25 Giugno, 2013

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Nullità per carenza di potere e difetto di attribuzione – Si configura – Tutela cautelare ante accertamento – Ammissibilità – Giurisdizione del giudice ordinario – Sussiste.

 In base all’art. 152 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e alla sua interpretazione da parte della Corte di Cassazione, in combinato disposto con l’art. 103 Cost., rientra nella giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria la domanda di accertamento e tutela dei diritti fondamentali del contribuente e di inibizione all’Agenzia delle entrate, quandanche in esecuzione del D.M. 24 dicembre 2012 attuativo del nuovo redditometro, di controllare, analizzare e archiviare le sue spese in applicazione del decreto ministeriale attuativo del redditometro, vertendosi in materia di diritti fondamentali della personalità e non già di interessi di mero fatto, se il ricorrente non abbia né direttamente né indirettamente impugnato alcun provvedimento amministrativo.

Il decreto ministeriale 24 dicembre 2012, attuativo del redditometro, è stato emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e in contrasto con le norme della Costituzione e del diritto comunitario, in quanto tale istituto, nella sua impostazione susseguente all’applicazione delle indicazioni contenute nel predetto decreto attuativo, utilizza categorie concettuali ed elaborazioni non previste dalla norma attributiva e deve, pertanto, ritenersi radicalmente nullo, ai sensi dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione e, di conseguenza, giuridicamente tamquam non esset sotto il profilo dell’efficacia, in guisa da giustificare l’ordine, rivolto all’Agenzia delle entrate, di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione o comunque attività di conoscenza e uso dei dati del contribuente relativi a quanto previsto dall’art. 38, commi quarto e quinto, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, di cessare ogni attività di accesso, analisi e raccolta di dati di ogni genere relativi alla posizione del contribuente medesimo, di comunicare a quest’ultimo se è in atto un’attività di raccolta di dati nei suoi confronti ai fini dell’applicazione del redditometro e, in caso positivo, di distruggere tutti i relativi archivi previa specifica informazione al soggetto interessato.

 [Tribunale di Napoli, sezione staccata di Pozzuoli (G.U. Lepre), 20 febbraio 2013, ord. n. 250]

 

rilevato

che con ricorso depositato in data 12.2.2013 parte ricorrente chiede inibirsi alla Agenzia delle Entrate di controllare, analizzare e archiviare le proprie spese in applicazione del decreto ministeriale 24.12.2012, n. 65648 pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 3 del 4.1.2013, in quanto – vista l’ampiezza dei dati previsti dal regolamento – la predetta Agenzia verrebbe a conoscenza di ogni singolo aspetto della propria vita quotidiana, ledendo non già la sola riservatezza ma la stessa libertà individuale come potenzialità di autodeterminazione;

che, in particolare, l’assenza di limiti di tempo consentirebbe alla Agenzia di costituire un archivio definitivo e periodicamente aggiornato di ogni singola scelta del contribuente;

considerato

che si verte manifestamente in materia di diritti fondamentali della personalità e non già di meri interessi di fatto come sostenuto dalla Avvocatura dello Stato, diritti che – essendo il F. un contribuente – sono nella loro esplicazione concreta potenzialmente soggetti in ogni momento alle indagini e controlli fiscali di cui al citato regolamento ministeriale;

che – come meglio motivato in seguito – la presente fattispecie, quindi, rientra nella giurisdizione ordinaria, posto che il ricorrente né direttamente, né indirettamente ha impugnato alcun provvedimento amministrativo, chiedendo esclusivamente emanarsi una pronunzia di accertamento e tutela inibitoria dei propri diritti fondamentali;

considerato, peraltro, che in materia di riservatezza – pur andando il presente ricorso al di là della sola privatezza – è prevista esplicitamente la giurisdizione del giudice ordinario dall’art. 152 d.lgs. 196/2003, disposizione interpretata, in caso di impugnazione di provvedimenti del Garante, dalla Corte di Cassazione come previsione – peraltro – di giurisdizione esclusiva del giudice ordinario (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civile – sentenza 14 aprile 2011 n. 8487: «L’art. 103 Cost., evolutivamente interpretato, va inteso nel senso che all’A.G.O. è consentito, per effetto di conforme disposizione del legislatore ordinario, di conoscere di interessi legittimi, di conoscere ed eventualmente annullare un atto della P.A. e di incidere conseguentemente sui rapporti sottostanti secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste. Ai sensi dell’art. 152, 1° comma, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 codice in materia di protezione dei dati personali (secondo cui “tutte le controversie che riguardano, comunque, l’applicazione delle disposizioni del presente codice, comprese quelle inerenti ai provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o alla loro mancata adozione, sono attribuite all’autorità giudiziaria ordinaria”), rientra nella giurisdizione del giudice ordinario una controversia relativa ad una istanza con la quale una società dedita alla raccolta e gestione di dati sulla puntualità nei pagamenti ha chiesto al Garante per la protezione dei dati personali di essere autorizzata ad esigere un contributo dai richiedenti per l’accesso ai dati»; in parte motiva: «È convincimento di queste sezioni unite che la giurisdizione spetti, nella specie, all’autorità giudiziaria ordinaria. A non diversa soluzione conduce, difatti, la piena lettura e la altrettanto piena interpretazione delle norme dianzi ricordate, la cui cristallina espressione letterale (rara avis) non lascia margini a dubbi circa l’intentio legis di attribuire l’intera materia alla cognizione dell’AGO, senza eccezioni di sorta e senza che a ciò risulti di ostacolo la norma costituzionale di cui all’art. 103, più volte evolutivamente interpretata sia da questa stessa corte di legittimità (Cass. ss.uu. 3521/1994), sia dallo stesso Giudice delle leggi nel senso che anche alla predetta autorità giudiziaria è consentito, per effetto di conforme disposizione del legislatore ordinario, di conoscere di interessi legittimi, di conoscere ed eventualmente annullare un atto della P.A., di incidere conseguentemente sui rapporti sottostanti secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste (Corte cost. ord. 140, 165, e 275/2001; 525/2002, mentre l’affermazione contenuta nella sentenza 204 del 2004, a mente della quale la cognizione degli interessi legittimi “sarebbe riservata al giudice amministrativo” sembra in realtà compiuta incidenter tantum, avendo la stessa Corte, con la sentenza 377 del 2008, espressamente riconosciuto al legislatore ordinario” un margine di apprezzamento in materia di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo). La scelta del legislatore ordinario, sicuramente inequivoca nella sua chiara espressione lessicale, appare poi, nel merito, perfettamente ragionevole, poiché la materia dell’accesso ai dati personali e dei costi di esercizio di tale diritto presenta una indiscutibile, reciproca, inestricabile interferenza di diritti e interessi legittimi, nella quale, peraltro, netta appare la prevalenza dei primi rispetto ai secondi. Nel caso di specie, oltretutto, non par lecito discorrere nemmeno di una vera discrezionalità amministrativa, poiché il garante è chiamato ad operare un bilanciamento tra interessi privati (quelli degli interessati ai dati trattabili e quelli delle imprese detentrici), e non tra interesse privato e interesse pubblico)»;

che il principio di legalità, come sottoposizione di tutti i pubblici poteri alla legge, immanente nell’ordinamento democratico (in materia specificamente tributaria, oltre che pacifico in dottrina, cfr. Cass. 18.02.2003, n. 2416[1]; Cds, sez. V, 22.4.2004, n. 2293[2]) e positivizzato nel sistema costituzionale (ex multis, Corte Cost. 115/2011), ha storicamente come funzione fondamentale quella di tutelare il singolo rispetto alle prerogative del potere esecutivo e della amministrazione;

che tale funzione primaria del principio di legalità è stata rafforzata con l’entrata in vigore della vigente Carta Costituzionale di tipo rigido attraverso la previsione di molteplici riserve di legge a tutela delle libertà fondamentali, in ragione della necessità – storicamente manifestatasi – di evitare che la stessa legge derogasse a se stessa attribuendo poteri atipici agli organi dell’amministrazione o consentendo una simile attribuzione da parte delle fonti secondarie prodotte dal medesimo potere esecutivo;

che, in virtù del principio di legalità, la pubblica amministrazione è titolare solo ed esclusivamente dei poteri conferitigli in modo non equivoco da specifiche disposizioni che attribuiscono, regolano e limitano il relativo potere (cfr. Corte Cost. 150/1982, 307/2003, 32/2009, 115/2011);

chela Costituzioneè fondata sulla tutela della persona in quanto tale, cioè come valore a sé e alla cui tutela è preordinato l’intero ordinamento giuridico;

che, per quanto rilevato, la c.d. prima parte della Carta Fondamentale è ritenuta pacificamente inderogabile in peius, neppure attraverso lo strumento della revisione costituzionale, in quanto volta a tutelare e a garantire i diritti inviolabili dell’uomo che significativamentela Repubblica riconosce come già esistenti ai sensi dell’art. 2 Cost.;

