13 Giugno, 2017

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’ambito soggettivo e l’ambito oggettivo dell’art. 166-bis: alcune zone d’ombra – 3. La data di riferimento ai fini della valorizzazione dei beni in ingresso – 4. La valorizzazione dei titoli quotati secondo le disposizioni dell’art. 9 del TUIR – 5. La contabilizzazione dell’exit tax rateizzata o sospesa nello Stato estero – 6. L’accreditamento in Italia dell’exit tax in base all’art. 165 del TUIR – 7. La determinazione del credito da exit tax.

1. Premessa

L’art. 166-bis, primo comma, del TUIR, introdotto dall’art. 12, primo comma, del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “Decreto internazionalizzazione”), prevede che «i soggetti che esercitano imprese commerciali provenienti da Stati o territori inclusi nella lista di cui all’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, che, trasferendosi nel territorio dello Stato, acquisiscono la residenza ai fini delle imposte sui redditi (1) assumono quale valore fiscale delle attività e delle passività il valore normale delle stesse, da determinarsi ai sensi dell’articolo 9» (3). Trattasi di una disposizione volta a colmare un vuoto normativo (2) avente ad oggetto la determinazione dei valori in ingresso dei beni nelle ipotesi di trasferimento c.d. “inbound”, in relazione alle quali l’Amministrazione finanziaria aveva espresso in passato un orientamento favorevole al metodo del costo storico, in conformità all’esigenza di garantire la continuità dei valori fiscalmente riconosciuti (4).
In base alla nuova norma, il valore normale rappresenta il criterio di riferimento per la valorizzazione dell’attività in entrata (5), con potenziale disallineamento tra il valore di iscrizione del bene e il valore fiscalmente riconosciuto (6), senza tuttavia l’emersione di materia imponibile in capo all’ente trasferito. Non vi è infatti alcun evento realizzativo in Italia derivante dalla localizzazione della residenza nel territorio dello Stato in regime di continuità giuridica (7): il soggetto giuridico non cessa di esistere per effetto del trasferimento della sede e quindi lo schema adottato non è riconducibile ad una duplice vicenda, prima estintiva e poi costitutiva, di due diverse società, bensì ad un accadimento che lascia immutata l’identità dell’ente, che semplicemente trasferisce la sede da uno Stato all’altro.
In altri termini, con tale operazione non vi è alcun effetto traslativo dei beni sociali, i quali permangono nella disponibilità del medesimo soggetto giuridico, né si verifica un’interruzione dell’attività, che continua il suo svolgimento in un altro Stato. Altresì, non si riscontra un’assegnazione di beni per finalità estranee all’impresa, fattispecie che sarebbe passibile di generare un evento realizzativo (8).
Del resto, la scelta del legislatore di considerare i trasferimenti c.d. “inbound” irrilevanti ai fini delle imposte sui redditi appare coerente con il principio che ha ispirato la disciplina della “exit tax” per i trasferimenti c.d. “outbound”: lo Stato italiano ha potestà impositiva solo sulle plusvalenze che maturano mentre l’impresa è residente in Italia (9).

2. L’ambito soggettivo e l’ambito oggettivo dell’art. 166-bis: alcune zone d’ombra

Le disposizioni dell’art. 166-bis si applicano nei confronti dei soggetti esercenti imprese commerciali che trasferiscono la propria residenza nel territorio dello Stato. Per «soggetti che esercitano imprese commerciali» non si deve intendere solo il soggetto esercente un’attività commerciale ai sensi dell’art. 55 del TUIR, ma anche qualsiasi soggetto la cui commercialità sia determinata ex lege a causa della forma giuridica adottata, come accade per le società di capitali e per gli enti commerciali di cui all’art. 73, lett. a) e b), del TUIR (10).
Tuttavia, un’interpretazione dell’inciso «soggetti che esercitano imprese commerciali» in linea con le disposizioni europee in tema di libertà di stabilimento induce a comprendervi le società di capitali costituite in Stati membri dell’Unione europea, a prescindere dal tipo di attività concretamente esercitata. È il caso, ad esempio, della besloten vennootschap di diritto olandese, la cui equivalenza ai fini tributari italiani in termini di esercizio di impresa commerciale è già stata riconosciuta dall’Amministrazione finanziaria poiché forma giuridica ricompresa tra quelle rientranti nell’ambito applicativo della Direttiva CEE 23 luglio 1990, n. 90/434/CEE (11).
Come rilevato anche da Assonime nella nota tecnica del 25 maggio 2015, n. 9/2015, il significato di tale inciso andrebbe chiarito nel senso che i criteri indicati dalla norma si applicano a tutti i soggetti che in base all’ordinamento italiano vengono considerati titolari di reddito di impresa, anche in virtù semplicemente della loro veste societaria (12).
Permangono, inoltre, dei dubbi in relazione anche all’ambito oggetto della normativa, dacché le fattispecie di rimpatrio attuate mediante operazioni di fusione, scissione e conferimento transfrontalieri non sono espressamente codificate. In particolare, mentre la norma pone l’accento sull’acquisizione dello status di residenza (13) («i soggetti … che, trasferendosi nel territorio dello Stato, acquisiscono la residenza ai fini delle imposte sui redditi»), nulla indica in ordine alle condizioni o alle operazioni mediante le quali tale residenza viene ricondotta nel territorio dello Stato (14).
Di per sé, l’assenza di una norma espressa farebbe propendere per l’inapplicabilità dell’art. 9 del TUIR ai trasferimenti in Italia attuati mediante operazioni straordinarie, ma ciò condurrebbe a un doppio regime – al valore normale per i trasferimenti di sede e in neutralità nelle operazioni di riorganizzazione – che si presta ad arbitraggi finalizzati alla ottimizzazione dell’onere tributario, in relazione al quale è auspicabile un nuovo intervento normativo o un chiarimento ministeriale (15).

