24 Giugno, 2015

Corte di Assise d’Appello di Milano, Sez. I, Sent., 16-03-2015, n. 55

REPUBBLICA ITALIANA

in nome del Popolo Italiano

LA CORTE DI ASSISE D’APPELLO

DI MILANO

SEZIONE PRIMA

Composta dai Signori:

l – Dott. Barbara BELLERIO Presidente

2- Dott. Enrico SCARLINI Consigliere

3 – Sig. Isabella CECCHINATO Giudice Pop.

4 – Sig. Lorenzo CONTE Giudice Pop.

5 – Sig. Carmela CUPETA Giudice Pop.

6 – Sig. Federica MALTESE Giudice Pop.

7 – Sig. Anna Antonia FEDELE Giudice Pop.

8- Sig. Natale CALASCIBETTA Giudice Pop.

ha pronunciato la seguente

 sentenza

nella causa penale

contro

 STASI ALBERTO, nato a Milano il 06/07/1983;

residente in Garlasco (PV) Via Carducci 29

LIBERO PRESENTE

A P P E L L A N T I

 il P.M., il P.G. e le parti civili avverso la sentenza del GIP presso il Tribunale di Vigevano emessa in data 17.12.2009.

L’imputato era stato rinviato a giudizio per il seguente reato:

p. e p. dagli artt. 575, 577 comma 1 n. 4 c.p. in relazione all’art. 61 n. 4 c.p. perché cagionava la morte di POGGI Chiara colpendola al capo e al volto con reiterati colpi inferti con un corpo contundente così determinando la lacerazione dell’encefalo, la contestuale frattura con sfondamento del cranio in regione parieto-occipitale sinistra e numerose lesioni contusive al capo e al viso, lesioni dalle quali derivava la morte della persona offesa.

Con l’aggravante di avere adoperato sevizie e aver agito con crudeltà verso la vittima costituite dall’efferatezza dell’azione omicidiaria per il numero e l’entità delle ferite inferte alla vittima

Fatto commesso in Garlasco il 13.8.2007.

Il GIP del Tribunale di Vigevano con sentenza del 17.12.2009 ha così deciso:

 Visto l’art. 530 cpv c.p.p.,

ASSOLVE

ALBERTO STASI dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto.

Visto l’art. 544 III comma c.p.p., indica il termine di giorni 90 dalla pronuncia per la redazione della motivazione della sentenza.

La 2A Corte di Assise d’Appello di Milano con sentenza del 6.12.2011 così decideva:

letto l’art. 605 c.p.p.

conferma

la sentenza pronunciata dal GUP presso il Tribunale di Vigevano in data 17.12.2009 nei confronti di Stasi Alberto ed appellata dal Procuratore Generale, dal Pubblico Ministero e dalla Parte Civile.

Letto l’art. 544 co. III c.p.p.,

indica

in giorni 90 il termine per la stesura della motivazione e per il deposito della sentenza.

A seguito di ricorso la Corte di Cassazione con sentenza emessa il 18.4.2013 ha annullato la sentenza impugnata ed ha rinviato per nuovo giudizio al altra sezione della Corte di Assise d’Appello di Milano, cui ha rimesso la regolamentazione delle spese di parte civile.

In esito all’odierna Camera di Consiglio tenutasi in presenza dello imputato, sentita la relazione svolta dal Presidente dott.ssa Barbara Bellerio, sentita la requisitoria del P.G. dott.ssa Laura Barbarini, sentita la difesa, le parti civili e l’imputato

[-protetto-]

INDICE

 1 – La sentenza della Cassazione

2 – Osservazioni preliminari di carattere generale

3 – Le richieste di rinnovazione istruttoria

4 – Le nuove perizie

5 – La rinnovazione istruttoria

5-1 La perizia genetica

5-2 La perizia sul percorso

6 – Le ulteriori integrazioni probatorie

7 – Le testimonianze

7-1 II “tema bicicletta”

7-2 II “tema scarpe”

7-3 II “tema graffi”

7-4 II “tema pedali”

8 – Le ulteriori acquisizioni e

le conclusioni delle parti

9 – La Corte osserva

9-1 La scena del crimine e l’alibi di Stasi

9-2 II percorso di Stasi scopritore

e la sua verifica

9-3 II racconto di Stasi scopritore

e la sua verifica

9-4 Le biciclette

9-5 I pedali della bicicletta Umberto Dei

e il DNA della vittima

9-6 Le impronte digitali di Stasi sul dispenser

1 – La sentenza della Cassazione

I Carabinieri di Garlasco (Serra e Muscatelli) intervenivano in via Pascoli 8, nell’abitazione di Chiara Poggi, poco dopo le 13.50 del 13 agosto 2007, su segnalazione di Alberto Stasi. La porta di casa era socchiusa e il cadavere della giovane rinvenuto in fondo alla scala della cantina, con i piedi verso la porta di accesso (aperta) e la testa appoggiata al muro. La luce del locale era accesa.

L’esame autoptico (eseguito dal medico legale dott. Ballardini) individuava quali cause della morte le lesioni contusive cranio-cefaliche, in particolare quella nella regione parieto occipitale sinistra (che secondo i periti e i consulenti della Difesa avevano causato il maggior sanguinamento e il decesso pressoché immediato).

L’arma del delitto non veniva rinvenuta (erano ipotizzate in un primo tempo delle forbici da sarto, poi un martello da muratore).

L’ora del decesso veniva collocata dal c.t. del PM tra le 11 e le 11.30; da quelli della Difesa tra le 9 e le 10; dal collegio peritale nella mattinata. Secondo la valutazione degli esperti la morte era intervenuta subito dopo la disattivazione dell’allarme dell’abitazione (alle 9.12), allarme che era stato attivato all’1.52.

La vittima indossava indumenti da notte e aveva fatto colazione (sul divano erano trovati alimenti da colazione); la tv era accesa, le persiane ancora chiuse a parte la portafinestra della cucina, le tende da sole non abbassate e il letto sfatto. La madre della vicina Pisati, Franca Bermani, recatasi quella mattina a casa della figlia (confinante con quella dei Poggi) alle 9.10 circa notava una bicicletta nera da donna appoggiata al muro di casa Poggi, senza notare né sentire altro nell’occasione; bicicletta che alle 10.20 (quando si affacciava di nuovo in strada avendo ricevuto visite) non vedeva più. La donna se ne andava alle 11, e in tale intervallo di tempo non notava presenze umane.

La vittima era stata trascinata sul pavimento e gettata sulle scale della cantina (lungo le quali erano abbondanti pozze di sangue). La ricostruzione della scena del delitto (ad opera del RIS di Parma col metodo “Bloodstain Pattern Analysis”, fondato sullo studio dei meccanismi fisici con cui si producono le macchie di sangue) consentiva di rilevare una pausa nella dinamica dell’azione omicidiaria dopo che la vittima era stata colpita alla base della scala che portava al piano superiore (dove si trovava una pozza di sangue con i suoi capelli); l’azione si era cioè svolta almeno in due fasi.

La giovane non era morta subito, ma rimasta in vita per un tempo inferiore a 30 minuti; verosimilmente era stata sollevata e gettata a faccia avanti, aveva urtato il capo con violenza sui gradini ed era rimasta alcuni minuti in posizione diversa rispetto a quella finale (cui era giunta per gli spostamenti spontanei o per la spinta dell’aggressore). Il capo poggiava sul nono gradino,

Primo elemento a carico di Stasi era individuato nella telefonata (quanto a contenuto e tempistica) da lui fatta al 118 alle 13.50 (della durata di 59 secondi) con tono ritenuto “distaccato”; tale chiamata poi non era effettuata dalla casa o dopo l’uscita dalla stessa, ma davanti alla Stazione dei Carabinieri, distante circa 600 metri dall’abitazione dei Poggi (al secondo 0.29, Stasi era in caserma) Elementi entrambi che il Gup valutava privi di sicura valenza indiziaria.

Quanto all’alibi di Stasi, e alla sua verifica, lo stesso (sentito 2 volte il 13/8, poi il 17/8 e ancora il 22/8, questa volta come indagato), dichiarava di essere rimasto nella propria abitazione, distante circa 2 Km da quella dei Poggi, fino alle 13.30; di avere più volte chiamato Chiara sul cellulare senza ottenere risposta(alle 9.45 e poi dopo un’ora e poi ancora sul cellulare e sulla utenza fissa tra le 11.15 e le 12.20, e poi ancora verso le 13.30).

Dai tabulati telefonici del cellulare di Chiara risultavano pervenute telefonate da quello di Stasi alle 9.44, alle 10.47 e alle 13.31; e da un numero anonimo alle 11.37, alle 12. 46, alle 13.26 e alle 13.30, non risultanti dai tabulati perché senza risposta (solo una chiamata, da fisso a fisso, alle 13.27, di 12 secondi, risultava risposta). Secondo una valutazione probabilistica fatta dai periti sulla base delle telefonate pervenute all’utenza della famiglia Poggi negli ultimi 6 mesi queste telefonate anonime provenivano dall’utenza fissa di casa Stasi, dotata all’epoca della funzione di “numero riservato”.

Per il Gup quindi le dichiarazioni dell’imputato erano vere quanto alla sua permanenza in casa.

La verifica dell’alibi di Stasi era effettuata anche sulla base dell’utilizzo – da parte sua – del suo

personalcomputer, che consegnava spontaneamente ai Carabinieri il giorno successivo; questi ultimi lo trattenevano fino al 29/8 effettuando numerosi e scorretti accessi.

I c.t. del P.M. rilevavano che detto computer era stato acceso alle 9.36 ed erano state aperte foto digitali fino alle 9.57; non risultavano tracce di utilizzo dopo le 10.17.

c.t. della Difesa accertava l’apertura del documento della tesi di laurea alle 10.17, la successiva scrittura e il salvataggio di due pagine.

I periti nominati dal Gup accertavano che il contenuto del pc era stato sottratto dagli accessi scorretti fatti dai CC in misura pari al 73,8 % dei file visibili, e comunque ne verificavano l’apertura alle 9.35 e la successiva visione (dalle 9.38 alle 10.07) di immagini pornografiche (circostanza questa taciuta da Stasi); l’apertura alle 10.17 del documento della tesi di laurea il cui ripetuto salvataggio veniva ritenuto dimostrativo di un lavoro omogeneo rispetto a quello della sera precedente e sintomatico di una concreta concentrazione mentale.

Inoltre si escludeva che l’attività informatica fosse stata svolta da Stasi fuori dalla sua abitazione, vista la limitata autonomia della batteria del pc e la difettosità del cavo di alimentazione, oltre alla telefonata fatta a Stasi alle 9.55 sull’utenza fissa dalla madre, durata 21 secondi. I periti escludevano inoltre ogni alterazione volontaria da parte di Stasi dei riferimenti temporali di sistema, non essendosi accertate in capo al predetto le necessarie conoscenza informatiche.

Secondo il Gup quindi, sulla base della compatibilità di tale attività informatica con le telefonate pervenute sul cellulare di Chiara, Stasi era rimasto nella sua abitazione dalle 9.35 alle 12.20, alle 12.46, alle 13.26 e alle 13.30.

Erano pertanto ipotizzabili 3 finestre temporali in cui Stasi avrebbe potuto uscire dalla sua abitazione per recarsi da Chiara:

– prima delle 9.12 (ora di disinserimento dell’allarme) e fino alle 9.35 (accensione del pc);

– dalle 12.20 (messa in stand by del pc) e fino alle 12.46 (chiamata da utenza fissa di casa Stasi al cellulare di Chiara);

– dalle 12.46 fino alle 13.26 (ulteriore chiamata da utenza fissa Stasi al cellulare di Chiara).

Quanto alla prima (della durata di 23 minuti), il Gup ne evidenziava la “problematica criticità” sotto il profilo logico-razionale (tenuto conto della durata dell’aggressione, dei tempi di recupero e ricovero della bici usata, dei preliminari del litigio-aggressione, della pulizia o eliminazione dell’arma, della eliminazione degli abiti e della pulizia del corpo).

Secondo la parte civile l’imputato poteva non avere assistito allo scivolamento della vittima giù dalla scala: aveva infatti sostenuto di averne visto il corpo, scendendo 1-2 gradini, “verso la fine” della scala.

La condotta di Stasi non era poi valutata compatibile con la preordinazione di un alibi: aveva taciuto fa visione di immagini pornografiche, e l’esame delle telefonate aveva evidenziato che si trattava effettivamente di chiamate non risposte e non rifiutate; quelle da fisso a fisso non erano escludibili; la discrasia tra quelle fatte dal suo cellulare (7) e quelle registrate da quello di lei (1) tra le 10.46 e le 10.48 era spiegabile con l’assente o insufficiente copertura; le chiamate erano poi collocate negli intervalli di lavoro al computer.

Dalle dichiarazioni dell’imputato emergeva il “progressivo superamento” delle incertezze sui tempi, per il Gup incompatibile con una messinscena; così come l’avere parlato della tesi solo nel 3° interrogatorio.

Alle 12.20 il pc era posto in stand by con file di word aperto, segno che intendeva proseguire nel pomeriggio; la cura per il lavoro svolto era incoerente con la predisposizione di un alibi attraverso l’evidenziazione della quantità dello stesso.

La seconda e la terza finestra temporale (12.20- 12.46 e 12.46-13.26) potevano escludersi: la prima perché il teste Gabetta (abitante nella casa prospiciente ai Poggi) non aveva notato nulla tra le 12.30 e le 12.45, la seconda per il contenuto dello stomaco della vittima, la durata dell’azione, la mancata risposta alle telefonate.

Quanto alle dichiarazioni rese da Stasi, questi in sede di s.i.t. dichiarava che, giunto a casa di Chiara e non avendo ricevuto risposta al suono del campanello, scavalcava il muro di cinta e, trovata la porta aperta, aveva visto il corpo di Chiara sulle scale della cantina. Riferiva il percorso effettuato e le difficoltà di apertura della porta della cantina; collocava il corpo nella parte finale della scala; la luce era spenta, lui non l’aveva accesa. Per il Gup la lacunosità e le incongruenze del racconto erano tutte spiegabili: le ultime chiamate tra le 13.42 e le 13.45 le aveva fatte quando era già lì; lo sconvolgimento giustificava la descrizione del biancore del volto di Chiara invece coperto di sangue e capelli; quanto alla luce accesa, se avesse voluto confondere le tracce avrebbe dovuto dire di averla accesa e comunque il dettaglio non era rilevante; quanto alla apertura della porta della cantina e alle difficoltà della manovra, ciò era avvenuto alla fine del percorso effettuato all’interno dei locali.

Il principale elemento indiziario a carico di Stasi era costituito dal mancato imbrattamento delle sue scarpe, nonostante avesse attraversato la scena del delitto.

Sul punto il Gup disponeva una indagine peritale ex art. 441 comma 5 c.p.p., all’esito della quale svalutava tale elemento affermando che Stasi poteva avere posto in essere una efficace manovra di evitamento delle macchie di sangue più grandi, e che probabilmente quelle più piccole, non evitabili, si erano in tutto o in parte essiccate quando era entrato in casa dei Poggi a distanza di circa 4 ore dall’omicidio, fatta eccezione per quelle in fondo alla scala.

L’indagine si estendeva anche alle scarpe, consegnate il giorno dopo agli inquirenti. Secondo il primo giudice gli eventuali imbrattamenti di modeste dimensioni potevano essere stati asportati dal successivo calpestamento di ghiaia, erba bagnata, pulizia sullo zerbino.

Il mancato rinvenimento di impronte di suole di scarpe di Stasi sulla scena del delitto quindi non ne provava il mancato attraversamento, sempre sulla base delle prove sperimentali disposte.

Queste argomentazioni valevano anche per spiegare il mancato rinvenimento di macchie di sangue sull’auto con cui Stasi era giunto presso la casa dei Poggi e si era poi recato in caserma (sequestrata 7 giorni dopo).

Anche l’intervallo di tempo

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tra le 13.44 (ultima chiamata a Chiara, fuori dalla sua abitazione) e le 13.50 (chiamata al 118) veniva ritenuto compatibile con la ricostruzione che Stasi aveva effettuato del suo percorso dall’ingresso all’uscita da casa Poggi.

Altro indizio a carico di Stasi era la sua impronta digitale sul contenitore del sapone liquido nel bagno al piano terra, ove si trovavano anche tracce del DNA della vittima.

Le contrastanti interpretazioni dei consulenti di parte inducevano il Gup a nominare un perito esperto in genetica forense (dott. Robino), che escludeva evidenze ematiche sul miscelatore, in corrispondenza dell’impronta e nei tubi.

Le impronte (prodotte per deposizione di sostanza ematica) di suole di scarpe in bagno, cucina e salottino (presumibilmente dell’aggressore) non risultavano corrispondenti a nessuna delle scarpe sequestrate a Stasi.

Sulla scena del delitto non venivano rilevate impronte digitali di terzi, a parte impronte parziali non utili per una attribuzione, nemmeno quelle della madre di Chiara; nemmeno sul pomello della porta della cantina (sicuramente chiusa prima di gettare il corpo dalle scale).

Ultimo indizio a carico di Stasi era il DNA della vittima rilevato sui pedali della sua bicicletta (rilevato da un solo campione effettuato da entrambi i pedali), ma sulla base delle incerte conclusioni peritali il primo giudice riteneva che vi fosse solo la “possibilità” che detta traccia di DNA avesse una provenienza ematica e che quindi non fosse possibile accertare in quale modo il DNA di Chiara si fosse trasferito sui pedali e in quale momento.

La teste Bermani (sentita in sede di supplemento istruttorio) escludeva che la bicicletta da lei vista (nera, da donna) fosse quella in uso a Stasi, di cui le veniva mostrata una foto (da uomo, di colore bordeaux, nocciola e oro).

La presenza di una bicicletta nera da donna era confermata anche dalla teste Travain Manuela, che però non era in grado di indicare con certezza il giorno in cui l’aveva notata.

La famiglia Stasi aveva in uso una bicicletta nera da donna, collocata nel negozio di ricambi del padre (a 1 Km. dall’abitazione). Per il Gup il mancato sequestro di quest’ultima non costituiva elemento rilevante, considerata la differente descrizione da parte della teste e la macchinosa utilizzabilità della stessa da parte di Stasi, nonché i tempi tecnici necessari a trasferirla da un luogo all’altro (il 14 agosto alle 9.30 la bici era nel negozio del padre di Stasi), in relazione alla prima finestra temporale.

Secondo il Gup non emergeva infine alcuna prova congrua del possibile movente-occasione dell’omicidio (difficoltà dei rapporti intimi tra i due dopo il rientro di Stasi da Londra, possibile litigio, visione di immagini pedopornografiche da parte di Chiara sul computer di lui), all’esito dell’analisi di tutte le risultanze (chiamate, attività e accessi ai computer, attività svolte il giorno e la sera precedente, testimonianze).

Unici indizi a carico di Stasi (certi, ma non gravi) erano quindi l’impronta digitale sul contenitore del sapone e la presenza del DNA di Chiara sui pedali della sua bicicletta.

L’alibi fornito dall’imputato poteva dirsi ragionevolmente certo.

La bicicletta presente sul posto non era riconducibile a lui.

Emetteva pertanto, il 17/12/09 una sentenza assolutoria.

Detta sentenza veniva appellata dal P.M., dal P.G. e dalle parti civili.

La Corte di Assise di Appello di Milano, il 6/12/11, confermava tale decisione.

Preliminarmente i giudici di secondo grado (pagg.20-24 sent. di rinvio), dopo avere richiamato la giurisprudenza di legittimità sulla rinnovazione dell’istruttoria in appello nel processo svoltosi con rito abbreviato e ribadito il requisito della assoluta necessità della stessa per poter sollecitare i propri poteri d’ufficio, rigettavano le richieste di rinnovazione dibattimentali avanzate dagli appellanti.

Da parte del P.G. sulla mancata estensione della simulazione dei passi ai due gradini della scala; (quesito sub D della perizia del Gup); sulla capacità delle scarpe di Stasi di trattenere tracce di sangue umano o altre sostanze biologiche; sul tempo di essiccamento delle macchie di sangue con riferimento al materiale del pavimento e agli orari indicati nei supporti fotografici digitali.

Da parte della parte civile su approfondimenti istruttori su reperti diversi (abiti, martello, stracci); sull’acquisizione della bicicletta da donna in uso alla famiglia Stasi; sull’accertamento sul “capello” nella mano sinistra di Chiara; sull’accertamento sui margini ungueali di quest’ultima; sulla irregolarità delle perizie con riguardo alla camminata di Stasi e al possibile imbrattamento delle suole delle scarpe (con conseguente carenza di certezze sulle sperimentazioni).

Nel merito la Corte di secondo grado condivideva il giudizio di contraddittorietà e insufficienza della prova della colpevolezza dell’imputato. Affrontava le censure mosse dagli appellanti, con ragionamenti – che la Cassazione ha analizzato per “aree argomentative” – ed a ciascuna forniva risposte, analizzando le spiegazioni alternative, possibili o diverse e le critiche mosse dagli appellanti (pagg. 24-32 sent. di rinvio),

Non escludibilità di un tentativo di rapina (mancanza segni effrazione, nessuna sottrazione, aggressore soggetto conosciuto, a conoscenza delle consuetudini di vita della vittima e dei locali dell’abitazione; possibilità che si fosse trattato di una aggressione a sorpresa non preceduta da litigio, possibilità che non ci fosse nessuno in casa, mancanza di verifica da parte di Stasi a fronte del fatto che Chiara non rispondesse alle chiamate, precostituzione di un alibi attraverso l’uso del pc, assenza di impronte o tracce di terzi, non incompatibilità delle impronte di scarpe rinvenute con quelle di Stasi);

analisi del primo intervallo temporale di 23 minuti e accesso di Stasi a casa di Chiara “soltanto” all’ora di pranzo;

sua descrizione della scena del delitto (illuminazione, dettagli);

contraddizioni sulla porta a soffietto e sul numero di gradini scesi;

omissioni sulla macchia di sangue davanti alla porta della cantina;

– dichiarazioni sul momento in cui aveva chiamato il 118;

accertamento tecnico sulle tracce di sangue sulle scarpe di Stasi;

impossibilità di non calpestare il sangue nell’abitazione;

– ancora sull’imbrattamento ematico e sulle impronte delle suole delle scarpe (ingresso nell’abitazione di personale sanitario e operanti; secchezza delle tracce; dispersione delle tracce sulle scarpe consegnate il giorno dopo da Stasi);

presenza del DNA della vittima sui pedali della bicicletta di Stasi;

presenza di impronte digitali di Stasi e DNA di Chiara sul dispenser del sapone;

bicicletta nera da donna appoggiata al muro di casa Poggi;

causale dell’omicidio.

Avverso la sentenza di appello proponevano ricorso per Cassazione il P.G. e le parti civili.

Il primo lamentava il vizio di illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione in relazione a 7 motivi:

– insussistenza di elementi indiziari da valutarsi unitariamente ai dati acquisiti (ritenuta sussistenza di 2 soli indizi – impronta digitale di Stasi sul dispenser in corrispondenza dell’impronta della scarpa sporca di sangue in bagno e presenza del DNA di Chiara sui pedali della bicicletta – e contemporanea incongrua esclusione di plurimi dati acquisiti quali: ingresso in casa senza effrazione e in concomitanza con la disattivazione dell’allarme; confidenza con l’aggressore considerato l’abbigliamento della vittima; mancata asportazione di oggetti, ingresso con l’arma, assenza di violenza sessuale, limitate frequentazioni di Chiara in quel periodo, assenza di alibi di Stasi nella 1A finestra temporale, compatibile con la commissione dell’omicidio; conoscenza dell’appartamento; efferatezza dell’azione e messinscena; falsità del racconto di Stasi sul percorso effettuato senza sporcarsi; originaria segnalazione di un incidente domestico; criticità dei rapporti sessuali tra i due e deviazioni pedopornografiche di lui – condannato per questo in 1° grado – e assenza di coerenza e consistenza logica di scenari alternativi).

Inidoneità dell’ipotesi alternativa (terzo estraneo) a spiegare la ferocia del getto finale del corpo della vittima (ancora falsa prospettazione di incidente domestico e precostituzione di un alibi con il rientro a casa per rispondere alla madre e accendere il pc).

Omesso apprezzamento del contenuto della relazione del 16/8 dei CC (Stasi in caserma aveva subito ipotizzato incidente domestico).

– Mancata estensione ai due primi gradini della scala della cantina della sperimentazione oggetto di perizia (pure indicati nel conferimento dell’incarico e da Stasi nelle prime dichiarazioni come da lui calpestati); non operatività della “strategia di evitamento” nel luogo ristretto delle scale; avere ritenuto scontato che la macchia di sangue davanti alla porta della cantina fosse stata solo “lambita” da Stasi (pur non avendo i periti contestato la valutazione del c.t. del PM che aveva quantificato la probabilità di evitamento di tale sangue in misura pari allo 0,6 %; mancata utilizzazione probatoria di dati probabilistici e viceversa acquisizione di una sperimentazione basata su un percorso non corrispondente a quello indicato). In sostanza, quindi, utilizzazione di dati non corretti.

– Conseguente esclusione della assoluta necessità di una perizia estesa ai gradini della simulazione (dovendosi attribuire rilevanza non già al numero dei gradini, ma all’attività di discesa e risalita).

– Esclusione di tale perizia sul presupposto dell’impossibilità di riprodurre la mappatura ematica dei gradini (consentita invece dalle fotografie del medico legale, prese da diverse angolature).

– Esclusione di tale perizia sull’ulteriore presupposto del procedimento di essiccamento (ricontrollo degli orari: le foto dei Carabinieri risultavano infatti sfasate di un’ora in quanto impostate su quella solare).

Il ricorso delle Parti civili si articolava in 4 motivi:

– sovrapponibile al primo dei P.G. (censurata la valutazione atomistica anziché complessiva degli indizi; esclusione non motivata di risultati probabilistici, quali la quantificazione in misura di 0,6 % della possibilità di evitare le tracce di sangue davanti alla scala; in particolare impossibilità di effettuare il percorso riferito senza calpestare macchie di sangue; accertata falsità e lacunosità del racconto di Stasi sulle sue condotte quella mattina; disponibilità da parte della famiglia Stasi di una bicicletta da donna nera -mai menzionata da Stasi – e presenza di analoga bicicletta fuori da casa Poggi in orario prossimo alle 9.10).

– Ritenuta non necessità di integrazioni probatorie (anche in abbreviato, in caso di perizie disposte di ufficio dal Gup): verifica del percorso di Stasi sulle scale in prossimità della pozza di sangue; acquisizione della bici nera per accertamenti o per farla visionare alle testi; accertamenti genetici sul capello corto rinvenuto nella mano dx di Chiara e sulle unghie della stessa (questi ultimi ribaditi nella successiva memoria difensiva, e indicati come suscettibili di apportare al processo dati conoscitivi nuovi).

– Mancata acquisizione di prova già ammessa in sede di integrazione dell’abbreviato, in relazione all’omesso svolgimento dell’esperimento giudiziale nei modi e alle condizioni già previste.

– Mancata ammissione della controprova richiesta in seguito all’integrazione probatoria d’ufficio (valutazione dell’impatto sull’esperimento giudiziale delle manovre di apertura della porta, discesa e risalita di corsa dei gradini, riferite da Stasi).

La Difesa di Stasi presentava memoria difensivaper contrastare tutti i motivi di ricorso dei P.G. e della P.C., ritenuti affetti da inammissibilità o manifestamente infondati (sia nel merito, che con riguardo alle richieste di rinnovazione istruttoria), (pagg,47-62 sent. di rinvio).

Il P.G. proponeva motivi nuovi ex art. 585 comma 4 c.p.p. (pagg. 62-64 sent. di rinvio).

Note di udienza erano infine depositate dalla Difesa di Stasi all’udienza pubblica del 5/4/13, con riguardo a detti motivi aggiunti (pagg.62-68 sent. di rinvio).

I ricorsi del PG e delle PC erano ritenuti tempestivi, così come la memoria delle PC con i motivi aggiunti; erano invece ritenuti inammissibili i motivi nuovi proposti dal PG (anticipati a mezzo fax, e non nei termini di 15 giorni al giudice dell’impugnazione ex art. 585 c.4 c.p.p.).

A questo punto la Suprema Corte (pag. 72 sent. di rinvio) è partita da una prima necessaria premessa metodologica sui canoni che devono presiedere alla utilizzazione e alla valutazione della prova indiziaria.

Detta prova non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto a quella diretta o storica, “quando la sua attitudine rappresentativa sia conseguita con rigorosità metodologica, che giustifica e sostanzia il principio del libero convincimento del giudice”; la regola di cui all’art.192 c.2 c.p.p. sancisce “non tanto la necessità della molteplicità degli indizi, quanto la obbligatorietà dell’esame complessivo di tutti gli elementi processualmente acquisiti” Cita quindi le Sez. Unite n. 6682 del 92 sulla valutazione complessiva dei singoli indizi, il cui apprezzamento unitario, per verificarne la confluenza verso una univocità indicativa del fatto da provare, costituisce operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno di essi.

Una volta saggiata la valenza individuale del singolo indizio, si deve passare all’esame globale nella composizione unitaria, sicché l’insieme può assumere pregnante e univoco significato dimostrativo, che consente di ritenere conseguita la prova indiziaria o logica dei fatto. Anche la giurisprudenza successiva della Suprema Corte ha ripetutamente sottolineato la necessità di una valutazione globale e unitaria del compendio probatorio raccolto, che metta in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo, e non si esaurisca in un mero assemblaggio degli elementi raccolti. Cita ancora la propria giurisprudenza sulla certezza dell’indizio, che significa che la sua sussistenza deve essere processualmente provata; sui requisiti di gravità (consistenza, resistenza alle obiezioni, capacità dimostrativa, pertinenza), di precisione (specificità, univocità, insuscettibilità di diversa interpretazione) e concordanza (tutti gli indizi devono muoversi nella stessa direzione, non essere contraddittori, convergere verso dati certi).

Sottolinea la centralità del procedimento probatorio demandato al giudice nel processo penale e le caratteristiche peculiari della decisione giudiziaria (pag. 76)finalizzate alla conoscenza nuova di un fatto specifico, che attiene a un fatto umano (il reato), legato a variabili non necessariamente razionali o non completamente intellegibili, e la cui verifica processuale passa attraverso il ragionamento probatorio, che consente di passare dall’elemento di prova al risultato di prova in vista del conseguimento della certezza di natura processuale“.

Anche nel processo indiziario il passaggio dal fatto noto al fatto ignoto (che costituisce il tema di prova) richiede un ragionamento di logica formale che, nel collegare i due fatti, deve operare una duplice valutazione, fornendola di congrua motivazione:

– verifica della validità delle regole o leggi utilizzate;

– esame della validità in concreto del risultato conseguito;

così che il fatto possa dirsi ricostruito in termini di certezza tali da escludere ogni altra ragionevole soluzione (ma non anche la più astratta e remota delle possibilità, non verosimile ma frutto di inusitato combinarsi di fattori imprevisti e imprevedibili).

Il risultato del ragionamento logico dettato dall’art. 192 comma 2 c.p.p. (unitamente al comma 1 e all’art. 546 c.1 lett. e) c.p.p.) deve condurre ad una conclusione caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, ovvero alla “certezza processuale” che la condotta sia attribuibile all’agente, esclusa l’interferenza di andamenti alternativi.