che in particolare la giurisprudenza, con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo, ha specificato che «nel nostro ordinamento si rinvengono a fronte di situazioni “soggettive a nucleo variabile” – in relazione alle quali si riscontra un potere discrezionale della pubblica amministrazione capace di degradare (all’esito di un giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti) i diritti ad interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino ad elevarli a diritti – “posizioni soggettive a nucleo rigido”, rinvenibili unicamente in presenza di quei diritti, quale quello alla salute, che – in ragione della loro dimensione costituzionale e della loro stretta inerenza a valori primari della persona – non possono essere definitivamente sacrificati o compromessi, sicché allorquando si prospettino motivi di urgenza suscettibili di esporli a pregiudizi gravi ed irreversibili, alla pubblica amministrazione manca qualsiasi potere discrezionale di incidere su detti diritti non essendo ad essa riservato se non il potere di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perché la pretesa avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, quello spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata» (Cass. S.U. 17461/06); Cass. sez. un. ord. 9.9.2009, n. 19393: “i diritti umani fondamentali (…) godono della protezione apprestata dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore” (cfr. anche Cass. sez. un. ord. 16.09.2010, n. 19577);

che, quindi, a fronte di tali diritti non è ammissibile alcuna normativa – di rango primario o secondario – che sacrifichi definitivamente l’uno a discapito dell’altro, essendo necessario, appunto, un bilanciamento e contemperamento, sì da determinare una mera compressione temporanea e non già soppressione di un interesse costituzionale in favore dell’altro, con conseguente piena riespansione del bene costituzionale una volta che sia cessata la esigenza contingente della sua temporanea limitazione (cfr. significativamente, Corte Cost. 22.2.2005, n. 200 inrelazione ai rapporti tra tutela della salute e limiti oggettivi di finanza pubblica, nonché Corte Cost. 18.2.1975, n. 27, secondo cui “l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione)”;

che nell’ambito dei diritti fondamentali della persona umana rientrano certamente il diritto alla libertà personale e morale, quale possibilità di piena esplicazione della propria personalità in tutti gli aspetti della vita di relazione come sancito dall’art. 13 Cost. letto in coerenza con l’art. 2 della Carta e con i successivi artt. 18, 19, 21 e 24, nonché con l’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea secondo cui la dignità umana è inviolabile e deve essere rispettata e tutelata;

che semprela Cartadei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a conferma di quanto già pacificamente già presente nella Costituzione italiana, ribadisce il diritto “alla libertà”, senza peraltro far seguire la dicitura “personale” e quindi da interpretarsi nel senso più ampio possibile come diritto alla autodeterminazione;

che il fondamento personalistico dell’ordinamento trova altresì conferma nell’art. 7, e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che sanciscono il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni, nonché alla protezione dei dati di carattere personale;

che, quindi, è evidente come ad essere tutelata sia la persona non solo con riferimento al domicilio, alla riservatezza delle comunicazioni ma con riferimento alla sua intera dimensione privata come concretamente si articola nella quotidianità e ciò in applicazione dei principi di rispetto della dignità umana e di libertà: non può esservi, infatti, ictu oculi, né dignità, né libertà ove non vi sia protezione e piena autonomia delle proprie scelte quotidiane che si svolgano all’interno della legalità, autonomia che comporta ovviamente il non dover giustificarsi delle proprie scelte se non in casi di assoluta eccezionalità e in presenza di circostanze specifiche, concrete e determinate;

 

[-protetto-]

 

 

considerato altresì

che altro principio fondamentale – quest’ultimo di derivazione tipicamente comunitaria – è il principio di proporzionalità che vieta alla P.A. di sacrificare la sfera giuridica dei privati, al di là di quanto sia strettamente necessario per il raggiungimento dell’interesse generale in concreto perseguito e che quindi vi deve essere nell’azione amministrativa proporzione tra mezzi e fini perseguiti;

che tale principio, secondo l’opinione prevalente, trova fondamento in particolare nell’art. 13, Trattato Unione Europea ed è oramai ius receptum nella giurisprudenza comunitaria e interna (ex multis, Corte giustizia CE sez. II, 22 dicembre 2010, n. 279; Corte giustizia UE grande sezione, 27 novembre 2012, n. 566; Corte europea dir. uomo sez. grande chambre 10 novembre 2005, n. 44774; Cass. civ. sez. trib. 15 maggio 2006, n. 11133[3]; Cds, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471; TAR Ancona Marche, sez. I, 10 dicembre 2012, n. 788; Trib. Palermo 18 giugno 2010);

che in particolare tale principio con riferimento al rapporto esistente tra tutela degli interessi generali e dei privati impone che ogni interferenza del pubblico potere deve rispondere ad “un giusto equilibrio tra i requisiti dell’interesse generale della collettività e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (…). In particolare, deve esistere un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati ed il fine perseguito da ogni provvedimenti” (Corte europea dir. uomo, 20 novembre 1995, n. 332).

Rilevato, con riferimento alla fattispecie concreta,

che secondo l’art. 38, comma 4, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, l’agenzia delle entrate “può sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta, salva la prova che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile”;

che secondo il comma 5 della medesima disposizione “la determinazione sintetica può altresì essere fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuato mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza, con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale con periodicità biennale. In tal caso è fatta salva per il contribuente la prova contraria di cui al quarto comma”;

che, quindi, la norma attributiva del potere al Ministero dell’Economia e Finanza prevede come presupposti che: a) sia sempre concessa la prova liberatoria in capo al contribuente; b) può essere considerata qualsiasi spesa di qualsiasi genere; c) i campioni significativi riguardino specificamente i “contribuenti”; d) che tali contribuenti vanno differenziati tra loro “anche” in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza;

rilevato, altresì,

che l’autorità governativa è intervenuta con il d.m. 24.12.2012, n. 65648 pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 3 del 4.1.2013;

che il predetto D.M. prevede che:

1. i beni e servizi da considerare significativi di capacità contributiva sono quelli indicati nella tabella A, nonché altri elementi di capacità contributiva diversi da quelli riportati nella tabella A, qualora siano disponibili dati relativi alla spesa sostenuta per l’acquisizione di servizi e di beni e per il relativo mantenimento, nonché la quota di risparmio riscontrata formatasi nell’anno (art. 1, comma 2 e 4); nonché “dell’ammontare delle spese, anche diverse rispetto a quelle indicate nella tabella A che, dai dati disponibili o dalle informazioni presenti nel Sistema informativo dell’Anagrafe tributaria, risultano sostenute dal contribuente”.

2. il contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva di cui alla tabella A “è determinato tenendo conto della spesa media, per gruppi di categorie di consumi, del nucleo familiare di appartenenza del contribuente; tale contenuto induttivo corrisponde alla spesa media risultante dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie compresa nel Programma statistico nazionale, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 6 settembre 1989, n. 322, effettuata su campioni significativi di contribuenti appartenenti ad undici tipologie di nuclei familiari distribuite nelle cinque aree territoriali in cui è suddiviso il territorio nazionale. Le tipologie di nuclei familiari considerate sono indicate nella tabella B, che fa parte integrante del presente decreto”.

3. il reddito complessivo ai sensi dell’art. 3 è quindi accertato sulla base di quanto indicato sub 1 e sulla base “della quota parte, attribuibile al contribuente, dell’ammontare della spesa media ISTAT riferita ai consumi del nucleo familiare di appartenenza, determinata: nella percentuale corrispondente al rapporto tra il reddito complessivo attribuibile al contribuente ed il totale dei redditi complessivi attribuibili ai componenti del nucleo familiare; in assenza di redditi dichiarati dal nucleo familiare, nella percentuale corrispondente al rapporto tra le spese sostenute dal contribuente ed il totale delle spese dell’intero nucleo familiare, risultanti dai dati disponibili o dalle informazioni presenti nel Sistema informativo dell’Anagrafe tributaria”, nonché sulla base “dell’ammontare delle ulteriori spese riferite ai beni e servizi presenti nella tabella A, nella misura determinata considerando la spesa rilevata da analisi e studi socio economici; della quota relativa agli incrementi patrimoniali del contribuente imputabile al periodo d’imposta, nella misura determinata con le modalità indicate nella tabella A; della quota di risparmio riscontrata, formatasi nell’anno”;

ritenuto, quindi,

che il decreto ministeriale è non solo illegittimo, ma radicalmente nullo ai sensi dell’art. 21-septies legge n. 241/1990 per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione in quanto emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria, atteso che il c.d. redditometro utilizza categorie concettuali ed elaborazioni non previste dalla norma attributiva, che richiede la identificazione di categorie di contribuenti, laddove – per come si vedrà – il d.m. non individua tali categorie ma altro, sottoponendo indirettamente – vista l’ampiezza dei controlli e il riferimento ai nuclei familiari – a controllo anche le spese riferibili a soggetti diversi dal contribuente e per il solo fatto di essere appartenenti al medesimo nucleo familiare (si pensi all’acquisto di un medicinale per il congiunto malato oppure del libro di lettura);

che, in particolare, il regolamento del potere esecutivo:

– non fa alcuna differenziazione tra cluster di “contribuenti” così come imposto dall’art. 38, dpr 600/1973 e dall’art. 53 Cost., bensì del tutto autonomamente opera una differenziazione di tipologie familiare suddivise per cinque aree geografiche, ricollocando, quindi, all’interno di ciascuna delle tipologie figure di contribuenti del tutto differenti tra loro l’operaio, l’impiegato, il funzionario, il dirigente, chi ha avuto periodi di disoccupazione alternati a periodi di forti guadagni etc etc); non può, cioè, non rilevarsi come l’art. 38 parla esplicitamente di “contribuenti” e non già di famiglie (non potendo peraltro fare altro essendo ciò imposto dall’art. 53 Cost.); contribuenti che vanno differenziati “anche” in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza: in definitiva, il riferimento al nucleo familiare e all’area territoriale sono criteri aggiuntivi che in tutta evidenza devono servire a ulteriormente specificare e, per così dire, concretizzare il cluster di riferimento già di per sé individuato in base a caratteristiche proprie. Il decreto ministeriale invece utilizza tali due criteri di complemento come principali ed esaustivi;

– utilizza come parametro per determinare le spese medie delle famiglie (peraltro, anche difficilmente armonizzando con Corte Cost. 15.7.1976, n. 179[4] che aveva escluso la cumulabilità dei redditi dei coniugi) quelle di cui al Programma statistico nazionale predisposto ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 6.9.1989, n. 322: si utilizza, cioè, l’attività dell’ISTAT che nulla ha a che vedere con la specificità della materia tributaria che deve indirizzare la sua indagine alla ricostruzione specifica di individualizzati profili di contribuenti e non già alla ricostruzione di macrocategorie funzionali ad analisi macroeconomiche e sociologiche che proprio per questo sono del tutto eterogenee rispetto al concetto di contribuente; è infatti appena il caso di osservare che il predetto Programma statistico nazionale è il piano predisposto per legge dall’ISTAT, nel quale vengono esposte le attività statistiche di interesse pubblico che l’ISTAT e gli altri enti del SISTAN si impegnano a realizzare nel corso di un triennio, al fine di offrire ai cittadini un’immagine non distorta della società e dell’economia nel suo complesso;

– viola l’art. 2, 13 Cost., art. 1, 7 e 8 Carta dei diritti fondamentali della UE, nonché l’art. 38 dpr 600/1973 poiché prevede la raccolta e la conservazione non già di questa o quella voce di spesa diverse tra loro per genere (come previsto dall’art. 38) ma, a ben vedere, di tutte le spese poste in essere dal soggetto (rectius: dalla famiglia), che viene, quindi, definitivamente privato del diritto ad avere una vita privata, di poter gestire autonomamente il proprio denaro e le proprie risorse, ad essere quindi libero nelle proprie determinazioni senza dover essere sottoposto all’invadenza del potere esecutivo e senza dover dare spiegazioni dell’utilizzo della propria autonomia e senza dover subire intrusioni anche su aspetti delicatissimi della vita privata quali quelli relativi alla spesa farmaceutica, al mantenimento e all’educazione impartita alla prole e alla propria vita sessuale; soppressione definitiva di ogni privatezza e dignità riguardante, peraltro, non solo il singolo contribuente ma in realtà tutti i componenti di quel nucleo familiare; ed, infatti, appena si legge la tabella A del d.m. si deve prendere atto che l’autorità governativa a titolo meramente semplificativo: saprà di ciascuna famiglia quante e quali calzature, pantaloni, biancheria intima etc. utilizzano i suoi componenti; se questi ultimi preferiscono il vino, la birra o analcolici e di che tipo; quanta acqua si utilizza, se sono state eseguire riparazioni di manutenzione ordinaria relative alla rottura della caldaia o del fornello; quanta energia elettrica, gas è stato utilizzato; quali elettrodomestici, arredi sono stati comprati o comunque usati con relative spese di gestione; quali e quanta “biancheria, detersivi, pentole, lavanderia e riparazioni” consuma questa o quella famiglia; addirittura, in manifesta violazione della dignità umana di cui all’art. 1 Carta dei diritti fondamentali della UE di quali e quanti “medicinali e visite mediche” ha necessitato il nucleo familiare e quindi i suoi singoli componenti; quale carburante, lubrificante si utilizza per la propria auto; quanti tram, autobus, taxi e trasporti sono utilizzati; e in violazione di ogni diritto dei minori anche quali libri scolastici e spese assimilabili sono state sopportate (ad esempio, quindi, se quella famiglia necessita di materiale didattico specifico per il proprio figlio affetto da una certa patologia, l’Agenzia delle entrate lo verrà a sapere) e così egualmente per i giochi, giocattoli; in violazione dell’art. 18 e dell’art. 21 Cost. l’autorità governativa saprà quali associazioni culturali, quali manifestazioni culturali sono preferite dal nucleo famigliare; infine, come visto, l’Agenzia delle entrate può considerare in ogni caso anche tutte le altre spese non elencate nella predetta Tabella A: norma di chiusura che esplicita l’auto attribuzione da parte dell’Esecutivo del potere di raccogliere e immagazzinare ogni singolo dettaglio dal più insignificante al più sensibile della vita di ciascun componente di un nucleo familiare;

– conferisce all’Agenzia governativa un potere che va, quindi, manifestamente oltre quello della ispezione fiscale consentito astrattamente dall’art. 14, 3° comma Cost. che in via eccezionale e manifestamente tassativa non richiede la riserva di giurisdizione; infatti, è previsto dal regolamento ministeriale un potere di acquisizione, archiviazione e utilizzo di dati di ogni genere che nulla ha a che vedere con la mera ispezione, rappresentando un potere di cui non gode persino l’autorità giudiziaria penale che pure è destinataria di potere non di controllo generalizzato e indiscriminato ma sempre con riferimento ad indagini riferite a specifici reati ipotizzati;

­ viola il diritto alla difesa ex art. 24, il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost e l’art. 38 dpr 600/1973 in quanto rende impossibile fornire la prova di aver speso di meno di quanto risultante dalla predetta media Istat: ed, infatti, non si vede come si possa provare ciò che non si è fatto, ciò che non si è comprato, atteso che – anche a voler prevedere una grottesca conservazione di tutti gli scontrini e una altrettanto grottesca analitica contabilità domestica – è chiaro che tale documentazione non dimostrerà che non è stata sopportata altra concreta spesa; si arriva così all’irragionevole ricostruzione di spese artificialmente imposte dall’autorità governativa, mercé le quali si può di fatto intensificare il prelievo fiscale in violazione dell’art. 53, 1° e 2° comma Cost.; ed è pure rilevante osservare che la ipotesi di spese minori di quelle presuntivamente ancorate alle medie non sono improbabili ma, invece, assolutamente certe: ed, infatti, se vi è una media di spesa, significa che sono state registrate nella realtà economica fasce di oscillazione da un minimo a un massimo, sicché è certo che coloro i quali si ritroveranno al di sotto di tale media si vedranno attribuire automaticamente consumi non sostenuti;

­ accomuna situazioni territoriali differenti in quanto altro è la grande metropoli altro è il piccolo centro e altro ancora è vivere in questo o quel quartiere;

– viola i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità in quanto, a ben vedere, non è strumento idoneo a raggiungere in modo adeguato i prefissi obiettivi di repressione dell’evasione fiscale, pur sacrificando del tutto – come visto – il diritto alla dignità, alla autodeterminazione e alla privatezza della propria vita individuale, associativa, culturale e relazionale non solo del singolo contribuente ma di tutto il suo nucleo familiare; ed, infatti, lo strumento induttivo è tanto più severo quanto più il presunto evasore è economicamente meno robusto: al soggetto, infatti, meno abbiente di imperio si impone fittiziamente una spesa anche maggiore di quella reale presumendo, quindi, una evasione fiscale in caso di acquisto di taluni beni di valore eccedenti il range di tolleranza; il contribuente (rectius il nucleo familiare) più economicamente benestante, invece, ne trae beneficio, in quanto sarà sufficiente evitare di acquistare la merce con sistemi tracciabili telematicamente e potrà, quindi, spendere nella realtà molto di più di quanto, invece, in assenza di costi tracciabili, gli sarà presuntivamente imputato: in definitiva, più è benestante l’evasore potenziale, più è agevolato nel sottrarsi a tale controllo, anche perché, anche a voler tracciare i pagamenti, proprio in ragione del suo benessere per così dire “ufficiale”, potrà giustificare tutta una serie di spese che vanno oltre il range di tolleranza e continuare ad accumulare reddito non dichiarato; sotto altro profilo, è poi evidente che la evasione economicamente più significativa viene poi realizzata nell’ambito delle attività di impresa in specie societarie, così come è pacifico che i singoli contribuenti fortemente evasori normalmente si industriano al fine di creare soggetti giuridici fittizi intestatari e beneficiari delle maggiori ricchezze, di cui quindi possono godere indirettamente attraverso tali artifici giuridici e contabili;