3. La data di riferimento ai fini della valorizzazione dei beni in ingresso

La disposizione non menziona la data di riferimento ai fini della valorizzazione dei beni in ingresso, né introduce il frazionamento del periodo di imposta per effetto del trasferimento di sede (c.d. “split year”), istituto che permetterebbe di considerare un soggetto residente limitatamente ad una frazione dell’anno e, peraltro, riconosciuto solamente nei Trattati stipulati con Svizzera e Germania e allorché sussista un conflitto di residenza in capo alle persone fisiche (16).
La mancata opzione legislativa in favore dello split year comporta una dissociazione tra il trasferimento della sede, che è un evento legato alla cancellazione nel Registro delle Imprese dello Stato di origine e all’iscrizione in quello di arrivo, e l’acquisizione della residenza, fattispecie che presuppone il superamento del vincolo di cui all’art. 73, terzo comma, del TUIR, costituito dalla «maggior parte del periodo di imposta» (17 Poiché quest’ultimo costituisce un orizzonte temporale unitario – giusta l’applicazione dell’art. 76, secondo comma, che ne preclude il frazionamento in più periodi – il trasferimento della sede ad opera di un soggetto non residente, effettuato nei primi 183 giorni dell’anno, comporterà l’acquisizione della residenza in Italia fin dall’inizio del periodo di imposta (i.e. 1° gennaio per le società con l’esercizio sociale coincidente con l’anno solare) e, di conseguenza, la rilevanza fiscale degli accadimenti di gestione intervenuti a partire da tale momento.
Ciò risulta, tra l’altro, in linea con l’interpretazione resa dall’Amministrazione finanziaria nella risoluzione 17 gennaio 2006, n. 9/E, ove è stata affermata l’unitarietà del periodo d’imposta nei casi di trasferimento di sede sociale in regime di continuità giuridica dell’ente non residente (18).
Per tale ragione, sia pure nel silenzio della legge, deve ritenersi che l’individuazione delle attività e passività trasferite in Italia dal soggetto non residente, così come la determinazione del relativo valore normale, debbano essere effettuate alla data di acquisizione della residenza in Italia, specularmente con quanto disciplinato dall’art. 1, terzo comma, del D.M. 2 luglio 2014, in ordine al trasferimento di residenza all’estero, il quale individua, come data rilevante per la valorizzazione delle attività che si considerano realizzate ai sensi dell’art. 166 del TUIR, «la fine dell’ultimo periodo di imposta di residenza in Italia» (19).

4. La valorizzazione dei titoli quotati secondo le disposizioni dell’art. 9 del TUIR

Per quanto riguarda i criteri valutativi, il richiamo all’art. 9 del TUIR consente di applicare, in relazione alle partecipazioni detenute in società quotate, la disposizione recata dal quarto comma, lett. a), del summenzionato articolo, in forza della quale «per le azioni, obbligazioni e altri titoli negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri, il valore normale è determinato in base alla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese».
In merito alle modalità applicative di quest’ultima norma, l’Amministrazione finanziaria ha avuto modo di precisare che la locuzione «ultimo mese» non fa riferimento al mese solare precedente, ma al periodo che va dal giorno di riferimento allo stesso giorno del mese solare precedente e che ai fini del calcolo della media occorre assumere, quale divisore, i giorni di effettiva quotazione del titolo, ovvero quelli cui si riferiscono le quotazioni prese a base del calcolo (20).
Tale criterio di valutazione si fonda sui «prezzi rilevati» nei detti mercati, in modo da tenere in considerazione le varie modalità di scambio dei titoli. A tale proposito, pur in assenza di chiarimenti da parte dell’Agenzia delle entrate, si ritiene condivisibile quanto affermato da autorevole dottrina, secondo cui «per i titoli negoziati di continuo alla Borsa di Milano si dovrebbe avere riguardo al prezzo ufficiale (21), mentre per le borse estere si potrà fare riferimento ai “prezzi di chiusura”» (22). In altri termini, per una corretta valorizzazione delle azioni di una società quotata alla Borsa di Milano – detenute da un ente residente in Italia a far data dal 1° gennaio 2016 – occorrerà individuare la media aritmetica dei c.d. “prezzi ufficiali”, ovvero i prezzi medi, ponderati per le relative quantità, di tutti i contratti di compravendita conclusi durante ciascuna giornata nel periodo intercorrente tra il 1° dicembre 2015 e il 1° gennaio 2016, assumendo quale divisore soltanto i giorni di effettiva quotazione (23).