Norma di chiusura del ragionamento probatorio è poi la regola di giudizio introdotta dall’art. 5 l. n. 46/06 che ha modificato l’art. 533 c. 1 c.p.p., che stabilisce che il giudice pronunci sentenza di condanna se l’imputato risulti colpevole del reato che gli viene contestato al di là di ogni ragionevole dubbio.

La condanna sarà quindi legittima quando le acquisizioni probatorie lascino fuori solo eventualità remote che, pur astrattamente prospettabili, non risultino supportate dai minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori della normalità umana e dell’ordine naturale delle cose.

Il ragionamento probatorio pretende percorsi corretti, argomentazioni motivate sulle opzioni di valutazione della prova, razionale giustificazione della decisione, conclusioni di alta probabilità logica in termini di certezza processuale. Il diritto alla prova sì estende fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova, strettamente correlata alle garanzie proprie del processo penale, quali la presunzione di innocenza dell’imputato, l’onere della prova a carico dell’accusa, fa necessità di assoluzione in caso di insufficienza, contraddittorietà e incertezza della prova di accusa e obbligo della motivazione della sentenza.

Il ragionamento probatorio di cui sopra compete al giudice di merito, mentre a quello di legittimità spetta il sindacato sul rispetto da parte del primo dei parametri di valutazione della prova indiziaria e la verifica della motivazione che deve essere logica, esauriente e coerente.

La Suprema Corte non può rivalutare l’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, ma alla stessa è consentito un limitato accesso agli atti quando il loro contenuto (senza necessità di valutazione, ma per la loro stessa valenza esplicativa) sia idoneo a porre nei nulla le conclusioni ipotizzate dal giudice di merito, incrinando irrimediabilmente la congruità logica della decisione (Sez. 4, n. 48320 del 12/11/09, Durante, Rv. 245880).

Egualmente non può ritenersi inattaccabile una sentenza assolutoria confermativa di analoga decisione, nei cui confronti può sempre proporsi ricorso per Cassazione, perché il giudice dell’appello non può sottrarsi all’obbligo di esprimere con correttezza, logicità e coerenza l’iter di valutazione della prova e le sue determinazioni in materia di acquisizione e valutazioni probatorie a fronte degli appelli delle parti civili e del P.M.

E al proposito la sentenza cita le Sez. Unite ( n. 33748 del 12/7/05) in ipotesi di condanna in secondo grado di imputato assolto in primo grado (ma valutata non limitata al solo caso specifico) che pone l’accento sul pacifico effetto pienamente devolutivo dell’appello dell’organo dell’accusa, sulla legittimazione del giudice di appello a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza che non siano stati oggetto di specifica critica, sulla possibilità per l’imputato di riproporre, una volta rimesso nella fase iniziale del giudizio, anche le istanze respinte in tema di ricostruzione del fatto e la sussistenza del reato (pag. 80 sent. di rinvio).

La seconda premessa metodologica concerne le acquisizioni probatorie.

La mancata assunzione di prove decisive può costituire motivo di ricorso, solo se le prove siano sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado (art. 603 c. 2 c.p.p.); negli altri casi (art. 603 c.1 e c.3 c.p.p.) la decisione del giudice di appello è censurabile solo per i mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione e che la prova negata sia tale da poter portare ad una diversa conclusione del processo.

E ancora: l’accertamento peritale, secondo la giurisprudenza (citata) non è qualificabile come prova decisiva.

Nel giudizio abbreviato, potendo il giudice di primo grado assumere anche di ufficio elementi necessari ai fini della decisione, al giudice di appello sono consentiti poteri di iniziativa probatoria (così da supplire all’eventuale inerzia delle parti, rendere possibile l’accertamento dei fatti, disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari a tale fine), mentre le parti possono solo sollecitare detti poteri suppletivi a lui spettanti, il cui esercizio è regolato dal rigido criterio dell’assoluta necessità (pag. 82 sent. di rinvio).

Non integra vizio deducibile mediante ricorso per Cassazione il mancato esercizio del sollecitato potere officioso del giudice di appello; il giudice deve adeguatamente motivare la necessità di assumere prove sopravvenute (che fanno venire meno la presunzione di completezza del materiale probatorio); proprio quest’ultima infatti rende più probabile che la sentenza sia equa e il giudizio aderente ai fatti (Sez. Unite n.41281del 17/10/06, Rv. 234907).

A fronte della sollecitazione del P.M. all’attivazione dei poteri officiosi “l’interesse dell’imputato ad essere giudicato sulla base di materiale probatorio non completo e a bloccare ogni integrazione di detto materiale in senso a lui sfavorevole…non può che soccombere rispetto all’interesse dello Stato alla ricerca della verità, interesse quest’ultimo in base al quale lo Stato può ben rinunciare a quello della rapida definizione del processo, base dello scambio intervenuto in conseguenza della richiesta dell’imputato di essere giudicato con rito alternativo” (Sez.1,n. 35846 del 23/5/12).

All’esito di tali premesse metodologiche, la Suprema Corte ha ritenuto fondate le censure mosse dai ricorrenti alla sentenza di appello riguardanti:

– l’analisi critica degli indizi;

– il procedimento logico mediante il quale la Corte di merito ha formato il suo convincimento di conferma della sentenza di primo grado;

– la completezza degli elementi utilizzatiper pervenire alla decisione finale.

In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto censurabile il metodo di apprezzamento dei materiale probatorio da parte della Corte di Assise di Appello, che si è astenuta da una valutazione unitaria e complessiva degli indizi e ha svalutato anche i due indizi principali (impronta di Stasi sul dispenser e presenza del DNA di Chiara sui pedali della bicicletta) ritenendoli non certi, né gravi, così da pervenire ad una sentenza in cui il percorso argomentativo seguito risulta “fondato su presupposti erronei e sviluppato secondo cadenze non coerenti con i parametri valutativi della prova indiziaria” (pag. 85 sent. di rinvio).

Gli elementi fattuali indicati dal P.G. e dalle P.C.: le modalità di ingresso non violento dell’aggressore, dopo la disattivazione dell’allarme da parte della vittima, l’abbigliamento di quest’ultima, la mancanza di tracce di violenza sessuale, la mancata sottrazione di oggetti, la necessaria conoscenza da parte dell’autore dell’omicidio della particolare ubicazione della scala della cantina dove il corpo è stato rinvenuto, tutti indicativi di un rapporto di conoscenza con la vittima e con i luoghi.

La Corte ha ritenuto congetturali questi dati fattuali ed anche la deduzione tratta dal P.M. La lettura atomistica dell’indizio, valutato isolatamente, si coglie nella pretesa, nel passaggio dal dato fattuale certo, accertato, al fatto ignoto da provare, di operare la verifica, in termini di certezza probatoria o di alta credibilità razionale, della unicità dell’ipotesi prospettata, tale da escludere ogni spiegazione alternativa, pur astratta e remota, e non invece la soluzione ragionevole alla luce dei criteri di verosimiglianza e di regole di esperienza.

Di fronte ai dati fattuali indicati dal P.M. la Corte non ha neppure opposto ragionevoli ipotesi alternative in qualche modo collegate con le emergenze processuali.

La Corte di secondo grado ha poi escluso, in quanto ritenuti disancorati dai fatti, e quindi lasciato senza risposta, gli altri elementi indicati dal P.M. e riproposti dal P.G., come l’efferatezza dell’azione, l’emotività esasperata dell’autore del fatto, l’introduzione nell’abitazione dello strumento usato per l’aggressione, gli accertati rapporti critici anche sul piano sessuale tra la vittima e Stasi, anche alla luce delle sue deviazioni pedopornografiche (accertate e documentate dai files recuperati sul suo computer).

Ha altresì omesso di considerare l’assenza di alibi di Stasi tra le 9.12 (disinserimento dell’allarme) e le 9.35 (apertura del pc), in correlazione con la ritenuta compatibilità (in entrambi i gradi di giudizio) di questo lasso temporale con l’azione omicida.

Detta omissione costituisce, secondo la Suprema Corte, una ulteriore conferma della violazione delle regole di valutazione della prova indiziaria, e la illogicità della motivazione, che ha omesso di considerare in termini di consistenza logica la concordanza degli indizi.

Anche con riguardo all’indizio rappresentato dalla assenza di tracce ematiche e del DNA della vittima sulla suola delle scarpe di Stasi e dall’assenza di sue impronte nelle macchie di sangue sul pavimento, nonché dalla possibilità di Stasi di toccare, lambendola, la macchia di sangue davanti alla porta della cantina e di evitare le altre tracce di sangue davanti alla stessa porta, la Corte di merito ha commesso lo stesso errore di sopravvalutazione della prova scientifica; ha così ricercato (anche in relazione a tale indizio) l’elevata probabilità logica e l’irrilevanza di spiegazioni alternative, senza fornire una coerente risposta alle censure e alle osservazioni delle parti.

La sequenza del ragionamento induttivo per la ricerca della prova indiziaria dettato dall’art. 192 comma 2 c.p.p. non deve essere articolata su indizi singolarmente necessari che, in quanto relativi a segmentazioni della vicenda omicidiaria, non possono avere un significato univoco. Attengono ad elementi conoscitivi non trascurabili anche le censure relative al racconto di Stasi circa l’asserita scoperta del corpo di Chiara intorno alle 13.50 del 13 agosto e alla preordinazione di una messinscena con la simulazione di un incidente domestico.

Se la Cassazione non può rivalutare gli apprezzamenti fatti in sede di merito, è tuttavia sindacabile la logicità degli argomenti con cui è stata esclusa la rilevanza di specifiche circostanze dedotte come incidenti nella ricostruzione della vicenda.

L’avere sottovalutato le incongruenze del racconto di Stasi e le sue omissioni narrative relativamente al giorno del fatto, a fronte di acquisiti elementi fattuali relativi ad accertati intervalli e cadenze temporali quanto alle telefonate e ai sistema di allarme, l’avere sottovalutato ricostruzioni contraddittorie e non lineari, il non avere esplicitato le ragioni della ritenuta credibilità del dichiarante, non appare ragionevolmente coerente con l’oggetto proprio del giudizio di appello e con la valutazione corretta della prova in una situazione connotata dall’essere stato lo stesso imputato a mettere a disposizione la gran parte del materiale utilizzato a fini di prova (scarpe, pc, auto, bicicletta).

In sentenza manca poi ogni riferimento alla relazione dei 16/8/07 dei carabinieri Serra e Muscatelli, in cui veniva dato atto che, nell’immediatezza delle indagini, proprio sulla base delle dichiarazioni di Stasi, si era supposto che la vittima si fosse sentita male o avesse avuto un incidente domestico.

Al proposito la Corte aveva omesso la valutazione probatoria dell’atto processuale e la verifica della verosimiglianza dei comportamento tenuto da Stasi in relazione al contenuto dell’atto stesso.

Sia P.C. che Difesa concordavano nel ritenere certo che l’omicida avesse utilizzato nei frangente una bicicletta nera da donna: la Corte ha tuttavia omesso di valutare gli ulteriori dati fattuali indicati dalle P.C, cioè la disponibilità di una bicicletta di questo tipo da parte della famiglia Stasi e l’omessa menzione di tale circostanza da parte di Stasi. Trattasi di dati che incidono direttamente sulla valenza dell’elemento indiziario, per effetto di illogicità argomentative che hanno portato la Corte ad attribuire attendibilità alla testimonianza dei M.llo Marchetto, contenente un inequivoco giudizio sulla non corrispondenza della bici direttamente visionata con quella descritta dalla teste Bermani, alla quale la bicicletta non era stata fatta visionare nemmeno in foto.

Le stesse illogicità argomentative hanno altresì inciso sulla ricostruzione del dato negativo, dotato di positività potenziale come indizio, della omessa menzione della bicicletta da parte di Stasi, valorizzandosi contraddittoriamente il dato irrilevante dell’omesso avvio di indagini, l’asserita circostanza del macchinoso scenario da ipotizzare per l’utilizzo della bicicletta, l’ubicazione della stessa il 14 agosto, per dedurne la medesima collocazione il giorno precedente, le dichiarazioni del padre di Stasi, e i rilievi congetturali espressi sulle dichiarazioni della madre.

Quanto alla presenza di impronte digitali di Stasi e del DNA di Chiara sul dispenser del sapone sui lavandino del bagno, anche in questo caso la Corte (così come aveva fatto il Gup), nel considerarlo un indizio non grave né preciso, ha adottato un approccio non coerente ai principi della prova indiziaria e un non corretto percorso metodologico nella lettura dei dati probatori. Ancora una volta ha cioè utilizzato un metodo costantemente volto a considerare isolatamente gli elementi acquisiti, avulsi dai loro contesto, con la pretesa di una specifica autosufficienza ed esaustività probatoria, invece che valutarli nel loro insieme e nella loro possibile confluenza in una ricostruzione unitaria e preclusiva di ricostruzioni alternative invalidanti, previa verifica della loro tenuta in termini di coerenza logico-indiziaria.

Secondo la Cassazione tale modo di procedere non risponde ai rigorosi parametri normativi dettati dall’art. 192, comma 2, c.p.p., né ai basilari canoni della logica, e non consente di pervenire ad un risultato (assoluzione o condanna) contrassegnato da coerenza, credibilità, ragionevolezza.

“Il diverso approccio che deve connotare il procedimento inferenziale da compiersi impone, invece, una rilettura e rivisitazione – da compiersi nella competente sede del merito – di tutte le evidenze disponibili, del materiale indiziario acquisito e degli elementi potenzialmente indizianti, senza salti logici e vuoti argomentativi, sottoponendo ad analisi valutativa critica le “prove” fornite dalla parte interessata o formate con il suo concorso, sfruttando le capacità dimostrative degli indizi significativi e scartando i dati non rilevanti, utilizzando i dati offerti dalla prova scientifica e verificandone dialetticamente la specifica applicabilità in rapporto alle circostanze concrete e la coerenza con le ulteriori emergenze processuali, controllando la sussistenza di spiegazioni alternative ed escludendo quelle incoerenti con i limiti della verosimiglianza e della razionalità, in una articolata e non superficiale lettura organica complessiva, che tragga, entrando nel merito, l’intero significato probatorio, ove sussistente, dai dati acquisiti.” (pag. 94 sent. di rinvio).

Nell’ottica di un corretto percorso metodologico, secondo la Cassazione, deve anche essere rivalutata “la fondatezza delle richieste istruttorie avanzate, che, in un processo, svolto per scelta dell’imputato secondo il rito abbreviato c.d. secco senza integrazioni probatorie”, traggono la loro ammissibilità dagli stessi approfondimenti istruttori fatti d’ufficio in primo grado “quale espressione di un potere sollecitatorio delle parti processuali in vista della finalità di accertamento connaturata allo scopo del processo penale, dagli stessi approfondimenti probatori svolti, e dalla ratio che ne ha sostenuto l’ammissione, e trarre ragioni di apprezzamento dalla loro necessità e incidenza sulla decisione della loro conferenza rispetto ai thema probandum e dal loro concorso nella qualificazione dell’elemento indiziario e nella formazione della prova indiziaria, ferma restando la possibilità di ulteriormente integrare il compendio probatorio ai sensi dell’art. 627, comma 2, c.p.p. “ (pag. 94).

Le P.C. e il P.G. avevano richiesto alla Corte una integrazione probatoria per una adeguata verifica del percorso asseritamente effettuato da Stasi all’interno dell’abitazione in occasione della scoperta del corpo di Chiara, e una verifica della possibilità che lo stesso Stasi, nell’effettuazione di questo percorso e nella discesa e risalita della scala della cantina, di evitare la macro traccia di sangue ubicata in prossimità della porta di accesso alla cantina.

Detta richiesta è stata rigettata in quanto ritenuta non assolutamente necessaria alla luce della impossibilità di ricostruire in modo affidabile la situazione ematica dei gradini e altre circostanze di incerta determinazione.

La fondatezza delle censure dei ricorrenti in ordine a tale decisione emerge in primo luogo dal contenuto della sperimentazione semi-virtuale affidata dal giudice di primo grado ai perito, volta alla verifica del percorso indicato da Stasi nelle sue dichiarazioni, come effettuato al momento dal ritrovamento del corpo e alla verifica della assumenda posizione da una persona con le caratteristiche antropometriche di Stasi davanti alla porta della cantina senza calpestare le macchie di sangue lì presenti.

La mancata estensione della sperimentazione ai “circa due gradini” indicati da Stasi nelle sue dichiarazioni del 17 agosto come da lui discesi e risaliti ai fine di vedere il corpo di Chiara, rende manifestamente illogica la motivazione che ha giustificato la scelta riduttiva dei periti rispetto all’indagine demandata e non produttiva di risultati affidabili.

Né ha alcuna coerenza argomentativa l’osservazione (che conferma la valutazione del Gup) dell’assenza “di prove tranquillanti di un sicuro calpestamento con tutta o buona parte della suola”, trattandosi di valutazione che ha lasciato senza riscontro la deduzione del P.M. circa la discesa da parte dì Stasi di due gradini e la postura davanti alla porta della cantina che ne consentisse l’apertura senza l’imbrattamento della suola delle scarpe.

La motivazione risulta altresì incoerente sotto un secondo profilo, in ordine ai contenuto delle argomentazioni poste a sostegno del rigetto. L’osservazione che la macchia di sangue posta presso la suddetta porta potesse essere stata solo lambita da Stasi, e le considerazioni svolte sull’imbrattamento ematico e sui microimbrattamenti non sono correlate alla non verificata attività di discesa e di risalita dei due gradini; la difficoltà di sperimentazione con set completo è stata anch’essa solo recepita dai rilievi tecnici e ritenuta genericamente comprensibile; e la realizzazione della mappatura ematica dei gradini, indicata come impossibile e inaffidabile, è circostanza diversa dalla verifica della evitabilità della macchia posta in prossimità della porta della cantina.

La riconosciuta fondatezza dei vizio di motivazione di cui sopra comporta l’assorbimento delle censure dei ricorrenti per l’accertata violazione degli artt. 190 e 495 c.p.p. riferite al mancato svolgimento dell’esperimento giudiziale con le modalità e alle condizioni inizialmente previste, e alla mancata ammissione della controprova (richiesta dalle PC e dal PM) a seguito dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio col medesimo esperimento giudiziale.

Il P.G. ha anche censurato la decisione della Corte di ritenere non necessaria l’estensione della perizia collegiale alla mappatura ematica dei gradini e al procedimento di essiccamento delle macchie ematiche. Le censure attengono in particolare alla mancata utilizzazione nell’accertamento peritale delle fotografie del medico legale, valorizzagli ai fini della mappatura ematica dei gradini, alla utilizzazione a tale fine delle foto dei CC, sfalsate nell’orario perché impostate sull’ora solare.

La Cassazione ha ritenuto la motivazione dei rigetto incongrua e contraddittoria. La sottolineatura effettuata in sentenza del carattere della scientificità che deve accompagnare l’indagine sullo stato di essiccamento delle macchie svuota illogicamente di significato elementi di conoscenza oggetto del dibattito giudiziario, riferiti ad aspetti ricostruttivi ritenuti non irrilevanti nel disporre indagini tecniche.

Il ragionamento probatorio deve essere condotto non solo su dati scientifici, ma anche su evidenze empiriche, prove rappresentative, prove atipiche (pag. 98 sent. di rinvio).

Le Parti civili hanno anche censurato il rigetto della richiesta di acquisizione della bicicletta nera nella disponibilità della famiglia Stasi e oggetto delle testimonianze relative alla prima parte della mattina del 13 agosto.

La Corte, pur avendo ritenuto la circostanza di potenziale rilevanza per delineare una non remota ipotesi alternativa a quella oggetto di imputazione, ha ritenuto non assolutamente necessaria ai fini del decidere l’acquisizione richiesta. Gli argomenti sottesi a tale valutazione risultano non ragionevoli e non adeguati, laddove escludono la rilevanza della richiesta in rapporto al materiale probatorio acquisito, che invece ne conferma la pertinenza.

Anche la motivazione con cui è stata rigettata la richiesta delle Parti civili di procedere ad accertamenti sui capello rinvenuto in sede di esame autoptico nella mano sinistra della vittima è stata ritenuta censurabile.

La Cassazione ha infatti ancora una volta evidenziato, anche al proposito, il non corretto approccio metodologico alla prova indiziaria: i giudici di appello, insistendo nella ricerca dell’indizio necessario, hanno illogicamente ritenuto di prescindere dai completamento di una verifica tecnica già svolta, privando l’elemento fattuale acquisito di ogni rilevanza potenzialmente dimostrativa nel contesto giustificativo della decisione.

Egualmente, l’esclusione della necessità di una integrazione tecnica delle verifiche svolte sui margini ungueali della vittima non si sottraeva, secondo la Cassazione, al sindacato di legittimità. I giudici di merito infatti da una parte non hanno escluso la limitatezza rispetto ai materiale reperito dell’indagine svolta, dall’altra hanno rigettato l’istanza delle Parti civili sul presupposto della pregressa condivisione della procedura utilizzata dai Ris (e dell’omessa indicazione dei sopraggiunti motivi di non condivisione), senza indicare le ragioni a suo tempo ritenute giustificative delle decisioni adottate. Ma, soprattutto, in coerenza con le valutazioni demandate ai giudice di merito in ordine ai valore dimostrativo determinante dell’oggetto della richiesta, dei motivi di non necessità di accedere alla suddetta verifica (sottratta ai potere dispositivo delle parti).

Conclusivamente pertanto, alla luce di tali considerazioni il compito della Corte di rinvio viene indicato nella applicazione, seguendo un corretto e compiuto percorso metodologico, dei criteri di valutazione della prova indiziaria, e nello svolgimento di una nuova verifica delle richieste istruttorie, attraverso l’assunzione di eventuali ulteriori prove ritenute rilevanti per la decisione.

Compito da svolgersi “in piena autonomia di apprezzamento, ma con motivazione completa e immune da vizi logici e giuridici, comprensiva dell’analisi valutativa di ogni elemento conoscitivo acquisito ai processo che sia collegato ai punti considerati e, comunque, correlato e/o conseguente alla loro verifica e valutazione probatoria, e della verifica della resistenza del risultato probatorio a spiegazioni diverse e a ipotesi ricostruttive alternative” (pag. 100 sent. di rinvio).

2- Osservazioni preliminari di carattere generale

Prima di entrare nel merito della presente vicenda è opportuno svolgere alcune considerazioni di carattere generale, che partono necessariamente dall‘iter processuale della stessa:

– Alberto Stasi ha scelto di essere giudicato con le forme del rito abbreviato “incondizionato” in sede di udienza preliminare, dopo che il Pubblico Ministero aveva esposto i risultati delle indagini e gli elementi di prova raccolti e formulato la richiesta di rinvio a giudizio;

– il giudice di primo grado, all’esito della discussione finale, disponeva un’ampia integrazione probatoria ex art. 441 c. 5 c.p.p. (sopralluogo, audizione di testi, perizie di notevole complessità) fondata, da un lato, sulle “plurime e significative criticità del quadro istruttorio” portato davanti a lui e, dall’altro, sull’”articolata attività difensiva di natura (anche) tecnica che si è espletata fino in seno all’udienza preliminare introducendo anche argomenti nuovi” (pag. 2 sent. di primo grado);

– sia il giudizio di primo grado che quello di appello si concludevano con una sentenza assolutoria.

La Corte di Cassazione, nella sentenza di annullamento sopra riportata, ha censurato la decisione dei giudici di merito con specifico riferimento alla valutazione degli indizi e, a seguire, alla mancata rivalutazione delle richieste di integrazione istruttoria sollecitate dall’accusa pubblica e da quella privata.

in sostanza quindi a questo giudice del rinvio è stato richiesto:

di valutare correttamente la prova indiziaria, secondo i rigorosi parametri normativi dettati dall’art. 192, comma 2, c.p.p. e ai basilari canoni della logica (pag. 94 sent. di rinvio);

di svolgere una nuova verifica delle richieste di sollecitazione istruttoria, ammissibili in un processo (abbreviato “secco”) caratterizzato dall’avvertita esigenza di procedere ad approfondimenti istruttori;

di assumere eventuali ulteriori prove “ritenute rilevanti per la decisione”.

La formulazione di dette richieste, che costituiscono imprescindibile oggetto dei compito imposto a questa Corte, ha come presupposto l’avere la Cassazione svolto una serie di considerazioni che forniscono nel contempo precise e puntuali risposte alle censure mosse, anche in questa sede, dalla Difesa dell’imputato. Si tratta, in particolare, delle censure alle richieste di integrazione probatoria (sia quelle già individuate dalla Cassazione, che altre successivamente emerse, collegate ai temi dei quali veniva richiesto l’approfondimento) definite “anomale in un giudizio abbreviato e incondizionato per lo più di rinvio”.

Al proposito questa Corte non può che rimandare alle motivazioni della sentenza di annullamento, che ha espressamente affrontato lo specifico tema (punto 4.2 della sent.).

Il diritto dell’imputato di optare per un giudizio “allo stato degli atti”, insindacabile da parte dell’accusa pubblica, se garantisce infatti, in caso di condanna, la riduzione di un terzo della pena, non può invece garantire che soggetti diversi (P.M. e parte civile) e lo stesso giudice abdichino totalmente a tale scelta, anche qualora le indagini che hanno condotto ai rinvio a giudizio si rivelino insufficienti o incomplete, così da non consentire di pervenire alla “verità”, che costituisce fine primario e ineludibile del processo penale (Cassaz. Sez. I, sent. del 23/5/12, citata nella sentenza di rinvio a pag. 83, con richiami alla sent. 111/93 della Corte Costituzionale)

3- Le richieste di rinnovazione istruttoria

Il primo problema affrontato da questa Corte è stato quindi quello delle richieste istruttorie, alle quali sono state dedicate le udienze del 9 e del 16 aprile.

In tali udienze il Procuratore Generale ha insistito per l’accoglimento dell’istanza, già avanzata nel proprio atto di impugnazione, volta ad estendere la perizia collegiale sul percorso che Stasi sosteneva di avere effettuato all’interno dell’abitazione dei Poggi anche ai primi due gradini della scala discendente verso la cantina, dove si trovava il corpo di Chiara; indagine da effettuarsi anche sotto il profilo dello stato di essiccamento delle macchie di sangue presenti sul pavimento e avuto altresì riguardo alla possibilità di generare tracce di calzature visibili e latenti per deposito di sangue.

Chiedeva poi di acquisire ex art. 603 comma 2 c.p.p. gli atti relativi al procedimento penale nei confronti dei maresciallo Marchetto, all’epoca dei fatti comandante della Stazione dei CC di Garlasco, per falsa testimonianza in relazione alla bicicletta nera da donna che la teste Germani aveva visto la mattina del 13 agosto davanti a casa Poggi e alle successive indagini.

Ulteriori richieste dell’organo dell’accusa riguardavano l’acquisizione della sentenza della Cassazione che aveva annullato senza rinvio quella della Corte di Appello di Milano del 14/3/13 nei confronti di Alberto Stasi per il reato di detenzione di materiale pedopornografico e di quella non definitiva emessa il 22/3/13 dal Gup di Vigevano nei confronti del Marchetto di condanna per favoreggiamento della prostituzione e per utilizzo a fini privati di strumentazione GPS. in quanto assolutamente necessario, veniva da ultimo richiesto un supplemento della già disposta perizia informatica, da estendersi a tutto il materiale in sequestro (pc, supporti informatici fissi e amovibili, pendrive) appartenente anche a Chiara Poggi, allo scopo di chiarire i rapporti tra i due e tra ciascuno di loro e terzi soggetti, così da poter meglio ricostruire gli eventi in prossimità del delitto.

Anche i Difensori delle parti civili insistevano sulla necessità del supplemento di perizia sul percorso di Stasi, ponendo l’accento, in particolare, sulla probabilità da parte del medesimo di evitare la grande macchia di sangue che si trovava davanti alla porta delle scale verso la cantina. Chiedevano poi di sequestrare la bicicletta nera da donna nella disponibilità della famiglia Stasi e di sentire, sempre sui tema bicicletta e sull’operato del mar. Marchetto, l’appuntato scelto Muscatelli e il brigadiere Pennini, e di acquisire gli atti dei procedimento a carico di Marchetto per falsa testimonianza.

Chiedevano da ultimo l’effettuazione di accertamenti genetici sui reperto “capello” rinvenuto nella mano sinistra di Chiara e approfondimenti sui margini ungueali della vittima.

I Difensori dell’imputato si opponevano a tutte le predette richieste sostenendo la assoluta non necessità dell’estensione della prima perizia sulla base di plurimi elementi logici e scientifici idonei ad escludere che Stasi avesse mentito sul percorso effettuato; evidenziavano la natura in ogni caso non decisiva del predetto mezzo di prova, strumento “neutro” e di carattere comunque scientifico, sottolineando come la stessa Cassazione, in più passaggi della sentenza di rinvio, avesse criticato la sopravvalutazione della prova scientifica.

L’estensione della perizia si presentava altresì, secondo tali Difensori, inutile sotto l’ulteriore profilo dello stato di essiccazione delle macchie ematiche sui gradini, considerato che le prove sperimentali già svolte avevano dimostrato che il tempo necessario all’essiccazione era ampiamente trascorso, e che le suole delle scarpe indossate da Stasi potevano non avere lasciato tracce così come era accaduto per quelle calzate dai militari che dopo di lui avevano effettuato quel percorso. Anche gli accertamenti genetici richiesti dalle parti civili dovevano essere respinti sulla base dei risultati di quelli già svolti nel contraddittorio di tutte le parti, che in quella sede non avevano dato adito a contestazioni.

Si opponevano egualmente all’acquisizione degli atti relativi al procedimento a carico del Marchetto e all’acquisizione della bicicletta nera in quanto non rilevanti, sul presupposto che tutte le questioni relative a tale bicicletta erano già state oggetto di verifica (e la Difesa allegava sul punto, in particolare, le dichiarazioni rese dalla teste Travain davanti al Gup).

Anche le ulteriori richieste di nuove perizie su computer, supporti informatici ecc. in uso sia all’imputato che alla persona offesa erano generiche ed esplorative, quindi da disattendere, anche alla luce della sentenza della Cassazione che aveva annullato senza rinvio la condanna di Stasi per il reato di cui all’art. 600 quater c.p. I Difensori dell’imputato avanzavano poi autonome richieste istruttorie:

– l’acquisizione delle immagini satellitari del Comune di Garlasco relative alla mattina del 13 agosto, almeno in orario compreso tra le 8.30 e le 10.30;

– le dichiarazioni rese da Daniele Merlino, dipendente della ditta di autoricambi di Nicola Stasi, già sentito ex art. 391 bis c.p., sulla collocazione della bicicletta nera e sull’accesso ai locali della ditta.