– accentua le predette discriminazioni, anche in considerazione della insufficiente differenziazione geografica effettuata, anch’essa modellata – coerentemente con indagini di tipo statistico funzionali a riflessioni macroeconomiche e a ricostruzioni di tendenze di massima della società – su ampie categorie, posto che si è tenuto conto di cinque aree territoriali: ebbene, è noto che all’interno della medesima Regione e, anzi, della medesima Provincia vi sono fortissime oscillazioni del costo concreto della vita, così come altrettanto forti oscillazioni vi possono essere all’interno di una medesima area metropolitana a seconda del quartiere in cui si vive; ebbene, anche sotto tale profilo, lo strumento presuntivo approntato dal d.m. tende a pregiudicare fatalmente proprio la fascia della popolazione economicamente meno forte in favore di quella più forte; la media, infatti, come detto, è la risultante di valori opposti tra loro: ebbene, è noto che il costo della vita è inferiore nelle zone economicamente meno sviluppate, mentre, invece, è più alto nelle zone economicamente più robuste; se ciò è vero, allora i contribuenti delle zone più disagiate perderanno anche, per così dire, il vantaggio di poter usufruire di un costo della vita inferiore in quanto gli sarà imputato in ogni caso il valore medio ISTAT delle spese; i contribuenti agiati delle zone economiche più forti, invece, come già rilevato, potranno addirittura utilizzare il redditometro a proprio vantaggio, mentre il contribuente economicamente meno agiato che però vive nell’area economicamente più costosa, ove utilizzi mezzi di pagamento tracciabili, sarà quello fatalmente più esposto al controllo da parte della Agenzia delle entrate; situazione analoga si verificherà per il contribuente economicamente agiato che viva in zone col costo della vita inferiore alla media: ed, invero, in ragione di ciò egli potrà più agevolmente di altri accantonare i risparmi; ma – poiché la quota risparmio è anch’essa considerata ai fini della ricostruzione del reddito – tale risparmio, se non compatibile con la spesa media presunta, sarà inevitabilmente attribuito a reddito illecitamente sottratto al fisco;

– si pone – per quanto anche appena detto – in contrasto con l’art. 47 Cost. secondo cuila Repubblicaincoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme: non v’è chi non veda che, per come impostato il c.d. redditometro, sarà considerato lecito esclusivamente il risparmio che sia compatibile con tali criteri di spesa del tutto astratti e avulsi dalla realtà, in quanto scontano il fatto di aver mutuato elaborazioni statistiche nate per tutt’altri fini;

– è in contrasto coi principi fondamentali di imparzialità, buon andamento dell’amministrazione, nonché con i conseguenti corollari di cui alla legge n. 241/1990 dei principi di leale collaborazione procedimentale volta ad assicurare uno scambio di informazioni in una logica non di antitesi ma collaborativa, in quanto il diritto al contraddittorio assicurato al contribuente è in gran parte svuotato di effettività appena si ponga mente alla circostanza che: a) si è in presenza di un procedimento di tipo eminentemente inquisitorio e sanzionatorio; b) i soggetti a confronto (contribuente e Agenzia) si trovano in posizione di fortissima asimmetria, in quanto l’Agenzia delle entrate è anche socia della società di riscossione forzata, che gode di poteri di autotutela esecutiva anch’essi del tutto inusuali per la loro incisività sulla proprietà privata, asimmetria che potrebbe essere colmata solo in un confronto innanzi ad un organo terzo; c) la Agenzia si trova in situazione di oggettivo conflitto di interessi, poiché essa è normalmente vincolata al raggiungimento di obiettivi e di risultati, sicché ha filologicamente interesse alla conferma della propria ipotesi, anche in ragione della sua partecipazione alla società di riscossione; d) proprio in ragione di ciò, cioè della fisiologica previsione di obiettivi di evasione da recuperare, è evidente che l’accertamento presuntivo mercé il c.d. redditometro poiché non più ancorato – come nella vecchia disciplina – a dati certi ma sempre invece possibili porta seco il rischio l’Agenzia delle entrate, anziché intensificare i controlli sulla realtà ai fini della ricostruzione reale dei redditi, tenda invece a privilegiare l’accertamento mercé il redditometro: strumento meramente burocratico, meno dispendioso in tempo di costi e di energia e soprattutto strutturato in modo tale da rendere non sempre praticabile un reale ed efficace contraddittorio, tanto da escludere come visto, anzi, per certi aspetti e in una certa misura, la stessa possibilità di una prova liberatoria;

– pone in evidente pericolo l’integrità morale della sfera privata nella sua completezza con potenzialità pregiudizievoli irreparabili e imprevedibili nelle loro evidenti proiezioni in danno della dignità umana e della relativa libertà e vita privata;

visto, infine,

che l’art. 5, legge 20 marzo 1865, n. 2248, alleg. E impone al giudice di non applicare gli atti amministrativi e i regolamenti non conformi alla legge;

che il potere della Agenzia delle Entrate si fonda sul decreto ministeriale esaminato;

che l’istituto della disapplicazione, tuttavia, secondo la prevalente opinione, ha senso laddove il giudice ordinario debba incidentalmente e a meri fini endoprocessuali conoscere dell’efficacia di provvedimenti/regolamenti amministrativi, e quindi di atti amministrativi che, in quanto efficaci, devono essere caratterizzati dalla patologia della annullabilità e non già della nullità;

che, per quanto detto, il d.m. 24.12.2012, n. 65648 deve considerarsi radicalmente nullo e quindi – sotto il profilo della efficacia – giuridicamente tamquam non esset, mancando, quindi, il presupposto previsto dall’art. 38 perché l’Agenzia delle entrate possa eseguire gli accertamenti sintetici mercé il c.d. redditometro;

considerata, infine, per quanto attiene alle spese di giudizio,

la evidente novità e peculiarità della questione trattata;

 

P.Q.M. – Ordina – con riferimento al ricorrente – alla Agenzia delle Entrate di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione, o comunque attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’art. 38, 4° e 5° comma dpr 600/1973 e di cessare, ove iniziata, ogni attività di accesso, analisi, raccolta dati di ogni genere relativi alla posizione del ricorrente;

ordina alla Agenzia delle entrate di comunicare formalmente al ricorrente se è in atto un’attività di raccolta dati nei suoi confronti ai fini dell’applicazione del redditometro e, in caso positivo, di distruggere tutti i relativi archivi previa specifica informazione a parte ricorrente;

compensa le spese di giudizio.

 

Il redditometro e la tutela dei dati personali del contribuente

 

1. Premessa

 

Il giudice monocratico della Sezione Civile distaccata di Pozzuoli del Tribunale di Napoli – riconosciuta la propria giurisdizione sull’azione cautelare proposta da un contribuente per inibire all’Agenzia delle entrate l’utilizzo del redditometro, in forza dell’interpretazione giurisprudenziale attribuita all’art. 152 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, contenuto nel codice in materia di protezione dei dati personali, e alla lettura evolutiva dell’art. 103 Cost. e ritenuto che la temuta lesione della riservatezza e della libertà individuale, anche come potenzialità di autodeterminazione, è certamente configurabile – ha emesso un’ordinanza di accoglimento della richiesta presentata dalla parte ricorrente.

L’Autorità giudiziaria adita ha, peraltro, affermato che le indicazioni contenute nel decreto ministeriale attuativo sarebbero, per la loro estrema ampiezza, in palese contrasto con la struttura che è stata delineata per l’istituto all’interno dell’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – anche nelle sue successive modificazioni conseguenti al D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122) – e, soprattutto, con una serie di principi di rango costituzionale e comunitario che, nella motivazione, sono stati approfonditamente esaminati.

infine ha concluso che il decreto ministeriale è illegittimo e radicalmente nullo, ai sensi dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione e, quindi, carente di presupposto, in relazione al caso concreto, tanto da ordinare all’Agenzia delle entrate di non procedere oltre e, addirittura, di distruggere eventuali dati già raccolti.

La pronuncia propone, pertanto, alcuni interessanti profili, degni di essere esaminati poiché potenzialmente condizionanti il futuro dello strumento dell’accertamento sintetico scelto dall’Amministrazione finanziaria per rafforzare l’impianto dell’attività accertativa riguardante le persone fisiche.

È estremamente probabile, a nostro avviso, che l’ordinanza determini un non trascurabile vulnus con riferimento a quest’istituto fortemente controverso e frequentemente all’esame della dottrina e della giurisprudenza.