5. La contabilizzazione dell’exit tax rateizzata o sospesa nello Stato estero

Il trasferimento della residenza in Italia impone una valutazione circa gli effetti di natura contabile derivanti dall’applicazione dell’exit tax nello Stato estero di uscita, in particolar modo nelle ipotesi in cui l’ente trasferito abbia optato per la rateizzazione o la sospensione dell’imposta.
Il rispetto del principio di competenza, nonché quello di rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico, comporta che il trattamento delle imposte sul reddito sia il medesimo di quello dei costi sostenuti ai fini della produzione del reddito (24).
Come ricorda il principio contabile OIC n. 25 in tema di imposte sul reddito, «è in contrasto con il principio della competenza la contabilizzazione delle imposte secondo il criterio della esigibilità (o liquidità) che comporta l’iscrizione in bilancio solo delle imposte dovute in base alla dichiarazione dei redditi». In questi termini, l’exit tax dovuta all’estero (ma non ancora esigibile) costituisce un onere di competenza, in quanto accadimento di gestione riconducibile ad una passività per imposte certe e determinate (25). Non trova quindi applicazione la rilevazione di un accantonamento per fondo rischi ed oneri, il cui ambito oggettivo riguarda invece «le passività per imposte probabili, aventi ammontare o data di sopravvenienza indeterminata, derivanti, ad esempio, da accertamenti non definitivi o contenziosi in corso e altre fattispecie similari» (26).
Resta inteso che il debito in oggetto non potrà essere utilizzato in compensazione con altre posizioni tributarie a credito in Italia, poiché la società trasferita non dispone di un diritto legale a compensare, nel territorio dello Stato, gli importi rilevati in base alla legislazione estera.

6. L’accreditamento in Italia dell’exit tax in base all’art. 165 del TUIR

Ai sensi dell’art. 165 del TUIR, i redditi prodotti all’estero danno diritto ad ottenere l’accreditamento delle imposte assolte nello Stato della fonte se, e solo se, concorrono «alla formazione del reddito complessivo», vale a dire se sono conteggiati insieme agli altri redditi imponibili nella dichiarazione dei redditi.
Lo scopo del concorso necessitato dei redditi esteri alla formazione del reddito complessivo risiede nel fatto che la condizione sopracitata implica il riassoggettamento di ciascun reddito estero alle ordinarie imposte sui redditi e, dunque, il manifestarsi di una doppia imposizione internazionale sulla medesima capacità di ricchezza, la quale si verifica in caso di applicazione del regime d’imposizione sia nello Stato della fonte sia in quello di residenza (27).
In tale prospettiva, i redditi assoggettati ad exit tax nello Stato estero non sono rappresentativi di un accadimento reddituale in Italia nel medesimo periodo d’imposta, nella misura in cui i titoli in portafoglio non sono stati oggetto di compravendita, non generando quindi materia imponibile da assoggettare ad imposizione. Non vi è quindi il concorso di tali redditi alla formazione del reddito complessivo della società trasferita, ancorché quest’ultima abbia ritratto dei rendimenti da tali attività (28).
Del resto, l’imposizione all’uscita da parte di uno Stato, nelle operazioni di trasferimento di residenza, consente di separare i plusvalori e i minusvalori maturati all’estero da quelli maturati dal momento in cui una società ha acquisito la residenza fiscale in Italia, facendo concorrere solo i secondi alla formazione del reddito imponibile. E quest’ultima previsione può verificarsi solo in caso di cessione dei titoli in Italia.
Di fatto l’exit tax applicata all’estero realizza una fictio iuris per cui viene effettuato un prelievo su una plusvalenza maturata alla data del trasferimento di residenza, senza che la società trasferita in Italia abbia effettivamente ceduto i titoli a terzi. Di talché il riconoscimento di un credito d’imposta in Italia per l’exit tax assolta all’estero può realizzarsi solo a seguito di un plusvalore da realizzo (29).

7. La determinazione del credito da exit tax

Il rapporto tra reddito prodotto all’estero e reddito complessivamente rilevante – che, moltiplicato per l’imposta italiana, definisce il tetto massimo di imposta estera accreditabile – va calcolato secondo il criterio “per country limitation”. Quest’ultimo criterio impone la segmentazione dei redditi prodotti all’estero dal contribuente residente in funzione del Paese di origine, con aggregazione in un’unica voce – da appostare al numeratore – dei redditi proveniente dal medesimo Paese estero; l’imposta italiana riferibile proporzionalmente alla voce così determinata va confrontata con i tributi assolti in via definitiva nel predetto Paese estero, considerati nel loro insieme (e dunque anch’essi come voce unica), per individuare l’ammontare del credito d’imposta (30).
Ciò comporta che la società trasferita, una volta rideterminati i redditi esteri – già assoggettati ad exit tax – secondo le disposizioni della normativa italiana, procederà a calcolare il credito d’imposta in via cumulata, non trovando applicazione uno specifico rapporto di calcolo per ciascuna componente reddituale già assoggettata a tassazione all’estero. In sostanza, la società effettuerà (i) un ricalcolo, in via analitica, di tutti i redditi assoggettati nello Stato estero all’imposizione d’uscita, assumendo – quale costo fiscale ai fini della determinazione delle plusvalenze in Italia – il valore di mercato dei titoli quotati in portafoglio al 1° gennaio 2016 (31) e (ii) un unico conteggio del credito d’imposta in relazione a tutte le posizioni reddituali generate all’estero.
Invero, i due eventi realizzativi da raffrontare ai fini della determinazione del credito d’imposta (id est quello all’estero che ha generato l’imposizione ai fini dell’exit tax e quello in Italia derivante dalla dismissione dei titoli) sono caratterizzati da basi imponibili differenti, ovvero: la differenza tra il valore di mercato alla data del trasferimento e il costo contabile in caso di exit tax e la differenza tra il valore di mercato al momento della cessione e il valore fiscalmente riconosciuto in applicazione dell’art. 9 del TUIR.
In altri termini, via via che saranno dismessi i titoli in portafoglio, si originerà una doppia imposizione nei due Stati, nonché il diritto in capo alla società trasferita di ridurre l’IRES in relazione alle imposte pagate all’estero. Donde, il periodo d’imposta entro cui si perfezionerà il credito d’imposta in Italia sarà corrispondente a quello di realizzo dell’exit tax nello Stato estero (ove era stata esercitata l’opzione per la sospensione), limitatamente ai titoli effettivamente ceduti nel territorio dello Stato (32).

