11 Aprile, 2019

Il dovere di diligenza previsto dal secondo comma dell’art. 1176 c.c. impone al professionista di fornire al suo cliente tutte le informazioni che, in relazione all’incarico ricevuto, rientrano nell’ambito della sua competenza. Ciò avendo cura di specificargli, precisa la pronuncia in rassegna, anche le questioni che esulino da questo ambito sicché egli possa autonomamente determinarsi, anche rivolgendosi ad altro professionista che di ciò sia competente.
Il principio è chiaro e non riguarda, come nel caso deciso, soltanto i commercialisti ma indistintamente tutti i professionisti intellettuali nei rapporti con i loro clienti.
Di norma, salvo precedenti esperienze, il cliente che si rivolge ad un professionista non è consapevole del “come” i propri interessi possano essere tutelati e in alcune circostanze non sa nemmeno se possano esserlo.
In tali casi, il rapporto non si avvia sulla base di una preventiva verifica di quanto il professionista sia in grado di offrire in termini di qualità ed efficacia della prestazione, ma sulla base della sola garanzia che questi si prenderà cura con attenzione e diligenza di quanto affidatogli. Nei fatti, quello che il professionista vende al suo cliente non è un servizio tecnico da realizzare in un certo qual modo, ma la fiducia che egli si accingerà a svolgerlo nel modo più appropriato.
Questo dell’affidamento circa l’impegno esclusivo del professionista nella tutela degli interessi del suo cliente, libero da logiche di profitto e speculazione, è l’elemento che caratterizza il rapporto fra i due. Rapporto che, come è noto, non ha per oggetto un determinato risultato ma i mezzi attraverso i quali provare a raggiungerlo. Compete al professionista, visto il divario di competenze con il suo cliente, parteciparlo in modo responsabile e consapevole delle scelte di volta in volta necessarie o solo opportune al raggiungimento di tale risultato.
La figura del professionista non si esaurisce dunque nel rispetto delle regole e degli accorgimenti tecnici che rappresentano il fondamento della professione, ma coinvolge anche l’imperativo che attiene al dovere di una informazione completa e tempestiva. Dovere che insorge già nella fase delle trattative per il conferimento dell’incarico nel corso delle quali il professionista deve infatti informare il suo cliente di tutti i possibili rischi, vantaggi e svantaggi legati al raggiungimento del risultato (1).
Si veda, ad esempio, il ruolo che l’informazione sta assumendo nel settore sanitario, in cui il medico non può intraprendere o proseguire procedure diagnostiche o interventi terapeutici senza avere previamente acquisito, in forma scritta, il “consenso informato” del paziente (2).
L’ampiezza del suddetto combinato complesso di doveri passa attraverso il contenuto dell’incarico che il cliente conferisce al professionista. Incarico che insorge, varrà ricordare, nel momento stesso in cui il cliente si rivolge al suo consulente per chiedergli un parere. Così è nel caso in esame in cui ad un commercialista era stato chiesto «di fornire una vera e propria consulenza, sia pure di carattere tecnico e di prima informazione», circa le possibili iniziative da intraprendere in esito ad una decisione negativa della Commissione tributaria regionale, avanti la quale il ricorrente era stato assistito da altro difensore.
Citato in giudizio per il disinteresse mantenuto per tutto il tempo entro il quale sarebbe stato possibile proporre ricorso avanti al giudice di legittimità, il giudice di merito aveva risolto la questione valorizzando la circostanza che detto commercialista non sarebbe stato comunque abilitato a promuovere ricorso avanti alla Corte di Cassazione contro la sentenza oggetto di tale parere. Da qui l’esonero da qualsiasi responsabilità per il mancato assolvimento del citato dovere di tempestiva informazione.
Chi voglia far valere in giudizio un proprio diritto nei confronti di alcuno, afferma l’art. 2697 c.c., «deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento». Poiché nel caso di un professionista la responsabilità ha natura contrattuale, la prova di questi fatti si riduce a quella del conferimento dell’incarico e al suo contenuto, unitamente alla correlata accettazione da parte del medesimo.
Se il mandato sarà stato rilasciato per iscritto, l’ambito delle responsabilità del professionista può dirsi definito dal contenuto di tale mandato e dalle eventuali precisazioni riportate nella accettazione del medesimo. In questi casi, la prova di aver adempiuto con la dovuta diligenza ai doveri di informazione previsti dal secondo comma dell’art. 1176 c.c. sopra citato sarà evidentemente legata al contenuto di tale incarico.
Nel caso in cui il mandato sia stato invece conferito verbalmente, e dunque senza confini precisi se non quelli della questione nel suo complesso, non basterà dimostrare l’assolvimento del dovere di informazione in relazione ad una qualche circostanza ad essa questione connessa, dovendo il professionista dare conto di aver assolto al dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze che, ex ante, siano giudicate indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole circa il comportamento da assumere.
Il mancato o ritardato assolvimento di questo obbligo di informazione costituisce violazione del dovere di diligenza indipendentemente dal fatto che alla parte assistita sia o meno derivato un pregiudizio.
Tale pregiudizio non si verifica soltanto nel caso in cui il risultato a cui la prestazione mirava non viene raggiunto esclusivamente a motivo dell’inadempienza del professionista. Basta dimostrare che se questi non si fosse reso colpevole nel segnalare le azioni che sarebbe stato opportuno intraprendere, il loro tempestivo compimento avrebbe consentito di puntare ad un risultato che, sul piano delle probabilità, avrebbe potuto essere positivo. La classica perdita di chance.
Al dunque, la professione intellettuale si caratterizza per molte peculiarità. Da un lato, essa è una professione protetta dalla legge, per accedere alla quale generalmente occorre iscriversi ad un albo. Dall’altro, trascende l’aspetto prettamente privatistico per approdare ad una dimensione pubblicistica, come quando la legge regola la responsabilità del professionista in maniera diversa rispetto a quella prevista per le altre obbligazioni consistenti in un facere. Dal professionista si attende dunque un comportamento diverso rispetto ad un qualsiasi lavoratore autonomo.
Per quanto interessa, era necessario un particolare sforzo di diligenza nella difesa della tradizione culturale, nella specie quella che vuole l’informazione del cliente senza eccezioni di sorta.

