Norma indubbiamente speciale rispetto all’art. 109 del TUIR, perché classifica indeducibile un componente negativo astrattamente inerente (e quindi scomputabile).
(31) Contra S. CAPOLUPO, La nuova disciplina dei costi da reato, in il fisco, 2012, 2253, secondo il quale «manca qualsiasi riferimento alle sanzioni ma, evidentemente, non si tratta di omissione. In merito, infatti, è appena il caso di ricordare che, a mente dell’art. 21 del D.Lgs. 74/2000, in caso di inoltro di notizia di reato, l’Agenzia delle entrate irroga comunque le sanzioni amministrative derivanti dal segnalato comportamento antigiuridico, fermo restando che le stesse non sono eseguibili … salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione». Al riguardo, quindi, si segnala un’incongruenza nella citata circ. n. 32/E/2012, nel punto 2.5, laddove «Si ritiene che in coerenza con i principi che hanno ispirato l’intervento normativo, l’obbligo di restituzione dovrà riguardare anche le sanzioni».

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