Dott. Luca Vitale

(1) I criteri di collegamento enucleati dall’art. 73, terzo comma, del TUIR, consentono di qualificare, come residenti in Italia, società o enti che sono assoggettabili a tassazione anche in un altro ordinamento sulla base di criteri analoghi. Trattasi di una potestà impositiva concorrente in ordine al collegamento di un ente giuridico con il territorio di uno Stato. Al fine di evitare che il contemporaneo riconoscimento dell’esistenza dei presupposti per la tassazione di una società si risolva in una doppia imposizione a danno della stessa, gli Stati sono soliti concludere Convenzioni internazionali che limitano la possibilità di considerare un soggetto come residente in due Stati ai fini dell’imposizione sui redditi. In tal modo è possibile evitare i fenomeni di “doppia residenza”, ovvero le fattispecie in cui, sulla base della legislazione interna dei singoli Stati contraenti, uno stesso soggetto risulta fiscalmente residente in entrambi gli Stati. Ciò che tipicamente accade nel caso in cui una società, avente la propria sede statutaria in un ordinamento contraente, risulti di converso avere la propria sede direttiva nell’altro Stato contraente. Il Modello di Convenzione OCSE prevede, al terzo comma dell’art. 4, la «sede di direzione effettiva» (c.d. “place of effective management”) quale criterio per dirimere i casi di doppia residenza dei soggetti diversi dalle persone fisiche. Quest’ultimo concetto è analizzato dal Commentario OCSE, il quale lo descrive come «il luogo in cui vengono prese le principali decisioni chiave sul piano gestorio e commerciale necessarie per l’esercizio dell’attività dell’impresa», definizione coincidente, in linea di principio, con quella che la dottrina e la giurisprudenza italiane sono solite attribuire al concetto di «sede dell’amministrazione» di cui all’art. 73, terzo comma, del TUIR.
(2) Secondo il successivo secondo comma, «nei casi di trasferimento da Stati o territori diversi da quelli di cui al comma 1, il valore delle attività e delle passività è assunto in misura pari al valore normale di cui all’articolo 9, così come determinato in esito all’accordo preventivo di cui all’articolo 31-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. In assenza di accordo, il valore fiscale delle attività e passività trasferite è assunto, per le attività, in misura pari al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore, determinato ai sensi dell’articolo 9, mentre per le passività, in misura pari al maggiore tra questi».
(3) Come rileva S. MAYR, Il trasferimento della sede (residenza) delle imprese commerciali dall’estero in Italia: alcune considerazioni, in Boll. Trib., 2016, 254 ss., «il ritardo con cui il legislatore italiano ha in¬trodotto per la prima volta una disciplina normativa di valorizzazione d’ingresso dei beni nel caso di trasferimento della residenza dall’estero verso l’Italia è facilmente spiega¬bile: perché nel caso del trasferimento all’estero il fisco rischia di perdere materia imponibile, mentre nel primo acquisisce materia imponibile per il futu¬ro. L’altro motivo sta probabilmente in un minore “interesse” alla materia da parte della giurisprudenza comunitaria per l’acquisizione della residenza fiscale nello Stato di destinazione, con conseguente minore “pressione” e minore “monitoraggio” da parte degli organi della Comunità sul trattamento fiscale adot¬tato dallo Stato di arrivo».
(4) Trattasi della ris. 5 agosto 2008, n. 345/E (in Boll. Trib. On-line), ove l’Agenzia delle entrate aveva affermato che i valori dei beni in ingresso dovessero essere assunti per l’importo corrispondente ai valori storici in caso di trasferimento attuato in regime di continuità giuridica e senza tassazione delle plusvalenze latenti da parte dell’ordinamento di partenza; il riconoscimento dei valori correnti era invece consentito a condizione che tali valori fossero stati assoggettati a tassazione in uscita. Invece nella ris. 30 marzo 2007, n. 67/E (in Boll. Trib. On-line), l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto applicabile il criterio del valore normale in caso di trasferimento di una persona fisica dalla Germania all’Italia, in quanto «in assenza di una specifica disciplina interna e considerata la vigenza nello Stato membro di partenza di una normativa exit tax applicabile alle persone fisiche, il ricorso a tale criterio appare infatti non solo il più idoneo a salvaguardare il diritto al prelievo dello Stato nel quale si è avuto l’effettivo incremento di valore delle partecipazioni, ma anche il più efficace al fine di evitare sia fenomeni di doppia imposizione che salti d’imposta».