Avv. Bruno Aiudi

(1) Cfr. Cass., sez. II, 19 aprile 2016, n. 7708, in Boll. Trib. On-line.
(2) Sul punto cfr. F.M. CIRILLO, I limiti della responsabilità civile del professionista intellettuale, in Giust. civ., 2005, II, 1709.

Imposte e tasse – Responsabilità del professionista per violazione del dovere di diligenza – Riferimento alla natura e portata dell’incarico conferito – Necessita – Dovere di individuare anche le questioni esulanti dall’ambito della competenza del professionista – Sussiste – Mancanza di abilitazione del commercialista a proporre ricorso per cassazione – Possibile irrilevanza.

Imposte e tasse – Responsabilità del professionista per violazione del dovere di diligenza – Prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista e il pregiudizio del cliente – Necessita – Incarico al commercialista per l’impugnazione di un avviso di accertamento – Valutazione prognostica positiva sul probabile esito favorevole della controversia – Occorre.

La responsabilità del commercialista presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi degli artt. 1176, secondo comma, e 2236 c.c., tenuto conto della natura e della portata dell’incarico conferito, di talché qualora si tratti di attività di consulenza, il dovere di diligenza impone, tra gli altri, l’obbligo non solo di dare tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e che rientrino nell’ambito della competenza del professionista, ma anche di individuare le questioni che esulino da detto ambito per consentire al cliente di prendere proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente, fermo restando che la definizione dell’ampiezza di tale dovere di informazione e la valutazione della diligenza richiesta nell’adempimento presuppongono che siano, in concreto, individuati gli esatti termini dell’incarico conferito al commercialista, mentre la circostanza che il medesimo non sia abilitato a promuovere ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione avverso una sentenza della Commissione tributaria regionale non vale ad escluderne la responsabilità, ove non gli si ascriva soltanto tale mancata impugnazione, bensì la mancata ottemperanza all’obbligo di informare il cliente della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato, nei tempi previsti dall’ordinamento per impugnare la sentenza.

La responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista e il pregiudizio del cliente e, in particolare, allorquando trattasi dell’attività del commercialista incaricato dell’impugnazione di un avviso di accertamento tributario, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole del ricorso alla Commissione tributaria, che avrebbe dovuto essere proposto e diligentemente seguito.

[Corte di Cassazione, sez. III (Pres. Chiarini, rel. Barreca), 23 giugno 2016, sent. n. 13007]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. D.S. citata in giudizio dinanzi al Tribunale di Campobasso il dott. V.D., per sentire accogliere nei suoi confronti le seguenti conclusioni (così trascritte in ricorso): «dichiarare il convenuto responsabile per la mancata impugnazione della sentenza n. 575/02/1999 della Commissione Tributaria Regionale di Campobasso; condannare il medesimo alla restituzione della somma conseguentemente addebitata e già corrisposta dall’attore, ed al risarcimento di tutti gli ulteriori danni subiti …», oltre le spese. A fondamento della domanda l’attore esponeva che, con la sentenza predetta, la commissione tributaria regionale si era pronunciata in senso a lui sfavorevole nel giudizio di appello tra lo stesso e l’Agenzia delle Entrate, avente ad oggetto un accertamento relativo all’IRPEF dell’anno d’imposta 1991; che egli, che svolgeva l’attività di orologiaio in Campobasso, ignorando le condotte da adottare, aveva consegnato al proprio commercialista, dott. D.C., l’originale della comunicazione del dispositivo della sentenza, chiedendo indicazioni e chiarimenti in merito; che il professionista non l’aveva più contattato né, malgrado sue sollecitazioni, l’aveva convocato per illustrargli le iniziative da assumere, tanto che erano decorsi i termini per l’impugnazione della sentenza dinanzi alla Suprema Corte; che perciò era stato costretto a corrispondere all’Amministrazione finanziaria le somme di € 62.165,30 e di € 26.113,61, oltre interessi, che aveva potuto reperire facendo ricorso al credito bancario; che a nulla erano valse la costituzione in mora nei confronti del professionista e, su segnalazione di questi, nei confronti della compagnia assicuratrice per la responsabilità professionale.

1.1. Si costituiva in giudizio il convenuto, chiedendo ed ottenendo in via preliminare, di chiamare in causa la compagnia assicuratrice ZIC. Nel merito, contestava la domanda, deducendo sia che il proprio studio professionale aveva prestato soltanto consulenza contabile per la ditta individuale dello S. e non aveva ricevuto alcun incarico riguardante la sentenza da impugnare, sia che egli non avrebbe potuto impugnarla non essendo abilitato alla difesa dinanzi alla Corte di cassazione, in quanto dottore commercialista.
Si costituiva anche la compagnia di assicurazioni chiamata in causa, rilevando l’infondatezza della domanda principale e, comunque, l’inoperatività della polizza ed eccependo, in subordine, i limiti di franchigia e di massimale ivi esposti.

1.2. Con sentenza n. 88 del 2009, il Tribunale di Campobasso, ritenuta superflua la prova per interpello del convenuto richiesta dall’attore e la prova testimoniale diretta e contraria, ed acquisita la documentazione prodotta dalle parti, rigettava la domanda, escludendo la responsabilità professionale del convenuto in quanto, non essendo abilitato alla difesa tecnica dinanzi alle giurisdizioni superiori, non avrebbe potuto impugnare dinanzi alla Corte di cassazione la sentenza sfavorevole al contribuente. Condannava l’attore al pagamento delle spese di lite in favore di entrambe le controparti.