Tutte le parti interloquivano infine sulle reciproche richieste e la Corte pronunciava, il successivo 30/4, la seguente ordinanza:

“Sulle richieste di riapertura del dibattimento avanzate dal Procuratore Generale, dalle Parti Civili e dalla Difesa dell’imputato; alla luce della sentenza di rinvio della Corte di Cassazione che impone una rivalutazione delle richieste istruttorie già avanzate dal P.G. e dalle Parti Civili di cui ha indicato (a necessità,

l’incidenza e la conferenza rispetto al thema probandum dispone procedersi:

– all’estensione della sperimentazione virtuale a tutto il percorso indicato da Albero Stasi come da lui effettuato, comprensivo della discesa e risalita dei primi due gradini della scala che conduce alla cantina, tenuto conto della macchiatura ematica presente sul pavimento e della postura assunta dallo stesso per l’apertura della porta e del processo di essiccamento delle macchie stesse;

– ad accertamenti genetici sul “reperto capello” rinvenuto nella mano sinistra della vittima, nonché sui margini ungueali della stessa, da effettuarsi tenuto conto delle più avanzate tecniche adottabili;

– all’acquisizione della bicicletta nera da donna in uso alla famiglia Stasi;

Riserva all’esito di tale atto la decisione sull’audizione delle testi Bermani e Travain.

In relazione alle ulteriori richieste delle parti, osserva:

– quanto ai documenti di cui P. G. e Parti Civili hanno chiesto l’acquisizione, dispone vengano acquisiti l’esposto delle Parti Civili nei confronti dei Maresciallo Marchetto e la richiesta di archiviazione avanzata nell’ambito di tale procedimento penale da parte del P.M., in quanto direttamente afferenti agli accertamenti svolti nell’immediatezza sulla bicicletta di cui sopra;

– quanto alle dichiarazioni rese da Daniele Merlino di cui la Difesa ha chiesto l’acquisizione, ne dispone l’acquisizione, riservandosi sull’audizione dei predetto;

rigetta le ulteriori istanze:

– le audizioni del Brigadiere Pennini e dell’Appuntato Muscatelli in quanto non necessarie, in considerazione degli elementi di prova già in atti;

– l’acquisizione degli ulteriori atti di procedimenti penali a carico dei Maresciallo Marchetto, in quanto non attinenti ai thema probandum;

– gli approfondimenti scientifici sulla bicicletta nera in considerazione del tempo trascorso e della impossibilità di conoscere le modalità di conservazione della medesima;

– la perizia informatica richiesta dai P.G. considerata la natura esplorativa della stessa, fermo restando che le parti hanno sempre e comunque la facoltà di esaminare il materiale in sequestro, ai fine di ricercare altri elementi utili;

– l’acquisizione delle immagini satellitari del Comune di Garlasco perché richiesta anch’essa generica ed esplorativa, fatta salva la facoltà delle parti di ricercare altre fonti di prova da sottoporre alla Corte.

………………………………………………………………………………………………………………..

Dispone il sequestro della bicicletta nera da donna in uso alla famiglia Stasi e delega per l’esecuzione di tale sequestro il Comandante della Compagnia dei CC di Vigevano che, in caso di mancata spontanea consegna, provvederà alla perquisizione dei locali in uso all’imputato. Detto bene dovrà essere posto a disposizione della Corte mediante deposito in Cancelleria. “

4- Le nuove perizie

All’udienza del 9 maggio venivano formulati i quesiti ai Periti nominati, quesiti la cui formulazione aveva tenuto conto delle ulteriori osservazioni depositate medio tempore da tutte le parti.

In particolare, al Collegio peritale incaricato del supplemento di perizia sul percorso fatto dall’imputato veniva posto il seguente quesito:

Procedano i Periti alla ricostruzione del luogo teatro dei fatti utilizzando le moderne tecniche geomatiche, estendendole ai primi gradini della scala che conduce alfa cantina e posizionandovi le tracce di sangue presenti sul pavimento.

Utilizzino a tale scopo tutte le immagini della scena del reato presenti in atti e gli accertamenti in precedenza eseguiti dai consulenti del PM, dai consulenti di parte e dai periti del GUP.

Tale ricostruzione andrà eseguita, per quanto tecnicamente possibile, eliminando le tracce di sangue con certezza riferibili ad una contaminazione della scena successiva all’evento delittuoso e considerando / diversi orari di ripresa delle fotografie utilizzate per la ricostruzione della posizione di dette tracce.

Dicano se tale estensione della ricostruzione modifichi il giudizio probabilistico indicato nelle precedenti consulenze e perizie sulla possibilità per un soggetto che si muove all’interno della stanza come ha descritto Alberto Stasi di intercettare nei suo tragitto le macchie di sangue presenti sul pavimento secondo una metodologia numerica scientificamente validata.

Descrivano poi come tale giudizio possa essere modificato da quei meccanismi di evitamento implicito delle tracce cui si fa esplicito riferimento nella perizia del giudizio di primo grado,

Descrivano i periti i possibili effetti dai punto di vista fisico e della possibilità di trasferire e ritenere tracce biologiche dell’interazione delle suole dì scarpe del tipo di quelle consegnate da Alberto Stasi con le tracce ematiche presenti sul pavimento dell’abitazione Poggi, con riferimento alla dimensione delle tracce ed al tempo trascorso tra il delitto e il calpestio.

Dicano inoltre quale sia, sempre in relazione alla dimensione delle macchie e al tempo trascorso dall’omicidio, la possibilità che le suole in questione, dopo aver calpestato tracce ematiche possano determinare impronte visibili e latenti e, per contro, determinino modificazioni delle macchie.

Tali valutazioni dovranno essere proposte considerando i tempi di essiccamento del sangue indicati nelle precedenti consulenze e perizie e, per quanto possibile, i parametri fisici meteorologici (temperatura e umidità) presenti in concreto nell’ambiente al momento del delitto.”

Quanto alla perizia genetica, il quesito veniva così formulato:

“Svolga il Perito tutti ad accertamenti genetici sul “reperto capello” rinvenuto nella mano sinistra della vittima, nonché, sui margini ungueali della Stessa tenuto conto delle più avanzate tecniche adottabili, allo scopo di individuare, se possibile, la natura e la riferibilità di tati reperti.

Tenga conto il Perito delle osservazioni svolte dalla Difesa di Alberto Stasi sulla identificazione e corrispondenza dei reperti con quelli all’epoca prelevati (anche avvalendosi delle fotografie in atti) e sulla verifica della catena di custodia dei medesimi.

Il dibattimento veniva pertanto rinviato, allo scopo di consentire ai Periti l’espletamento dell’incarico, all’udienza dell’8 ottobre successivo.

Sempre all’udienza del 9 maggio la Corte provvedeva altresì a visionare la bicicletta nera che, dal verbale redatto in data 30/4/14 da parte dei comandante la Stazione CC di Vigevano risultava trovarsi in Garlasco, via Carducci 29, presso l’abitazione della madre dell’imputato.

Il velocipede in tale atto veniva descritto come “una bicicletta da donna, di colore nero, marca “Holland”, in buono stato d’uso, avente un cestino di vimini di colore nero nella parte anteriore, mentre nella parte posteriore è munita di un portapacchi metallico di colore nero. Vi sono fanali sia nella parte anteriore che posteriore, nonché un catarifrangente di colore rosso alla fine dei portapacchi metallico sopra citato. Vi è una sella di colore nero, priva di molle, con la scritta in colore chiaro “iscasella” nella parte posteriore, mentre nella parte laterale vi era la scritta Shoch Flex system, sempre in colore chiaro, appena sotto la sella vi è un anello in metallo con inciso la scritta “brevetto ursuss”. La bicicletta presenta numerosi adesivi con scritte in oro e argento e precisamente: scritta Luxury sul tubolare diagonale inferiore, la scritta Holland sui copriraggi posteriori che risultano in plastica e di colore nero con ornamenti in oro; nel tubolare verticale in cui si innesca la sella ed il tubolare verticale in cui è fissato il manubrio vi è riportato un adesivo raffigurante un volatile e la scritta “Italy”; sul manubrio iato sinistro, stando seduti, vi è un vistoso campanello in colore metallico; nella parte destra, sempre stando seduti, vi è il copricatena in materiale plastico, con la scritta Luxury”.

La Corte, nel concordare con tale descrizione, aveva in effetti modo di verificare le buone condizioni di conservazione di tale bicicletta.

Della stessa, che la madre dell’imputato aveva spontaneamente consegnato ai verbalizzanti precisando nei frangente che non aveva subito nel tempo alcuna modifica, veniva quindi disposta la conservazione in Cancelleria, insieme a tutto il materiale probatorio a disposizione delle parti (anche per consentirne la successiva visione).

Va poi rilevato che la Difesa delle parti civili, il 18/6, depositava in Cancelleria una memoria avente ad oggetto proprio la bicicletta acquisita agli atti, e specificamente i pedali alla medesima apposti.

Questi ultimi avevano in particolare costituito oggetto di approfondimenti tecnici da parte di tale Difesa, in considerazione della loro marca “Union – U20”, ritenuta “dissonante” rispetto alle altre componenti del velocipede.

Il Difensore di parte civile aveva infatti verificato che tale tipologia di pedale era quella normalmente montata sulle biciclette Umberto Dei modello Giubileo da uomo, come quella già sequestrata ad Alberto Stasi, sui cui pedali era rinvenuto DNA di Chiara Poggi.

Lo stesso Difensore chiedeva informazioni alla Atala Spa, società detentrice del marchio Umberto Dei che, attraverso il proprio amministratore delegato Ing. Panzeri, confermava la suddetta circostanza, precisando che tale tipologia di pedali di fabbricazione tedesca (denominati Sport Union 687) era quella che sempre veniva montata su quel modello di bicicletta.

I pedali montati sulla Umberto Dei, già oggetto dell’accertamento peritale che nel giudizio di primo grado aveva portato a fare emergere la presenza del DNA della vittima, erano invece di altra e diversa marca ( “Wellgo”).

Sulla base di tali dati il Difensore ipotizzava quindi uno “scambio” di pedali ad opera dell’imputato che, dopo avere utilizzato la bicicletta nera vista dalla testimone (acquisita agli atti soltanto nel presente procedimento) per recarsi in via Pascoli la mattina del 13 agosto, avrebbe poi smontato i pedali della stessa (evidentemente contaminati, dopo il delitto, dai DNA della vittima) montandoli sulla Umberto Dei, bicicletta da uomo, non corrispondente a quella notata dalla Bermani, che per questo non poteva immaginare sarebbe stata invece sequestrata e oggetto di verifiche.

Chiedeva perciò tale Difensore l’acquisizione della predetta memoria e di quanto ad essa allegato.

5- La rinnovazione istruttoria

Le udienze dell’8 e del 15/10 erano dedicate all’audizione dei periti che, dopo avere illustrato gli elaborati già in precedenza depositati in Cancelleria, rispondevano alle domande loro poste dalla Corte e dalle parti, anche attraverso i rispettivi consulenti, la cui presenza in aula era stata allo scopo autorizzata.

5-1- La perizia genetica

La perizia genetica forense sul “capello” e sui margini ungueali concludeva che:

“a) le analisi condotte sui fusto del capello rinvenuto nella mano sinistra della vittima Chiara Poggi non hanno permesso di evidenziare alcuna sequenza di DNA mitocondriale;

b) parimenti, le analisi condotte sui DNA estratto a suo tempo dai RIS di Parma dal bulbo della stessa formazione pilifera non hanno fornito risultati per il DNA mitocondriale;

c) il DNA estratto dal materiale sub ungueale prelevato nel corso dell’autopsia eseguita sui cadavere di Chiara Poggi ha presentato risultati evidenti per un patrimonio genetico femminile che può essere definito come appartenente alla vittima. La possibilità che altre persone possiedano un identico profilo genetico è, infatti, pari a 1×10 alla nona;

d) nello stesso DNA estratto dal materiale sub ungueale, prelevato in corso di autopsia, è presente DNA maschile (si vedano i risultati per il cromosoma Y). Tuttavia, a causa della degradazione del DNA e della verosimile contaminazione ambientale, non vi è la possibilità di una indicazione positiva di identità, né si può escludere che nel materiale sub ungueale prelevato nei corso dell’autopsia di Chiara Poggi sia presente anche DNA riferibile ad Alberto Stasi”.

Dall’esame del perito emergeva poi:

– che il reperto “capello” era effettivamente tale (ovvero non un pelo animale, come pure ipotizzato in precedenza) (pag.26 delle trascrizioni dell’udienza dell’8/10);

– che non era possibile specificarne il colore (pag. 27);

– che il DNA maschile sui margini ungueali poteva essere stato presente anche prima dell’aggressione, così come raccolto in occasione della stessa (pag.30);

– che i reperti relativi alle unghie erano 9, corrispondenti a tutte le dita della mano destra e a 4 dita della sinistra, senza il 5° dito;

– che per effettuare l’analisi di identificazione dei DNA nucleico era stato fissato quale “valore soglia” il limite di 50 RFU (Relative Fluorescence Units), come garanzia che non si trattasse di un artefatto, e che l’analisi era stata ripetuta due volte (pag. 43);

– che le conclusioni peritali erano riferibili agli elettroferogrammi di cui al CD allegato all’elaborato e non alla tabella di cui alla pag. 18 di quest’ultimo, che presentava errori materiali di trascrizione (pag. 55);

che per ciascun dito erano state effettuate 3 prove senza costanza di risultati (pag. 61 e segg.);

– che i risultati ottenuti, contraddittori, non consentivano di pervenire ad alcuna conclusione certa (pag. 66).

A precisa domanda del Difensore dell’imputato (se avesse trovato il DNA di Alberto Stasi e se avesse trovato DNA che non fossero di Alberto Stasi), il Perito rispondeva, come già nell’elaborato, “che non era possibile fare alcuna considerazione in tema di identità o di esclusione” (pag.71), ribadendo ancora una volta l’incostanza e la mancata replica dei risultati e l’assenza di risultati diversi da quelli scritti nella perizia (..non esiste null’altro che non sia lì dentro, che non sia nei ferogrammi, che non sia nella perizia scritta, che non sia nelle foto…)(pag. 77).

5-2 La perizia sul percorso

Queste le conclusioni della Perizia sul percorso:

– l’estensione della ricostruzione dei luogo teatro dei fatti fino ai primi gradini della scala che conduce alla cantina, eseguita utilizzando le più moderne tecniche geomatiche, seguita dalla determinazione della mappa ematica, previa sua interpretazione critica, ed applicazione di un modello informatico che ha simulato i possibili movimenti dei piedi tra il disimpegno di fronte alla porta a libro e i primi due gradini della scala che porta alla cantina, comporta la determinazione di una possibilità del tutto marginate per l’imputato Alberto Stasi di non intercettare nel tragitto da lui descritto le macchie di sangue presenti sul pavimento (si vedano le tabelle con i calcoli statistici).

– Il giudizio di cui sopra è proposto in termini numerici poiché richiesto dal mandato peritale. Per tale motivo non è possibile determinare in termini scientifici come l’indicata probabilità possa essere modificata da strategie di evitamento messe in essere dall’imputato, certamente possibili ma che a nostro avviso possono essere solo di tipo volontario, e che comunque non sono modellizzabili.

– Le prove di essiccamento sul sangue, del tutto armoniche con i dati ricavati nelle precedenti perizie e consulenze e con quanto emerge in letteratura, indicano che, in termini di elevata probabilità, al momento del presunto ingresso dell’imputato nell’alloggio la quasi totalità delle macchie di sangue presenti sui pavimento erano asciutte, mentre alcune gore ematiche, determinate da una quantità di sangue maggiore di 2-3 cc e non strisciate, potevano essere ancora, almeno in parte, liquide. Si tratta di un giudizio in termini di verosimiglianza ma non meglio definibile tecnicamente stante la mancanza di un parametro oggettivo sul quale valutare il grado di essiccamento di una traccia ematica.

– Gli accertamenti eseguiti nel corso del procedimento di primo grado indicano, in termini generali, come le scarpe Lacoste utilizzate dall’imputato siano dotate di una marcata capacità di adesione e captazione di piccole particelle di sangue. Tale capacità si è confermata nelle sperimentazioni da noi condotte.

In particolare si è evidenziato che dopo avere calpestato delle tracce di sangue, sia umide che secche, le suole delle scarpe hanno captato particelle ematiche tanto da risultare costantemente positive al luminol nelle diverse ripetizioni, ed inoltre sono state in grado di trasferire parte dei materiale ematico ai tappetini d’auto calpestati sperimentalmente.

– Le prove di calpestamento di tracce di sangue secco dimostrano come le scarpe Lacoste determinino una tipica modificazione delle macchie (costituita dalla rottura della parte centrale della macchia) che si verifica su un numero limitato, ma significativo, di tracce calpestate.

I Periti (un medico legale e due ingegneri) spiegavano quindi con quali strumenti e modalità avevano effettuato le misurazioni nella villetta di Garlasco, così da pervenire alla planimetria completa del percorso che l’imputato aveva dichiarato di avere fatto la mattina dei 13 agosto. L’ambiente veniva riprodotto grazie alla fotogrammetria (la stessa tecnica che consente di fare le carte geografiche); la mappatura ematica effettuata in relazione al gradino “0” (quello in granito a livello del piano terreno) e ai gradini 1 e 2, utilizzando, tra le immagini acquisite, quelle realizzate in tempi più vicini all’omicidio e quelle più estese e precise, mentre per il percorso in piano era utilizzata quella del Prof. Boccardo (consulente del P.M. in primo grado) in quanto valutata come quella maggiormente idonea, e frutto di un metodo (uso di strumenti e sistemi propri dello geomatica) corretto e rigoroso.

Veniva quindi verificato che tutte quelle che dalle foto utilizzate risultavano macchie di sangue lo fossero effettivamente e, con un approccio definito dagli stessi Periti altamente “conservativo”, escluse tutte quelle che potessero essere un’alterazione (considerato il materiale, ovvero il granito) e avessero una dimensione inferiore ai 4 mm. quadrati.

Sulla superficie dei gradino “0” venivano estratte complessivamente 135 tracce, di cui 7 erano scartate perché inferiori alla dimensione di cui sopra.

La porzione di gradino che non era stato possibile texturizzare per assenza di immagini corrispondeva a quella parte del medesimo posta dietro alla porta a libro aperta, e perciò da escludere come possibile superficie di camminamento (pagg. 82-84 della perizia e relative figure).

Sul gradino 1 erano estratte 142 tracce, di cui 15 venivano scartate per le dimensioni (pagg. 86 e 87); sul gradino 2 erano estratte 129 tracce e ne venivano scartate 7 (pagg. 89-92).

A questo punto i Periti, per poter fornire una risposta di tipo numerico al quesito posto circa la possibilità di calpestare o meno le macchie ematiche, decidevano di adottare una metodica diversa dalle precedenti: partivano cioè dalla individuazione delle aree prive di tracce di sangue, di dimensioni tali da poter contenere l‘appoggio a terra, senza contatto con il sangue, di una delle due scarpe (destra o sinistra).

L’approccio in precedenza utilizzato dai consulenti del PM era stato di tipo totalmente informatizzato, mentre quello dei periti del Gup definito “semivirtuale” (ripetizione dei movimenti da parte di soggetti volontari su una scena ricostruita).

La soluzione ora adottata era ritenuta l’unica in grado di superare alcune criticità” (proprie soprattutto della sperimentazione semivirtuale, soggetta ad un numero infinito di variabili), tenuto conto, in particolare, del fatto che nei caso di specie il percorso presupponeva la contemporanea attuazione di movimenti complessi, tali da richiedere la coordinazione di arti superiori e inferiori (per aprire la porta a libro), e da svolgersi in uno spazio angusto, cui seguivano la discesa e la risalita di un numero non definito di gradini.

Periti contestavano al proposito l’attendibilità dei movimenti dell’imputato in occasione della pregressa simulazione (perizia di primo grado), sottolineando l’eccessiva lunghezza dei passi (1 metro), l’assenza sulla scena ricostruita della porta tra il soggiorno e il corridoio, la conclusione di ogni simulazione in posizione laterale rispetto alla porta a soffietto.

Quanto all’impronta delle scarpe Lacoste indossate da Stasi (la cui suola era caratterizzata da “rilievi” e “creste”, tali da limitare il contatto con il suolo alle sporgenze inferiori, ma da implicare una forte pressione) i Periti decidevano di mantenere, nella attuale simulazione, il rilievo tridimensionale delle suddette calzature effettuato dai consulenti del P.M. in primo grado, pur dando atto che lo stesso produceva una impronta inferiore a quella ottenuta, considerando la reale superficie di sviluppo del passo (dal contatto del tallone, attraverso l’appoggio elicoidale verso il metatarso, e fino alla propulsione dell’alluce) (pagg. 105-107 della perizia).

Anche in questo caso la soluzione adottata veniva definita di tipo “conservativo”, ma conforme a quanto adottato per la camminata in piano (per cui, come si è visto, era mantenuta la mappatura del Prof. Boccardo).

Il numero di appoggi dei piedi necessari per recarsi nell’area antistante al salottino-bagno- garage fino al primo o secondo gradino, dopo avere aperto la porta, e per il successivo ritorno verso il corridoio era quantificato nel minore possibile (tra 8 e 10, a seconda della discesa solo del primo o anche del secondo gradino, e dell’arretramento senza spostare il piede); anche in questo caso quindi sulla base di una scelta “conservativa”.

I Periti valutavano quindi tutte le possibilità di appoggio senza calpestamento rispetto al numero totale di casi provati, estraendo tutte le possibili posizioni in cui le scarpe non avrebbero intercettato macchie ematiche (e prevedendo 36 rotazioni, ciascuna di 10 gradi, per ciascuna impronta).

Detta procedura richiedeva “ingenti risorse hardware, pur distribuendo il carico computazionale su una decina di computer in parallelo”.

Quanto ai risultati finali, considerando 8 appoggi con fermata al primo gradino, la possibilità di non calpestamento era pari allo 0,00038 %; considerando anche il secondo gradino la stessa scendeva allo 0,00002 %.

I Periti passavano quindi ad una valutazione più accurata per ogni appoggio, cioè maggiormente aderente alla realtà fisica e considerando il calpestamento entro la specifica area di pertinenza. Individuavano aree prive di tracce di sangue di dimensione tale da poter contenere l’appoggio senza contaminazione di una delle due scarpe; tenevano conto poi di una serie di vincoli (che i piedi non risultassero sovrapposti; che le gambe non si incrociassero; un limite di distanza tra le due scarpe, desunto dall’analisi antropometrica effettuata a suo tempo sull’imputato, pari a 77,7 cm, un angolo di convergenza e divergenza tra i due piedi; almeno uno dei due piedi non poteva poi trovarsi oltre 70 cm. dalla porta, perché altrimenti non era possibile riuscire ad aprirla): per fare tale test venivano provate 1.5 miliardi di combinazioni.

All’esito della suddetta analisi (dettagliatamente riportata nei singoli passaggi nell’elaborato acquisito e confermata in udienza) la conclusione peritale era nel senso che la probabilità che l’imputato avesse potuto effettuare in entrata e in uscita il percorso in esame senza intercettare macchie di sangue era dei tutto infinitesimale.

A proposito del concetto di “evitamento implicito”, utilizzato anche in sentenza, la perizia ne osservava l’assenza nella letteratura scientifica. Se infatti può considerarsi un dato pacifico quello per cui si tende, sulla base di automatismi, ad evitare gli ostacoli lungo il proprio cammino, ciò non può valere in condizioni di stress, in ogni caso la perizia evidenziava la differenza tra ostacoli in senso stretto e macchie, soprattutto di piccole dimensioni.

Secondo il dott. Testi (il medico legale) il termine più corretto da utilizzare, dal punto di vista medico, era in questi casi quello di “attenzione inconsapevole”; a suo avviso inoltre non era pensabile che “complesse attività correlate all’evitamento di tutte le tracce, qualora messe in essere, siano state eseguite senza conservarne memoria” (pag. 103 della perizia).

E ancora, era impensabile che ciò fosse avvenuto anche in uscita (“Non è ipotizzabile, infatti, che il soggetto, dopo il ritrovamento della fidanzata, evidentemente priva di sensi e ferita (cosa che peraltro avrebbe comportato un sovraccarico emotivo tale da impedirgli anche solo di avvicinarsi e verificarne le condizioni) abbia potuto preoccuparsi di non calpestare il sangue nel percorso di allontanamento dall’abitazione”) (pag. 104).

L’analisi della possibilità di calpestamento del sangue e della successiva condizione delle scarpe presupponeva poi una verifica delle condizioni delle macchie di sangue al momento dell’ingresso in casa Poggi da parte dell’imputato.

Sul punto la perizia, dopo avere sottolineato che le prime fotografie erano state scattate un’ora e mezza circa dopo tale l’ingresso, ed avere descritto le sperimentazioni svolte su macchie di diverse dimensioni e sui processi di essiccamento delle diverse tipologie (pagg. 121-131 dell’elaborato) concludeva ritenendo che al momento dell’intervento di CC e 118 la quasi totalità delle macchie di diametro inferiore al cm. fossero pressoché completamente secche, quelle formate da una quantità maggiore di sangue (più di un cc) potessero essere ancora semiliquide e quelle ancora maggiori liquide.

Nelle sperimentazioni effettuate in sede peritale (in ambiente controllato, con temperatura a 25° e umidità del 60 %) si verificava che le macchie ematiche erano tutte secche dopo 4 ore e mezza dalla deposizione (solo due porzioni delle gore di maggiori dimensioni restavano ancora umide).

Quanto alla possibilità di interazione tra le suole delle scarpe e il sangue sul pavimento, i Periti dopo avere ribadito, all’esito degli accertamenti topografici, l’impossibilità che l’imputato non avesse calpestato alcuna delle numerose macchie di sangue presenti lungo il percorso compiuto all’interno dell’abitazione, affrontavano l’ulteriore problema della possibilità che le suole delle sue scarpe potessero risultare prive di sangue. Prove di calpestamento erano già state effettuate nella precedente perizia, con esiti disomogenei quanto alla possibilità di trasferire macchie ematiche, più o meno secche, dal pavimento alle suole delle scarpe, e da queste ultime ad altre superfici. Con l’ulteriore problema del tempo intercorso tra i fatti e i sequestri (delle scarpe, e dei tappetini della vettura su cui era salito Stasi dopo essere uscito da casa Poggi) e delle molteplici variabili ipotizzabili quanto all’attività svolta dall’imputato.

Proprio per questo i Periti decidevano di partire da un dato certo, ovvero quello per cui Stasi, dopo avere percorso avanti e indietro il pavimento sporco di sangue, era salito sulla sua auto per portarsi in caserma.

Soffermavano quindi in particolare l’attenzione sui tappetini, ed effettuavano una sperimentazione (descritta alle pagg. 141 e seguenti dell’elaborato) in cui erano utilizzate 3 piastrelle (le stesse di casa Poggi), su ciascuna delle quali era simulata una deposizione ematica da dripping (gocciolamento) e proiezione, e una gora più grande, prodotta da 1 cc circa di sangue, e usati 4 tappetini.

Il contatto delle suole con questi ultimi era determinato da appoggio, e non da sfregamento, così come normalmente avviene salendo in macchina, e dopo 25 metri di camminata su linoleum.

Le modalità di conduzione dell’esperimento erano anche in questo caso particolarmente “conservative”, nel senso che i tappetini utilizzati erano morbidi e poco abrasivi (proprio tenendo conto delle osservazioni difensive), e il contatto tra suola e questi ultimi ridotto al minimo. Quanto al primo tappetino, infatti, veniva effettuato un passo con la scarpa destra sulla prima piastrella (su cui erano macchie ematiche da dripping); quanto al secondo erano effettuati 3 passi con la scarpa sinistra su tutte e tre le piastrelle; quanto al terzo tappetino era fatto un passo con la scarpa destra sulla gora di maggiori dimensioni sulla terza piastrella; quanto al quarto tappetino, erano effettuati 4 passi con entrambe le scarpe sulle prime due piastrelle (dove erano le macchie più piccole).

Il passaggio delle scarpe sulle macchie secche ne determinava le alterazioni tipiche (costituite dalla perdita totale o parziale della parte centrale, con permanenza dell’anello esterno).

I quattro tappetini venivano quindi montati su quattro diverse vetture, utilizzate per 4 giorni (anche in giornate di forte pioggia), e alla fine dell’esperimento fotografati previa aspersione col luminol.

A parte il primo, che dava risultato negativo (all’ispezione visiva, ma fotografato evidenziava due aree di tenue luminescenza) gli altri tre fornivano risultati tutti positivi (il quarto addirittura “molto positivo”).

All’esito di detta sperimentazione si poteva pertanto sostenere la dipendenza della possibilità di trasferimento del sangue da diversi fattori: la quantità calpestata, lo stato di essiccazione della macchia, le modalità del contatto. La perizia sottolineava come costituisse tuttavia massima di comune esperienza che la vettura di un soggetto coinvolto in un fatto di sangue risulti positiva al luminol, così come quella che il calpestio di sangue anche del tutto secco comporti il trasferimento del suddetto.

Proprietà delle scarpe Lacoste dell’imputato, già sottoposte a perizia chimica in primo grado, era evidenziata nella capacità di tali suole di trattenere anche piccole particelle di sangue, ma anche di altri materiali.

Quindi, sempre secondo il Perito e sempre sul tema del trasferimento in questione, nel caso di calpestamento di sangue ancora umido, oltre all’imbrattamento della scarpa si osserva anche una impronta per sottrazione sulla traccia (in negativo il disegno della suola) che ripete poi per i 2 o 3 passi successivi il disegno della suola; qualora vengano calpestate macchie già secche, specie se di piccole dimensioni (da dripping o da proiezione) la suola può determinare una modifica delle stesse. Ma anche qualora non vi sia una modifica macroscopica, si ha comunque un trasferimento di piccolissime particelle di sangue “che permangono sulla suola per un certo numero di passi e possono essere trasferite ad una superficie morbida e “pulente” come è un tappeto”.

“La particolare conformazione delle suole delle scarpe Lacoste, riteniamo spieghi la facilità con cui la suola stessa può non intercettarele macchie più piccole, stante gli ampi spazi tra le salienze del disegno e, nello stesso tempo, il fatto che la ridotta superficie di contatto possa rompere la superficie della macchia, rimuovendo piccole particelle di sangue che, come ben spiegato nella perizia chimica redatta per il PM suda composizione delle suole, vengono trattenute nelle microporosità del materiale e rilasciate successivamente” (pag. 147 dell’elaborato).

La differenza di risultati tra la sperimentazione di cui sopra e quelli della perizia di primo grado veniva spiegata con l’utilizzo, in tale sede, di una metodica di ricerca del sangue diversa e soprattutto inidonea allo scopo (mediante cioè l’utilizzo della tetrametilbenzidina e non del luminol).

La perizia affrontava altresì due diversi temi, sicuramente rilevanti, ovvero quello della durata dell’aggressione e quello del percorso fatto dall’aggressore.

Quanto alla prima, i Periti non condividevano le conclusioni espresse sul punto dai periti del Gup, che individuavano nella prima gora ematica (quella alla base delle scale verso il primo piano) un elemento a supporto della non limitata durata dell’aggressione, in considerazione del tempo di sanguinamento.

In quel punto la vittima era infatti stata colpita al capo, come dimostrato dalla presenza di capelli, e le ferite al cuoio capelluto sono idonee a determinare la perdita di una notevole quantità di sangue. La quantità di sangue che aveva prodotto quella gora non era per gli attuali periti superiore a 50 cc., e il tempo per produrla era inferiore ai 3 minuti (come confermato dal gocciolamento simulato con una flebo di eguale quantità di liquido).

Quanto ai percorso dell’aggressore all’interno dell’abitazione, gli accertamenti svolti nell’immediatezza ne avevano individuato le impronte (di suole “a pallini”, le cui dimensioni erano calcolate dopo il raddrizzamento fotogrammetrico).