(5) Tale criterio trova applicazione a prescindere dal fatto che il Paese di provenienza abbia applicato o meno un’exit tax al momento del trasferimento della residenza. Altresì, è ininfluente la circostanza che lo Stato estero abbia applicato un’exit tax con concessione o meno della sospen-sione dell’imposta. Da ultimo sono irrilevanti, ai fini dell’applicazione del valore normale in Italia, i valori che lo Stato estero ha preso a base dell’exit tax. Ad avviso di L. MIELE, Il trasferimento di imprese in Italia e la valorizzazione dei beni al valore normale, in Corr. trib., 2015, 1605 ss., «la scelta del valore normale non appare contraria ai principi comunitari. Tale sarebbe stata se il valore in “entrata” fosse stato quello del costo storico e ciò fosse stato associato a una exit tax nello Stato di provenienza; in tal caso, infatti, si sarebbe verificata una doppia imposizione che avrebbe contrastato la libertà di stabilimento. In sostanza, un principio comunitario fondamentale avrebbe subito una restrizione ingiustificata. Ma nel caso di ingresso al valore normale, a prescindere da una exit tax nel Paese di provenienza, non vi è alcuna violazione di libertà fondamentali».
(6) Ad avviso di L. GAIANI, Trasferimento in Italia di imprese estere e valore fiscale degli assets, in il fisco, 2015, 4536 ss., «sorge dunque l’interrogativo se, per la corretta applicazione delle norme fiscali che fanno riferimento al “costo” dei beni, le imprese italianizzate debbano o meno sostituire quest’ultimo elemento con il suddetto valore fiscale, con la conseguente creazione di un doppio binario contabile-fiscale anche per la deduzione degli oneri». Si avrà quindi – rileva S. MAYR, op. cit. – «il classico doppio binario per cui dovrebbe es¬sere precisato che gli ammortamenti, le svalutazioni e le perdite sui maggior valori (rispetto a quelli di bilancio) sono deducibili anche senza imputazione al conto economico degli stessi, attraverso semplici va¬riazioni in diminuzione in dichiarazione dei redditi».
(7) Non è infrequente il caso in cui, in conformità alle disposizioni in tema di diritto internazionale privato recate dall’art. 25 della legge 31 maggio 1995, n. 218, la società estera non assuma, a seguito del trasferimento, la qualifica di ente di diritto italiano, ma continui ad essere regolata dalla legge dello Stato di costituzione. Ciò in ragione dei principi europei sulla libertà di stabilimento statuiti dagli artt. 49 e 54 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (c.d. “TFUE”), a mente dei quali gli Stati membri sono tenuti a riconoscere le società costituite secondo la legge di un altro Stato membro e, di conseguenza, la loro sottoposizione alla legge dello Stato di costituzione.
(8) Il trasferimento di residenza dell’ente di diritto estero non produce effetti reddituali nemmeno in capo ai soci di quest’ultimo, i quali non realizzano alcun presupposto impositivo. Non vi è infatti alcun evento realizzativo in Italia derivante dalla localizzazione della residenza in regime di continuità giuridica: i soci non cedono, né scambiano, partecipazioni societarie e quindi lo schema adottato non è riconducibile ad una duplice vicenda, prima estintiva e poi costitutiva, di due diversi rapporti societari, bensì ad un accadimento che lascia immutata la compagine sociale, a cui spetteranno i medesimi diritti amministrativi e patrimoniali. In altri termini, con tale operazione non vi è alcun effetto traslativo delle partecipazioni sociali, le quali permangono nella disponibilità dei medesimi soci e al medesimo valore fiscale.
(9) L’Italia potrà assoggettare ad imposizione solamente le plusvalenze che si formeranno a partire dall’ingresso del bene nella sua potestà impositiva. Interessante a riguardo la questione che pone S. MAYR, op. cit.: «ma il beneficio di “partire” in Italia con il valore normale (magari senza avere pagato all’estero le im¬poste su tale valore) è proprio un “(tax) free lunch” definitivo, in Italia o in generale?». «La domanda si spiega» rileva l’autore «perché siamo abituati al paga-mento d’imposta – normale o a titolo sostitutivo – quando si passa dal valore di libro al valore corrente/normale. Il be¬neficio del valore normale generalmente ha quindi un costo in termini di oneri fiscali; invece nel caso in esame il sog¬getto “riceve” il valore normale senza dovere pagare per ciò (allo Stato italiano). Ma ciò è giusto nel nostro caso perché solo così si evita che lo Stato italiano tassi gli incrementi di valore maturati al di fuori della sua potestà impositiva».
(10) Ciò in forza dell’applicazione dell’art. 81 del TUIR, a mente del quale «il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 73, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito d’impresa».
(11) Cfr. ris. 12 agosto 2005, n. 123/E (in Boll. Trib., 2005, 1385); in particolare, l’Agenzia delle entrate aveva riconosciuto la possibilità di esercitare l’opzione per il consolidato fiscale nazionale, in qualità di controllata ad una società olandese costituita nella forma di besloten vennootschap che aveva trasferito la sede dell’amministrazione in Italia.