2. Lo S. ha proposto appello, chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza con la condanna del dott. D. al risarcimento dei danni.
L’appellato e la compagnia di assicurazioni si sono costituiti ed hanno resistito, chiedendo il rigetto dell’appello.
Con la decisione ora impugnata, pubblicata il 18 luglio 2013, la Corte d’appello di Campobasso ha rigettato l’appello ed ha confermato la sentenza di primo grado, condannando l’appellante alle spese del grado.

3. Avverso la sentenza D.S. propone ricorso affidato a tre motivi.
V.D. e la ZIP s.a. – Rappresentanza generale per l’Italia si difendono con distinti controricorsi.
Nell’udienza fissata per la discussione orale, dopo le conclusioni del pubblico ministero, l’avvocato della parte ricorrente ha presentato alla Corte osservazioni per iscritto ai sensi dell’art. 379, ult. co., cod. proc. civ.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Preliminarmente va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, immotivatamente avanzata dalla compagnia di assicurazioni resistente. La sentenza è stata notificata il 23 settembre 2013, come riconosciuto da tutte le parti e comprovato in atti, ed il ricorso è stato notificato ad entrambi i destinatari il 22 novembre 2013, quindi entro il termine di legge.
Nel merito, va premesso che la Corte di appello ha ritenuto che, anche a voler tenere conto delle deduzioni dell’appellante (sulla scorta di quanto articolato nei mezzi di prova e di quanto dedotto negli scritti difensivi), il cliente avrebbe affidato al professionista «soltanto l’incarico di una consulenza di carattere tecnico … in via di prima informazione» e che perciò l’incarico non avrebbe avuto ad oggetto il conferimento della difesa dinanzi alla Corte di cassazione. Pertanto, secondo la Corte di merito, «resa o non resa quella consulenza», lo S., per proporre ricorso, si sarebbe dovuto rivolgere ad un avvocato patrocinante in cassazione mentre il parere tecnico del commercialista non avrebbe avuto incidenza alcuna sulle valutazioni di mero diritto che avrebbe dovuto compiere il legale incaricato dell’impugnazione. Secondo la Corte di merito, la proposizione dell’azione giurisdizionale sarebbe comunque dipesa da una scelta personale dell’attore che, per realizzarla, si sarebbe dovuto rivolgere a soggetti diversi dall’appellato, mentre sarebbe stata irrilevante l’attuazione o meno della prestazione richiesta al dott. D.

1.1. Col primo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176 e 2230 e seg. cod. civ., dell’art. 1 d.lgs. n. 1067/53 e dell’art. 12 d.lgs. n. 546/92, nonché degli artt. 1218, 1225 e 2236 cod. civ. e dell’art. 2043 cod. civ.
Il ricorrente assume che l’incarico conferito al professionista sarebbe consistito «in una consulenza tecnico-giuridica volta innanzitutto a conoscere tempestivamente rimedi, termini e modalità previsti dall’ordinamento giuridico per la tutela avverso una sfavorevole sentenza della Commissione Tributaria Regionale, ed inoltre ad analizzare sul piano tecnico la motivazione del provvedimento e le ragioni del rigetto dell’appello».
Da questo presupposto in fatto, il ricorrente fa discendere in diritto l’obbligo del commercialista di informare il cliente dell’esistenza del rimedio del ricorso per cassazione, nonché dei termini e delle modalità per la sua proposizione, inclusa l’informazione della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato a difendere dinanzi alle giurisdizioni superiori trattandosi di circostanze né di pubblico dominio né nella conoscenza del cliente medesimo, considerato che svolgeva l’attività lavorativa di orologiaio. Invece, essendo il dottore commercialista un professionista cui l’ordinamento attribuisce specifica competenza in materia tributaria, oltre che il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni tributarie di merito (come da norme richiamate in rubrica), egli ha anche specifica conoscenza sia del rito tributario che del sistema dei gravami esperibili. Quindi, il dott. D., al quale il ricorrente sarebbe stato legato da pluriennale rapporto professionale in corso (perché redigeva la contabilità della ditta individuale dello S. e ne era consulente), avrebbe dovuto fornire, con tempestività, le dette informazioni, in ossequio ai doveri di diligenza professionale derivanti dall’incarico conferito ai sensi dell’art. 2230 e seg. e dalla clausola generale dell’art. 1176 cod. civ., con conseguente suo obbligo a risarcire i danni derivati al cliente dall’inadempimento del fondamentale obbligo di informazione; danni sui quali si dilunga, poi, il motivo in esame.