L’Amministrazione finanziaria, inoltre, ha evidentemente considerato il rischio del possibile “effetto imitazione”, quantomeno sotto il profilo dell’ulteriore “ostilità” che andrebbe a interessare il redditometro, tanto da avere già annunciato che impugnerà l’ordinanza (1).

È peraltro inusuale che il contribuente si rivolga all’Autorità giudiziaria ordinaria per ottenere tutela cautelare relativamente al redditometro, con riguardo all’indagine che lo interessa personalmente. Generalmente, infatti, viene contestata, innanzi alle Commissioni tributarie, la validità dello strumento a seguito di impugnazione di atti definitivi lesivi della sfera giuridico-patrimoniale del contribuente e, spesso, la questione è giunta innanzi alla Corte di Cassazione che si è, più volte, pronunciata sul punto.

Nondimeno, i motivi della contestazione sono numerosi e puntigliosamente esaminati nella pronuncia del Tribunale campano, al fine di mettere in luce i diversi e gravi elementi di invasività che presenta l’impalcatura del redditometro derivante dal decreto attuativo.

Riteniamo, pertanto, estremamente opportuno approfondire le tematiche evidenziate all’interno della pronuncia, della quale, in primo luogo, riassumiamo i punti salienti, per formulare infine le necessarie riflessioni.

 

2. L’ordinanza del Tribunale di Pozzuoli

 

Si legge nel testo dell’annotata ordinanza che un contribuente ha presentato ricorso, in via cautelare, al fine di inibire all’Agenzia delle entrate di controllare, analizzare e archiviare le proprie spese, in applicazione del D.M. 24 dicembre 2012 (2), attuativo del nuovo redditometro. L’ampiezza dei dati previsti dal regolamento consentirebbe, infatti, alla stessa Agenzia di conoscere ogni singolo aspetto della vita quotidiana dell’interessato, con conseguente lesione della riservatezza e, addirittura, della stessa libertà individuale come potenzialità di autodeterminazione, in assenza di limiti di tempo e con la possibilità di creare un archivio definitivo e periodicamente aggiornato.

Il giudice monocratico, esaminato il ricorso, afferma che il contribuente si è correttamente rivolto alla giurisdizione ordinaria in quanto la questione è inquadrabile all’interno dei diritti fondamentali della personalità e non già di meri interessi di fatto e poiché egli non ha, né direttamente, né indirettamente, impugnato alcun provvedimento amministrativo ma ha solo chiesto l’emanazione di una pronunzia di accertamento e tutela inibitoria dei propri diritti fondamentali.

In materia di riservatezza, infatti, l’art. 152 del D.Lgs. n. 196/2003, prevede esplicitamente la giurisdizione del giudice ordinario e tale disposizione, peraltro, in caso di impugnazione di provvedimenti del Garante, è interpretata dalla Corte di Cassazione come previsione di giurisdizione esclusiva.

Con riguardo agli aspetti di merito, il giudice campano sottolinea che il principio di riserva di legge non consente l’attribuzione, alla pubblica Amministrazione, di poteri atipici, men che meno mediante fonti secondarie emanate dal medesimo Organo esecutivo. Di conseguenza, sebbene rispetto ad alcune situazioni soggettive si riscontri un potere discrezionale della pubblica Amministrazione di degradare, all’esito di un giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti, i diritti a interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino a elevarli a diritti, tale facoltà è assolutamente da escludere in tema di diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. La libertà personale e morale del soggetto, non solo con riferimento alla propria vita privata e familiare, al domicilio, alla riservatezza delle comunicazioni ma con riguardo alla sua intera dimensione privata, è, infatti, garantita dagli artt. 13 Cost. e dagli artt. 1, 7, e 8 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea. Questi ultimi, non utilizzando, con riferimento alla libertà, il termine “personale”, ampliano l’ambito della tutela rispetto all’autodeterminazione. L’art. 13 del Trattato dell’Unione europea delinea, peraltro, il principio di proporzionalità, che vieta alla pubblica Amministrazione di sacrificare la sfera giuridica dei privati al di là di quanto sia strettamente necessario per il raggiungimento dell’interesse generale in concreto perseguito e, quindi, impone una proporzione tra mezzi e fini perseguiti.

Il redditometro consente all’Agenzia delle entrate di determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta, e anche sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuati mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza, con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale con periodicità biennale.

Il decreto ministeriale attuativo del redditometro ha, inoltre, precisato che l’Agenzia delle entrate, nella determinazione del reddito complessivo accertabile del contribuente, può fare riferimento oltre che all’ammontare delle spese sostenute dal contribuente indicate nella tabella A allegata allo stesso decreto, a spese diverse; a dati disponibili o a informazioni presenti nel sistema informativo dell’Anagrafe tributaria; alla quota parte, attribuibile al contribuente, dell’ammontare della spesa media ISTAT riferita ai consumi del nucleo familiare di appartenenza, determinata nella percentuale corrispondente al rapporto tra il reddito complessivo attribuibile al contribuente medesimo e il totale dei redditi complessivi attribuibili ai componenti del suo nucleo familiare; o – in assenza di redditi dichiarati dal nucleo familiare – nella percentuale corrispondente al rapporto tra le spese sostenute dal contribuente e il totale delle spese dell’intero nucleo familiare, risultanti dai dati disponibili o dalle informazioni presenti nel sistema informativo dell’Anagrafe tributaria. Il contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva di cui alla tabella A è, peraltro, determinato tenendo conto della spesa media, per gruppi di categorie di consumi, del nucleo familiare di appartenenza del contribuente, risultante dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie compresa nel programma statistico nazionale, effettuata su campioni significativi di contribuenti appartenenti a undici tipologie di nuclei familiari distribuite nelle cinque aree territoriali in cui è suddiviso il territorio nazionale.

È, pertanto, evidente che il redditometro, così come ridisegnato dal decreto attuativo, utilizza concetti ed elaborazioni non previsti dalla norma attributiva, che richiede l’identificazione di categorie di contribuenti. Nel provvedimento ministeriale, invece, non vengono individuate categorie ma, anzi, in modo autonomo, si effettua una distinzione tra tipologie familiari suddivise per cinque aree geografiche e per numerosità del nucleo familiare e, all’interno delle tipologie, vengono utilizzati criteri vaghi e non rispettosi della differenziazione richiesta dalla norma primaria e vengono inserite figure di contribuenti del tutto differenti tra loro. A ciò deve aggiungersi che il programma statistico nazionale ISTAT si discosta dalla specificità della materia tributaria – che richiede una ricostruzione specifica di profili di contribuenti ben precisi – e si basa, invece, su valutazioni di carattere macroeconomico e sociologico non riconducibili al concetto di contribuente richiesto.

Il decreto viola, inoltre, gli artt. 2 e 13 Cost., gli artt. 1, 7 e 8 della Carta dei Diritti fondamentali della UE, nonché l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, poiché prevede la raccolta e la conservazione non di voci di spesa specificamente individuate e diverse tra loro per genere, bensì di tutte le spese poste in essere dal soggetto e dal suo nucleo familiare, incidendo, in tal modo, in maniera invasiva ed eccessiva sulla loro riservatezza e sulla libertà di autodeterminazione. Il Ministero delle finanze, peraltro, consentendo all’Agenzia delle entrate di considerare anche tutte le altre spese non elencate nella predetta Tabella A, le attribuisce il potere di registrare informazioni dettagliate sul contribuente e sul suo nucleo familiare oltrepassando, in modo manifesto, il limite per l’ispezione fiscale consentito astrattamente dall’art. 14, terzo comma, Cost., e, anche, i poteri dei quali gode l’Autorità giudiziaria penale che è destinataria di un potere di controllo non generalizzato e indiscriminato ma riguardante indagini relative a specifici reati ipotizzati.

Il decreto viola, anche, il diritto alla difesa ex art. 24 Cost. e l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, poiché rende impossibile fornire la prova di aver speso meno di quanto risulti dalle predette medie ISTAT e viola i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità non concretizzandosi in uno strumento idoneo a perseguire i prefissati obiettivi di repressione dell’evasione fiscale, bensì accentuando le discriminazioni riconducibili ai principi sopra citati, anche in ragione della insufficiente differenziazione geografica che tiene conto di cinque aree territoriali. Si pone, altresì, in contrasto con l’art. 47 Cost., secondo il qualela Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme in quanto lo strumento redditometrico, nella sua dimensione attuale, tende a limitare i risparmi all’interno delle possibilità compatibili con tali criteri di spesa del tutto astratti e avulsi dalla realtà. Confligge infine con i principi fondamentali di imparzialità e buon andamento della pubblica Amministrazione e con i conseguenti corollari di cui alla legge n. 241/1990 e dei principi di leale collaborazione procedimentale, che convergono verso una visione collaborativa del rapporto con il contribuente. Il diritto al contraddittorio assicurato al contribuente sembra, infatti, fortemente inficiato da dinamiche inquisitorie e sanzionatorie; il confronto tra i due soggetti interessati presenta forti squilibri dovuti ai poteri esecutivi attribuiti all’Agenzia fiscale nel suo preponderante ruolo all’interno della fase di riscossione che la spinge, peraltro, a confermare la propria ipotesi e a privilegiare, per questo motivo, la tipologia accertativa contestata.