(12) È il caso ad esempio – indica Assonime – di una società di capitali estera, holding statica di partecipazioni, che si trasferisce in Italia. In questo senso – suggerisce G. D’ANGELO, Il trasferimento della residenza nel territorio dello Stato, in Guida alla Riforma fiscale. L’internazionalizzazione delle imprese, in Il Sole 24 Ore, 2015, 133 – «per “soggetto esercente attività impresa commerciale” non si dovrà intendere esclusivamente il soggetto che svolge un’attività commerciale effettiva ai sensi dell’art. 55 del TUIR, ma anche qualsiasi soggetto la cui commercialità sia presunta a causa della forma giuridica adottata, come accade per le società di capitali e gli enti commerciali di cui all’art. 73, lettera a) e b), del TUIR; quindi anche le holding di partecipazioni».
(13) Nella relazione illustrativa al “Decreto Internazionalizzazione” si afferma che la disposizione trova applicazione anche nei casi di esterovestizione, ovvero nei casi in cui l’acquisizione della residenza fiscale da parte della società estera può non essere stata preceduta da un’operazione di trasferimento della sede sociale.
(14) Secondo L. ROSSI – G. FICAI, Acquisizione della residenza fiscale in Italia e valorizzazione ai fini tributari di beni provenienti dall’estero, in Corr. trib., 2016, 991, l’art. 166-bis, «attribuisce rilevanza non al trasferimento della residenza in Italia, bensì alla sola acquisizione della residenza fiscale. Tale norma, quindi, si concentra sull’effetto prodotto da un determinato comportamento (ovvero, l’acquisizione della residenza in Italia ai fini delle imposte sui redditi), senza considerare specificamente l’evento o l’operazione che lo ha causato. Di conseguenza, dalla differente formulazione letterale delle disposizioni in parola può già trarsi che l’art. 166-bis del TUIR trovi applicazione anche nel caso in cui l’acquisizione della residenza ai fini delle imposte sui redditi nazionali, da parte di una società residente in uno Stato estero, discenda da un’operazione straordinaria come la fusione». Dello stesso avviso anche Assonime, op. cit., secondo cui «si dovrebbe puntualizzare che la disciplina in esame si applica anche quando l’ingresso in Italia si verifichi non già a seguito di un trasferimento di residenza, ma come conseguenza di una aggregazione con una società già residente in Italia. Ciò anche in coerenza con l’estensione alle operazioni straordinarie della disciplina della c.d. exit tax».
(15) Quest’ultima affermazione è riconducibile a L. MIELE, Trasferimenti con operazioni straordinarie, in Il Sole 24 Ore del 16 marzo 2016, «si tratta di un orientamento che, seppure fondato sulla constatazione di una lacuna legislativa, si presenta del tutto asistematico e finisce per creare un doppio regime per l’ingresso nel territorio dello Stato di imprese estere che si presta ad arbitraggi finalizzati alla ottimizzazione dell’onere tributario». Secondo S. MAYR, op. cit., «nell’operazione straordinaria “in entrata” manca il requisito dell’acquisizione della residenza fiscale italiana del soggetto estero cui appartengono i beni (sono solo i beni che direttamente entrano per la prima volta nel regime del reddito d’impresa italiano). Si può quindi concludere che a differenza di quanto avviene per l’art. 166, la cui disciplina si applica anche alle operazioni straordinarie in uscita, la disciplina dell’art. 166-bis non è applicabile invece alle stesse operazioni straordinarie “in entrata”». Dello stesso avviso G. ALBANO, Attività fiscalmente riconosciute al valore normale nel trasferimento della resi¬denza in Italia, in Corr. trib., 2015, 3881; L. GAIANI, op. cit.; M. PIAZZA – G. D’ANGELO, Trasferimento di sede in Italia al valore normale, esterovestizione e voluntary disclousure, in il fisco, 2015, 2225. Infine R. MICHELUTTI, Trasferimento sede a doppia via, in Il Sole 24 Ore del 5 maggio 2015, sostiene che il criterio di cui all’art. 166-bis, per il riconoscimento del valore normale dei beni in entrata, sia individuato con riferimento ai criteri di cui al nuovo art. 167, quarto comma, del TUIR (scambio di informazioni e tassazione non inferiore alla metà della tassazione italiana). Il tutto con l’obiettivo di rendere omogenea tutta la disciplina di carattere internazionale e di eventualmente ricondurre i casi più delicati alla procedura di interpello ex art. 167, quinto comma, volto a dimostrare il pagamento di imposte in misura similare a quelle italiane.
(16) Ciononostante, l’esistenza di norme convenzionali espresse che disciplinano i casi in cui è possibile ricorrere al frazionamento del periodo d’imposta esclude la possibilità di applicare questo principio in via analogico-interpretativa ad altri Trattati. La ragione risiede nel fatto che l’applicazione ad ipotesi disciplinate da Convenzioni diverse da quelle in cui il principio dello split year è espressamente richiamato violerebbe il principio di sovranità dei singoli Stati, nonché il principio pattizio, che sono alla base del sistema di Convenzioni bilaterali prefigurato dal Modello OCSE.