La sorgente di sangue da cui aveva avuto origine l’impronta era la grande macchia davanti alla porta a libro, quindi l’aggressore si era portato nei bagno (tracce visibili e latenti anche sui tappetino), poi nei corridoio, nel salottino della televisione, ancora in corridoio (dove le suole si erano di nuovo imbrattate davanti alla stessa gora di cui sopra), verso il soggiorno, dentro la cucina (dove pure aveva sostato un poco) ed infine verso la porta d’uscita.

I Periti, nelle udienze dell’8 e del 15/10, illustravano ulteriormente (rispondendo alla Corte e alle parti) il diverso approccio che avevano deciso di adottare nell’espletamento dell’incarico, ovvero quello di una valutazione di tipo “numerico”, considerata la non classificabilità dei comportamenti umani. In particolare:

– non erano state considerate le manovre di apertura della porta a libro (per evitare di entrare nella valutazione di un comportamento non modellizzabile);

– era stato quindi considerato un percorso “continuo” dal piano alla scala;

– era stata considerata la possibilità di non intercettare le macchie di sangue;

– tutte le macchie erano state considerate secche, ed erano state escluse tutte quelle macchie chepotevano non essere sangue;

– era stato considerato il numero minimo di passi e di appoggi.

Erano in ogni caso evidenziati gli spazi ristretti e i necessari movimenti di coordinamento tra braccia e gambe per aprire la porta a libro (la cui apertura era definita non agevole) e la notevole pendenza della scala, tale da determinare uno scivolamento rapido del corpo della vittima (dimostrato anche dalle “pennellature” di sangue prodotte dai capelli lungo il muro di destra, ben visibili dalle foto in atti).

L’impatto del capo era avvenuto sul 4° gradino, poi lo scivolamento era stato continuo, in tempi brevi, fino al 7° gradino.

Era ipotizzato, da parte dell’aggressore, il “lancio” del corpo della vittima in diagonale, dalla parte destra della porta verso la parte interna del quarto gradino.

Non vi erano tracce di discesa dell’aggressore lungo la scala.

A specifica domanda, il dott. Testi precisava che v[ erano tracce di un solo aggressore, e confermava la breve durata dell’aggressione (pag. 174 delle trascrizioni dell’udienza dell’8/10).

Precisava altresì che il sangue raccolto dalle suole delle scarpe si trasferisce sempre sui tappetini dell’auto (la regola comune è che un po’ di sangue si trasferisce sempre) (pag. 71 trascrizioni udienza del 15/10).

Nella sperimentazione effettuata (la seconda) i tappetini erano stati toccati per pochi secondi e da un solo piede, e poi usati a lungo; le calzature erano tutte risultate positive al luminol.

A proposito della tipologia delle suole delle scarpe Lacoste, precisava che mentre in caso di suole piatte sulle stesse appoggia tutto il peso del corpo, in caso di suole con creste (come le suddette) l’appoggio del corpo grava su una superficie minore, e quindi la pressione finale risulta maggiore.

In caso di calpestamento di macchie secche quelle suole provocavano alterazioni morfologiche delle macchie (si rompe la crosta e la parte centrale della macchia viene rotta proprio perché c’è una grossa interazione, cioè c’è una grossa adesione tra la suola e il substrato), che non erano state rilevate nel caso di specie (o meglio, erano state rilevate dopo gli ulteriori accessi da parte di operanti e personale sanitario); una sola macchia risultava modificata, ma al di fuori del percorso che Stasi sosteneva di avere effettuato, mentre quelle suole (in quanto appartenenti a scarpe da ginnastica) erano “tra le più portate” a modificare le macchie secche; la discesa e la salita (ma soprattutto la discesa) comportavano poi necessariamente una pressione maggiore.

Quanto all’influenza della temperatura nel processo di essiccazione del sangue il dott. Testi sosteneva la sostanziale irrilevanza delle condizioni microclimatiche e la rilevanza della temperatura della superficie su cui poggia il sangue.

Nel corso dell’esame al Perito venivano anche sottoposte alcune fotografie (in particolare la IMG 1133 scattata dai CC di Vigevano) in relazione alle quali lo stesso evidenziava alcune macchie definite “da trasferimento”, ovvero derivanti da macchie precedenti, e ne precisava le difformità rispetto a quelle secche, modificate dal successivo calpestamento.

A proposito dei precedenti esperimenti venivano mostrati allo stesso Perito gli esiti della perizia di primo grado, in particolare quelli riportati alla pag. 134 (perizia Robino, Varetto, Ciardelli, esperimenti del 23/7/09 a Pisa), evidenziando come i tappetini fossero stati anche in tale occasione sottoposti al test del luminol, dopo avere calpestato in un caso sangue fresco, in altro sangue semi-secco, nel terzo sangue secco, ed in tale ultimo caso il risultato era stato negativo.

Le ulteriori 7 prove (su 10) erano invece state fatte utilizzando la tetrametilbenzidrina.

Sulla cosiddetta “strategia di evitamento”, il dott. Testi, a specifica domanda del Difensore dell’imputato, ribadiva che la locuzione di cui sopra “significa semplicemente che se una persona vede un ostacolo o una cosa che non vuole intercettare la evita, se la vede. Se non lo vede, Gimignani (….) credo che sia una psicologo, io faccio il medico, una cosa che le posso assicurare che se non si vede un ostacolo non si evita. Diverso è il concetto di attenzione inconsapevole….che è la cosa più simile all’evitamento implicito che io posso trovare, l’attenzione inconsapevole è una cosa che tutti noi sperimentiamo quando le nostre funzioni corticali sono al minimo e facciamo delle cose pressoché “in automatico” (pag. 179 trascrizioni dell’udienza del 15/10).

Riferiva che a supporto di tale teoria la Difesa aveva fornito documentazione consistente in sei lavori, che aveva letto, ma che a suo dire non avevano nulla a che fare con il problema in argomento (“…non c’è nessuna persona che riesce…a risolvere contemporaneamente due cose che sono una la focalizzazione sul suo compito, cioè quello che sta facendo, cercare una persona sparita, prestarle soccorso ecc., e contemporaneamente saltellare da una parte all’altra per evitare delle macchie disangue. Può farlo, forse si, ma se lo fa è una persona che se ne ricorda, perché si rende assolutamente conto di quello che sta facendo, quindi questa è la mia posizione” (pagg. 181-182 delle trascrizioni).

Tutte le parti depositavano nel prosieguo ulteriori osservazioni sulle perizie di cui sopra.

La Difesa dell’imputato, in particolare, il 5 e il 13/11, depositava ampie “osservazioni” e “considerazioni” per confutarne le conclusioni, di cui si dirà oltre, trattando i rispettivi argomenti.

6- Le ulteriori integrazioni probatorie

All’udienza del 20/10 venivano formulate ulteriori richieste di integrazione probatoria, e specificamente il Procuratore Generale, partendo dalla memoria depositata dalla Parte civile sulla bicicletta sequestrata con ordinanza dalla Corte e visionata all’udienza del 9/5 (in cui era ipotizzato uno “scambio” di pedali) e da quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza di rinvio sull’assunzione di “eventuali ulteriori prove ritenute rilevanti per la decisione” , evidenziava la necessità di approfondire tre temi.

Il primo era appunto quello della “bicicletta nera da donna” : il P.G. chiedeva di acquisire, in quanto rilevanti ai fini dei decidere, una consulenza tecnica su tale bicicletta e una consulenza contabile per individuarne la provenienza, l’audizione di testi (Rita Officio della ditta Officio srl e Mottadelli della RMS srl) e la documentazione di conseguenza acquisita.

Metteva a disposizione delle parti tutti gli atti di indagine svolti, che avevano consentito di verificare che tutte le componenti (compresi i pedali) della bicicletta sequestrata erano “coerenti” con la data di fabbricazione ed acquisizione della stessa da parte della famiglia Stasi; di accertare in che modo e quando tale bicicletta fosse entrata nella disponibilità della ditta “Nuova Invernizzi” di Nicola Stasi e come, nello stesso modo, altra bicicletta da donna di diversa tipologia fosse stata acquisita dalla stessa ditta.

Il secondo tema da approfondire, sempre secondo il P.G., era quello delle scarpe acquisite e sequestrate ad Alberto Stasi dai CC di Garlasco e Vigevano e delle impronte lasciate dall’aggressore in casa Poggi (esattamente dimensionate nella perizia collegiale disposta dalla Corte).

Chiedeva quindi di acquisire una nota “meramente descrittiva” dei RIS di Parma del 5/6/14 sulle scarpe all’epoca appunto acquisite (il 14/8/07) o sequestrate (il 20/8/07), volta unicamente a fare ordine rispetto agli atti già acquisiti, peraltro contenenti errori e imprecisioni; di acquisire tutta la documentazione bancaria relativa all’acquisto da parte dell’imputato, il 16/9/06, di un paio di scarpe GEOX taglia 42, scarpe che non risultavano né tra quelle spontaneamente consegnate da Stasi il 14/8, né tra quelle poi sequestrate il successivo 20/8; di acquisire una consulenza tecnica redatta dal maggiore Mattei del RIS e dal dott. Nardelli che avevano individuato marca e taglia della scarpa dell’aggressore di Chiara Poggi.

Il terzo tema su cui il Procuratore Generale chiedeva una rinnovazione istruttoria era quello relativo alla attività svolta dai CC di Garlasco il 13/8/07 nell’immediatezza del delitto.

Dalla documentazione fotografica già in atti (22 immagini digitali e 20 analogiche digitalizzate) e nuovamente visionata dal P.G., emergevano alcune fotografie che riprendevano Alberto Stasi e alcuni dettagli dei suoi indumenti (la manica sinistra della maglia da lui indossata) senza che nulla ne menzionasse lo scopo (davanti al Gip il Mar. Serra, il 13/6/09, aveva accennato ad una “formazione pilifera” ); nel settembre 2014 era poi emersa, per la prima volta, la notizia della presenza di “graffi” sul braccio di Stasi (confermata al P.G. dai due militari).

Chiedeva quindi il Procuratore Generale di sentire il mar. Serra e il brig. Pennini, autori delle fotografie, nonché l’app.to Cappelli che la sera del 13/8 aveva scaricato le fotografie digitali e consegnato il CD al comandante della Stazione. Chiedeva inoltre che i testi venissero sentiti sulla “gestione” delle indagini da parte del comandante della Stazione dell’epoca, mar. Marchetto, con particolare riferimento all’omessa documentazione di elementi da ritenersi rilevanti in una indagine per omicidio, significativa di una “sistematica azione di sviamento” da parte del predetto. Su tutti i temi di cui sopra il P.G. metteva a disposizione delle parti tutti gli atti e le acquisizioni disposte.

I Difensori delle Parti Civili, con riguardo al “tema bicicletta” e alla memoria già depositata, insistevano per l’audizione dell’Ing. Panzeri, amministratore delegato della ditta Atala produttrice della bicicletta Umberto Dei sulla tipologia dei pedali montati su tale bicicletta; chiedevano altresì di acquisire l’ordinanza del Gip di Pavia che aveva disposto l’imputazione coatta del Marchetto per il reato di falsa testimonianza in relazione alla medesima vicenda bicicletta, la sentenza di appello di condanna per calunnia e induzione e sfruttamento della prostituzione nei confronti dello stesso Marchetto (sul tema “sviamento delle indagini”); insistevano per l’audizione del brig. Pennini sui rapporti tra Marchetto e Nicola Stasi.

La Difesa dell’imputato si opponeva all’acquisizione della memoria della parte civile lamentando la violazione degli arti. 430 comma 1 e 433 comma 3 c.p.p. in quanto il suo contenuto, prima di entrare nel patrimonio cognitivo della Corte, avrebbe dovuto costituire oggetto di richiesta di rinnovazione del dibattimento.

Anche le indagini integrative svolte dal Procuratore Generale potevano essere al più utilizzate per formulare richieste di rinnovazione. I risultati di tali indagini inoltre, in violazione del principi del contraddittorio, non erano stati posti “immediatamente” a disposizione delle parti per consentirne la visione: lamentava quindi che in un processo di appello dì rinvio le indagini del Procuratore Generale sì fossero svolte in segreto, senza mettere l’imputato nelle condizioni di difendersi, e concludeva per la inutilizzabilità di tutti i suddetti atti.

Ad eccezione della tematica relativa alla bicicletta, tutto il resto era già noto, o meglio era già stato oggetto degli accertamenti a suo tempo svolti; la impronta dell’assassino era già nota da anni, così come le taglie delle scarpe di Stasi. Quanto alla bicicletta, secondo la Difesa la totale difformità della stessa rispetto alla descrizione che ne aveva effettuato la teste Bermani (tale da rendere inutile qualsiasi indagine sulle sue componenti) imponeva se mai che la predetta teste venisse sentita.

La Difesa si opponeva altresì all’acquisizione della sentenza di secondo grado nei confronti di Marchetto e, in ogni caso, richiedeva di poter esaminare tutto quanto messo a disposizione dal Procuratore Generale.

All’udienza del 27/10 la Difesa, all’esito di tale esame, prestava il consenso all’acquisizione di tutti gli atti messi a disposizione dal P.G. sul “tema bicicletta”, comprese le dichiarazioni testimoniali (anche quella del Panzeri, avanzata dalle Parti Civili, cui aveva aderito il P.G.); chiedeva l’acquisizione delle proprie indagini difensive (s.i.t. di diversi testimoni, rivenditori di biciclette Umberto Dei) sulla tipologia di pedali apposti alle predette dalla casa produttrice; insisteva sull’audizione della teste Bermani su quanto già indicato alla precedente udienza.

Anche in relazione alla “tematica scarpe”, prestava il consenso all’acquisizione di tutto quanto messo a disposizione sul punto dal Procuratore Generale, e chiedeva che venissero acquisite delle fotografie dell’imputato (scattate in occasione della celebrazione dei processo di primo grado) che indossava le scarpe marca Geox che il P.G. aveva individuato attraverso le acquisizioni di cui sopra.

Quanto alle integrazioni attinenti alle prime indagini, nel porre l’accento sulla scelta dell’imputato per il rito abbreviato e sul fatto che tutti gli operanti (Serra, Pennini e Cappelli) avessero compiuto attività che erano già a disposizione e agli atti, e che il car. Serra era già stato sentito dai Gup sulla osservazione delle scarpe e sulla formazione pilifera non refertata, la Difesa osservava come le negligenze delle indagini (alla cui dimostrazione tendevano le richieste dell’accusa) potevano darsi per acquisite e pacifiche, e che le stesse avevano nuociuto principalmente allo stesso imputato.

A proposito dei “graffi” osservati dai due operanti, la Difesa faceva rilevare come di tale osservazione non vi fosse alcuna traccia in atti e che mai i suddetti operanti avessero riferito di tali “graffi” (in particolare Serra, quando era stato sentito dal Gup); chiedevano tuttavia che la Corte, in caso di accoglimento della richiesta, sentisse anche tutti gli altri militari che erano intervenuti in quei giorni a Garlasco.

Dopo che le parti avevano svolto brevi osservazioni suite reciproche ulteriori richieste, la Corte emetteva la seguente ordinanza:

“sulle richieste avanzate dal Procuratore Generale, dalle Parti Civili e dalla Difesa e sentite te parti; all’esito delle rinnovazioni istruttorie disposte da questa Corte in sede di rinvio dalla Cassazione, che ha imposto una “nuova verifica delle richieste istruttorie” e l’eventuale assunzione di “ulteriori prove ritenute rilevanti per la decisione” tenuto conto di quanto disposto nell’ordinanza del 30/4, e a scioglimento delle riserve in tate sede espresse;

osserva:

– quanto alla bicicletta nera da donna sequestrata da questa Corte, considerata le rilevanza delle osservazioni avanzate dal P.G, e dalla Parte Civile, rese possibili dall’acquisizione di detta bicicletta ed anche in seguito alla diretta visione della stessa da parte della Corte in udienza, dispone

l’acquisizione della consulenza sulla data di fabbricazione dei componenti della bicicletta nera Holland 26 in sequestro; la citazione dei seguenti testi:

– Rita Officio su tempi e modi di acquisizione di tale bicicletta da parte della famiglia Stasi;

– Giuseppe Mottadelli della Ditta RMS sulla tipologia dei pedali forniti alla Ciclomeccanica srl, ditta assemblatrice di tale bicicletta;

– ing. Massimo Panzeri, amministratore delegato della Ditta Atala S.p.A., sui pedali in dotazione alla bicicletta Umberto Dei mod. Giubileo 51, già sequestrata;

rigetta l’audizione delle testi Bermani e Travain, le cui dichiarazioni sono già in atti, e quella di Merlino in quanto sufficiente la già disposta acquisizione delle dichiarazioni rese.

Quanto alle scarpe – acquisite o sequestrate – di cui ai verbali in atti del 14/8 e del 20/8/07, può essere acquisita la nota dei Ris di Parma dei 5/6/14, trattandosi di atto meramente descrittivo di attività già svolta e documentata, privo di valutazioni discrezionali;

quanto alle richieste di acquisizione della documentazione attestante l’acquisto in data 16/9/06 da parte di Alberto Stasi di un paio di scarpe GEOX numero 42 e della relazione tecnica redatta dall’Ing. Nardelli e dal Magg. Mattei sulla marca e taglia della scarpa dell’aggressore, considerato che tale individuazione, mai effettuata in passato, appare assolutamente necessaria al fine del decidere, e rilevato altresì che nella perizia collegiate disposta da questa Corte le immagini delle scarpe dell’aggressore sono state per la prima volta sottoposte ad una procedura di raddrizzamento fotogrammetrico, così da rendere sicuro anche il calcolo delle dimensioni dell’impronta, dispone:

l’acquisizione della documentazione relativa all’ acquisto delle scarpe GEOX mod. City n. 42 da parte di Stasi Alberto in data 16/9/06 e delle fotografie oggi messe a disposizione dalla Difesa ritraenti Alberto Stasi all’epoca della celebrazione del processo di primo grado; la citazione di:

– Ing. Nardelli

– Maggiore Mattei

Quanto all’attività svolta dai CC di Garlasco in data 13/8/07 e alla richiesta di sentire il mar. Serra e il brig. Pennini, ritenuto che l’audizione dei predetti operanti appare assolutamente necessaria unicamente in relazione a quanto dagli stessi osservato sulla persona di Alberto Stasi in Caserma nell’immediatezza dei primo intervento in via Pascoli, dispone la citazione di:

– Maresciallo Andrea Serra

– Brigadiere capo Luigi Roberto Pennini

Riserva all’esito dell’audizione di tutti i predetti testi la decisione sull’acquisizione della documentazione offerta dalle parti qualora utilizzata nelle rispettive deposizioni e valutata rilevante.

Quanto ai documenti di cui le Parti Civili hanno chiesto l’acquisizione,

dispone venga acquisita copia della richiesta di rinvio a giudizio del Maresciallo Marchetto, in quanto direttamente afferente agli accertamenti svolti nell’immediatezza sulla bicicletta di cui sopra;

rigetta l’acquisizione degli ulteriori atti di procedimenti penali a carico del Marchetto, in quanto non attinenti al thema probandum”

Le decisioni assunte dalla Corte con la predetta ordinanza riguardavano, in parte, i temi che avevano già costituito oggetto della prima ordinanza di rinnovazione istruttoria del 30/4, e ne costituivano il necessario completamento.

Gli argomenti che è stato ritenuto necessario approfondire erano infatti, in primo luogo, quelli specificamente indicati nella sentenza di rinvio.

Ci si riferisce, in particolare, alle tematiche relative alla bicicletta nera, acquisita agli atti soltanto nel presente procedimento, e a quelle collegate alla completezza dell’accertamento peritale, già disposto in primo grado, ma valutato non esaustivo, in quanto non rispondente a tutti i quesiti già posti in tale sede.

L’esatta individuazione delle scarpe indossate dall’aggressore costituiva poi una novità assoluta, cui si è pervenuti soltanto nel giudizio di rinvio. Quanto ai presunti “graffi” osservati e non repertati, il tema, di nuova introduzione, non poteva essere trascurato, anche se nei limiti di cui -si dirà oltre.

A proposito poi delle censure mosse dalla Difesa dell’imputato sulle attività istruttorie svolte dalla Parte civile e dal Procuratore Generale, si osserva che la memoria depositata dalla prima “fuori udienza” era stata notificata alle altre parti, ed in ogni caso la sua acquisizione era necessariamente subordinata ad una valutazione della Corte, nel contraddittorio delle parti.

Allo stesso modo il Procuratore Generale aveva da subito (ovvero alla prima udienza utile, dopo la sospensione del dibattimento resa necessaria dall’espletamento delle perizie) e correttamente messo a disposizione delle parti tutti gli atti compiuti, di cui la Corte non ha preso cognizione, se non all’esito e nei limiti delle sue decisioni, assunte anch’esse nel pieno contraddittorio con l’ordinanza di cui sopra.

La Corte quindi non ha acquisito, né preso visione di alcun atto o attività di indagine, se non dopo la sua introduzione nel processo sempre nel rispetto del principio del contraddittorio (e proprio per questo non è stato sempre agevole valutare a priori fa rilevanza delle prove richieste dalle parti).

La Difesa dell’imputato ha poi anche sostenuto il difetto, in capo alla Parte Civile, del diritto alla “prova contraria” quanto alla bicicletta, di cui era stata tale parte a chiedere l’acquisizione: ma la Suprema Corte, nel censurare la mancata acquisizione della bicicletta nera, aveva così sottolineato la rilevanza di una attività istruttoria che non avrebbe avuto senso se limitata ad una mera acquisizione non seguita da esiti, o valutazioni.

Le indagini (necessariamente successive) svolte dalla Parte Civile, e comunque soggette al vaglio della Corte, vanno quindi anch’esse inserite in tale contesto di doveroso approfondimento. In ogni caso, e ancora una volta, si deve sottolineare che la Corte ha acquisito soltanto quegli atti per i quali tutte le parti hanno prestato il consenso, e assunto tutte le prove, ritenute necessarie e rilevanti per la decisione, che hanno costituito quella attività di integrazione istruttoria espressamente ad essa demandata dalla Cassazione (“svolgendo una nuova verifica delle richieste istruttorie e assumendo eventuali ulteriori prove ritenute rilevanti per la decisione”) unicamente in dibattimento.

7- Le testimonianze

In apertura dell’udienza del 3/11, dedicata all’audizione dei testi ammessi, la Difesa dell’imputato eccepiva ancora l’inutilizzabilità “patologica e insanabile” delle dichiarazioni del mar. Serra e del brig. Pennini e chiedeva alla Corte di revocarne l’audizione. La Corte non tornava sulle proprie decisioni, non ravvisando alcun motivo per revocare la precedente ordinanza (eventualmente soggetta a impugnazione insieme alla sentenza).

7-1 il “tema bicicletta”

Il teste ing. Panzeri, amministratore delegato della S.p.a. Atala dal 2005, riferiva che detta società aveva acquistato nel 2001 il magazzino della “Cesare Rizzato” (originaria produttrice, poi messa in liquidazione) e che del modello Giubileo 51 della Umberto Dei di colore corallo da uomo (la bicicletta già sequestrata a Stasi) dai 2002 al 2008 erano stati prodotti 32 pezzi.

Tutte le componenti di tale modello erano esattamente codificate secondo una “distinta base”, la medesima predisposta dalla “Cesare Rizzato”; le biciclette erano inviate già montate ai negozi, ad eccezione dei pedali (in una scatola a parte inserita nella scatola più grande), sella e reggisella.

Tutte le 32 biciclette di cui sopra erano uscite dal magazzino con i medesimi pezzi, i pedali in particolare erano pedali Union 687 G, con la sigla U20 sulla parte interna della gomma e la stampigliatura “Made in Germany”, e un riferimento alla normativa British Standard sul catarifrangente.

Tutte le fatture relative alle 32 biciclette da lui visionate ne confermavano la suddetta componentistica. Eventuali variazioni (inesistenti in questo caso) sarebbero state registrate e riportate nei sistemi informativi ( come era accaduto per il modello da donna).

Il teste precisava che la Atala non aveva mai trattato pedali “Wellgo”, che fino al 2005 i pedali Union erano prodotti con la scritta “Made in Germany” (ma la produzione in Germania era cessata nel 1995, e successivamente passata alla Marwi) che quelli montati sulle 32 biciclette di cui sopra erano di produzione antecedente al 2001.

Sempre secondo l’ing. Panzeri non aveva alcun senso, dal punto di vista estetico, associare un pedale come quello “Wellgo” ad un modello come la Umberto Dei, che definiva “una bicicletta di fascia altissima” ed “estremamente di nicchia”.

Quanto alla differenza tra un pedale Union 687 e un pedale Union 677, la evidenziava nei catarifrangente (British Standard o meno) e nei fatto che uno fosse “Made in Indonesia” senza la stampigliatura “Made in Germany”.

Rita Officio, dell’omonima ditta di rivendita di accessori e ricambi per auto, fornitrice della Nuova Invernizzi di Nicola Stasi, precisava le modalità di acquisizione della bicicletta nera da donna da parte della suddetta, nel 2004 a titolo promozionale, a fronte di un certo numero di pezzi acquistati.

La ditta Officio era infatti stata individuata dai P.G. nell’ambito degli accertamenti disposti per verificare il momento in cui la bicicletta sequestrata dalla Corte era entrata in possesso della famiglia Stasi.

Riferiva che la Olandesina 26 “Holland” proveniva dalla Ciclomeccanica, da cui la Officio l’aveva acquistata. Le biciclette così acquisite (da donna, nere, classiche, col cestino davanti e il portapacchi dietro) non subivano modifiche, e spesso ancora imballate venivano inviate ai clienti in omaggio. La teste ricordava poi di avere dato in omaggio alla Nuova Invernizzi, nel 2005, anche una seconda bicicletta, una city bike, sicuramente da donna e dotata di cestino, di cui non ricordava il colore: tale circostanza (sconosciuta in precedenza) era emersa in seguito ai controlli che la teste aveva fatto a proposito della Olandesina 26.

Precisava che le city bike, oltre ad avere le marce, avevano una sella migliore, con le molle (di tale tipologia di bicicletta veniva acquisito un volantino, quello sottoposto ai clienti).

Emergeva infine che vi era stato un terzo omaggio, nel 2011, costituito da una bicicletta da uomo.

7-2 Il “tema scarpe”

Venivano quindi sentiti i testi Nardelli (dirigente della Società Geox, produttrice di scarpe e abbigliamento) e Mattei (maggiore dei CC, in forza ai Ris, che nel 2007 aveva già rilevato tutte le tracce nella villetta di via Pascoli).

Costoro, su incarico del P.G., avevano esaminato atti e reperti ed erano riusciti ad individuare marca, modello e taglia della scarpa corrispondente alle impronte delle suole della scarpa dell’aggressore. Va detto che, come riferito dal magg. Mattei, anche nel 2007 la traccia dell’aggressore era stata esaminata e dimensionata, anche se la tecnica usata dai Periti nell’attuale procedimento era più avanzata e quindi aveva dato un risultato di massima precisione. All’epoca inoltre la sola banca dati disponibile era in Inghilterra, e gli accertamenti non avevano dato esiti, mentre nell’attuale accertamento era stato possibile attingere al vastissimo data base della Geox (comprendente 1,500 calzature, non soltanto Geox).

I consulenti riferivano di avere individuato, quale riferimento, tra le 25 impronte maggiormente significative, quella contrassegnata con il n. 6, tra la porta e il mobiletto del bagno. Descrivevano quindi l’attività svolta, partita da un confronto con una calzatura Geox (quella di cui il P.G. aveva individuato l’acquisto da parte di Stasi, il 16/9/06), modello City (che i consulenti riconoscevano in quello indossato dall’imputato nelle fotografie prodotte dalla Difesa). La scarpa dell’aggressore era stata individuata in una scarpa di marca Frau (codice 27U1), la cui suola risultava prodotta e assemblata da una ditta di Civitanova Marche, la Margom Spa. Quest’ultima, dai 2002 ad oggi, aveva sempre prodotto tale tipologia di suola, sempre in gomma ma in due materiati, uno chiaro e uno scuro (il colore era dato dall’aggiunta di additivi). La Margom aveva venduto quelle suole, ma senza il logo Frau, anche a due piccoli negozi. L’esito dei confronti effettuati sulle tracce in casa Poggi (che evidenziavano piccole impronte di sangue proprio sul perimetro di quel tassello contenete il logo) consentiva tuttavia di verificare con assoluta certezza, che in questo caso il logo c’era. Si era poi accertato che la Margoni produceva unicamente una suola per ogni numero (quindi niente mezzi numeri), e che ogni suola corrispondeva ad una taglia. La differenza tra ogni taglia è di 6,6 millimetri in lunghezza, e circa 2 mm in larghezza.

Nel caso di specie all’impronta n. 6 di cui sopra corrispondeva una suola prodotta per Frau da Margom montata su scarpa n. 42. Il teste Nardelli riferiva inoltre anche sul volume di affari della Frau, raffrontandolo con quello della Geox ( e da tale raffronto emergeva che nel 2007 il fatturato della Frau era circa la decima parte di quello della Geox).

7-3 Il “tema graffi”

Il mar. Serra, intervenuto in seguito alla segnalazione di Stasi nella villetta di via Pascoli, riferiva di avere personalmente scattato le foto che gli venivano mostrate raffiguranti la persona dell’imputato.

li teste precisava di essersi accorto, quando era in macchina insieme a Stasi, diretto in caserma, che questi aveva “qualcosa” sulla manica. Inizialmente aveva pensato potesse essere un capello della vittima, poi si era accorto che non io era. Aveva comunque scattato le foto, anche se le stesse erano rimaste prive di didascalia, e quindi di una spiegazione. A suo dire sul posto erano intervenuti molti altri soggetti, e lui aveva ritenuto che sarebbe stato compito di costoro quello di fotografare anche Stasi (che tuttavia era stato portato in caserma).

Il teste, su domanda del P.G., precisava poi di avere notato dei segni, o graffi, nella parte interna dell’avambraccio sinistro di Stasi, tra polso e gomito, mentre questi gli mostrava la parte inferiore della scarpa (su sua espressa richiesta, volta a verificarne la suola); chiamava quindi il collega Pennini, che era all’interno della villetta, per mostrarglieli. Anche in questo caso tuttavia non si preoccupava di dare seguito alla cosa. Non scattava fotografie (pensando che altri lo avrebbero fatto), né redigeva un verbale che attestasse la sua osservazione, né in quel momento, né in seguito.

Al Difensore dell’imputato che gli faceva notare tale anomalia, a fronte delle plurime annotazioni a sua firma, il teste ribadiva di avere ritenuto che altri lo facessero (in particolare il personale specializzato successivamente intervenuto) e di essersi da parte sua occupato principalmente dei primi accertamenti nell’abitazione (piuttosto che sulla persona di Alberto Stasi). Sempre su sollecitazione della Difesa, Serra precisava ancora di avere “esternato i sospetti”, suoi e di Pennini, anche ai suoi superiori (in particolare nominava il brig. Cavalli), e di avere sentito, in caserma, Pennini che ne parlava con il mar, Marchetto e con il cap. Cassese. Il brig. Pennini confermava di avere visionato i graffi su richiesta del collega Serra, e sosteneva di avergli detto di fotografarli; giustificava l’omissione di quest’ultimo con il successivo intervento del personale specializzato “repertatore”, nel senso che riteneva plausibile che Serra non avesse scattato le foto pensando fosse compito dei suddetti.

A domanda del P.G. riferiva di averne parlato al mar. Marchetto, che aveva subito sentito al telefono, e di non avere alcuna autonomia nel compimento delle indagini, comunque sottoposte alla gestione del predetto.

Anche le due macchine fotografiche (quella analogica e quella digitale) da loro utilizzate per scattare le fotografie di quel primo intervento erano state consegnate al Mar. Marchetto. Soprattutto il P.G. si è a lungo soffermato sulle predette macchine fotografiche, sul fatto che fossero stati sviluppati due rullini quanto a quella analogica (ma Serra e Pennini hanno negato di avere mai sostituito il rullino), e sul CD (successivamente scomparso) su cui erano state poi trasferite quelle digitali (recuperate in quanto già scaricate su uno dei computer presenti in caserma).

Pennini confermava che in caserma, quella sera, c’era un gran numero di colleghi, provenienti anche da Vigevano

Occorre poi rilevare che nel corso dell’udienza le parti tutte facevano continui riferimenti ad attività di indagine e a documenti di cui la Corte non aveva cognizione: nell’ordinanza ammissiva delle prove infatti era contenuta una espressa riserva sul punto, nei senso che intendimento della Corte, proprio in ossequio al rispetto del principio del contraddittorio, era quello di sentire i testi, e di acquisire solo successivamente quegli atti dagli stessi utilizzati o menzionati e ritenuti comunque rilevanti anche ai fine di meglio comprendere le loro dichiarazioni.

7-4 Il “tema pedali”

Alla successiva udienza del 13/11 veniva sentito il teste Mottadelli, responsabile dell’Ufficio Acquisti della RMS, ditta che si occupa di commercializzare componenti di biciclette, quindi anche pedali. In tale veste aveva fornito i pedali Union montati sulla bicicletta nera da donna da Ciclomeccanica, da cui la ditta Officio l’aveva acquistata, per poi renderne omaggio alla Nuova Invernizzi di Nicola Stasi.

Precisava che i pedali Union 20 erano originariamente prodotti in Germania, poi la produzione si era trasferita nella Repubblica Ceca, infine nel 2003-2004 in Indonesia. La scritta “Made in Germany” compariva anche nella produzione cecoslovacca.

Ciclomeccanica acquistava pedali Union 677H, codice RMS4Q8000AN.

Specificava che i pedali U20 modello 687 e modello 677 sono identici, differendo solo per i catarifrangenti; quelli del 677H sono normali, quelli del 687H più belli, e contraddistinti dalla scritta “BS”. I pedali forniti alla Ciclomeccanica erano il primo modello, quello meno costoso (ma con una differenza di prezzo di pochi centesimi). Riferiva poi che qualsiasi pedale può essere montato su qualsiasi bicicletta (con pochissime eccezioni)

Al teste veniva quindi mostrata la bicicletta sequestrata dalla Corte, in cui riconosceva i suddetti pedali, e dei quali indicava con certezza l’epoca di produzione (la settimana n. 44 del 2002, dato ricavabile dal n. 442, stampigliato sui medesimi).

Ad avviso del Mottadelli la bicicletta in questione non presentava segni di usura (circostanza questa direttamente verificata anche dalla Corte), e a supporto di ciò evidenziava le condizioni di sella e manopole (a suo dire le componenti abitualmente soggette a maggiore usura, non riscontrabile in questo caso).

Notava sulla facciata della pedivella, dove il pedale, entra, “dei segni di rotazione, che danno adito di pensare che il pedate sia stato svitato o avvitato, sia a destra che a sinistra“, ma precisava che la sua osservazione era in ogni caso da verificare.

Al teste venivano poi fatte dalle parti domande sulla datazione delle diverse componenti della bicicletta (la sella, il cestino) e in tale sede si chiarivano possibili equivoci derivanti dai codici propri di determinati materiali (quale quello indicato come “05” e riferito non già all’anno di produzione del pezzo, bensì alla tipologia di materiale della componente).

All’esito dell’audizione del Mottadelli, venivano acquisite, con l’accordo delle parti, tutte le dichiarazioni dallo stesso rese al P.G.

Sempre in tale udienza, in cui tutte le parti erano state sollecitate ad esprimersi reciprocamente su quanto da ciascuna offerto alla Corte, il P.G. riferiva di una ulteriore e nuova emergenza, che nel prosieguo (sempre delle indagini la lui condotte) aveva portato ad individuare il negozio in cui Nicola Stasi aveva acquistato la bicicletta Umberto Dei (in precedenza non individuato). L’esercizio commerciale, sito in Garlasco a pochi metri da quello in cui all’epoca aveva sede la Nuova Invernizzi, aveva chiuso nei 2005, e tale acquisto era quindi avvenuto prima della data da cui erano partiti gli accertamenti svolti presso la Atala Spa, di cui aveva riferito in aula ring. Panzeri.

Chiedeva quindi di sentire, o acquisire, le dichiarazioni rese dal titolare, Robecchi, e di quanto ad esse allegato e relativo alla vendita di due biciclette identiche a quella acquistata dal padre dell’imputato (Robecchi ne aveva acquistate e rivendute 3, e gli altri due acquirenti, tuttora in possesso di una Giubileo di identico modello, erano stati individuati e le biciclette fotografate).

8 – Le ulteriori acquisizioni e le conclusioni delle parti

Seguivano quindi ulteriori richieste sempre riconducibili ai tre “temi di approfondimento”, ovvero quello relativo alla bicicletta, quello relativo alle scarpe, quello relativo ai graffi. Quanto al primo, sulla scorta delle dichiarazioni della Officio a proposito della ulteriore bicicletta da donna, di cui era stato fatto omaggio nei 2005 alla Nuova Invernizzi (la city bike con le marce), erano stati condotti ulteriori approfondimenti a Spotorno, dove la famiglia Stasi aveva una casa, e il P.G. aveva sentito i vicini di casa sulle biciclette in uso alla famiglia.

Veniva quindi chiesto alla Corte di acquisire tali dichiarazioni, unitamente al materiale fotografico (mostrato ai testi) relativo a detta tipologia di bicicletta; sempre sui tema anche i Difensori, sia delle parti civili che dell’imputato, avanzavano richieste di acquisizione di diversi soggetti (Valentinuzzi e Bernardi, della ditta ISCA, produttrice di selle di biciclette), nonché di rivenditori ufficiali delle biciclette Atala (Buzzi, Alberti, Martin, Toffetti e Baldi), del soggetto (Maranini) che aveva consegnato le biciclette (omaggio della Officio) alla Nuova Invernizzi, del dipendente di quest’ultima Merlino, di Muncello (assemblatore sia della olandesina, che della city bike, nonché di Invernizzi Maria Angela, figlia del precedente titolare della ditta poi acquisita da Nicola Stasi, sul fatto che la ditta non avesse mai commercializzato componenti di biciclette). Quanto alle scarpe, la Difesa di Stasi insisteva perché venisse acquisita tutta la documentazione bancaria (già messa disposizione del P.G. a supporto delle indagini svolte sul punto) relativa sia all’acquisto delle scarpe Geox di cui sopra, che le ulteriori indagini bancarie svolte nei confronti della famiglia Stasi sempre in relazione all’acquisto di scarpe; chiedeva quindi che venisse acquisita la fotografia della “classe V B” raffigurante, tra gli altri, anche l’imputato che indossava le scarpe Adidas dallo stesso consegnate agli inquirenti il 14/8 (e non sequestrate, come sostenuto dalla Difesa, come emerge dal verbale in pari data dei mar. Devecchi). Quanto al “tema graffi” e fotografie, veniva chiesta l’acquisizione della consulenza svolta dall’Ing. Tinti su incarico del P.G. avente ad oggetto la possibilità di ricavare informazioni su data dell’effettivo scatto delle fotografie (in numero di 22, effettuate dai CC di Garlasco il 13/8/07 con la macchina digitale, riportate su CD), sequenza ed eventuali modifiche delle stesse] nonché l’acquisizione delle dichiarazioni rese dall’app.to Tognali (referente informatico dei CC di Vigevano e delle Stazioni dipendenti dalla Compagnia) e dall’app.to Narcisi (all’epoca in servizio presso la Stazione di Garlasco) sempre sull’uso delle due macchine fotografiche in dotazione e sullapossibilità di visionare quelle digitali sui computerin uso presso la suddetta Stazione.

La Difesa chiedeva altresì che venissero sentitianche il Cap. Cassese e il brig. Cavalli, cheavevano interrogato Stasi e nulla avevano rilevatoquanto ai “graffi”; sempre sul punto chiedeva chevenisse sentito (o che venissero acquisite le suedichiarazioni) il paramedico della Ambulanza dellaCroce Garlaschese su cui il 13/8/07 era salitoAlberto Stasi mentre erano in corso i primiaccertamenti nella villetta dei Poggi.

Quest’ultimo, Andrea Strada, aveva misurato lapressione all’imputato, e nel frangente non avevanotato nulla sul suo braccio sinistro (quellointeressato dalla misurazione).

All’esito della discussione, in cui tutte le partiillustravano le proprie richieste ed esprimevano ilproprio parere su quelle altrui, la Corte emettevanuova ordinanza, disponendo l’acquisizione:

………………………………………………………………………………………………………………..

Tematica biciclette:

– le dichiarazioni di Robecchi e di quanto acquisito in tale sede;

– le dichiarazioni di Buzzi Emilia, Alberti Fabio, Martin Walter, Toffetti Daniel e Baldi Valerio;

– le dichiarazioni di Bernardi Marcolino e Valentinuzzi Luciano;

– le dichiarazioni di Merlino Daniele, Invernizzi Maria Angela e Muscello Giuseppe;

– il verbale di consegna del 7/7/14 presso lo studio dottori commercialisti associati del dott. Bellavia;

– le dichiarazioni degli 8 testimoni sentiti in ordine alle biciclette detenute dalla famiglia Stasi nella abitazione di Spotorno;

– i rilievi fotografici della bicicletta detenuta a Spotorno;

Tematica scarpe:

– la documentazione bancaria relativa all’acquisto delle scarpe Geox;

– la documentazione inerente alle indagini bancarie svolte in relazione all’acquisto di scarpe da parte della famiglia Stasi;

– la foto della classe V B inerente Alberto Stasi;

Tematica foto:

– le dichiarazioni dei Referente informatico Tognali e di Narcisi;

– la consulenza Tinti sul punto.

Respinge tutte le ulteriori richieste in quanto non indispensabili al fine di decidere.”

L’ordinanza si limitava in sostanza ad elencare, indicandoli espressamente, tutti gli elementi di prova che la Corte decideva di acquisire, e cioè tutti quelli su cui tutte le parti avevano espresso il proprio consenso, e respingeva le ulteriori richieste.

Di tali acquisizioni, se utilizzate, verrà dato conto quando verranno affrontati i singoli specifici punti cui le stesse si riferiscono.

All’udienza del 24/11, interamente dedicata alla requisitoria del Procuratore Generale, quest’ultimo prestava il consenso anche all’acquisizione delle dichiarazioni rese da Andrea Strada, che la Corte quindi acquisiva.

Veniva infine dato atto della mancanza negli atti (concordemente rilevata da tutte le parti) di un album composto da 41 fotografie, sequestrato il 20/8/07 (“Album personale di fotografie contenente 41 fotografie di Stasi e di Chiara Poggi e altre amiche e relativi negativi”).

Le successive udienze del 27/11 e del 3/12 erano dedicate la prima alle conclusioni delle parti civili, la seconda a quelle della Difesa dell’imputato.

8- La Corte osserva

La Corte ritiene che il quadro indiziario a carico di Alberto Stasi sia stato rafforzato dall’ampia rinnovazione istruttoria svolta, così da poter pervenire con la dovuta necessaria certezza all’affermazione della penale responsabilità del predetto in ordine all’omicidio che gli viene contestato.

Il percorso motivazionale seguito è, anche in questo caso, partito dai rilievi della sentenza di rinvio della Cassazione, che verranno di seguito indicati uno ad uno, e ai quali verrà quindi fatto specifico riferimento.

9.1 – la scena del crimine e l’alibi di Stasi

Il primo (n. 7 della sentenza della Cassazione) è costituito da quella che può definirsi la “fotografia” della scena del crimine, necessario punto di partenza di tutte le successive analisi. E’ infatti pacifico, e incontestato, che Chiara Poggi la mattina del 13 agosto 2007 aprì fiduciosa il cancello e la porta di casa dopo averne disattivato l’allarme.

Il visitatore mattutino era certo persona che lei ben conosceva e probabilmente aspettava, tanto da non preoccuparsi di accoglierlo ancora in pigiama, con il letto sfatto e la televisione accesa, in una casa non ancora riordinata e con le finestre chiuse.

L’interpretazione delle tracce ematiche secondo la BPA, utilizzate per ricostruire le modalità dell’omicidio, ha poi evidenziato che la vittima venne colpita già nell’ingresso, ai piedi della scala di accesso ai piano superiore, e quindi trascinata lungo il corridoio verso la porta a libro della cantina.

Tale porta si presenta, chiusa e dall’esterno,identica alle altre porte dell’abitazione, così chel’avere gettato il corpo giù da quelle scale induce aritenere che l’aggressore ben conoscesse anche lacasa e la dislocazione dei locali.

Ulteriore dato che confluisce verso tale dupliceconoscenza, già più volte sottolineato, è l’assenzadi segni che possano ricondurre l’aggressione adun tentativo di furto o di violenza.

Nulla infatti è stato né spostato né sottrattonell’abitazione, e Chiara non ha subito abusi.

Uno sconosciuto aggressore, come un ladro sorpreso da una presenza inattesa, avrebbe inoltre presumibilmente esaurito la sua reazione violenta nell’ingresso, così da poter subito scappare senza attardarsi ulteriormente per nascondere il corpo. Non solo, ma ciò che più rileva, è che Chiara non si è difesa e non ha reagito affatto, a ulteriore conferma del rapporto di estrema confidenza e intimità col visitatore, e del fatto che proprio per questo si fidasse di lui e non si aspettasse in nessun modo di venire da lui così brutalmente colpita.

Anche la univoca direzione – al capo – dei colpi inferti appare poi significativa, come è stato correttamente sottolineato, “di un rapporto di intimità scatenante una emotività” giustificabile solo tra soggetti che si conoscevano bene. Già questi primi elementi consentono di ritenere quindi che l’omicida appartenesse alla cerchia delle persone più vicine alla vittima e, anche da soli, di escludere l’ipotesi alternativa dello sconosciuto-aggressore-ladro, che deve quindi essere considerata “fantasiosa e astrusa, distante dai senso comune delle cose”.

L’avere da subito individuato Alberto Stasi come il primo soggetto nei cui confronti andavano indirizzate le indagini non costituisce quindi, come sostenuto dalla Difesa, un preconcetto (una “presunzione di colpevolezza”) derivante dalla risposta all’interrogativo (nonché luogo comune) : “se non lui, chi?”

Siamo al 13 agosto, in un paese di modestedimensioni, la più parte degli amici e dei vicini dicasa era in vacanza, così come i genitori di Stasi ei genitori ed il fratello di Chiara.

Tutte e due le case erano vuote e a disposizionedei due ragazzi, entrambi soli.

L’imputato era rimasto a Garlasco perché dovevaconcludere la tesi di laurea, i cui termini diconsegna erano di prossima scadenza.Chiara, che lavorava ed era invece in ferie,decideva quindi comprensibilmente di restare anche lei a Garlasco, per fargli compagnia e stargli vicina.

Gli accertamenti svolti tra parenti, conoscenti, amici, colleghi di lavoro di Chiara non hanno evidenziato nessuna anomala frequentazione della giovane né in quei periodo, né prima, così come quelli sui tabulati telefonici (ma sul punto si tornerà anche oltre): tutti coloro che a diverso titolo avevano, o avevano avuto nel tempo, legami con la giovane sono infatti stati sentiti nelle indagini, e di tutti costoro sono stati verificati gli alibi.

La vittima era poi una ragazza riservata e prudente, che non aveva ampie frequentazioni. Gli stessi amici che facevano parte della compagnia di Stasi hanno descritto Chiara in questi medesimi termini, e confermato che la sua presenza in compagnia era legata unicamente a quella di Alberto.

Anche quest’ultimo, del resto, non ha fornito alcun elemento idoneo ad individuare altri possibili ambiti di maturazione di un delitto all’apparenza inspiegabile.

A questo punto è opportuno svolgere alcune considerazioni sulle modalità di conduzione delle indagini sul delitto, che hanno trovato conferma anche nelle ultime acquisizioni del presente procedimento.

La Corte ha infatti preso atto delle molte criticità di alcuni degli accertamenti svolti, riconducibili ad errori e negligenze anche gravi, e non solo all’inesperienza, degli inquirenti: anche tali criticità verranno affrontate nel prosieguo, ma non si può negare che in molte occasioni sia stato proprio l’imputato (personalmente e non solo) ad indirizzare e a ritardare le indagini in modo determinante e a sé favorevole (quindi sostanzialmente fuorviante).

Quella che la Difesa ha descritto come una condotta di “massima disponibilità” da sempre mostrata da Stasi in questo processo, è infatti suscettibile di una diversa lettura: la stessaSuprema Corte, nella sentenza di rinvio, ne ha significativamente dato atto, sottolineando una situazione “connotata dalla messa a disposizione da parte dello stesso imputato, pur nei tempi correlati allo sviluppo delle indagini, di buona parte del materiale utilizzato a fini di prova (scarpe, computer, auto, bicicletta)”.

Tale atteggiamento, insieme al tempo trascorso dai fatti, che ha poi irrimediabilmente compromesso o reso impossibili alcuni accertamenti, ha avuto effetti positivi soltanto per l’imputato, assolto sia in primo che in secondo grado.

Alberto Stasi quindi, nell’immediatezza del delitto, era individuato come il possibile omicida, non già sulla base di un ragionamento aprioristico e totalmente avulso dal contesto, ma sulla base di considerazioni logiche e fattuali, supportate da regole di comune esperienza nei delitti in cui il primo dato che emerge è quello dell’esistenza di un rapporto di “familiarità” tra vittima e assassino (rapporto che in questo caso si poteva dedurre dalla stessa scena del crimine). E’ ovvio che ciò non basta ad affermare la penale responsabilità del soggetto sottoposto a indagini, perché la formulazione del giudizio di responsabilità necessita di prove, o di indizi, che presentino quelle caratteristiche che l’art. 192 comma 2 c.p.p. impone.

In tal senso quindi la prima doverosa verifica è quella dell’alibi fornito dall’indagato.

Questi dichiarava di essere rimasto a casa tutta la mattina del 13/8, a scrivere la tesi di laurea. Come si è detto, gli accertamenti svolti su telefoni e computer (da lui consegnato il 14/8 e sottoposto a ripetuti e scorretti accessi da parte dei carabinieri) evidenziavano quelle 3 possibili “finestre temporali” in cui Stasi avrebbe potuto allontanarsi da casa.

Di tali “finestre temporali” la prima è stata individuata come l’unica concretamente possibile, anche sulla base della collocazione dell’ora della morte della vittima (anche in questo caso originariamente indicata in un orario diverso, ed errato, dallo stesso medico legale). Tale individuazione può ora darsi per pacifica (n. 7.3 della sentenza di rinvio) ed è infatti unicamente su quei 23 minuti (dal disinserimento dell’allarme, alle 9.12, da parte di Chiara, all’accensione dei pc alle 9.35 da parte di Stasi, in casa sua) che si sono incentrate analisi e discussioni sull’alibi dell’imputato. Secondo l’accusa questi si sarebbe infatti portato in bicicletta in via Pascoli (a meno di 2 Km dalla sua abitazione) e, dopo il delitto, avrebbe fatto rientro a casa, acceso il computer e proseguito nel lavoro di compilazione della tesi interrotto la sera prima a casa di Chiara.

Il lasso temporale di cui sopra è stato ritenuto astrattamente compatibile con la commissione dell’omicidio.

La perizia disposta in questo giudizio ha rinforzato tale elemento: la breve durata dell’aggressione – in termini maggiori rispetto a quanto sostenuto nei precedenti giudizi – è stata infatti sottolineata, sia nell’elaborato che in udienza, dal perito medico legale dott. Testi sulla base di una serie di considerazioni che smentiscono i precedenti Periti e che la Corte condivide.

Ci si riferisce, in particolare, al punto 3.1.5 della perizia (pag. 60), in cui si sostiene, a supporto di quanto invece affermato dai periti del Gup, che “nell’ambito della gora ematica presente alla base della scala che sale al primo piano sono chiaramente visibili dei capelli della vittima e questo è un reperto usuale nelle aggressioni con corpi contundenti dotati di spigoli acuti. Secondariamente, ipotizzando anche piccole ferite lacero-contuse dei cuoio capelluto o del massiccio facciale, è sufficiente un tempo assai breve per determinare la formazione di una gora ematica come quella osservata alla base della scala. La macchia in questione ha un aspetto complesso ed è stata causata in parte dalla colatura par gravità dei sangue dalle ferite, ed in parte dalla strisciatura determinata dalle mani della vittima Nell’elaborato è stata quindi effettuata una ricostruzione approssimativa della forma e dell’estensione originale della gora ematica, dimensionata in circa 52000 mm quadrati; considerando la dimensione di una piastrella (96100 mm quadrati) e versando 30 cc di sangue sulla stessa, la gora prodotta è risultata delle dimensioni di 3931 1 mm quadrati. Il che ha fatto ritenere che la quantità di sangue che aveva prodotto quella prima gora ematica non fosse superiore a 50 cc.

Il gocciolamento continuo di una flebo di 50 cc di sangue (simulato come si è visto in sede peritale) si è concluso in meno di 3 minuti (pagg. 60-61 della perizia).

Dopo avere tramortito la vittima l’aggressore la trascinava verso la porta di accesso della cantina, ma a questo punto, “forse per una sua reazione”, la colpiva di nuovo al capo, nello spazio antistante alla porta del corridoio (come evidenziato nella ricostruzione effettuata sulla base della BPA, considerate le macchie sullo stipite destro di tale porta e quelle da trascinamento in direzione della porta della cantina). Davanti a quest’ultima la giovane era ancora colpita con violenza al capo, come dimostrato sia dall’ampia gora ematica davanti alla porta a libro, che dalla proiezione di piccole gocce di sangue sul pavimento, che dalle macchie sulla stessa porta a libro, che veniva aperta per consentire il “lancio” del corpo giù dalle scale.

Al proposito non si può che rimandare alla ricostruzione del percorso fatto dall’assassino, effettuata in perizia partendo dalle impronte delle sue scarpe.

In tale ultimo elaborato inoltre, per la prima volta, si sono considerate le scale e la loro conformazione, il che ha consentito di quantificare anche i tempi di discesa e scivolamento del corpo, che il dott. Testi ha indicato come assai limitati, considerata la ripidezza dei gradini e la forza iniziale impressa dal “lancio” del corpo, che ha reso la prima parte dello scivolamento molto rapido.

La limitata durata complessiva dell’azione omicidiaria appare peraltro un dato difficilmente contestabile anche se si aderisse all’ipotesi dello sconosciuto aggressore, che a maggior ragione si sarebbe allontanato immediatamente dal luogo del delitto. Né appare pensabile che un omicidio come quello in questione (senza reazione da parte della vittima) possa essersi prolungato oltre pochi minuti, in questo caso dalla prima fase, che costituisce la concretizzazione del proposito, poi necessariamente portato a rapida maturazione. E nemmeno è pensabile che l’assassino, dopo avere inferto i primi colpi, abbia sostato in attesa del da farsi davanti al corpo di Chiara: al contrario, proprio il trascinamento (azione per il cui compimento il dott. Testi ha individuato la necessità di un paio di secondi) senza tentennamenti di quei corpo verso quella porta, che all’apparenza era come le altre, dimostra ancora una volta come lo stesso abbia agito in fretta, con lucidità e fredda determinazione.

Quanto poi al tempo necessario per percorrere in bicicletta la distanza tra le due abitazioni, lo stesso è già stato indicato in misura (6-7 minuti) egualmente compatibile con la finestra temporale in questione.

Le ulteriori operazioni di ripulitura, eliminazione di abiti e scarpe, ricovero del mezzo usato, ecc. non devono essere necessariamente collocate in quei 23 minuti complessivi, ben potendo le stesse venire portate a compimento anche successivamente (a al proposito va posto l’accento anche su quelle che sono state individuate, quanto all’alibi di Stasi, come le ulteriori finestre temporali).

Nel presente procedimento la Difesa dell’imputato ha ipotizzato una riduzione della finestra temporale in questione partendo dalle dichiarazioni rese nel 2009, davanti al Gup, dalla teste Travain, la vicina di casa, che quel 13 agosto era transitata in auto davanti a casa Poggi intorno alle 9.30 e aveva nel frangente notato, oltre alla bicicletta nera (su cui ci si soffermerà poi), il cancelletto spalancato e le persiane di tutte le finestre chiuse. Proprio tale dettaglio, che includeva anche la porta finestra della cucina (invece aperta) secondo la Difesa induceva a ritenere che a quell’ora Chiara (la sola che poteva avere aperto quella porta finestra) dovesse essere ancora viva. Quanto alla precisione dell’orario in cui la Travain era passata di lì, la stessa derivava dall’analisi dei tabulati telefonici relativi al suo cellulare, già acquisiti agli atti allo scopo di verificare con certezza il giorno in cui la teste era transitata davanti alla villetta e aveva notato la bicicletta nera.

Va tuttavia osservato che la Travain, in macchina e in movimento, non poteva in alcun modo avere notato le condizioni della portafinestra della cucina: ciò emerge con chiarezza dalle foto di casa Poggi scattate dai CC di Vigevano. L’alto muro di cinta e la conformazione del cancello (dotato di un’alta banda in ferro, piena) consentono infatti di vedere le finestre del piano superiore (tutte chiuse in quel momento), ma non quella delta cucina al piano terra. La teste riferiva quindi correttamente quello che aveva potuto vedere dalla sua visuale al posto di guida e in transito: una casa completamente chiusa ad eccezione del cancelletto pedonale, in effetti spalancato.

Le attività che risultano essere state compiute da Stasi al computer (visione di immagini pornografiche, stesura di due pagine di tesi), costituiscono poi dati “neutri”, inidonei ad escludere o a supportare un alibi. Sono infatti innumerevoli i casi dì cronaca in cui efferati assassini hanno continuato a svolgere le loro abituali attività sia prima che dopo il delitto commesso, per cui si potrebbe anche sostenere che l’avere lasciato tracce dei lavoro di compilazione della tesi integri la volontà di precostituirsi un alibi, volto a dimostrare di non avere in nulla mutato le proprie abitudini. Del resto Stasi non era andato in vacanza ed era rimasto a casa proprio per completare la tesi di laurea, e sotto questo profilo farsi vedere in giro per Garlasco quella mattina (al contrario di quanto sostenuto dalla sua Difesa) avrebbe alimentato sospetti nei suoi confronti.

Il giudizio di compatibilità già sostanzialmente formulato nei precedenti giudizi tra l’arco temporale di cui sopra, in cui l’imputato non ha un alibi verificabile, e la commissione del delitto risulta quindi rafforzato nel giudizio di rinvio. Nella sentenza di annullamento la Cassazione ha rimarcato come l’omessa considerazione “dell’assenza di alibi processualmente accertato di Stasi nella fascia oraria tra le 9.12…e le 9.35” “in relazione alla quale la Corte di appello, in continuità argomentativa con la sentenza di primo grado, ha ritenuto che non vi fosse incompatibilità sotto il profilo astratto tra la dinamica dell’aggressione….e il rientro di Stasi in bicicletta presso la propria abitazione, conferma ulteriormente la già rilevata….violazione delle regole preposte alla valutazione detta prova indiziaria e la illogicità della motivazione che, anche in questa circostanza, ha omesso di valutare la concordanza degli indizi in termini di consistenza logica” (pagg. 88-89).

9-2 – Il percorso di Stasi-scopritore e la sua verifica

Il secondo tema da analizzare è quello che attiene alla condotta dì Stasi “scopritore”: trattasi di tema di centrale rilevanza, che si collega alla verità o meno del suo racconto alla luce dell’assenza delle sue impronte in casa Poggi e di tracce di sangue o di DNA della vittima sulle sue scarpe (controllate dai carabinieri nell’immediatezza del loro intervento e consegnate dall’imputato il giorno seguente) (n. 8 della sentenza di rinvio). Proprio la necessità di accertare la possibilità che Stasi avesse compiuto quel percorso, che sosteneva di avere compiuto, senza sporcarsi, aveva infatti indotto il giudice di primo grado a disporre la perizia, che questa Corte ha completato nel presente giudizio, in attuazione di quanto indicato dalla Cassazione.

Anche al proposito si impone tuttavia una doverosa premessa: nessuna perizia di nessun genere è in grado di stabilire, con assoluta certezza, il percorso fatto da Alberto Stasi una volta entrato in casa di Chiara.

Sul punto quindi non si può che partire dalle sue dichiarazioni.

La perizia che in questo processo è stata completata ha perciò unicamente fornito alla Corte una serie di elementi di valutazione (sia di carattere tecnico-scientifico, che in termini probabilistici) da utilizzare per formulare il proprio giudizio.

Proprio per tali considerazioni, che scaturiscono del resto dalla stessa natura peculiare di detta perizia, l’approccio adottato dai Periti nominati dalla Corte e sopra illustrato, appare quello più corretto e maggiormente idoneo, non solo per la sua esaustività in termini di completezza (la perizia ha risposto a tutti i quesiti già posti dal giudice di primo grado, anche a quelli rimasti in quel giudizio senza risposta, sul presupposto che ciò non fosse possibile), ma soprattutto perché prescinde e non considera l’infinita variabile dei comportamenti umani, che, occorre sottolinearlo, non sono codificabili né classificabili.

La Corte quindi, per pervenire al giudizio di credibilità o meno dei racconto di Stasi-scopritore, lo ha analizzato criticamente, utilizzando anche i dati forniti dalla perizia.

Tale analisi è necessariamente partita da un comportamento concreto, quel comportamento che l’imputato ha sostenuto di avere nel frangente tenuto, che è cosa diversa da tutti i possibili comportamenti che si possono tenere in determinate circostanze, e che è l’unico, come si è detto, da cui possa discendere questo giudizio.

Stasi ha dichiarato di essersi accorto del sangue nell’ingresso, di essersi subito diretto nella sala dove c’era la televisione accesa, di avere visto che il bagno era vuoto, di non avere visto niente vicino alla porta di accesso ai box, di essere tornato indietro e di avere aperto la porta delle scale della cantina, di essere sceso di uno o due gradini e di avere visto Chiara sulle scale con il viso verso terra. Di averne notato solo il pigiama rosa, ma non lesioni, di avere visto il sangue sui primi gradini, di essere scappato e di avere chiamato il 118 per chiedere un’ambulanza, che non attendeva portandosi invece, in auto, in caserma. Nelle successive dichiarazioni dello stesso 13 agosto, poche ore dopo, precisava che la porta di ingresso era chiusa ma non a chiave; confermava il medesimo percorso già descritto specificando di avere evitato le macchie di sangue mantenendosi sul centro-destra del corridoio; la porta a libro era chiusa e ne descriveva la difficoltà di apertura; una volta aperta notava il sangue in basso a destra e, sporgendosi in avanti dal primo gradino, il corpo di Chiara “all’incirca nella parte finale delle scale” nel tornare all’esterno rapidamente non faceva attenzione a dove metteva i piedi; non escludeva, pur senza ricordarlo, di avere calpestato qualche macchia di sangue. Confermava di avere visto il sangue sui primi due gradini della scala della cantina e nel salone davanti alle scale verso il primo piano, mentre negava di avere visto la macchia davanti alla porta della cantina. Non aveva mai acceso la luce. Nel consegnare (la mattina del 14/8) le scarpe che aveva ai piedi precisava essere le stesse indossate ai momento del suo ingresso in casa.

li 17/8 ribadiva di non avere prestato molta attenzione a dove metteva i piedi, di essersi mosso velocemente; ribadiva ancora di avere fatto fatica ad aprire la porta della cantina (e descriveva imovimenti compiuti), di essere sceso due gradini per avvicinarsi al corpo di Chiara, di avere notato una macchia di sangue in basso, alla sua destra, nel punto di congiunzione tra il muro e il marmo dei gradini.

Tale comportamento, considerato unicamente alla luce della descrizione fattane dall’interessato, presenta indubbie incongruenze e illogicità, con particolare riguardo alla sua inspiegabile incompletezza.

E’ infatti pacifico che quella mattina Stasi fece una serie di telefonate, sia dal cellulare, che dal telefono fisso, alla fidanzata (sia sul cellulare, che sul telefono di casa), di cui 3 negli ultimi 5 minuti: proprio a causa della ripetuta mancanza di risposte, ma in particolare dopo la sola tra quelle chiamate che invece è risultata avere avuto una risposta (dovuta all’entrata in funzione del segnale di allarme dell’abitazione) egli si sarebbe infine deciso, a suo dire, ad andare personalmente a controllare in via Pascoli.

Appare perciò quantomeno strano che lo stesso, trovandosi in un comprensibile stato di ansia dovuto, appunto alla mancanza di risposte che perdurava da ore, accortosi inevitabilmente che era accaduto qualcosa di grave (avendo notato il sangue e nell’ingresso anche un oggetto rovesciato), dopo avere trovato Chiara, all’esito di una ricerca descritta come affannosa, riversa in fondo alle scale, non si sia precipitato accanto a lei per verificarne le condizioni. Tanto più che io stesso chiamava il 118, dimostrando così di avere pensato che la giovane potesse essere ancora viva.

Al contrario, usciva velocemente dalla casa, si ricordava di chiudere il cancello e saliva in macchina diretto in caserma, senza attendere nemmeno i soccorsi.

La chiamata al 118 non veniva poi nemmeno effettuata da casa Poggi, ma successivamente, quando Stasi era già salito in macchina, ed era ancora in corso al suo arrivo in caserma.

Una volta tornato con i carabinieri, rimaneva all’esterno della villetta, ancora senza verificare quali fossero le condizioni della fidanzata.

Se è pur vero che in determinate circostanze si possono tenere comportamenti privi di logica e dei tutto incongrui, e ferma restando la impossibilità di “tipicizzare” i comportamenti umani a fronte di particolari situazioni, nel caso in questione tale illogicità, col supporto dei risultati della perizia, si trasforma in inverosimiglianza. Come si è visto infatti Stasi-scopritore non lasciava tracce dei suo passaggio all’interno della villetta: pur in ansia, pur di corsa, pur spaventato, pur in presenza di plurime macchie di sangue anche di notevoli dimensioni, pur ponendo in essere una manovra a suo stesso dire complessa e non di immediata attuazione per aprire la porta a libro, pur essendo sceso e risalito di uno o due gradini dalla scala, avrebbe evitato di calpestare macchie, di imbrattarsi le scarpe, di trasferire sangue sui tappetini dell’auto su cui subito saliva. Al proposito non si può che rimandare ai risultati sopra riportati della perizia, che escludono il passaggio di Stasi dal luogo dei delitto nei termini da lui forniti, ed escludono altresì che tale passaggio possa essere avvenuto senza il trasferimento di sangue sulle sue scarpe prima e sui tappetini dell’auto poi (la cui positività al luminol è stata indicata permanere anche a distanza di molti giorni).

Ed è proprio la lettura congiunta dei dati di comune esperienza, di quelli di carattere tecnico- scientifico, dei risultati statistici, a consentire la formulazione di quel giudizio di “probabilità logica” auspicato dalla Cassazione, che induce a ritenere che Alberto Stasi abbia mentito quando ha sostenuto di essere entrato in casa Poggi soltanto alle 13.50, e che la sua descrizione dei ritrovamento del corpo di Chiara e della scena dei crimine sia quella che poteva fare invece Stasi- aggressore, che aveva ucciso la fidanzata ore prima, per poi simularne il successivo ritrovamento.

Del resto la stessa Difesa, per spiegare tale anomalia, ha dovuto ricorrere a quel concetto di “evitamento implicito” (indubbiamente risolutivo di ogni perplessità ed incertezza, ma sconosciuto a chi da anni si occupa di omicidi) che, a prescindere dai puntuali rilievi mossi dal dott. Testi (di cui si è dato conto, e che la Corte condivide pienamente) appare altresì del tutto avulso sia dalla descrizione che io stesso imputato ha fatto dei suoi movimenti (sia all’andata, che al ritorno) che dai dati peritali, la cui lettura appare univoca. E neppure possono essere condivise le conclusioni espresse ai proposito dal giudice di primo grado che, dopo avere invece dato conto sia l’“evitamento inconsapevole” (con riferimento, in particolare, alle macchie più grosse), che delle incerte condizioni di essiccamento delle macchie, che della datazione del controllo delle suole e dell’auto, è infine pervenuto alla conclusione per cui Stasi avrebbe potuto non sporcarsi perché aveva’ solo “lambito” la grande macchia posta davanti alla porta a libro.

Anche in questo caso infatti si è fatto ricorso ad un termine estremamente vago, al quale è egualmente difficile attribuire un contenuto preciso.

La perizia da ultimo svolta, con il suo approccio “conservativo” e attraverso quella che potrebbe definirsi una “inversione” di metodo (l’individuazione degli spazi vuoti quanto al percorso, le condizioni di secchezza quanto a tutte le macchie di sangue e l’analisi dei tappetini dell’auto quanto al trasferimento del sangue dalle suole delle scarpe) consente di pervenire a diversa conclusione in termini molto meno vaghi e opinabili.

Altro argomento utilizzato per supportare la tesi difensiva è quello secondo cui anche gli operanti intervenuti su richiesta di Stasi non avrebbero lasciato tracce del loro passaggio: ma i due carabinieri che avevano seguito Stasi, oltre a calzare scarpe dalla suola liscia (come evidenziato dalle fotografie delle stesse, riportate nella Relazione finale del Ris del 16/11/07), erano stati comunque da lui allertati sul fatto che in quella casa fosse accaduto qualcosa di grave (ancorché egli avesse prospettato un incidente domestico), che imponeva quindi una particolare cautela. Gli operanti hanno infatti riferito di avere prestato attenzione (sicuramente consapevole) alle macchie di sangue, allo scopo di evitarle: gli stessi poi trovavano aperta la porta della cantina, così da non avere avuto bisogno di compiere quella complicata manovra necessaria ad aprirla, che avrebbe reso ancor più complicato l’evitamento della grossa gora ematica che si trovava lì davanti.

Una ulteriore critica della Difesa ha avuto ad oggetto le verifiche dei tappetini, che si è sostenuto essere state fatte con analogo sistema anche nel precedente giudizio, ma con diversi risultati.

Sul punto va osservato che gli accertamenti svolti in questo giudizio sono stati particolarmente accurati (il dott. Testi è anche docente di chimica- legale) ed hanno costituito una novità rispetto ai precedenti.

L’attuale perizia infatti ha per la prima volta individuato il trasferimento sui tappetini come elemento non adeguatamente approfondito in precedenza, ma maggiormente idoneo a fornire risultati significativi.

Lo stesso imputato, come si è detto, ha dichiarato di essere subito salito in auto dopo essere uscito dalla villetta di via Pascoli. In quel momento quindi le sue scarpe avevano compiuto pochissimi passi, il tempo trascorso dal controllo e le superfici di calpestamento in tale arco temporale, cioè quegli elementi che il giudice di primo grado aveva considerato per pervenire ad un giudizio di incertezza, sono risultati in tal modo ininfluenti. Le modalità della sperimentazione che qui è stata condotta (sempre estremamente “conservative”, quindi di maggior favore per l’imputato) hanno infatti portato a risultati in sostanza sempre positivi. Nell’unico caso in cui il risultato è stato negativo (il tappetino abbinato alla scarpa che aveva calpestato la minore quantità di tracce ematiche), l’ispezione visiva dopo aspersione di luminol risultava si negativa, ma la fotografia scattata con le modalità che vengono utilizzate nel documentare le indagini con il luminol evidenziava due aree di luminescenza ben definite (pag. 146 dell’elaborato).

A proposito delle osservazioni svolte sul punto dalla Difesa, si impongono poi alcune considerazioni: le sperimentazioni sui tappetini sono state ripetute su sollecitazione della Difesa stessa dell’imputato in modo da tenere conto delle osservazioni critiche dalla stessa mosse. Sono stati pertanto utilizzati tappetini meno abrasivi ed è stato il più possibile limitato il contatto suole-tappetino, mediante un solo appoggio e senza sfregamento; la verifica è stata infine effettuata dopo alcuni giorni (circa 4), nei corso dei quali vi erano state anche forti piogge. In sede peritale nessuna osservazione è stata mossa alle suddette sperimentazioni, né ai relativi risultati.

Va detto in ogni caso, e ancora una volta, che la precedente sperimentazione (i cui risultati sono riportati nella tabella alla pag. 134 della perizia Varetto) non rispondeva a tali requisiti di completezza ed esaustività.

In quella occasione poi vi era stato un passaggio “intermedio” delle suole su un pezzo di moquette, prima dell’ingresso in auto.

Tuttavia, anche a fronte della maggiore disomogeneità delle verifiche, effettuate con mezzi diversi (luminol e TMB) e in diverse sedi di prelievo (pedali, frizione, suola e tappetino), per almeno uno dei suddetti elementi anche allora il risultato era stato positivo.

Nel riproporre le considerazioni svolte sul punto nelle sentenze di assoluzione, la Difesa (attraverso i suoi consulenti professori Barzaghi, Pedotti e Pinto, di cui ha depositato un elaborato) ha sottolineato come i risultati della perizia svolta nel giudizio di rinvio abbiano sostanzialmente confermato i precedenti quanto alla probabilità matematica di non calpestare alcuna traccia ematica.

In tale elaborato i consulenti hanno altresì calcolato la possibilità, sempre in termini numerici, di non calpestare mai le parti “potenzialmente problematiche” della macchia posta davanti alla porta a libro, e ci si è ampiamente ancora soffermati sulle “strategie di evitamento”, per concludere in termini di “significativa probabilità (pari al 73,74 % in relazione al primo scalino) che l’imputato non abbia intercettato il cluster di macchie più evidenti e l’altissima probabilità che, al più, abbia calpestato macchie isolate, distanti dall’evidente cluster allocato di macchie”.

La prima osservazione che si impone al proposito è che con tale elaborato, depositato a notevole distanza dalle udienze in cui sono stati i sentiti i Periti (come si è detto nel contraddittorio delle parti, e alla presenza dei consulenti della Difesa, che avevano presenziato a tutte le operazioni peritali, imponendo anche la ripetizione di alcuni test) si sia cercato di introdurre negli atti del processo risultati che rispondono a quesiti che la Corte non ha posto, e frutto di attività che si sono svolte al di fuori del controllo delle parti. In ogni caso, come è stato ribadito più volte, i Periti nominati dalla Corte hanno considerato tutte le macchie presenti sulla scena del crimine secche, secondo quell’approccio estremamente conservativo di cui si è detto. Al contrario, i consulenti sono ancora una volta partiti da un dato (la parte “potenzialmente problematica” della grande macchia) di difficile individuazione (e proprio per questo considerata tutta secca dagli attuali periti).

Quello che hanno fatto i consulenti di parte costituisce quindi un accertamento non solo non richiesto, ma dipendente da una serie di variabili non verificabili in alcun modo. Peraltro all’udienza del 15/10 il dott. Testi, a specifica richiesta dei Difensore dell’imputato, precisava che“la possibilità di intercettare la macchia più grossa nelle manovre di apertura della porta” costituiva un accertamento ex novo, e precisava che “noi abbiamo premesso che le manovre di apertura della porta non le abbiamo neanche considerate cautelativamente, cioè abbiamo considerato un passaggio quasi continuo proprio per evitare di dover entrare nella valutazione di un comportamento sicuramente non modellizzabile”; e ancora: “proprio perché abbiamo considerato la possibilità teorica di mettere il piede solamente sulle parti vuote, quindi abbiamo considerato la possibilità di non intercettare, non quella di intercettare, ma proprio per questo motivo noi abbiamo considerato, abbiamo dato come presupposto che tutte le macchie fossero secche..” (pagg. 8 e 9 delle trascrizioni).

Quanto infine all’influenza dei meccanismi dell’evitamento inconsapevole” anche nella fase di discesa dei gradini, in uno spazio angusto e di elevata pendenza, non si può che rimandare alle osservazioni già svolte, e ripetere, a maggior ragione, quanto anticipato in premessa a proposito dei parametri utilizzati dalla Corte nella valutazione delle dichiarazioni sul percorso che l’imputato ha sostenuto di avere effettuato. Conclusivamente quindi la Corte ritiene che la perizia da ultimo effettuata abbia fornito molti elementi nuovi su cui fondare il proprio giudizio: la completezza degli accertamenti condotti con strumenti di altissima precisione, la metodologia numerica utilizzata e l’approccio conservativo adottato, nonché la ripetizione delle sperimentazioni, hanno infatti consentito di pervenire con maggiore tranquillizzante certezza al dato processualmente valutabile, da sommarsi a tutti gli altri.

9-3 – Il racconto di Stasi-scopritore e la sua verifica

Il punto 9 della sentenza di rinvio è dedicato alle censure mosse alle incongruenze e/o falsità dei racconto di Stasi.

L’argomento è sicuramente collegato ai precedenti, e ha come punto di partenza le dichiarazioni dell’imputato ai carabinieri Serra e Muscatelli, i primi intervenuti sul posto. Ci si riferisce, in particolare, alla qualificazione del delitto come possibile “incidente domestico”. Sono evidenti le ripercussioni che detta qualificazione poteva assumere, prima fra tutte le modalità di ingresso nell’abitazione da parte degli operanti, che in effetti non indossavano i calzari. Ma a prescindere da tali considerazioni, ciò che maggiormente colpisce nella prospettazione dell’incidente domestico è il suo collegamento con la peculiare dinamica dell’omicidio, quella già evidenziata dalla BPA e ripresa nella perizia (incontestata dalla Difesa).

L’aggressore infatti non si era limitato a colpire la vittima nell’ingresso, ma ne aveva poi trascinato il corpo, senza indugio, proprio nella direzione delle scale della cantina.

Tali scale, come si è detto particolarmente ripide, sono costituite da 13 gradini, e formano due curve (una a livello del 2°, e l’altra del 4° gradino): il corpo di Chiara era collocato a testa in giù, con i piedi quindi più vicini alla porta a libro, in una posizione che in effetti ben avrebbe potuto essere ricondotta ad una caduta accidentale (dovuta alla forte pendenza della scala), a faccia avanti. Gli iniziali colpi al capo inferti alla vittima quindi, destinati e comunque idonei a tramortirla, potevano a ragione costituire l’antecedente” di una caduta dalle scale simulata, purché seguito da una spinta del corpo, appunto, lungo le scale. E’ stato tuttavia accertato, come pure si è detto, che Chiara, nella fase del trascinamento iniziale, aveva un moto reattivo, così che l’aggressore era costretto a colpirla ancora, e con maggiore violenza, in prossimità della porta a libro (come dimostrato dalle macchie di sangue in tale posizione).

In sostanza la simulazione di un incidente domestico spiegherebbe il lancio del corpo lungo le scale, altrimenti del tutto inutile, perché l’azione omicidiaria non aveva motivo di concludersi giù dalle scale, potendo esaurirsi al piano terreno, là dove aveva avuto inizio.

E ancora una volta è difficile ricondurre tale azione ad un estraneo, che non poteva certo sapere cosa ci fosse al di là di quella porta, così come colpisce che Stasi, nella sostenuta veste di scopritore, abbia parlato di un incidente domestico. Non solo, ma è lo stesso Stasi a riferire di avere aperto la porta a libro, il che contraddice chiaramente l’ipotesi di un incidente domestico, perché se davvero Chiara fosse caduta dalle scale la porta di accesso alle medesime sarebbe stata aperta.

L’accusa pubblica e quella privata hanno poi evidenziato altre incongruenze nel racconto dell’imputato, con riguardo alla posizione finale del corpo della vittima, e alle condizioni del volto di quest’ultima. Ciò sul presupposto che Stasi avesse descritto quello che aveva visto in qualità di aggressore, ma non poteva avere visto come scopritore.

Secondo la Difesa invece Stasi aveva davvero scoperto il corpo di Chiara nei termini da lui descritti, avendo ammesso di essere sceso per uno o due gradini dalla scala, mentre le tracce delle scarpe dell’assassino si fermavano al gradino “0”, ovvero quello a livello del piano. Anche le discusse condizioni di illuminazione dell’ambiente (Stasi sosteneva di non avere acceso la luce, che invece era accesa) non erano tali da impedire, sempre secondo la Difesa, quella descrizione della vittima da lui fatta. Al proposito va osservato che la descrizione piuttosto generica, quanto alla collocazione del capo di Chiara (verso la fine delle scale), ben può adattarsi sia alla fugace visione di un aggressore (che non si era fermato ad assistere alio scivolamento completo dei corpo lungo le scale), che a quella di uno scopritore sconvolto dalla scoperta, e perciò comprensibilmente impreciso. Anche in questo caso soccorrono, nella valutazione del comportamento che si sostiene tenuto, i dati fattuali pacificamente emersi (e confermati in aula dal perito dott. Testi) e cioè:

– che, attesa la conformazione della scala, e considerate le “pennellature” lasciate dai capelli della vittima intrisi di sangue lungo il muro di destra della stessa, dopo il primo impatto sui 4° gradino, io scivolamento dei corpo era stato continuo e si era sviluppato in tempi brevi fino al 7° gradino;

– che l’ulteriore scivolamento del capo dal 7° e fino al 9° gradino (posizione finale assunta) era invece stato molto più lento.

In sostanza quindi anche senza scendere le scale si poteva sostenere (sulla base della posizione delle gambe) che il capo di Chiara si trovava “verso la fine dellescale“.

Maggiori dubbi derivano invece dalla descrizione dei volto di Chiara da parte di Stasi: l’imputato infatti, nelle prime dichiarazioni rese il 13/8, riferiva di avere notato il nitore della pelle del lato destro del suo viso (la parte destra non era coperta da sangue e da indumenti né tantomeno da capelli, era abbastanza visibile, anzi preciso che constatavo il colore nitido della sua pelle che era chiaro).

Tutte le foto in atti mostrano al contrario che (già in occasione dei primi scatti) il viso della vittima era quasi interamente intriso di sangue, così come i capelli che parzialmente lo coprivano. E ciò, soprattutto, se si tiene conto dalla visuale indicata dall’imputato, ovvero dall’alto, a livello dei primi due gradini, e della curva delle scale. Il biancore del volto quindi stride con tati risultanze, mentre sembrerebbe meglio adattarsi ad una visione “precedente”, in cui cioè il viso della giovane non era ancora in quelle condizioni, tipiche del trascorrere del tempo dalla morte e del deflusso del sangue dalle ferite, tutte localizzate al capo.

In effetti Stasi aveva modificato le sue prime dichiarazioni a fronte della fotografia che gli veniva mostrata nella circostanza (la numero 10 D): “Non ho visto in quel momento parte dei viso scuro anzi ho visto una parte bianca che risaltava rispetto alio scuro che era intorno).

E ancor più il 22/8, sentito questa volta in qualità di persona sottoposta ad indagini, precisava che quella che aveva riconosciuto come la parte bianca del viso, era ciò che aveva “pensato o creduto di aver visto perché in effetti si è trattato di un istante” e riconduceva tale sensazione alla condizione di panico e paura che aveva provato. Tutti coloro che erano successivamente intervenuti si sono poi limitati a riferire di una generica buona visibilità, ma nessuno si è soffermato sulle condizioni del volto di Chiara; in ogni caso tutti coloro che erano intervenuti dopo Stasi avevano compiuto un maggiore percorso di discesa lungo le scale, così da poter verificare più da vicino le condizioni della giovane.

Se quindi ogni singolo dato fornito dal racconto dell’imputato (qualificazione del fatto, posizione del corpo, visione dei volto, percorso compiuto, comportamento nel frangente tenuto) non può essere considerato come un segmento valutabile al di fuori del complessivo contesto in cui lo stesso risulta inserito, il percorso argomentativo che la Cassazione ha esplicitamente imposto deve tenere doverosamente conto di tutti i dati nella loro “composizione unitaria”.

Sempre la Suprema Corte ha poi sottolineato ai proposito che nei precedenti giudizi di merito la ritenuta veridicità dei racconto di Stasi trovava fondamento “ nella stessa autoreferenzialità del suo racconto” (pag. 91): tale rilievo, insieme alle incongruenze ed illogicità di cui sopra, mina irrimediabilmente, ad avviso di questa Corte, la credibilità del racconto stesso.

9-4 – Le biciclette

Il punto 10 della sentenza di rinvio ha ad oggetto la “bicicletta nera da donna”, che costituisce un altro importante tema approfondito nel presente giudizio.

Anche al proposito si impongono alcune doverose considerazioni, che scaturiscono da alcuni incontestabili (e incontestati) dati fattuali:

– la teste Bermani, sentita alle 18.30 del 13/8 dal brig. Pennini, dichiarava che quella mattina, intorno alle 9.10, aveva notato appoggiata nei pressi dei cancello pedonale dell’abitazione di Poggi Chiara, una bicicletta da donna, di colore nero, in ottimo stato, della quale ricordo in particolare che aveva la sella molto alta, facendomi intuire che la persona che utilizzava la bici fosse di statura aita e la stessa sella era del tipo con le molle cromate ben visibili e sopra il parafango delta ruota posteriore notavo un portapacchi di piccole dimensioni di quelli che si alzano a molla”. Alle 10.30, quando se ne andava da casa della figlia, la bicicletta non c’era più.

– Alberto Stasi, nelle prime sit rese alle 16 il 13/8 in caserma (verbale chiuso alle 19.30), a domanda rispondeva di avere “a disposizione 3 biciclette. Una bicicletta classica da uomo di colore bordeaux metallizzato, una bicicletta da donna di colore argento ed una bicicletta piccola ripiegabile di colore rosso metallizzato “.

– Nicola Stasi, padre dell’imputato, sentito alle 19.30 del 13/8 dal mar. Marchetto e dal brig. Pennini, a specifica domanda sul numero di biciclette possedute dalla famiglia, rispondeva di averne 3, e precisamente “Una da uomo di colore giallo e rosso, in ottimo stato, di cui non ricordo la marca, che teniamo nel garage di casa nostra in via Carducci 29; una da donna di colore grigio chiaro, in ottimo stato di cui non ricordo la marca, con un cestino in vimini di colore nero montato sui parafango, che teniamo nei garage di casa nostra in via Carducci 29; una da donna di colore nero, in ottimo stato di cui non ricordo la marca, con un cestino in vimini montato sul parafango, che teniamo nel magazzino della mia ditta.”

– Elisabetta Ligabò, madre dell’imputato, sentita alle 21 del 13/8 sempre dal mar. Marchetto e dal brig. Pennini, ad identica domanda rispondeva di avere 3 biciclette “Una da uomo di colore oro, in ottimo stato, di cui non ricordo la marca, che teniamo nei garage di casa nostra in via Carducci 29; una da donna di colore nero, in ottimo stato di cui non ricordo la marca, con un cestino in vimini di colore nero montato sul parafango, che teniamo nel garage di casa nostra in via Carducci 29; una da donna di colore nero e grigio, in ottimo stato di cui non ricordo la marca, con un cestino in vimini di colore nero montato sul parafango, che teniamo nel magazzino della ditta di mio marito.

Dalle suddette dichiarazioni, sicuramente rese da soggetti che non si erano preventivamente sentiti sul punto, né che avevano potuto accordarsi, emerge quanto segue:

– che la famiglia Stasi aveva a disposizione 3 biciclette;

– che l’unica da uomo (diversamente descritta quanto al colore da parte di tutti e 3 i membri della famiglia) era custodita nei garage di casa;

– che la bicicletta nera da donna, la più simile per descrizione a quella vista dalla teste quella mattina, era l’unica non menzionata da Alberto Stasi, che ne menzionava invece un’altra, non menzionata dai suoi genitori;

– che detta bicicletta nera da donna era collocata dalla madre di Stasi nel garage della propria abitazione, e dal padre di Stasi nei magazzino della propria ditta.

La mattina seguente, alle 9.10 circa, il mar. Marchetto (comandante della locale Stazione) si recava, unitamente al padre di Stasi, nel negozio dei predetto in via Tramia a Garlasco, per visionare la bicicletta da donna.

Nel frangente, come riportato nella Relazione di servizio da lui redatta, constatava “che la bicicletta visionata non corrispondeva alla bicicletta indicata nei verbale di sommarie informazioni rese dalla signora Bermani Franca, in quanto non aveva le molle sotto la sella e sui parafango anteriore era posizionato un cestello in vimini L’operante quindi, sulla base di una sua “constatazione”, si limitava a redigere “per dovere di ufficio” la relazione di cui sopra, in cui faceva espresso riferimento ai due dettagli da cui era discesa la sua constatazione, e cioè l’assenza di molle, e la presenza di un cestino in vimini (che tuttavia non risultava essere stato menzionato dalla teste).

Da tale relazione emerge la pacifica collocazione in via Tramia, la mattina del 14/8, di una bicicletta nera da donna.

Nulla invece è dato sapere quanto alla collocazione della stessa il precedente 13/8, considerate le dichiarazioni rese sul punto da Ligabò Elisabetta, e dando per scontato (ma sul punto non vi è certezza) che si trattasse della medesima bicicletta.

Ai proposito sono state anche acquisite, in questo procedimento e su richiesta della Difesa dell’imputato, le dichiarazioni rese, in sede di indagini difensive, da Merlino Daniele, dipendente della ditta del padre di Stasi, il teste ha confermato la presenza di “una bicicletta da donna nera” nei locali della ditta, bicicletta utilizzata talvolta da Nicola Stasi, il Merlino riferiva anche del sistema di allarme a tutela di detti locali, il cui codice di inserimento/disinserimento era noto a suo dire soltanto a lui e a Nicola Stasi. Anche tali dichiarazioni tuttavia non paiono idonee a smentire i dati di cui sopra, ovvero quanto dichiarato da Ligabò Elisabetta e la precisa individuazione della bicicletta (che la stessa difesa individua e descrive negli stessi termini di “macrodescrizione” di cui sopra).

L’importanza della bicicletta (quella di cui aveva parlato la teste Bermani), per il suo indubbio “collegamento” con il delitto, emergeva anche dalle dichiarazioni della Travain (la vicina di casa di cui si è detto) che, alle 15.45 del 17/8, dichiarava di avere notato, il 13/8 (la certezza sulla data si acquisiva in seguito, grazie ai tabulati telefonici) “una bicicletta modello da donna di colore nero, senza cestino anteriore, né portapacchi a molla posteriore, appoggiata con il pedale al marciapiede dalla parte dell’abitazione della Poggi Chiara, notando il manubrio a me frontalmente, pertanto con la parte anteriore del velocipede verso il fondo chiuso della via. Il mezzo aveva anche un fanale anteriore di grandezza normale, senza catarifrangenti ai raggi, senza copriraggi a tessuto e corde, forse senza scritte particolari sul telaio, comunque non di recente costruzione”

La Travain quindi forniva una descrizione del mezzo non perfettamente corrispondente a quella che ne aveva fatto la Bermani (quantomeno con riguardo alle sue condizioni e alla sua collocazione).

Quest’ultima, risentita alle 19.15 del 25/8, specificava ulteriori dettagli, ovvero che la bicicletta era appoggiata col lato destro del manubrio sul muro di cinta e senza cavalletto. Confermava la presenza di molle sotto la sella e del portapacchi a molle sul parafango posteriore. Ne precisava le buone condizioni, e confermava di non avere visto la parte anteriore, né la marca. Il 20/8 (una settimana dopo il delitto) veniva effettuata una perquisizione in via Carducci 29, nell’abitazione degli Stasi, e nel frangente erano sequestrate 2 biciclette: una da uomo color oro, di marca Umberto Dei Milano, e l’altra da donna, di colore grigio e nero con cestino nella parte anteriore, di marca Girardengo.

il Gup decideva di sentire, all’udienza del 13/6/09, la Bermani, che ancora ribadiva la sua descrizione e, nel frangente, precisava che la bicicletta che aveva visto era priva di cestino, sia davanti che dietro.

In realtà l’audizione della teste, a due anni dal fatto, era principalmente incentrata sulla tipologia della bicicletta, perché nelle indagini era stata sequestrata la bicicletta da uomo Umberto Dei (che la teste disconosceva), mentre la Bermani aveva ripetutamente sostenuto, e confermato, che quella che lei aveva visto era da donna. In sostanza quindi nel procedimento di primo grado indagini e accertamenti avevano avuto ad oggetto la bicicletta da uomo Umberto Dei sequestrata, pur a fronte della descrizione che avevano fatto le testimoni oculari di altra bicicletta che, ai di là di alcune discrepanze, era sicuramente una bicicletta da donna.

Le parti civili evidenziavano sino da subito la necessità di acquisire la bicicletta nera da donna visionata da Marchetto nel negozio del padre di Stasi, ma tale necessità era esclusa dal Gup, che disponeva invece, nell’ambito dell’attività di integrazione istruttoria da lui svolta, l’audizione di Marchetto, sentito il 30/10/09. In tale sede il teste affermava, a supporto della propria condotta (il mancato sequestro della bicicletta in quanto da lui ritenuta non rispondente alla descrizione fattane dalla Bermani) di avere personalmente assistito alla deposizione della teste, quando il 13/8/07 era stata sentita in caserma (circostanza questa che al contrario non emerge dal verbale di sit), e attribuiva alla teste cose che la stessa non aveva detto (quanto ai portapacchi posteriore e al cestino anteriore). Descriveva in ogni caso la bicicletta come “usata” e “da lavoro”.

Questa Corte, come si è anticipato, ha disposto l’acquisizione degli atti dei procedimento instauratosi a seguito dell’esposto presentato dalla famiglia Poggi avanti alla Procura di Vigevano (oraPavia) nei confronti dello stesso Marchetto (indagato per falsa testimonianza, in seguito all’imputazione coatta formulata dal Gup in tale sede).

Nella sentenza di rinvio la Cassazione, ha evidenziato, come elemento indiziante, l’utilizzo di una bicicletta nera da donna da parte dell’omicida, la disponibilità di una bicicletta di tal genere da parte della famiglia Stasi e l’omessa menzione di tale bicicletta da parte dell’imputato. Sulla base di tali considerazioni ha poi posto l’accento, a proposito della rivalutazione delle richieste istruttorie (punti 13 e 14.3 della sentenza di rinvio) sulla necessità di acquisizione della suddetta bicicletta, che, come si è detto, è stata effettivamente sequestrata da questa Corte con la prima ordinanza di rinnovazione istruttoria del 30/4.

Le successive vicende che hanno avuto ad oggetto questa bicicletta, dì cui è stato dato conto dettagliatamente più sopra, si intrecciano poi con gli accertamenti effettuati in primo grado sulla bicicletta Umberto Dei allora sequestrata, che avevano consentito di verificare la presenza di DNA di Chiara sui pedali della stessa.

Prima di analizzare le molteplici risultanze emerse nel presente procedimento, è però doveroso anche in questo caso, svolgere alcune considerazioni: la prima si ricollega a quanto già esposto a proposito della criticità e dei ritardi nelle indagini. Già solo le discrepanze immediatamente riscontrabili, sulla base delle difformi dichiarazioni rese da Stasi e dai suoi genitori e delle dichiarazioni della Bermani, a partire dalla sera stessa dell’omicidio, avrebbero imposto di procedere all’immediato sequestro di tutte le biciclette in uso alla famiglia Stasi, ovunque le stesse si trovassero.

Al contrario ciò non è avvenuto, all’esito di una valutazione quantomeno opinabile da parte delMarchetto, autore di un atto di cui sfugge anche la definizione; venivano invece sequestrate, a distanza peraltro di una settimana, due biciclette, di cui una almeno completamente diversa da quella descritta da due testimoni, certamente da donna. E al proposito non si può trascurare che tale anomala situazione, che di sicuro non ha giovato alle indagini, altrettanto sicuramente non ha danneggiato l’imputato, così come adombrato dai suoi Difensori.

La solerzia del mar. Marchetto nel “non sequestrare” (ma neppure fotografare) una bicicletta che, a poche ore dall’omicidio, aveva assunto un indubbio interesse investigativo, proprio perché era stata vista dalla teste oculare in concomitanza con la commissione del delitto (e per questo la stessa si era subito recata a riferirlo in caserma), Stasi non ne aveva parlato affatto, mentre sua madre l’aveva collocata nel garage di casa, e suo padre altrove, si è concretizzata nella eliminazione di una fonte di prova la cui rilevanza derivava inequívocamente dalle difformi dichiarazioni di cui sopra.

Il fatto che Marchetto si fosse recato di prima mattina con Nicola Stasi a “visionare” la bicicletta evidenzia poi come entrambi fossero ben consapevoli della rilevanza del dato, a fronte della suddetta difformità di dichiarazioni, che a quei punto nessuno di loro poteva più ignorare. E non a caso quella bicicletta è stata l’unica cosa che Stasi, col suo atteggiamento definito collaborativo, non ha nominato né successivamente messo concretamente a disposizione degli inquirenti, come ha fatto invece con tutto il resto.

La Difesa dell’imputato ha sempre sostenuto la “difformità” della bicicletta visionata dal mar. Marchetto rispetto alla descrizione che ne aveva fatto la Bermani, ed ha in tal modo spostato l’attenzione da una difformità descrittiva (comunque oggetto di valutazione che non poteva essere lasciata all’insindacabile giudizio di Marchetto) a una ben più rilevante difformità,costituita dalle dichiarazioni degli Stasi su un elemento in quel momento di primariaimportanza. In sostanza quindi, come sostenuto dalla Cassazione, l’indubbia valenza indiziaria della bicicletta in questione discende proprio “dalla descrizione dei velocipede, presente nello stesso contesto spazio-temporale, da parte di due testi con la stessa espressione terminologica; disponibilità di una bicicletta nera da parte della famiglia Stasi; omessa menzione della stessa da parte di Alberto Stasi” (pag. 92 della sent. di rinvio).

Né può sostenersi che l’attuale acquisizione della bicicletta nera, sostanzialmente “imposta” dalla Cassazione” a distanza di oltre 7 anni dai fatti, abbia dimostrato che “a ragione” Marchetto ‘ non l’aveva allora sequestrata, sempre sul presupposto della sua difformità rispetto a quella descritta dalla Bermani, tanto più che era sottoposta a sequestro la bicicletta Umberto Dei che (fatte salve le “sorprese” inaspettatamente emerse in questo procedimento) nulla aveva a che vedere con il velocipede visto dalla teste oculare. Il tempo intercorso tra il delitto e l’acquisizione della bicicletta lascia ampi spazi a svariate ipotesi, e non consente alcuna certezza, anche se va detto che gli accertamenti che dalla sua attuale acquisizione sono scaturiti hanno anch’essi consentito dì arricchire il quadro probatorio già delineato.

Come si è detto la bicicletta in questione si trovava ora nell’abitazione di via Carducci 29, quindi non più nei locali della ditta di Nicola Stasi: il primo elemento di rilievo scaturito dalla sua visione, di cui si è dato atto, e che è stato confermato da tutti i soggetti “esperti” che la hanno visionata in aula davanti alla Corte, era individuato non già (come sostenuto dalla Difesa dell’imputato) nella “evidente” difformità tra la stessa e la descrizione delle testimoni, bensì nelle sue condizioni di conservazione. tali da fare dubitare, nell’immediatezza, che la stessa potesse essere quella in uso alla famiglia Stasi nel 2007.

In effetti tutti gli accertamenti svolti aventi ad oggetto la predetta bicicletta hanno avuto, almeno inizialmente, proprio lo scopo di accertare la risalenza di tutte le sue componenti a data anteriore al 2007: da tali accertamenti, che presupponevano necessariamente l’individuazione del momento in cui la famiglia Stasi aveva acquisito quei velocipede, è altresì derivata la scoperta di un’altra bicicletta, anch’essa da donna, anch’essa “omaggiata” dalla ditta Officio alla Nuova Invernizzi di Nicola Stasi, anch’essa dotata di alcune caratteristiche rispondenti a quella “macrodescrizione” fattane dalle testi oculari.

Ci si riferisce alla city bike con marce e molle sotto la sella, che la Difesa di Stasi ha collocato nell’abitazione della famiglia a Spotorno. Anche in questo caso il mancato sequestro, o la mancata documentazione fotografica della bicicletta che Marchetto aveva visionato, consentono di formulare soltanto delle ipotesi. La Officio non ne ricordava il colore (in particolare se mono o bicolore), ma solo che era sicuramente da donna. Tale tipologia di bicicletta veniva mostrata alla Corte producendo il volantino che la ditta Officio utilizzava presso i clienti per consentire loro di scegliere quale bicicletta volessero in omaggio.

Dalla consulenza tecnica contabile del dott. Bellavia, (acquisita con l’accordo delle parti), tale bicicletta, a pag. 43, viene indicata come una “city bike 26 di colore grigio e nero da donna con cestino, a sei velocità”.

Dalle dichiarazioni dei vicini di casa degli Stasi a Spotorno (acquisite sempre con l’accordo delle parti) emergeva che soltanto alcuni di loro ricordavano di avere visto i genitori dell’imputato fare uso di biciclette.

in particolare Balangero Egle ne descriveva due, una rosa da donna, ed una sempre chiara (acciaio- bianca, con inserti rossi) da uomo. Anche Marsala Emilia ricordava due biciclette (una rosa e una invece scura, probabilmente nera), mentre Giorgio Eleonora rammentava solo di avere visto il padre di Stasi usare una bicicletta vecchia col portapacchi, di cui non ricordava il colore. Alla Balangero veniva mostrato il volantino raffigurante la city bike, che non riconosceva come da lei vista (“la ricordo di colore più chiaro, senza le forcelle e parte del telaio neri”) egualmente la teste non riconosceva bicicletta Girardengo che le veniva mostrata in fotografia (quella sequestrata il 20/8 insieme alla Umberto Dei). La Difesa produceva un verbale di accesso a Spotorno di uno dei Difensori dell’imputato, lì recatosi insieme alla madre del predetto, in cui viene dato atto della presenza, nel garage di pertinenza della famiglia, di una bicicletta City bike da donna, in parte argento metallizzato e in parte nera, con la scritta bianca e rossa “Confortbike”, le molle di colore nero sotto la sella, le manopole col cambio “Shimano”, un cestino anteriore nero. Detta bicicletta era stata riconosciuta da Ligabò Elisabetta come quella che nei 2005 era stata data in omaggio alla Nuova Invernizzi dalla Officio: tale corrispondenza può certamente essere data per pacifica, ma nulla è dato sapere quanto al momento in cui la stessa sarebbe stata portata a Spotorno, considerato che nessuno dei vicini di casa ha ricordato biciclette in qualche modo identificabili con la suddetta.

E a tale proposito, ferme restando le considerazioni svolte sulle oggettive incertezze rimaste, e sull’impossibilità di sanarle dopo oltre 7 anni, è comunque doveroso porre l’accento sulle molteplici descrizioni che sono state fatte delle numerose biciclette che sono emerse in questo processo.

il fatto poi che il “tema bicicletta”, in tutti suoi risvolti, sia stato oggetto di una contemporanea ed esagerata attenzione mediatica durante tutti questi anni, ha costituito il motivo per cui la Corte non ha ritenuto di risentire né la Bermani, né la Travain, e ha continuato a focalizzare la propria attenzione su quelle prime dichiarazioni (sicuramente autentiche) rese da tali testimoni nell’immediatezza dei fatti. Ciò naturalmente fermo restando il giudizio di attendibilità di entrambe le suddette testimoni: l’attenzione mediatica sull’argomento ha tuttavia, secondo la Corte, comprensibilmente influenzato il loro ricordo negli anni, nel senso che ha irrimediabilmente reso difficile, se non impossibile, distinguere tra ciò le stesse avevano effettivamente visto quella mattina, e quello che in seguito ricordavano di avere visto, secondo meccanismi che appartengono alla comune esperienza (e considerato altresì che almeno la Bermani aveva nel tempo anche reso interviste e dichiarazioni in diverse sedi non giudiziarie). Dei resto già da subito le due testimoni non avevano descritto la bicicletta in termini esattamente sovrapponibili, anche in considerazione del loro diverso punto di osservazione: la Bermani in piedi accanto all’abitazione della figlia ( a una distanza di circa 15 metri) ne aveva notato la parte posteriore, la Travain in auto e in movimento, ne aveva osservato quella anteriore.

Tale diversa prospettiva consente altresì di valorizzare un altro dato, quello del colore: anche la city bike grigia e nera e la stessa Girardengo infatti potevano sembrare nere, avuto riguardo ai diversi possibili angoli visuali. Alla pretesa di precisione assoluta su cui fa leva la Difesa, si possono infatti contrapporre le dichiarazioni rese da Alberto Stasi, da Nicola Stasi e da Elisabetta Ligabò a proposito della Umberto Dei, bicicletta sicuramente a loro riferibile, sicuramente detenuta nel loro garage di via Carducci, sicuramente da uomo, sicuramente acquistata parecchi anni prima, sicuramente usata: ognuno di loro, a parte averne fornito la “macrodescrizione” dell’essere la stessa da uomo, ne ha indicato un colore molto diverso (bordeaux, oro, giallo e rossa).

Se quindi è vero che nei presente procedimento di rinvio non è stato possibile raggiungere certezze in ordine alla precisa individuazione della bicicletta nera da donna collocata davanti a casa Poggi a quell’ora della mattina del 13 agosto, l’istruttoria svolta e le acquisizione effettuate hanno tuttavia consentito di accertare la disponibilità, da parte dì Alberto Stasi, di più biciclette da donna, tutte potenzialmente rispondenti a quella “macrodescrizione” fattane dalle testimoni (e dal Merlino).

La stessa Suprema Corte, nel fare proprio il termine di “macrodescrizione” con riferimento alla bicicletta (accertata come presente dinanzi all’abitazione di Chiara Poggi nella prima parte della mattinata del 13 agosto 2007) ne ha individuato la “potenziale rilevanza costitutiva per una non remota ipotesi alternativa a quella oggettodi imputazione” in rapporto alla valutazioneda farsi circa la possibilitàdi “collocare Stasi in apprezzabile connessione temporale o spaziale con la scena del delitto”. Possibilità che “può solo rappresentare l’esito finale del procedimento logico inferenziale di valutazione dei complessivo quadro indiziario, cui non è estranea neppure la bicicletta Umberto Dei di Stasi, e non del singolo dato indiziario, non idoneo di per sé solo a escludere scenari ricostruttivi diversi o alternativi”.

9-5 – I pedali della bicicletta Umberto Dei e il DNA della vittima

E proprio il richiamo alla (sicuramente) diversa bicicletta da uomo Umberto Dei, sui cui pedali era rinvenuto DNA (sicuramente) della vittima, impone di soffermarsi su tale ultimo dato, ai quale gli accertamenti di cui sopra hanno consentito di attribuire una più forte valenza indiziaria. Se infatti in precedenza mancava un “collegamento” tra quella bici nera da donna vista dalle testimoni e la presenza di DNA di Chiara sui pedali di un’altra bicicletta, non rispondente alla macrodescrizione della suddetta, le indagini scaturite dal sequestro di quest’ultima hanno, soltanto nel processo di rinvio, imposto di soffermarsi sui pedali della Umberto Dei, che in precedenza non avevano suscitato alcun dubbio quanto alla loro appartenenza e “compatibilità” con tale velocipede.

Nel presente procedimento è infatti emerso che proprio i pedali di marca “Wellgo” e di alluminio della Umberto Dei sequestrata il 20/8/07 sono componenti “dissonanti” rispetto a tale specifica tipologia di bicicletta.

Con non poca fatica infatti è stato possibile risalire alla data di acquisto, da parte di Nicola Stasi, della bicicletta in questione, che non è una bicicletta qualunque, bensì, come ha riferito in aula l’Ing. Panzeri, una bicicletta “di nicchia” e “di fascia attissima”, proprio perché dotata di particolari caratteristiche, frutto di un peculiare design, su cui non aveva senso montare pedali di alluminio, non tanto per una questione di valore economico (al contrario, anzi, leggermente più costosi, anche se di pochi centesimi), quanto appunto di design (la bicicletta era stata prodotta in occasione del Giubileo e in numero limitato). Le dichiarazioni del teste si riferivano tuttavia alle 32 biciclette identiche a quella sequestrata (modello Giubileo 51, color corallo), tutte vendute dalla Atala nei periodo compreso tra il 2002 e il 2008 fornite della stessa identica tipologia di pedali, gli “Union 687” di cui si è detto. Nessuna di esse risultava però quella acquistata da Nicola Stasi: soltanto all’udienza del 13/11 il P.G, offriva alla Corte l’individuazione dei soggetto che aveva venduto la Umberto Dei al padre di Stasi, ovvero Giovanni Robecchi, che fino al 2005 era stato titolare di un negozio di biciclette a Garlasco, nella stessa via dove all’epoca era ubicata la Nuova Invernizzi.

Dalle dichiarazioni del predetto (acquisite sull’accordo delle parti) emergeva che quest’ultimo aveva acquistato tra il 2001 e il 2002 la Umberto Dei dì quel modello, che faceva parte di uno stock di 3 biciclette identiche (tutte acquistate e rivendute da Robecchi).

Il teste riferiva di averle tutte vendute così come le aveva ricevute dalla Atala, senza sostituire cioè i pezzi originali.

La data di acquisto dalla Atala era tuttavia antecedente rispetto a quella delle Giubileo di cui aveva riferito Panzeri, ed era quindi riconducibile alla precedente produzione (quella dei F.lli Rizzato), rispetto alla quale il Procuratore Generale non aveva svolto tutti gli accertamenti quanto alla tipologia di pedali forniti, anche se Panzeri aveva dichiarato che la “distinta” delle diverse componenti cui Atala faceva riferimento era la stessa fornita dai Rizzato. Al proposito Robecchi precisava (anch’egli) che la bicicletta Umberto Dei Giubileo “era particolare ed in serie limitata. Aveva già pezzi particolari creati per quella bicicletta e quindi ripeto che non aveva senso cambiare nulla. Escludo inoltre che Stasi mi abbia chiesto di cambiare i pedali originali. ”

Il teste ricordava poi di avere venduto le altre due Umberto Dei Giubileo, identiche, al titolare delle Onoranze funebri di Garlasco (Pertusi Mario) e a Giuseppe Menozzi del bar di C.so Cavour (che in seguito risultava averla ceduta a Mascherpa Giada).

Entrambe le suddette biciclette, di cui sono state acquisite le fotografie, sono risultate dotate di pedali Union (una “made in Germany“, l’altra “made in Marwi”) ovvero di quei pedali che Panzeri aveva indicato come apposti a quella tipologia di biciclette.

In sostanza quindi vi era stata una “continuità” tra la F.lli Rizzato e la Atala (subentrata a quest’ultima) nella produzione della Umberto Dei Giubileo, fornita sempre con le medesime componenti.

La Difesa ha al proposito invece posto l’accento sulle dichiarazioni di altri rivenditori di Umberto Dei Giubileo, secondo i quali non vi sarebbe stata tale uniformità, e in ogni caso i singoli clienti potevano esprimere scelte diverse, optando cioè anche per pedali diversi.

Tali dichiarazioni (che sono state acquisite), peraltro generiche in quanto riferite ad un astratta possibilità di personalizzazione della bicicletta acquistata da parte dell’acquirente, non appaiono idonee a smentire {‘assunto, invece specifico, quanto alla particolarità di quella bicicletta, tale da rendere quantomeno strana (anche se in teoria possibile) la sostituzione di una componente, oltre a tutto in un materiale (l’alluminio) che appare ictu oculi dissonante con le altre componenti.

Se infatti è pur vero che il venditore deve assecondare i gusti del cliente, tuttavia nel caso di specie gli elementi fattuali acquisiti non hanno evidenziato particolari gusti espressi da Nicola Stasi, almeno al momento dell’acquisto, né Alberto Stasi ha fornito elementi a supporto di una sostituzione dei pedali del modello Giubileo della Umberto Dei.

Conclusivamente quindi, questi i dati che sono qui emersi:

– apposizione sulla bicicletta Umberto Dei Giubileo di pedali del tutto diversi da quelli normalmente forniti con quei modello particolare di bicicletta;

– presenza su quei pedali – non di serie – di DNA di Chiara Poggi;

– agevole “sostituibilità” dei pedali di tutte le biciclette;

A ciò deve aggiungersi che era impensabile che detta bicicletta, appunto perché da uomo e completamente diversa da quella descritta dalle testimoni, potesse suscitare interesse investigativo tanto da venire sequestrata, oltre a tutto a una settimana dall’omicidio.

Tutti i predetti elementi sono quindi anch’essi suscettibili di valutazione, ancora una volta, attraverso una lettura unitaria, così come auspicato dalla Cassazione.

Sempre a proposito del DNA di Chiara rinvenuto sui pedali “Wellgo” della Umberto Dei, trattasi di dato pacificamente acquisito e già considerato certo, ma non grave, dal giudice di primo grado sul presupposto della non sicura natura ematica dello stesso.

La Corte, anche in questo caso, non concorda con tale giudizio di “non gravità”: lo stesso Gup (alle pagg. 115 e segg. della sentenza) dà infatti conto delcondizionamento dovuto alle multiple attività già compiute dal consulente tecnico dei P.M. che verosimilmente avevano già esaurite le minute tracce di interesse nonché il tempo trascorso dai fatti (pag. 120), anche se poi ha aderito alle conclusioni dei periti secondo i quali non era possibile “precisare la natura del materiale biologico di Chiara Poggi presente sui pedali della bicicletta di marca “Umberto Dei Milano”. Esso potrebbe essere costituito da qualunque tipo di tessuto riccamente cellulato. Stante la capacità di persistenza del DNA in tracce secche disperse nell’ambiente, non è possibile stabilire in alcun modo – che sia scientificamente fondato e non meramente congetturale – i tempi e le modalità di deposizione di detto materiale biologico sconosciuto sui pedali.

Gli stessi Ris che avevano condotto nel settembre 2007 gli accertamenti tecnici irripetibili ex art. 360 c.p.p. sui pedali, nel novembre 2009 (in sede di osservazioni, davanti al Gip, a quanto sostenuto dai Periti) confutavano le suddette conclusioni, ribadendo sia la cospicua quantità di DNA della vittima rinvenuta in tale sede, che la “compatibilità” con la natura ematica di quel fluido biologico definito “altamente cellulato” (secondo il Ris al microscopio erano addirittura visibili cellule relative ai globuli bianchi del sangue). I Periti avevano infatti eseguito ulteriori campionature sulla bicicletta per sottoporle ad un test specifico per la ricerca della emoglobina umana, che aveva dato risultati negativi: ciò era tuttavia avvenuto due anni dopo la prima campionatura ad opera dei Ris, quando cioè gran parte del materiale era stato ormai asportato. In sostanza quindi, sempre secondo i consulenti del Ris, si potevano escludere quei fluidi caratterizzati dallo scarso contenuto cellulare, come urina, feci, sudore e lacrime, ed altresì quelli la cui presenza su un pedale era “difficilmente spiegabile, fatte salve ipotesi fantascientifiche”, quali fluidi vaginali, sangue mestruale, cerume eforfora. Restavano da valutare saliva e muco nasale: ma anche l’ipotesi dello starnuto era ritenuta da scartare, non potendo produrre depositi concentrati di saliva (e poi avrebbe interessato altre parti della bicicletta, il che non era stato accertato); residuavano infine soltanto lo sputo o la pulizia del naso col pedale (inimmaginabile). Ipotesi, in sostanza, sempre secondo i suddetti consulenti, suggestive e ad effetto, che nulla hanno di scientifico, così come non trovano alcun riferimento a reali modalità dì rilascio/contatto di tracce biologiche.

Inoltre era ritenuto incomprensibile che venisse scartato il sangue e invece contemplata la possibilità che quelle tracce potessero ascriversi a materiale cerebrale (essendo il cervello un organo interno irrorato dal sangue).

Conclusivamente quindi la presenza di notevole quantitativo (il dato quantitativo è pacificamente ammesso anche dai periti del primo grado) di DNA della vittima su l’unica componente della bicicletta Umberto Dei modello Giubileo “dissonante” rispetto a tutte le altre sue componenti, costituisce un ulteriore elemento che ha acquisito una maggiore valenza indiziante alla luce degli accertamenti svolti nell’attuale procedimento di rinvio.

Per quanto riguarda infine l’utilizzo di una bicicletta da parte di Alberto Stasi, che il giudice di primo grado ha indicato come “macchinoso” in quel frangente, nel non concordare con tale definizione (alla luce degli elementi e delle considerazioni già svolte), la Corte osserva ancora: che sicuramente l’imputato in passato si era servito di una bicicletta per andare dalla fidanzata (anche nei giorni immediatamente precedenti all’omicidio, come riferito dal vicino di casa dei Poggi, Curti Sacchi); che il tempo necessario per coprire la distanza tra le due abitazioni era di pochi minuti (6/7,come si è detto); che lo stesso era quindi del tutto compatibile con la prima finestra temporale già evidenziata.

9-6 – Le impronte digitali di Stasi suldispenserdel sapone

Al punto 11 della sentenza della Cassazione si considerano le censure mosse alla non rilevanza indiziaria attribuita alla presenza di impronte digitali di Stasi sul dispenser del sapone liquido che era sul lavandino dei bagno al piano terreno di casa Poggi.

L’avere ritenuto tale indizio non grave né preciso è stato valutato dalla Cassazione ulteriore dimostrazione “di un approccio non coerente ai principi deità prova indiziaria e del non corretto percorso metodologico che la Corte (di secondo grado) ha inteso adottare nella lettura dei dati acquisiti costantemente volto a considerare gli elementi acquisiti isolatamente e avulsi dal loro contesto”.

Anche in questo caso la Corte ritiene che la rinnovazione istruttoria svolta abbia rafforzato tale elemento indiziario, già particolarmente significativo.

Come si è detto l’aggressore, sulla base della ricostruzione del percorso dallo stesso effettuato, dopo il “lancio” del corpo della vittima giù dalle scale della cantina, entrava – anche in questo caso con sicurezza (dimostrativa della sua conoscenza della ubicazione dei locali) – nel bagno del piano terra e sostava (come evidenziato dalle impronte delle scarpe a pallini intrise di sangue) davanti al lavandino.

Il fatto che tale sosta fosse motivata non solo dalla necessità di controllarsi allo specchio (per verificare di non “tradire” col proprio aspetto ciò che aveva appena commesso), ma anche soprattutto da quella di lavarsi le mani (secondo quelle che sono considerazioni di buon senso e di comune esperienza) discende con assoluta certezza da un dato ora pacifico, ovvero che l’aggressore si fosse copiosamente imbrattato le mani col sangue di Chiara.

Il Procuratore Generale ha infatti mostrato in aula gli ingrandimenti delle fotografie scattate dai CC diPavia (fife n. DSC03029, DSC03076) che evidenziano le quattro tracce dei quattro polpastrelli insanguinati dell’assassino, visibili sulla maglia rosa del pigiama indossato da Chiara, all’altezza della spalla sinistra, cui corrisponde, nella parte anteriore della stessa maglia, un frammento di impronta palmare insanguinata. Dette impronte (purtroppo mai analizzate, perché la maglia arrivava al medico legale completamente intrisa di sangue) dimostrano sia le modalità di afferramento del corpo per scaraventarlo in fondo alla scala, che il fatto che l’assassino si fosse appunto sporcato le mani, e avesse pertanto avuto la necessità di andare a lavarsele in bagno, necessità che nei precedenti giudizi non era stata data per certa.

Le manovre di lavaggio sono evidentemente state poste in essere con notevole accuratezza, tanto che, come si è visto, non venivano rilevate tracce di sangue né sulla leva del miscelatore, né sul dispenser (che peraltro si possono azionare anche senza utilizzare le mani), né nei sifone dei lavandino.

Proprio tale assenza di tracce ematiche portava il giudice di primo grado a ritenere che l’aggressore non si fosse lavato te mani, circostanza questa che ora è stata invece smentita.

Sul flacone del sapone non è stata individuata nessuna impronta di altri soggetti, diversi o sconosciuti, nemmeno di Chiara o dei familiari (normali utilizzatori di quel bagno e di quel sapone), il che, unito appunto al dato di cui sopra (sicuro lavaggio delle mani da parte dell’assassino, che ha sporcato per questo di sangue il dispenser, e perciò ha dovuto lavarlo) attribuisce ora una indubbia e più forte valenza probatoria alle uniche due impronte rilevate, che appartengono all’imputato.

La collocazione dell’impronta di quel dito sul dispenser non poteva quindi che essere avvenuta in un momento successivo a quello del lavaggio e ripulitura (di mani, lavandino e dispenser), nei momento in cui cioè io stesso veniva rimesso con cautela al suo posto dopo essere stato pulito. E che le cose siano andate così è avvalorato dal fatto che l’impronta sia quella di un dito che poco si usa e normalmente non coinvolto nelle abituali manovre di pressione sul dispenser. La Difesa ha sostenuto che Stasi avrebbe potuto usare il sapone la sera prima per lavarsi le mani dopo avere mangiato la pizza (sui cui cartoni venivano rinvenute ulteriori impronte a lui attribuite): ciò tuttavia non spiega perché proprio solo l’impronta dell’anulare e perché in quella anomala posizione, così come non spiega l’assenza di impronte di Chiara (che pure aveva mangiato la pizza).

Soltanto un precedente e accurato lavaggio del dispenser fornisce quindi una plausibile risposta agli interrogativi che si sono posti, e conferma la gravità e precisione dell’indizio. Le uniche residue impronte rimaste sullo stesso all’esito di tale lavaggio infatti non possono che riportare all’ultimo soggetto che lo aveva maneggiato, allo scopo di pulirlo, e quindi all’assassino .

Quanto al DNA della vittima, io stesso non è stato ritenuto di sicura origine ematica: il dato è stato perciò utilizzato dalla Difesa per sostenere l’assenza di contaminazione tra sangue della vittima e impronta di Stasi, non essendovi “corrispondenza” tra tale DNA e l’impronta. Ma sul flacone residuava anche un DNA di tipo misto (in misura assai inferiore) in commistione con quello della madre di Chiara: è perciò ben possibile che tale DNA non fosse riconducibile con certezza a sangue, il che nulla toglie agli elementi certi che sono stati acquisiti, ovvero il lavaggio del flacone e la presenza sullo stesso delle due impronte di chi per ultimo lo aveva usato, posizionandosi proprio davanti al lavandino, come dimostrato dalla collocazione delle impronte delle sue scarpe, anch’esse insanguinate.

9 – Le ulteriori risultanze

All’esito di tale analisi, che ha seguito, come anticipato, le censure mosse dalla Cassazione alla sentenza annullata, occorre soffermarsi anche su ulteriori dati, pure acquisiti nel procedimento di rinvio, anch’essi quindi da considerare.

Il primo discende dalla sicura individuazione (avvenuta soltanto in questo processo) delle scarpe indossate dall’aggressore: le impronte erano già state all’epoca individuate, ma l’esatto dimensionamento delle stesse effettuato nell’ambito della nuova perizia qui disposta, ha consentito anche di individuare la tipologia e la taglia della suddetta calzatura, ovvero una calzatura di marca “Frau” e di numero 42. All’epoca infatti i Ris avevano concluso per la impossibilità di fornire la taglia di quelle calzature senza conoscerne la tipologia (pag. 198 della relazione conclusiva del 16/11/07). Nulla di quanto indossava l’aggressore è stato ovviamente rinvenuto, così come non è mai stata trovata l’arma del delitto.

I genitori di Chiara hanno riferito della sparizionedi un martello e di alcuni asciugamani.

Tutte le suddette sparizioni (a partire dagli abiti edalle scarpe dell’assassino) si spiegano facilmentee costituiscono un dato piuttosto frequente: diconseguenza non stupisce che nulla sia statotrovato, né a casa di Stasi, né altrove.

Le scarpe dell’aggressore poi avevano lasciatotracce ben visibili, e quindi costituivano a ragioneil primo “biglietto da visita” di chi aveva commessol’omicidio.

Dal momento dei suo ingresso in caserma e fino alla consegna, il giorno successivo, Alberto Stasi indossava la scarpe Lacoste ampiamente analizzate a proposito del percorso dello scopritore.

Come pure si è detto il 14/8 l’imputato consegnava spontaneamente ai CC dì Vigevano (verbale di acquisizione in atti) 3 paia di scarpe (un paio da calcetto marca “Puma” nere con logo rosso, di taglia non visibile; un paio “Adidas” di colore blu e blu elettrico di taglia US 10 e 1/2; un paio “Lacoste” color bronzo con logo bianco taglia 41, quelle che aveva ai piedi il giorno precedente), li successivo 20/8, in sede di perquisizione, venivano sequestrate delle scarpe erroneamente indicate come di marca “Camper” di colore marrone, ma invece marca “Frau” taglia 43; un paio di scarpe Trapper Loafer sport tg. 43 e un paio di scarpe “Avia” di taglia non visibile. Tutte le suddette scarpe (indicate, quanto a quelle sequestrate, in modo alquanto confuso) sono state fotografate nella nota tecnica descrittiva del Ris del 5/6/14 che è stata acquisita dalla Corte, in cui i reperti, tutti fotografati, sono stati soltanto riordinati, e sulla cui acquisizione tutte le parti sono state d’accordo.

Ciò che emerge in ogni caso da tale materiale è che l’imputato possedesse, tra le altre, anche scarpe della medesima marca e della medesima taglia dell’aggressore.

Quanto alla prima, la stessa non è di estesa diffusione, mentre la taglia può certamente variare a seconda del modello, come riferito in aula dai testi Nardelli e Mattei, e dimostrato dalle foto acquisite anche su richiesta dell’imputato. Che l’imputato indossasse anche la taglia 42 discendeva altresì dall’acquisto delle scarpe marca Geox (il 16/9/06) che hanno costituito oggetto di approfondita indagine.

Tali scarpe infatti non risultavano tra quelle acquisite o sequestrate in occasione del delitto (quelle sopra elencate), e ciò aveva indotto il Procuratore Generale a ricercarle, partendo dagli acquisti effettuati da Stasi con carta di credito. La Difesa ha poi dimostrato che Stasi calzava proprio quelle scarpe durante la celebrazione del processo davanti al Gup di Vigevano, e che lo stesso quindi non aveva mai occultato nulla. Tali dati di fatto tuttavia, da una parte confermano la parzialità e l’incompletezza delle prime acquisizioni probatorie (fatte “a rate”, in parte coi sistema adottato dall’imputato della “spontanea consegna”, in parte col mezzo della perquisizione, evidentemente però esteso non a tutto, come già era avvenuto per le biciclette, ma solo a qualcosa, sulla base di valutazioni che sono sfuggite alla Corte, e che in ogni caso non possono essere quelle offerte dalla Difesa, e cioè che Stasi non poteva stare in quei giorni senza scarpe), dall’altra consentono di formulare un giudizio di “compatibilità” tra la scarpa indossata dall’assassino e la tipologia e la taglia delle scarpe indossate dall’imputato.

Secondo la Difesa le ampie indagini condotte dal Procuratore Generale allo scopo di dimostrare acquisti di scarpe occultati da Stasi dimostrerebbero invece proprio il contrario, e cioè che l’imputato non aveva nulla da nascondere, considerata l’individuazione e la tracciabilità di tutto ciò che aveva acquistato. Sul punto si può solo aggiungere che non tutto viene acquistato con carta di credito, che l’imputato era persona che evidentemente riusciva a mantenere a lungo in buone condizioni le proprie scarpe (come dimostrato da quelle sequestrate o acquisite) e che la produzione di quei tipo di suole delle Frau indossate dall’assassino aveva avuto inizio nel 2002, quindi da parecchi anni.

Molto si è dibattuto, in udienza, sul “tema graffi”, che, ad avviso della Corte, deve essere necessariamente valutato insieme ad altri dati: la perizia sul capello e sui margini ungueali della vittima, il rapporto tra quest’ultima e l’aggressore quale emerge dalla scena del crimine, le modalità dì conduzione dell’indagine.

La Corte non ha infatti attribuito particolare rilevanza ai graffi di cui hanno riferito solo ora i due verbalizzanti e che invece il paramedico sostiene di non avere notato.

Secondo le conclusioni del perito Prof. De Stefano nei materiale sottoungueale della vittima vi erano tracce di DNA maschile, degradato e contaminato per il decorso del tempo, che non consentiva alcuna indicazione né positiva, né negativa di identità. A suo avviso poteva trattarsi anche di DNA già presente prima dell’omicidio.

La dinamica dell’aggressione evidenzia come Chiara non abbia neppure avuto il tempo di reagire, dato questo che pesa come un macigno (molto più di due piccoli eventuali graffi) sulla persona con cui era in maggiore e quotidiana intimità. E che esclude con assoluta certezza che a commettere l’omicidio possa essere stato non solo un estraneo, ma anche un conoscente o un soggetto (peraltro nemmeno individuato) con cui avesse una qualche dimestichezza, perché anche in questo caso la giovane avrebbe reagito, urlato, graffiato, si sarebbe in qualche modo divincolata e difesa, avrebbe assunto le posizioni tipiche di chi, aggredito, cerca di farsi scudo almeno con le mani e le braccia.

Come si è visto invece Chiara è rimasta del tutto inerme: era così tranquilla, aveva così fiducia nel visitatore da non fare assolutamente niente, tanto da venire massacrata senza alcuna fatica, oltre che senza nessuna pietà.

Ha ragione la Difesa di Stasi quando sostiene che Pennini e Serra nelle numerose annotazioni e relazioni di servizio a loro firma nulla hanno detto dei graffi, così come nulla hanno detto della formazione pilifera sul braccio sinistro di Stasi, ripetutamente fotografato senza una “apparente” spiegazione. Nemmeno le scarpe di Stasi scopritore sono state fotografate e immediatamente sequestrate, pur a fronte dei dubbi da subito scaturiti dal suo racconto, e quindi sfugge il criterio utilizzato dagli operanti nella scelta di fotografare o meno, repertare o meno, evidenziare o meno, sequestrare o meno, rendere o meno noto, e a chi tra i superiori, quanto verificato ed osservato.

In dibattimento è emerso il mancato coordinamento tra i diversi soggetti che avevano in carico le indagini, con le conseguenze e i ritardi dì cui già si è detto, ed anche questo è un dato di fatto che ha sicuramente reso la scelta del rito abbreviato “secco” la migliore scelta difensiva possibile, vanificata soltanto dalla sentenza di annullamento.

E in effetti la gran parte delle considerazioni difensive, raccolte nelle corpose note di udienza, è costituita dalla ripetizione delle considerazioni svolte nelle due sentenze assolutorie, fondate sui risultati di una perizia incompleta o sulle stesse numerosissime consulenze di parte, come se non fosse poi intervenuta la pronuncia di annullamento della Suprema Corte.

11-Il movente

Anche se al proposito sono state formulate plurime ipotesi, il movente dell’omicidio non è stato individuato.

Nel presente procedimento è stata acquisita la sentenza di annullamento senza rinvio con cui la Cassazione ha annullato perché il fatto non sussiste la condanna di Stasi per il reato di detenzione di materiale pedopornografico (in assenza di prove su come fossero pervenuti nel suo computer alcuni frammenti di files di tale contenuto, nonché sul fatto che l’imputato li avesse visionati, o che dal nome dei medesimi se ne potesse arguire il suddetto contenuto, o che il predetto avesse utilizzato una ben individuata stringa di ricerca volta a tale scopo), reato astrattamente individuabile, nelle sue implicazioni, come una possibile “causa” del delitto. Sicuramente invece Alberto Stasi (il dato è pacifico) deteneva consapevolmente nel suo computer migliaia di immagini di contenuto pornografico, tutte da lui catalogate e classificate (“ossessivamente” secondo il P.G.) in cartelle diversamente denominate.

Da alcune di tali cartelle emerge l’interesse dell’imputato per alcuni “temi” che inducono a riflettere. Ci si riferisce, in particolare, alle immagini di donne incinte riprese durante atti sessuali, di donne mature in pose pornografiche, di scarpe di donne fotografate all’insaputa dei soggetti che le calzavano, di orge o di rapporti indotti con la forza, anche di natura omosessuale, anche raccapriccianti, di foto erotiche di ragazzine. E’ poi emerso che tutti i giorni Stasi, prima di applicarsi alla stesura della tesi, visionava immagini pornografiche (così come il giorno dell’omicidio, per oltre 20 minuti), secondo un copione piuttosto ripetitivo: anche tali abitudini avrebbero potuto suscitare domande, o provocare discussioni, anche con una fidanzata “di larghe vedute”.

Il giudice di primo grado ha sostenuto che Chiara era a conoscenza di questa “passione” del fidanzato per la pornografia, e che l’esistenza di riprese video relative a loro momenti intimi, nonché il contenuto erotico di talune conversazioni intercorse in chat nei giorni precedenti, quando Stasi era a Londra (in atti) sarebbero dimostrative di una “complicità di coppia” tale da indurre a ritenere che Chiara condividesse questa passione. Anche la Difesa dell’imputato ha molto insistito sul fatto che Chiara sapesse perfettamente e da anni che il fidanzato aveva una passione per la pornografia e scaricava immagini porno. Pur trattandosi in ogni caso di ipotesi, è evidente che un conto sono erotismo o pornografia condivisi, e perciò consapevolmente accettati e fatti propri da due soggetti adulti, altro è venire a conoscenza di interessi dei partner “segreti”, o di natura tale da non poter essere facilmente “digeriti”, ma al contrario molesti o dolorosi, o comunque idonei a porlo in una diversa luce, anche molto negativa.

E’ cioè davvero difficile immaginare che Chiara potesse apprezzare il contenuto di alcune delle cartelle accuratamente nascoste e catalogate dal fidanzato, e ciò a prescindere dal fatto che la giovane le avesse viste – per caso o meno – proprio la sera del 12 agosto, quando Stasi era tornato a casa sua per pochi minuti, lasciando il computer acceso.

L’argomento poteva essere stato affrontato anche in precedenza, dal momento che i due giovani erano soli e trascorrevano in quel periodo molto più tempo insieme, e sempre in precedenza potevano essere sorte discussioni (di natura talmente intima da non essere comprensibilmente riferite nemmeno ad una amica, e meno che mai ad un genitore) .

E’ poi egualmente emerso (sempre a livello di ipotesi) che Chiara poteva avere contato – o sperato – in una maggiore frequentazione in quel periodo in cui entrambi erano soli e avevano due case a disposizione: il fatto che ciò non fosse avvenuto poteva quindi dipendere da qualche “difficoltà”, tra i due, magari anche collegata alle passioni pornografiche di Stasi. Anche sul punto sono state fatte ipotesi sui possibili motivi per cui i due ragazzi, soli, non ne approfittassero per dormire insieme, e sulla “criticità dei rapporti sessuali” tra loro. Di giorno infatti Stasi doveva scrivere la tesi, ma la notte non c’era apparente motivo per non trascorrerla con la fidanzata.

L’imputato ha ricondotto l’assenza (o la scarsità) di rapporti sessuali con Chiara ad un disturbo della ragazza che tuttavia non ha trovato conferme (di natura medico-legale).

Le modalità dell’aggressione, come sono emerse e come sono state descritte, inducono ad individuare l’esistenza di un “pregresso” tra vittima e aggressore, tale da scatenare un comportamento violento da parte di quest’ultimo, evidentemente sorretto da una motivazione forte, che ha provocato in quel momento il raptus omicida, portato fino alle estreme conseguenze. Una motivazione per cui l’assassino si è portato di prima mattina a casa di Chiara, forse per ottenere o fornire spiegazioni verbali, che al contrario hanno fatto sì che lo stesso si vedesse “costretto” ad aggredire la vittima e ad “eliminarla” lanciandola giù dalle scale.

Si può quindi sostenere che anche se il movente dell’omicidio è rimasto sconosciuto, ancora una volta è la “scena del crimine” ad individuarlo in quel rapporto “di intimità scatenante una emotività” che non può che appartenere ad un soggetto particolarmente legato alla vittima.

12 – Le ipotesi alternative

Come pure si è detto, la vita di Chiara è stata scandagliata in ogni possibile direzione e nelle indagini sono stati sentiti tutti coloro che con lei avevano avuto a che fare nel tempo. La giovane in verità non aveva molte amicizie e frequentazioni, meno che mai in quei giorni in cui parenti, amici e conoscenti erano perlopiù in vacanza. La Difesa dell’imputato ha tuttavia adombrato, secondo un copione purtroppo frequente in questi casi, che Chiara potesse avere una sorta di doppia vita, da cui attingere per pervenire all’individuazione del suo assassino. Nulla di tutto questo è emerso: Chiara comunicava con le poche amiche attraverso il telefono di casa, il cellulare, e le mail, che poi scaricava su una chiavetta e cancellava di volta in volta. Tali modalità di contatto, peraltro poco frequenti, sono state confermate dalle suddette amiche, interrogate anche sulle confidenze ricevute. Tutti i contatti telefonici intercorsi con la vittima sono agli atti (sia sul cellulare, che sul telefono di casa) ed anch’essi appaiono piuttosto limitati. Tutte le amiche più care hanno descritto Chiara nei medesimi termini, come una ragazza seria e timida, che stava bene in famiglia, che lavorava, innamorata del fidanzato.

Del resto in quei giorni, invece che andare in vacanza, la giovane era rimasta a casa proprio per stare con lui, che doveva finire la tesi: quale migliore occasione infatti, in caso di effettiva “doppia vita”, che la necessità per Stasi di rimanere a Garlasco e l’assenza dei genitori, per potersi accompagnare ai suoi misteriosi amici o agli occasionali conoscenti?

Sempre la Difesa dell’imputato ha infatti parlato di un secondo cellulare e di altri possibili (sconosciuti) soggetti con cui Chiara poteva avere avuto occasionali incontri.

A prescindere dalla totale assenza, negli atti, di qualsiasi elemento idoneo a supportare quelle che sono solo illazioni volte a screditare la vittima, che per questo si commentano da sole, va osservato che in effetti una collega di lavoro della giovane, Francesca Di Mauro, riferiva di avere visto a Chiara un cellulare Nokia azzurro e forse un secondo piccolo cellulare, del tipo “apribile”. In sede di indagini (il 29/8/07) venivano acquisiti, nella stanza di Chiara, un cellulare Samsung (custodito in una scatola “T1M”) e una sim card TIM.

Gli accertamenti svolti consentivano di verificare che quello era il vecchio cellulare della vittima, che lo aveva poi sostituito con un cellulare Nokia e che non vi era mai stata alcuna “sovrapposizione” di cellulari, avendo Chiara sostituito la vecchia scheda telefonica (esaurita nei marzo dell’anno precedente) con quella poi utilizzata e collegata alla utenza in uso fino alla morte. Le indagini relative alla SIM del vecchio Samsung in ogni caso non evidenziavano alcun traffico telefonico nella zona di Garlasco e nelle ore precedenti al delitto.

La Difesa dell’imputato ha poi ancora sottolineato come in sede autoptica sia stata riscontrata una forte presenza di nicotina nei capelli di Chiara. Tale dato, unitamente alla presenza di un posacenere sporco in cucina, mai reperiate, costituirebbe un ulteriore elemento a supporto dell’ingresso quella mattina in casa Poggi di un soggetto mai individuato, ma noto Chiara, fumatore (mentre Stasi non fumava).

Ma al proposito va detto che il padre di Chiara Poggi era un forte fumatore e che io stesso era solito fumare proprio in cucina (dati questi pacifici), che il posacenere in questione (in metallo, evidenziato dalla foto prodotta dal P.G., tratta dal file IMG 1100 dei CC di Vigevano) presentava solo dei “residui” di cenere, quelli che normalmente rimangono sui metallo dopo lo svuotamento e in assenza di accurato lavaggio con acqua, e che la nicotina notoriamente rimane a lungo nei capelli e sugli indumenti delle persone che abbiano a che fare con i fumatori.

Un altro argomento portato a supporto dell’ingresso in casa da parte di uno sconosciuto discende dalle condizioni di tre dei quattro cassetti del mobile collocato nella saletta della televisione, che la Difesa ha sostenuto essere semiaperti, in realtà dalle fotografie in atti dei CC di Pavia (DSC 03031 e 03053) si vede chiaramente che i cassetti sono chiusi, ma non perfettamente allineati alla cornice della cassettiera, come sovente accade nei mobili vecchi, la cui chiusura non è mai per questo perfetta; il quarto cassetto risulta invece bene allineato e chiuso a chiave. L’ipotesi dello sconosciuto-ladro che, di fretta e dopo avere ucciso la persona che ha sorpreso in casa, abbia avuto tuttavia cura di richiudere i cassetti dopo averli frugati appare quindi del tutto inverosimile.

Conclusivamente, e anche sul punto, la Difesa, nel tacciare di incompletezza e di “unidirezionalità” le indagini, ha minimizzato o trascurato del tutto gli elementi concreti che puntano il dito contro l’imputato per ventilare ipotesi assolutamente fantasiose e del tutto prive di riscontri, se non smentite dalle risultanze acquisite.

13- La valutazione degli indizi

“In tema di valutazioni probatorie, con specifico riferimento agli indizi, che, a differenza della prova, non sono idonei, ciascuno da solo, ad assicurare l’accertamento dei fatti, il giudice deve procedere in primo luogo all’esame parcellare di ciascuno di essi, identificandone tutti i collegamenti logici possibili e valutandone quindi la gravità e la precisione; deve quindi procedere alla sintesi finale accertando se gli indizi esaminati sono concordanti, cioè se possono essere collegati a una sola causa o a un solo effetto e collocati tutti armonicamente in un unico contesto, dal quale possa desumersi l’esistenza o l’inesistenza di un fatto” (Sez. 6, n. 7175 del 19/5/98, Rv. 211129).

I requisiti che devono caratterizzare ciascun indizio, come è noto, sono quello della gravità, della precisione e della concordanza. L’indizio è grave “quando la sua capacità dimostrativa è significativa, ossia quando il collegamento con U fatto da provare non è meramente eventuale, ma è altamente probabile”; è preciso “se è tale il suo contenuto, ossia se il fatto oggetto di accertamento diretto non è vago o fumoso, ma ben dettagliato” (Sez. 5, n. 16397 del 21/2/14, Rv. 259552); quanto alla concordanza, la stessa presuppone che i plurimi indizi, precisi e prossimi al fatto ignoto, presentino singolarmente una positività parziale o potenziale di efficienza probatoria, così da muoversi nella medesima direzione, essere del medesimo segno e non essere contraddittori.

La loro valutazione va fatta confrontando i singoli indizi e mettendo in evidenza se gli stessi logicamente convergano o divergano tra loro, e con gli altri dati o elementi certi.

Nella sentenza di rinvio la Cassazione ha censurato il metodo di apprezzamento degli elementi indiziari da parte dei giudici di merito, il cui percorso argomentativo è stato ritenuto “costantemente volto a considerare gli elementi acquisiti isolatamente e avulsi dal loro contesto, con pretesa di specifica autosufficienza ed esaustività probatoria….e non nel loro insieme e nella loro possibile confluenza” (pag. 93 sent. di rinvio).

Ha quindi espressamente indicato al giudice dei rinvio la strada da seguire (a pag. 94, sopra integralmente riportato in neretto); proprio tale imposizione ha condotto questa Corte a rivalutare tutte le emergenze istruttorie già sopra individuate, unitamente a quelle successivamente acquisite, e a pervenire, all’esito di tale disanima, al giudizio finale anticipato in premessa.

Tutte le censure difensive hanno invece fatto continuo e costante riferimento agli argomenti spesi nelle precedenti sentenze assolutorie, ampiamente e integralmente riportati nelle note di udienza, spesso sotto forma di “risposta” alle osservazioni svolte dalle parti civili e dall’organo dell’accusa nei precedenti gradi di giudizio, senza considerare il loro superamento nel dictum della Cassazione, che ostinatamente la Difesa ha mostrato di ignorare.

La stessa Difesa ha inoltre costantemente sminuito anche quegli elementi al contrario sottolineati nella sentenza di annullamento per la loro rilevanza, rifacendosi ancora una volta ad osservazioni già illustrate e singolarmente confutate in sede di legittimità, senza tenere conto dei collegamenti tra i medesimi e proponendo, ancora una volta, una lettura “frazionata” delle molteplici evidenze probatorie.

Nessuna di tali censure ad avviso di questa Corte e per i motivi sopra esposti, è in ogni caso idonea a smentire tali opposte risultanze e, soprattutto, la loro “univoca confluenza” verso la conferma dell’ipotesi accusatoria.

Conclusivamente quindi, e riassumendo;

Chiara Poggi è stata uccisa da una persona conosciuta, che lei stessa ha fatto entrare in casa. La vittima non ha reagito, è stata colpita alla testa e il suo corpo gettato giù da una scala collocata dietro ad una porta uguale a tutte le altre porte dell’abitazione.

L’aggressore perciò conosceva quella casa, come dimostrato anche dal percorso da lui successivamente effettuato all’interno dei locali: entrava nei bagno per lavarsi del sangue con cui si era sporcato, si portava poi in cucina, dove sostava brevemente (forse per cercare un sacchetto in cui occultare l’arma e altro), quindi usciva.

L’aggressore era arrivato in bicicletta, che lasciava davanti alla villetta, senza preoccuparsi di nasconderla, ed era da solo.

Alberto Stasi era il fidanzato della vittima, in rapporto di confidenza con lei, ne conosceva la casa e le abitudini; in quei giorni i due giovani erano praticamente soli a Garlasco; Stasi possedeva più di una bicicletta in quanto conosciuto non aveva motivo di nasconderla se in visita da Chiara.

Alberto Stasi ha reso un racconto incongruo, illogico e falso quanto ai ritrovamento del corpo senza vita della fidanzata:

– ha subito riferito di un incidente domestico, che bene poteva spiegare la posizione della vittima a testa in giù in fondo alla scala ripida della cantina, ma tale qualificazione (per i motivi esposti sopra, al punto 9-3) costituisce il primo grave e preciso indizio a suo carico;

– ha poi sostenuto di avere attraversato di corsa i diversi locali per cercare Chiara: ma sulle sue scarpe non vi erano tracce di sangue, né le macchie di sangue sui pavimento sono risultate modificate dai suo passaggio; né sui tappetini dell’auto, su cui lui stesso ha sostenuto di essere subito risalito dopo la scoperta, è risultato il trasferimento di sangue dalle sue scarpe (come sarebbe accaduto se davvero avesse fatto quel percorso, secondo le conclusioni della perizia svolta nei presente procedimento).

Stasi non ha detto la verità sui ritrovamento del corpo di Chiara, il suo racconto è quello dell’aggressore, non dello scopritore.

Sul dispenser del sapone – sicuramente utilizzato dall’aggressore per lavarsi le mani dopo il delitto- sono state trovate soltanto due impronte, entrambe dell’anulare destro di Alberto Stasi, che lo individuano come l’ultimo soggetto a maneggiare quel dispenser.

Anche la posizione delle due impronte, e la non commistione con DNA della vittima, dimostrano che Stasi maneggiò il dispenser per lavarlo accuratamente, dopo essersi lavato le mani e avere ripulito il lavandino, il che spiega l’assenza di sangue sui dispenser e nel sifone.

Alberto Stasi non ha mai menzionato, tra le biciclette in suo possesso, proprio la bicicletta nera da donna da subito collegata al delitto, la stessa bicicletta che i suoi genitori collocavano invece l’uno nel garage di casa, l’altro nei locali della ditta.

Il non avere riferito di avere a disposizione la bicicletta corrispondente alla “macrodescrizione” fattane dalla testimone, evidenzia che Alberto Stasi ne conoscesse l’importanza e la possibilità di collegarlo all’omicidio.

Sui pedali della bicicletta di Alberto Stasi, la Umberto Dei Milano, era presente copiosa quantità di DNA di Chiara Poggi, riconducibile a materiale “altamente cellulato”; tali pedali non sono risultati quelli propri di quella tipologia di bicicletta, venduta alla famiglia Stasi con pedali diversi e di serie.

I pedali coi DNA della vittima, dissonanti rispetto alla bicicletta, erano apposti sull’unico velocipede appartenente alla famiglia Stasi che non poteva venire confuso con quello individuato dai testi oculari davanti a casa Poggi.

Alberto Stasi ha fornito un alibi che non io elimina dalla scena del crimine.

Le attività che Alberto Stasi ha dichiarato di avere svolto la mattina del 13/8 consentono di collocarlo su tale scena in una “finestra temporale” compatibile con la commissione del delitto.

L’assassino era un uomo che calzava scarpe n. 42 Alberto Stasi possedeva e indossava anche scarpe taglia 42.

“Compito del giudice di merito è quello di valutare se i molteplici indizi a carico dell’imputato, pur essendo singolarmente aperti a diverse interpretazioni, siano tutti compatibili, anche sotto il profilo logico-deduttivo, con la ricostruzione accusatoria” (Cassaz. Sez., 5, n. 16397 sopra citata del 2014).

L’accertamento della responsabilità dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” “deve ritenersi intervenuto quando il dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura”, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana” (pag.78 della sent. di rinvio, e giurisprudenza citata).

La Corte ritiene pertanto che la lettura congiunta di tutti i predetti dati probatori acquisiti, gravi e precisi, conduca ad individuare nell’imputato, oltre ogni ragionevole dubbio, l’assassino della fidanzata Chiara Poggi.

14 – L’aggravante della crudeltà

Secondo l’originaria ipotesi accusatoria il delitto è stato commesso con sevizie e crudeltà verso la vittima “costituite dall’efferatezza dell’azione omicidiaria per il numero e l’entità delle ferite inferte alla vittima”.

Il Procuratore Generale, nel chiedere la conferma di tale aggravante, ha in realtà posto l’accento più che sulla reiterazione dei colpi, tutti univocamente indirizzati al capo della vittima, sulle modalità dell’azione, il cui segmento finale è costituito dal quel “lancio” del corpo di Chiara giù dalle scale della cantina, dimostrativo non solo dell’assenza di pietà dell’assassino, ma anche del suo “disprezzo” per la vittima, da eliminare a tutti i costi. La giurisprudenza, come è noto, è costante nell’escludere che la reiterazione di colpi inferti alla vittima sia significativa della volontà dell’agente di infliggerle sofferenze “che esulano il normale processo di causazione dell’evento morte”(Sez. 1, n. 27163 del . 28/5/13, Rv. 256476, in ipotesi in cui la condotta si era concretizzata nel colpire la vittima con 64 coltellate, in varie parti del corpo).

La ricostruzione che si è fatta del delitto ha in questo caso evidenziato una sorta di “progressione” criminosa, dipendente dalla reazione della vittima, già inizialmente colpita al capo, e poi di nuovo e con maggiore violenza ancora colpita, in prossimità della porta della cantina, fino alla azione finale del lancio, a testa in giù, lungo le scale.

Tale condotta tuttavia, all’evidenza supportata da un dolo d’impeto, scatenato da quel movente che non è stato possibile accertare, va valutata nella sua unicità e nel suo sviluppo indirizzato verso l’esito finale voluto, ovvero la morte della vittima. Tale esito avrebbe dovuto simulare un incidente domestico, ma il flebile tentativo di reazione da parte di Chiara, e l’incertezza a questo punto sulla sua buona riuscita, hanno evidentemente indotto l’imputato a quel supplemento di violenza “necessitato” dai fine ultimo, che era quello di eliminare la fidanzata e di “nasconderne” il corpo. La condotta posta in essere per portare a compimento il proposito criminoso non ha quindi integrato quella particolare efferatezza necessaria ad integrare la contestata aggravante, anche se della stessa la Corte ha tenuto conto nella complessiva valutazione della gravità dei reato agli effetti della determinazione in concreto della pena.

15-Il trattamento sanzionatore

Alberto Stasi ha brutalmente ucciso la fidanzata, che evidentemente era diventata, per un motivo rimasto sconosciuto, una presenza pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla sua vita di ragazzo “per bene” e studente “modello”, da tutti concordemente apprezzato.

La Difesa ha descritto l’imputato come la vittima di un caso giudiziario che lo ha costretto per oltre 7 anni a doversi difendere, ed anche lui, nelle spontanee dichiarazioni rese all’udienza del 17/12, ha parlato di sé in tali termini, sostenendo un vero e proprio accanimento nei suoi confronti. In realtà la sola vittima di questo processo è Chiara Poggi, uccisa a 25 anni dall’uomo di cui si fidava e a cui voleva bene, che l’ha fatta definitivamente “scomparire” in fondo alle scale. Dopo avere commesso il delitto l’imputato è riuscito con abilità e freddezza a riprendere in mano la situazione, e a fronteggiarla abilmente, facendo le sole cose che potesse fare, quelle di tutti i giorni: ha acceso il computer, visionato immagini e filmati porno, ha scritto la tesi, come se nulla fosse accaduto.

La condotta da lui tenuta non è stata per nulla collaborativa, ma al contrario fuorviante e finalizzata ad allontanare i sospetti dalla sua persona: ha da subito sviato le indagini, ipotizzando un incidente domestico e ha progressivamente messo a disposizione degli inquirenti ciò che, nel tempo, assumeva via via qualche interesse investigativo. Non tutto però, ed in tal modo è riuscito a rallentare gli accertamenti a proprio vantaggio, anche grazie agli utili errori commessi dagli stessi inquirenti. Le modalità del fatto e la loro riconducibilità a quell’emotività scatenante e significativa di un rapporto di familiarità tra vittima ed assassino, rendono conto dell’estrema gravità del reato, che deve essere punito col massimo della pena edittale.

Alberto Stasi non appare meritevole di alcuna attenuante, al cui riconoscimento osta, in particolare, il comportamento tenuto contemporaneamente e dopo l’omicidio, di cui è stato dato ampio conto.

La pena di 24 anni deve pertanto essere ridotta di un terzo per la scelta del rito.

L’imputato va altresì condannato alle pene accessorie di legge e al pagamento delle spese processuali di tutti i gradi di giudizio.

16 – Il risarcimento del danno

Alla condanna per il grave delitto consegue quella al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.

La Corte ha ritenuto di liquidare equitativamente in via definitiva il danno morale sofferto dai genitori e dal fratello della vittima.

Nella determinazione dell’entità di tale risarcimento si è tenuto conto del rapporto affettivo tra i soggetti, della giovane età della vittima, delle modalità in cui è avvenuta la perdita della persona cara, del tempo trascorso dal delitto e del fatto che l’omicida fosse soggetto conosciuto, che godeva della piena fiducia anche della famiglia di Chiara (così da rendere ancora più dolorosa la perdita sofferta).

Si è altresì considerata l’attenzione mediatica suscitata dalla vicenda, necessariamente subita dalla famiglia Poggi, e tale da incidere pesantemente e negativamente sulla vita quotidiana e futura dei suoi membri. Per tali considerazioni si ritiene equo liquidare a tale titolo la somma di 350.000 euro a favore di ciascuno dei genitori Rita Preda e Giuseppe Poggi, e la somma di 300.000 euro a favore del fratello Marco Poggi.

Alberto Stasi deve infine essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e assistenza sostenute dalle parti civili in tutti i gradi di giudizio, che si liquidano come da dispositivo.

P. Q. M.

visto l’art. 627 c.p.p.,

giudicando in sede di rinvio a seguito della pronuncia di annullamento della Corte di Cassazione in data 17 aprile 2013

in riforma

della sentenza in data 17/12/2009 del GUP del Tribunale di Vigevano appellata dal PM, dal PG e dalle parti civili

dichiara

STASI Alberto responsabile del reato a lui ascritto, esclusa l’aggravante contestata, e, operata la diminuzione per il rito, lo

condanna

alla pena di anni 16 di reclusione. Lo condanna al pagamento delle spese processuali di tutti i gradi di giudizio.

Applica allo STASI le pene accessorie della interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante l’espiazione della pena.

Condanna

l’imputato al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili che liquida, in via definitiva, in euro 350.000,00 ciascuno quanto a POGGI Giuseppe e PREDA Rita e in euro 300.000,00 quanto a POGGI Marco.

 Condanna

 l’imputato a rifondere alle parti civili le spese di proseguita rappresentanza e assistenza di tutti i gradi di giudizio che liquida in euro 45.000,00 quanto all’Avv. Gian Luigi Tizzoni ed in euro 20.000,00 quanto all’Avv. Francesco Compagna, oltre IVA e CPA per entrambi.

 Stabilisce in giorni 90 il termine per il deposito della sentenza.

 Milano, 17/12/14

Il Presidente estensore

 Depositato in Cancelleria

CORTE ASSISE APPELLO DI MILANO

Oggi 16 MAR 2015

 

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