1.2. Col secondo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ.

1.3. Col terzo motivo, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ., il ricorrente lamenta l’omesso profili, le censure già svolte col primo motivo in specie quanto alla sussistenza del nesso causale tra l’inadempimento del professionista all’obbligo di informazione e la mancata tempestiva proposizione del ricorso dinanzi alla Corte di cassazione avverso la sfavorevole sentenza della commissione tributaria.

1.4. Nel resistere al ricorso, il dottor D. sostiene che, come già dedotto nei precedenti gradi di giudizio, non sarebbe stato destinatario di nessuno specifico incarico concernente la sentenza della commissione tributaria regionale, dinanzi alla quale peraltro, lo S. era stato difeso da altro professionista (così come nel primo grado del giudizio tributario), ed aggiunge che il cliente non avrebbe mai consegnato al suo studio la copia del dispositivo della sentenza e neppure i fascicoli dei precedenti gradi di giudizio; a riscontro di queste asserzioni, il resistente, nel sottolineare che anche negli atti della controparte si dica soltanto di un incarico orale di carattere tecnico, evidenzia come in atti non vi siano missive inoltrate al professionista né solleciti, così che ne risulterebbe confermata la «condotta incurante ed omissiva da ascriversi esclusivamente al ricorrente». Svolge quindi considerazioni in merito ai danni risarcibili ed alla (in)sussistenza di chance di successo nel caso in cui fosse stato proposto il ricorso per cassazione.

2. Il primo motivo è fondato e va accolto, con le precisazioni di cui appresso.
La Corte di appello non ha svolto alcuna apposita disamina in punto di fatto, avendo ritenuto che già le deduzioni della parte attrice fossero idonee ad escludere qualsivoglia responsabilità del convenuto. In particolare, ha reputato che, anche a voler ammettere che – come sostenuto dall’attore, poi appellante – l’incarico professionale fosse stato conferito e fosse consistito nella richiesta di una «consulenza di carattere tecnico», ovvero di un parere «in prospettiva di un eventuale ricorso per cassazione», non sarebbe stata comunque configurabile una responsabilità del professionista cui imputare i danni per la perdita della possibilità di ricorrere per cassazione.
Questa conclusione, in punto di diritto, non è corretta.
La responsabilità del dottore commercialista presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ., tenuto conto della natura e della portata dell’incarico conferito (cfr. Cass. n. 16023/02 (1), anche per la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, eventualmente gravanti sul prestatore d’opera intellettuale).
Qualora si tratti di attività di consulenza richiesta ad un dottore commercialista, il dovere di diligenza impone, tra gli altri, l’obbligo, non solo di dare tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e che rientrino nell’ambito della competenza del professionista (cfr. Cass. n. 14597/04 (2) e n. 24544/09 (3), in riferimento ad analoghi obblighi informativi imposti all’avvocato, nonché Cass. 14639/15 (4), in riferimento agli obblighi informativi gravanti sul dottore commercialista), ma anche, tenuto conto della portata dell’incarico conferito, di individuare le questioni che esulino da detto ambito. Il professionista incaricato dovrà perciò informare il cliente dei limiti della propria competenza e fornire gli elementi ed i dati comunque nella sua conoscenza per consentire al cliente di prendere proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente.
La definizione dell’ampiezza di questo dovere di informazione e la valutazione della diligenza richiesta nell’adempimento presuppongono che siano, in concreto, individuati gli esatti termini dell’incarico conferito al dottore commercialista.
Nel momento in cui si ipotizzi – come ha fatto la Corte d’Appello – che lo stesso sia stato incaricato, se non della proposizione di un’impugnazione in cassazione, ma comunque di fornire una vera e propria consulenza, sia pure «di carattere tecnico» e «di prima informazione», a seguito dell’esito infausto per il contribuente di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, è obbligo di diligenza connesso all’incarico di consulenza così conferito quello di informare il cliente non solo delle ragioni di natura giuridica o tecnico-contabile che stanno a fondamento della sentenza sfavorevole (indubbiamente rientranti nella competenza del dottore commercialista, in quanto soggetto abilitato al patrocinio dinanzi alle commissioni tributarie), ma anche dei rimedi astrattamente esperibili, pur se non praticabili dallo stesso professionista.
In diritto perciò la sola circostanza, valorizzata dal giudice di secondo grado, che il dottore commercialista non sia abilitato a promuovere ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione avverso una sentenza della commissione tributaria regionale non vale ad escluderne la responsabilità, ove non gli si ascriva (soltanto) tale mancata impugnazione, bensì la mancata ottemperanza all’obbligo di informare il cliente della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato, nei tempi previsti dall’ordinamento per impugnare la sentenza.
In accoglimento del primo motivo di ricorso, perciò, la sentenza va cassata, con assorbimento dei motivi restanti.