(17) La paternità di tale riflessione è attribuibile ad A. PRAMPOLINI, Trasferimento di residenza di società e “valori in ingresso”, in Corr. trib., 2015, 1921; mentre dal punto di vista civilistico il trasferimen¬to della sede in Italia individua un evento puntua¬le, ai fini tributari l’acquisizione della residenza richiede il collegamento con il territorio dello Stato per la parte maggiore del periodo d’imposta, in base ai criteri stabiliti dall’art. 73, terzo comma, del TUIR.
(18) In Boll. Trib. On-line; in tal senso, si registra anche Comm. trib. reg. del Veneto, sez. VII, 29 maggio 2008, n. 16, inedita, secondo cui il principio di continuità giuridica postula che «nei trasferimenti di sede di società estere in Italia il periodo d’imposta (costituito dall’esercizio sociale) non si interrompe e l’attribuzione della residenza fiscale avviene ex art. 73, comma 3, del TUIR ossia in base alle ordinarie regole (sede nel territorio della maggioranza del periodo d’imposta) ed ha effetto per tutto il periodo d’imposta». Secondo G. D’ANGELO, op. cit., 149, «il trasferimento di sede in Italia effettuato nei primi 183 giorni dell’anno comporterà l’acquisizione della residenza fin dall’inizio del periodo di imposta e la rilevanza fiscale in Italia anche degli accadimenti gestionali avvenuti a partire da tale data. Si ritiene che siano di eccezione alla necessità di tale verifica le seguenti due ipotesi: (i) il trasferimento rappresenti evento estintivo con riguardo alla legislazione estera. In questo caso il soggetto cessa di esistere con riguardo alla legislazione estera e pertanto il periodo di imposta in Italia è l’unico rilevante e da tale periodo la società deve essere considerata residente in Italia; (ii) l’assemblea dei soci abbia deliberato, contestualmente al trasferimento della sede, la chiusura anticipata dell’esercizio alla data della delibera stessa».
(19) Invece, nel caso di discontinuità giuridica, la so¬cietà viene costituita ex novo in Italia, iniziando un nuovo periodo d’imposta per il quale viene considerata residente da subito, al pari di un ente neocostituito.
(20) Ci si riferisce, ex multis, a circ. 25 febbraio 2000, n. 30/E, in Boll. Trib., 2000, 365; circ. 17 maggio 2000, n. 98/E, ibidem, 826; e circ. 16 giugno 2004, n. 26/E, ivi, 2004, 937.
(21) Il prezzo ufficiale è definito dal prezzo giornaliero di ciascuno strumento finanziario quotato nei mercati di borsa, dato dal prezzo medio ponderato dell’intera quantità dello strumento medesimo negoziata nel mercato durante la seduta, al netto della quantità scambiata mediante l’utilizzo della funzione cross-order (proposte di acquisto e di vendita per la stessa quantità di titoli immessi da un operatore di borsa che opera per conto terzi nel sistema telematico).
(22) Ved. M. LEO, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano, 2014, 1487 ss.; dello stesso avviso anche L. ABRITTA – L. CACCIAPAGLIA – V. CARBONE – M.R. GHEIDO, Codice TUIR commentato, Milano, 2013, 1512 ss. L’indicazione sopracitata con riferimento agli scambi effettuati su Borse estere allude ad una possibilità di valorizzazione, ma non esclude che i mercati di riferimento adottino diversi e più specifici indicatori di mercato, il cui significato potrebbe divergere da quello comunemente utilizzato in Italia. Un ulteriore problema si presenta nel caso in cui uno stesso titolo viene negoziato in mercati sia italiani che esteri per stabilire quale mercato si deve assumere come riferimento ai fini di una determinazione di un’eventuale svalutazione. Nel silenzio della legge e in assenza di prassi, «tenendo conto che scopo della svalutazione è quello di anticipare le perdite che deriverebbero da un realizzo di titoli, è da ritenere che la svalutazione dovrà essere computata con riferimento al mercato che quota il titolo al prezzo più alto, essendo chiaro che in caso di realizzo del titolo la vendita sarà effettuata nel mercato che consente una perdita inferiore» (M. LEO, op. cit.). A parere di P. CEPPELLINI – R. LUGANO, invece, «per la scelta del mercato di riferimento, in caso di negoziazione del titolo in più mercati, è possibile considerare il mercato in cui il titolo è negoziato con quantitativi maggiori, oppure qualora esistano mercati in cui il titolo è negoziato per quantitativi similari, è possibile utilizzare la media dei prezzi rilevati in tali mercati» (cfr. Testo Unico delle imposte sui redditi, ed. Il Sole 24 Ore, 2004, 500 ss.).
(23) Il medesimo trattamento può essere applicato, mutatis mutandis, anche ai titoli obbligazionari negoziati in mercati regolamentati, enucleati nella medesima disposizione. Sul punto si veda anche Comm. trib. reg. del Piemonte, sez. XXXVIII, 15 aprile 2010, n. 34, in Boll. Trib. On-line, la quale ha statuito che «la media aritmetica del valore assoluto di poche contrattazioni non è significativa se non si tiene conto anche del numero delle transazioni effettuate».
(24) Le imposte sul reddito pertanto devono essere contabilizzate nello stesso esercizio in cui sono rilevati i costi e i ricavi cui tali imposte si riferiscono, indipendentemente dalla data di pagamento delle medesime.