In ragione di quanto argomentato, per il tribunale campano il decreto ministeriale è, quindi, non solo illegittimo, ma altresì radicalmente nullo ai sensi «dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990, per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione in quanto emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria».

L’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, impone al giudice di non applicare gli atti amministrativi e i regolamenti non conformi alla legge. Nel caso specifico, il potere dell’Agenzia delle entrate si fonda proprio sul decreto ministeriale esaminato. L’istituto della disapplicazione, secondo la prevalente opinione, opera quando il giudice ordinario debba incidentalmente e a meri fini endoprocessuali conoscere dell’efficacia di provvedimenti, regolamenti e atti amministrativi, che, in quanto efficaci, devono essere caratterizzati dalla patologia dell’annullabilità e non già della nullità; nondimeno, per quanto argomentato, il citato D.M. 24 dicembre 2012 «deve considerarsi radicalmente nullo e quindi sotto il profilo della efficacia giuridicamente tamquam non esset, mancando, quindi, il presupposto previsto dall’art. 38 perché l’Agenzia delle entrate possa eseguire gli accertamenti sintetici mercé il c.d. redditometro».

Il giudice monocratico civile adito ha accolto, pertanto, il ricorso e per l’effetto ha ordinato all’Agenzia delle entrate di non intraprendere, con esclusivo riferimento al ricorrente, alcuna ricognizione, archiviazione, o comunque attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’art. 38, quarto e quinto comma, del D.P.R. n. 600/1973, e di cessare, ove iniziata, ogni attività di accesso, analisi, raccolta dati di ogni genere, relativi alla posizione del ricorrente. Esso ha, inoltre, ordinato all’Agenzia predetta di comunicare formalmente al ricorrente se è in atto un’attività di raccolta dati nei suoi confronti, ai fini dell’applicazione del redditometro e, in caso positivo, di distruggere tutti i relativi archivi, previa specifica informazione alla parte ricorrente medesima. Ha infine compensato le spese di giudizio.

 

3. Esame critico

 

Il primo aspetto sul quale riteniamo opportuno soffermarci è quello relativo alla scelta effettuata dal contribuente di proporre ricorso, in via cautelare, innanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria, al fine di “arginare” l’intervento dell’Amministrazione finanziaria, prima che questo potesse provocare una concreta lesione del proprio diritto alla privacy e delle proprie libertà fondamentali.

Come già rilevato, generalmente le contestazioni all’accertamento sintetico e, in specie, a quello redditometrico, vengono effettuate impugnando gli atti impositivi espressione dell’attività accertativa innanzi alle Commissioni tributarie.

In questo caso, invece, il contribuente – o meglio, il professionista che lo assiste – decide di ricorrere all’Autorità giudiziaria ordinaria, in via cautelare.

È evidente che lo studioso di diritto tributario si interroga primariamente su tale atipico modus procedendi e sulla correttezza della giurisdizione invocata.

Recenti esiti giurisprudenziali (3) affermano che l’attuale dimensione del contenzioso tributario affida la tutela giurisdizionale dei contribuenti, in esclusiva, alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, relativamente a ogni questione afferente all’esistenza e alla consistenza dell’obbligazione tributaria, e anche in situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile, in quanto tale circostanza incide unicamente sull’accoglibilità della domanda, valutabile esclusivamente dal giudice avente competenza sulla stessa, e non già sulla giurisdizione di detto giudice.

La giurisdizione piena ed esclusiva del giudice tributario ha, infatti, ad oggetto non solo gli atti finali del procedimento amministrativo di imposizione tributaria – definiti, propriamente, come impugnabili dall’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – ma investe tutte le fasi del procedimento che hanno portato all’adozione e alla formazione di quell’atto, «tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche atto istruttorio prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto finale impugnato» (4). Ricordiamo, peraltro, che la sentenza della Suprema Corte 11 maggio 2012, n. 7344 (5), ha riconosciuto al contribuente la possibilità di impugnare provvedimenti che vengono qualificati come atti diversi da quelli espressamente indicati nel predetto art. 19, «purché idonei a portare a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria» e l’ha fatto con specifico riferimento a uno dei cosiddetti atti intermedi e/o presupposti idonei ad arrecare un pregiudizio al contribuente, vale a dire la comunicazione di irregolarità ex artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973.

Il fondamento della pronuncia è che il necessario rispetto delle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della pubblica Amministrazione impongono di consentire l’impugnazione di un atto con queste caratteristiche per evitare un vuoto di tutela, garantire l’imparzialità dell’Amministrazione finanziaria e non comprimere la sfera giuridica del contribuente, anche in via temporanea, con conseguente lesione del principio di capacità contributiva. L’allargamento della giurisdizione tributaria, operato con la legge 28 dicembre 2001, n.448, ha, inoltre, trasformato la giurisdizione tributaria conferendole carattere generale ed esclusivo, con riferimento, appunto, all’ambito dei tributi di ogni genere e specie comunque denominati, di talché l’impugnazione di atti endoprocedimentali, non individuabili in quelli elencati tassativamente nel decreto sul processo tributario, né assimilabili agli stessi per funzione, ma idonei ad arrecare un pregiudizio al contribuente, dev’essere consentita innanzi al giudice tributario, cioè alle Commissioni tributarie, perché non ne sarebbe ammissibile l’attribuzione, in via residuale, ad altri giudici.

La fattispecie in esame è, tuttavia, abbastanza singolare e presenta due aspetti differenti.

Il primo è che non ci troviamo, in questo ambito, innanzi a una fase della procedura accertativa che si è conclusa con un atto endo/infra-procedimentale, potenzialmente lesivo della sfera giuridico-patrimoniale del contribuente, ma, addirittura, in una fase precedente all’inizio di qualsiasi attività e, quindi, la possibilità di impugnare un atto è certamente esclusa.

In linea generale, infatti, l’impianto del processo tributario, nonostante le recenti aperture con riguardo all’interpretazione da attribuire all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, appare ancora abbastanza saldamente ancorato alla dimensione dell’impugnabilità di atti dell’Amministrazione finanziaria e mai di proposizione innanzi alle Commissioni tributarie (così come nemmeno avanti all’Autorità giudiziaria ordinaria) di azioni di mero accertamento preventivo dell’obbligazione tributaria (6), di talché un’istanza di tutela siffatta sarebbe difficilmente percorribile.

D’altra parte, il ricorso del contribuente e l’ordinanza medesima chiariscono in modo preciso che la tutela richiesta è di natura cautelare.

Questo particolare apre una diversa questione, appunto, riconducibile alla configurazione della tutela cautelare nel processo tributario.

La scelta del legislatore tributario sul tema è, infatti, estremamente inadeguata e incompleta (7), in quanto l’unica tutela cautelare esperibile è quella relativa alla sospensione dell’atto impugnato innanzi alle Commissioni tributarie provinciali (in secondo grado la sospensione è ammissibile solo in materia di esecuzione delle sanzioni amministrative) (8) e, quindi, non sono previsti rimedi ante causam, con la conseguenza di alimentare un vuoto di tutela non giustificabile.

Sul punto va, peraltro, rilevato che l’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992 prevede, nel secondo comma, che «I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile», e che si ritiene comunemente che il ricorso alle norme del codice di rito sia ammissibile in mancanza di una disciplina specifica all’interno delle norme sul contenzioso tributario e nel rispetto della compatibilità tra i due ordinamenti.

Con riguardo alla richiesta del contribuente avanzata rispetto al redditometro, la problematica andrebbe, proprio, a investire la configurabilità, nel processo tributario, dei procedimenti cautelari innominati o atipici e, in particolare, di quello individuato dall’art. 700 c.p.c. (9).

Tralasciamo, in questo ambito (10), le controversie dottrinali relative all’applicabilità di questo istituto all’interno del processo tributario, che hanno, peraltro, spinto condivisibile dottrina (11) a rilevare che una visione sistematica dell’ordinamento processuale comprensiva anche delle norme del diritto comunitario debba portare al superamento di queste chiusure anche in ambito tributario.

Non può, pertanto, negarsi che ogni volta in cui si prospetti la lesione, grave e irrimediabile, di un diritto soggettivo sostanziale, a causa del decorso del tempo necessario per pervenire alla decisione di merito s’impone una tutela cautelare anche mediante strumenti atipici, in ogni ambito giurisdizionale (12).

Con riguardo alla giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria, non si ritiene che possa escludersi l’ammissibilità di esperimento della misura cautelare atipica da parte dell’Autorità stessa, nelle controversie in materia tributaria ad essa attribuite ma, queste ultime, a seguito delle modifiche del 2001 relative all’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, sono residuali (13) e riguardano, prevalentemente, la fase della riscossione.

Si è, inoltre, ritenuta (14) prospettabile la proposizione di un’azione per la tutela di diritti soggettivi che si ritenessero lesi dall’attività di indagine dell’Amministrazione finanziaria, quali, ad esempio, l’inviolabilità del domicilio e la riservatezza, innanzi al giudice ordinario, mentre si è affermato (15) che tali istanze, in tema di lesione di interessi legittimi, anche alla luce del dettato dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), dovrebbero essere proposte innanzi alla giurisdizione amministrativa.

Ora, pur dovendo rilevare, per completezza, che, in tempi non recenti, si è affermato (16) che il contribuente sia sempre titolare di un interesse legittimo rispetto all’esercizio di poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, in quanto si rientrerebbe nell’ambito della discrezionalità, il Tribunale di Pozzuoli, alla luce dell’art. 152 del D.Lgs. n. 196/2003 e di alcuni esiti giurisprudenziali opportunamente citati, afferma invece espressamente che nel caso in esame si verterebbe in tema di diritti soggettivi fondamentali.

In conclusione, dato che la lesione configurata dal contribuente e meglio qualificata dal giudice attiene al tema della riservatezza e che, in tale ambito, non sembra contestabile la giurisdizione del giudice ordinario, l’impossibilità di ammettere una tutela cautelare nel processo tributario non lascia, in atto, spazio alla proposizione di un’istanza siffatta innanzi alle Commissioni tributarie.

E tale considerazione non cambia nemmeno se si facesse riferimento alla cognizione incidenter tantum relativa alla validità dell’atto, con sua conseguente disapplicazione motivata dalla nullità che lo inficerebbe. È vero, infatti, che, anche i giudici tributari, in forza dell’art. 7, quinto comma, del D.Lgs. n. 546/1992, possono decidere in tal senso, ma tale possibilità è ammissibile solo e sempre in relazione all’oggetto dedotto in giudizio e, quindi – in ragione di quanto appena argomentato – a tutt’oggi, solo con riferimento all’impugnazione di un atto, e certamente non in dipendenza da una domanda di tutela cautelare, de iure condito improponibile.

Premesso che appare chiaro che l’intento dei soggetti di questa vicenda fosse quello di enfatizzare la questione e, eventualmente, di sollecitare ulteriori azioni del medesimo tipo, ma non certo di ottenere uno “stop” immediato del nuovo invasivo strumento accertativo (ossia del nuovo redditometro), dato che l’ordinanza riguarda solo il caso concreto e in via cautelare, non c’è, tuttavia, dubbio sul fatto che il caso all’attenzione del giudice campano accende nuova luce – ove mai ve ne fosse stato bisogno – sullo strumento redditometrico e sulle rilevanti contestazioni che vi si possono levare.

Il giudice, infatti, in modo corretto, analizza il relativo decreto e ne sottolinea una serie di incongruenze gravi.

Prima tra tutte, quella derivante dal contrasto con la norma istitutiva del redditometro, vale a dire l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 e le sue successive modificazioni.

L’impostazione che deriva dal predetto decreto ministeriale, infatti, esula dall’ambito individuato dalla norma e attribuisce – in violazione del principio di riserva di legge (art. 23 Cost.), che esclude che ciò sia possibile mediante fonte secondaria – all’Amministrazione finanziaria poteri atipici.

L’art. 38 predetto stabilisce che, per determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente mediante il redditometro, si faccia riferimento – oltre alle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta dal contribuente – al contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuati mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza. L’Amministrazione finanziaria, nel precisare i contenuti della norma predetta, mediante il decreto attuativo “bocciato” dal giudice partenopeo, si discosta radicalmente dalle indicazioni del disposto normativo di rango primario.

Le voci di spesa prese in considerazione sono notevolmente ampliate rispetto all’impianto precedente e, peraltro, si dà rilevanza a elementi indicativi di capacità contributiva determinati tenendo conto della spesa media, distinguendo tra tipologie familiari suddivise per cinque aree geografiche, all’interno delle quali vengono inserite figure di contribuenti del tutto disomogenee con il rischio di violazione del principio di uguaglianza. In più si stabilisce di tener conto del Programma statistico nazionale ISTAT sui consumi delle famiglie, che non può integrare la specificità della materia tributaria in quanto dipendente da risultanze di analisi e studi socio-economici non riconducibili al concetto di contribuente richiesto dalla norma tributaria primaria.

A queste contestazioni, già abbastanza rilevanti, si aggiunge la violazione di diversi principi costituzionali e comunitari, come il diritto di difesa ex artt. 24 e 47 Cost., secondo il qualela Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, e l’art. 97 Cost., che garantisce i principi fondamentali di imparzialità e buon andamento dell’Amministrazione.

In merito, va rilevato che la storia del redditometro è “costellata” da problematiche analoghe a quelle evidenziate nel caso concreto, a partire dalla prima versione che venne formulata con i DD.MM. 21 luglio 1983 e 13 dicembre 1984, criticata dalla dottrina per il suo “automatismo” (17) ma salvata dalla Corte Costituzionale (18). Le argomentazioni di allora sono state superate, da un punto di vista formale, ma mai sopite.

Pensiamo, ad esempio, all’annoso dibattito che ha portato, recentemente (19),la Cortedi Cassazione a pronunciarsi stabilendo, per la prima volta, chiaramente e in maniera netta, che quella integrata nello strumento redditometrico è una presunzione semplice, attraverso la quale si perviene alla determinazione del reddito complessivo presunto del contribuente, addossando pertanto l’onere probatorio in capo all’Amministrazione finanziaria, la quale, nella fase di contraddittorio, dovrà fornire le prove circa le presunzioni sollevate che dovranno avere necessariamente carattere di gravità, precisione e concordanza. Il contribuente dovrà limitarsi esclusivamente a fornire chiarimenti avendo la possibilità di dimostrare che le stesse sono state sostenute grazie a entrate diverse da quelle ordinarie – come, ad esempio, nel caso in cui la spesa sia stata sostenuta da parte di soggetti diversi dal contribuente – non dichiarate all’Agenzia delle entrate.

Nonostante l’intervento della Suprema Corte, l’Agenzia delle entrate ha ulteriormente espresso parere negativo, continuando ad affermare che si tratta di una presunzione legale relativa (20).

La questione, quindi, appare ancora estremamente viva e prodiga di futuri sviluppi.

 

4. Conclusioni

 

L’intervento del giudice campano ci sembra opportuno e ben argomentato in quanto delinea tutti gli aspetti problematici che, nel corso degli anni in cui il redditometro è stato già applicato, sono stati sollevati dalla dottrina ed esaminati dalla giurisprudenza.

L’elemento nuovo è che l’Autorità giudiziaria adita, in forza della particolare richiesta proposta e, cioè, di tutela inibitoria rispetto alla tutela dalla privacy e della riservatezza, è venuta incontro al contribuente laddove il giudice tributario, soprattutto a causa della prevalente struttura di impugnazione-annullamento del relativo giudizio e delle ampie limitazioni in materia di tutela cautelare, non potrebbe, sempre de iure condito, garantire alcuna tutela.

È pur vero che, in atto, l’ordinanza sarà efficace solo nei confronti del contribuente interessato dal caso concreto e che la disapplicazione del decreto attuativo del redditometro avrà rilevanza solo in quel frangente, ma il “sasso nello stagno” è stato lanciato e le acque si sono mosse, a giudicare dal risalto che la stampa ha dato a tale pronuncia.

Se si darà corso ad azioni di questo tipo, l’impianto del redditometro, molto presto, dovrà essere modificato, anche a dispetto dell’Agenzia delle entrate.

L’invasività dello strumento, peraltro, era stata già evidenziata dal dibattito giurisprudenziale relativo alla sua natura probatoria e, quindi, è comprensibile che se ne richieda una revisione.

Questa vicenda appare il perfetto indice delle difficoltà esistenti nel nostro sistema normativo e tributario nel rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuente. L’Agenzia fiscale, infatti, avendo il precipuo scopo di reperire gettito ma incontrando insormontabili difficoltà a ottenerlo ove è più presumibile che sia occultato, a causa della maggiori possibilità in tal senso da parte dei grandi evasori, tende a colpire il contribuente in qualche modo più controllabile, peraltro, con mezzi sempre più invasivi.

A lungo andare è chiaro che quest’ultimo – che, in realtà, è contemporaneamente il più debole ma il meno colpevole – decida di ribellarsi, tant’è che il ricorso è stato promosso da un pensionato che probabilmente, alla fine, sarebbe uscito indenne da questo metodo accertativo, ma ha comunque deciso di reagire, supportato, certamente, da un difensore abile e preparato.

Al di là dei profili processuali rilevabili, sui quali giustamente si può dibattere (21), chi si è attivato ha, dunque, raggiunto l’obiettivo.

 Avv. Patrizia Accordino

Università degli Studi di Messina


(1) Così si legge in g. costa, Redditometro, scontro sulle banche dati, in Il Sole 24 Ore del 23 febbraio 2012.

(2) In Boll. Trib., 2013, 98.

(3) Cfr. Cass., sez. un., 16 marzo 2009, n. 6315, inBoll. Trib., 2009, 729, e Cass., sez. un., 7 maggio 2010, n. 11082, in Boll. Trib. On-line, che ribadiscono quanto precedentemente stabilito dalla più nota sentenza di Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, in Boll. Trib., 2005, 1828.

(4) Così Cass., sez. trib., 11 novembre 2011, n. 23595, inBoll. Trib. On-line.

(5) In Boll. Trib., 2012, 1547, con nota di p. accordino, Riconosciuta l’autonoma impugnabilità delle cosiddette comunicazioni di irregolarità.

(6) Cfr. a. colli vignarelli, Processo tributario. Il legislatore interviene ancora in modo poco meditato, in il fisco, 2006, 1267 ss.; id., Il processo tributario, in aa.vv. Diritto tributario, Milano, 2012, 245 ss.; s. micali, La Corte di Cassazione e i limiti alla giurisdizione del giudice ordinario in materia tributaria, in nota a Cass., sez. un., 12 dicembre 2001, n. 15715, in Boll. Trib., 2002, 1497; m. redi, Osservazioni sulla pretesa giurisdizione generale tributaria, ivi, 2003, 805; f. brighenti, Tempo di guerra sulla giurisdizione tributaria: duro scontro tra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale, in nota a Cass., sez. un., 11 febbraio 2008, ord. n. 3171, ivi, 2008, 1446; g. ferraù, La tutela risarcitoria nel processo tributario e l’oggetto della giurisdizione tributaria, ivi, 2009, 1658; v. d’agostino, Le sanzioni amministrative “comunque irrogate da Uffici finanziari” e la loro necessaria riferibilità al tributo quale limite della giurisdizione tributaria, in nota a Comm. trib. prov. di Nuoro 20 ottobre 2008, n. 103, ibidem, 1052; a. piri, Gli organi e l’oggetto della giurisdizione tributaria. Analisi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992, ivi, 2010, 166; f. fichera, L’oggetto della giurisdizione tributaria e la nozione di tributo, in Rass. trib., 2007, 1059 ss.; g. marongiu, La rinnovata giurisdizione delle Commissioni tributarie, ivi, 2003, 115 ss.; p. russo, I nuovi confini della giurisdizione tributaria, ivi, 2002, 416 ss.; l. perrone, I limiti della giurisdizione tributaria, ivi, 2006, 719 ss.; g. cipolla, Le nuove materie attribuite alla giurisdizione tributaria, ivi, 2003, 471 ss. In giurisprudenza, si vedano, per tutte, Cass., sez. un., 25 maggio 1993, n. 5841, e Cass., sez. un., 21 marzo 2006, n. 6224; entrambe in Boll. Trib. On-line.

(7) Cfr. a. voglino, Ancora sul “minimo” di tutela cautelare giurisdizionale concesso ai presunti debitori del fisco, in nota a Pret. Parma, 24 gennaio 1992, e a Comm. trib. di I grado di Parma 4 febbraio 1992, in Boll. Trib., 1992, 614; s. sebastiani, La tutela cautelare nel processo tributario tra soluzioni interpretative e tendenze evolutive, ivi, 2002, 1527; v. azzoni, Un passo avanti verso la completa tutela del contribuente anche in fase cautelare, in nota a Corte Cost. 17 giugno 2010, n. 217, ivi, 2010, 1155; a. fantozzi, Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in Riv. dir. trib., 2004, I, 3 ss.; g. falcone, Le sospensive possibili nel nuovo processo tributario, in il fisco, 1993, 7053 ss.; m. cantillo, Nuovo processo tributario. I procedimenti cautelari e preventivi, ibidem, 8901 ss.; p. accordino, La tutela cautelare tra disposizioni del codice di procedura civile e norme tributarie: riflessioni a margine di alcuni recenti interventi della giurisprudenza, in Rass. trib., 2009, 1337 ss. 

(8) Ci riferiamo al dettato normativo dell’art. 19, secondo comma, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, nella parte in cui prevede che «la commissione tributaria regionale può sospendere l’esecuzione applicando, in quanto compatibili, le previsioni dell’articolo 47 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546»; cfr. a. colli vignarelli, La sospensione delle sentenze delle commissioni tributarie provinciali, in Boll. Trib., 1999, 1500 ss.; e id., La tutela cautelare nei giudizi di impugnazione, in Riv. dir. trib., 2011, 431 ss.; f. tesauro, La tutela cautelare nel procedimento di appello dinanzi alla commissione tributaria regionale, in Boll. Trib., 1999, 1733; i. susanna, La tutela cautelare in grado di appello tra dinieghi italiani e tentazioni comunitarie, in nota a Corte Cost. 31 maggio 2000, n. 165, ivi, 2000, 1196; f. mattarelli, La tutela cautelare dinanzi alla Commissione tributaria regionale: il dibattito è ancora vivo, in nota a Comm. trib. reg. della Puglia 22 agosto 2001, ivi, 2002, 1408; n. dolfin, La questione della tutela cautelare del contribuente in pendenza del giudizio di cassazione, ivi, 2011, 732.

(9) Cfr., per tutti, c.e. balbi, Provvedimenti d’urgenza, in Dig. disc. priv., XVI, Torino, 1997, 73 ss.

(10) Sul punto ci sia consentito rimandare a p. accordino, La tutela cautelare tra disposizioni del codice di procedura civile e norme tributarie, cit., 1337 ss.

(11) Cfr. c.e. balbi, Provvedimenti d’urgenza, cit., 105 ss., il quale avverte che «né le ragioni, seppur valide, sulle quali si fonda il sospetto del conferimento al giudice, nell’ambito tributario del potere normativo d’urgenza, paiono destinate a ulteriore espansione; l’integrazione europea ha definitivamente sancito il prevalere del diritto dell’Unione sulle norme interne incompatibili e la tutelabilità in via d’urgenza di questo prevalere: le “riserve” nazionali in materia tributaria hanno già cominciato ad essere erose».

(12) Cfr. s. menchini, in t. baglione – s. menchini – m. miccinesi, Il nuovo processo tributario, Milano, 2004, 495 ss.

(13) Cfr. s. menchini, op. cit., 495 ss.

(14) Cfr. g. falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova 2008, 536 ss., il quale rileva che «per quanto, infatti, l’inutilizzabilità delle prove illecitamente raccolte nel processo tributario valga a soddisfare l’interesse (patrimoniale) dei contribuenti a non essere assoggettati ad un prelievo fondato su un procedimento illegittimamente svoltosi, è evidente che in tal modo non sono tutelati efficacemente i diritti compressi dall’attività ispettiva. L’inviolabilità del domicilio, per esempio, può essere effettivamente protetta solo da un’azione inibitoria esperibile quando il diritto viene minacciato, non da una tutela indiretta concretizzabile molto tempo dopo la cessazione della lesione ed in via eventuale, cioè se le prove raccolte siano poste a base di un atto impugnabile».

(15) Cfr. g. marini, Gli atti impugnabili e l’ampliamento della giurisdizione tributaria, in e. della valle – v. ficari – g. marini (a cura di), Il processo tributario, Padova, 2008, 118 ss.

(16) Cfr. l. salvini, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, 348 ss.; m. basilavecchia, Il riparto di giurisdizione tra commissioni tributarie e giudice amministrativo ordinario, in Boll. Trib., 1990, 814 ss.

(17) Cfr. f. tesauro, L’accertamento sintetico del reddito e il redditometro, in Boll. Trib., 1986, 952 ss.; l. perrone, L’accertamento sintetico del reddito complessivo IRPEF, in Dir. prat. trib., 1990, I, 18 ss.; m. basilavecchia, Dai coefficienti all’efficienza: ascesa e declino dell’accertamento per automatismi, in Rass. trib., 1994, 280 ss.

(18) Cfr. Corte Cost. 23 luglio 1987, n. 283, inBoll. Trib., 1987, 1419.

(19)Cfr. Cass., sez. trib., 20 dicembre 2012, n. 23554, inBoll. Trib., 2013, 299.

(20) Cfr. m. mobili, Redditometro, il fisco vuole la prova, in Il Sole 24 Ore del 23 gennaio 2013, 8.

(21) Cfr. e. de mita, La sterile supplenza dei giudici, in Il Sole 24 Ore del 23 febbraio 2013, 1.



[1] In Boll. Trib., 2003, 1194.

[2] In Boll. Trib., 2005, 1595.

 

[3] In Boll. Trib. On-line.

 

[4] In Boll. Trib., 1976, 1160.

 

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