3. Peraltro, essendo l’obbligo di informazione strettamente correlato, come detto, al conferimento di un vero e proprio incarico professionale nonché al tipo ed alla portata di questo incarico, ed, ancora, alle modalità di svolgimento del rapporto tra il professionista ed il cliente, che ne è seguito, per tutto il successivo periodo utile alla proposizione dell’impugnazione, le parti non possono che essere rimesse dinanzi al giudice del merito per il relativo accertamento.
Parimenti esulano, allo stato, dall’esame di questa Corte tutte le ulteriori questioni poste dalle parti in merito alla sussistenza, in concreto, di danni risarcibili. Ed invero la relativa liquidazione presuppone l’accertamento, rimesso al giudice del merito, se, in concreto, l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia effettivamente riconducibile, in tutto o in parte, a mancata informazione, se il ricorso fosse effettivamente proponibile e se avesse ragionevoli probabilità di successo (cfr. Cass. n. 9917/10 (5), nel senso che la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell’attività del commercialista incaricato dell’impugnazione di un avviso di accertamento tributario, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole del ricorso alla commissione tributaria, che avrebbe dovuto essere proposto e diligentemente seguito; cfr., nello stesso senso, Cass. n. 22026/04 (6); e, con riferimento all’ipotesi analoga della condotta omissiva dell’avvocato, tra le altre, Cass. n. 10966/04 (7), n. 2638/13 (8) e n. 11548/13 (9)).
La causa va perciò rinviata alla Corte d’Appello di Campobasso, in diversa composizione, perché proceda ad un nuovo esame dei fatti di causa, accertando l’effettivo contenuto dell’incarico conferito al professionista, e ne valuti la condotta, in relazione alla ricostruzione dei rapporti tra le parti, attenendosi ai principi di diritto sopra richiamati.
Avuto riguardo all’esito complessivo della lite, provvederà il giudice di rinvio a regolare le spese dei gradi di merito e del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M. – La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Campobasso, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.

(1) Cass. 14 novembre 2002, n. 16023, in Mass. foro it., 2002.
(2) Cass. 30 luglio 2004, n. 14597, in Giust. civ., 2004, I, 2934.
(3) Cass. 20 novembre 2009, n. 24544, in Mass. foro it., 2009, 1442.
(4) Cass. 14 luglio 2015, n. 14639, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cass. 26 aprile 2010, n. 9917, in Mass. foro it., 2010, 424.
(6) Cass. 22 novembre 2004, n. 22026, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cass. 9 giugno 2004, n. 10966, in Boll. Trib., 2004, 1413.
(8) Cass. 5 febbraio 2013, n. 2638, in Mass. foro it., 2013, 82.
(9) Cass. 14 maggio 2013, n. 11548, in Mass. foro it., 2013, 376.

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