(25) Tale rilevazione è applicabile anche laddove la società abbia optato, nello Stato estero, per la sospensione del pagamento dell’exit tax.
(26) La rilevazione di un debito per imposte estere di competenza, mediante la scrittura contabile “Imposte estere a debiti tributari per imposte estere”, non genera alcuna differenza temporanea imponibile, a mente della quale possono essere accantonate imposte anticipate od imposte differite. Ciò in ragione della natura di differenza permanente che rappresenta, ad una certa data, una differenza tra il reddito imponibile e il risultato civilistico che non è destinata ad annullarsi negli esercizi successivi.
(27) In tal senso si è espressa recentemente anche l’Amministrazione finanziaria nella circ. 5 marzo 2015, n. 9/E (in Boll. Trib., 2015, 366), ove è stato affermato che «le tre condizioni richieste dalla disposizione in commento sono: (i) la produzione di un reddito all’estero; (ii) il concorso di quel reddito estero alla formazione del reddito complessivo del residente; (ii) il pagamento di imposte estere a titolo definitivo».
(28) In altri termini, l’imposta assolta all’estero ai fini dell’exit tax non trova corrispondenza in una fattispecie imponibile in Italia, nella misura in cui i titoli portafoglio non sono stati ceduti sul mercato e non determinano l’emersione di plusvalenze.
(29) Tali indicazioni valgono non solo in caso di assolvimento dell’exit tax in un’unica soluzione, ma anche laddove la società opti per la rateizzazione o la sospensione dell’imposta. Come rilevato anche da L. GAIANI, Trasferimento in Italia di imprese estere e valore fiscale degli assets, op. cit., «qualora lo Stato estero assoggetti ad exit tax il trasferimento in Italia dei beni, si porrà però un problema di possibile doppia tassazione che la nuova norma non sembra in grado di risolvere. Dovrà in questo caso valutarsi la possibilità di recuperare l’exit tax attraverso il meccanismo del credito di imposta estero di cui all’art. 165 del TUIR». Al riguardo, il Notariato rileva, nello Studio n. 152/2008 denominato Profili fiscali ai fini dell’imposizione diretta del trasferimento in Italia della sede di una società estera, come «il fenomeno della doppia imposizione si realizzerà in caso di realizzo effettivo in Italia delle plusvalenze su beni già tassati con la exit tax dello Stato di origine se il valore di carico dei beni non incorpori anche quella parte di plusvalenze già tassate al momento dell’applicazione dell’exit tax o se la exit tax pagata non venga riconosciuta a credito delle imposte dovute in Italia per le plusvalenze realizzate». Sullo stesso tema cfr. anche Consorzio San Paolo IMI nella circ. n. 5/2015.
(30) Tale interpretazione è stata confermata anche dall’Amministrazione finanziaria nella circ. n. 9/E/2015, cit., ove è stato affermato che «il numeratore del rapporto previsto dal primo comma dell’art. 165 del TUIR (RE/RCN) dovrà comprendere solo i redditi complessivamente prodotti in uno stesso Stato». Resta fermo che l’accreditamento delle imposte estere non potrà essere superiore alla quota d’imposta italiana corrispondente al rapporto RE/RCN, da assumere – in ogni caso – nei limiti dell’imposta netta dovuta per il periodo d’imposta in cui il reddito estero ha concorso al complessivo reddito imponibile. In relazione alla rilevazione di tale credito, considerato che trattasi di un importo che, al pari delle ritenute d’acconto o delle perdite fiscali, nel quadro RN del modello Unico SC va a decrementare l’IRES dell’esercizio, sono idonee le seguenti scritturi contabili (i) “Crediti per imposte assolte all’estero a Imposte dell’esercizio (in avere)” e (ii) “Debiti tributari per imposte dell’esercizio a Crediti per imposte assolte all’estero”.
(31) Ovvero, la media aritmetica dei prezzi di chiusura nel periodo intercorrente tra il 1° dicembre 2015 e il 1° gennaio 2016.
(32) Al riguardo, il D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “Decreto Internazionalizzazione”) ha introdotto, nel novero delle disposizioni di cui all’art. 165 del TUIR, la facoltà per il contribuente di detrarre le imposte estere nel periodo in cui il reddito estero concorre al reddito complessivo in Italia (c.d. “periodo di competenza”) purché le stesse siano pagate a titolo definitivo entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d’imposta successivo. L’esercizio di tale facoltà è condizionato all’indicazione, nelle dichiarazioni dei redditi, delle imposte estere detratte per cui ancora non è avvenuto il pagamento a titolo definitivo. Ad esempio, se il reddito estero concorre a formare il reddito complessivo nel 2015 (perché nel secondo semestre 2015 sono stati ceduti titoli su cui è già stata determinata la exit tax), il credito di imposta potrà essere fatto valere nel modello Unico 2016 anche se il pagamento a titolo definitivo avverrà entro il 30 settembre 2017.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *