19 Dicembre, 2017

ART. 26, COMMA 5-BIS, DEL D.P.R. N. 600/1973*

SOMMARIO: 1. PREMESSA – 2. BANCHE EXTRA-UE; 2.1. Investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. n. 239/1996; 2.2. Investitori istituzionali nel 5-bis – 3. VINCOLO REGOLAMENTARE – 4. CONCLUSIONI.

1. PREMESSA

La norma agevolativa (1) di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è stata oggetto di plurimi (e non sempre coerenti) interventi legislativi nel suo primo biennio (2) di applicazione:
1. Dapprima, l’art. 10 del D.L. 12 settembre 2014, n. 133 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164), ha inserito nel novero dei lender titolati a beneficiare del regime in questione, gli “enti individuati all’articolo 2, paragrafo 5, numeri da 4) a 23), della direttiva 2013/36/UE” (in pratica, la Cassa depositi e prestiti e altri enti UE aventi natura analoga).
2. In seguito, l’art. 6, primo comma, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33), ha sostituito il criticato riferimento agli “organismi di investimento collettivo del risparmio che non fanno ricorso alla leva finanziaria” con quello collaudato agli “investitori istituzionali esteri, … soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti”.
3. Infine, l’art. 17, secondo comma, del D.L. 14 febbraio 2016, n. 18 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 2016, n. 49) – premettendo alla norma le parole “Ferme restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385” – ha sostanzialmente introdotto un ulteriore vincolo, di natura regolamentare.
Se la novità della norma (3) ne ha finora prevenuto l’interpretazione giurisprudenziale, si sono invece avuti diversi interventi a livello di prassi (4) e alcuni pregevoli contributi in dottrina (5). L’ultimo di questi (in ordine cronologico) ha il merito di essere il primo a trattare determinate questioni, che finora gli operatori avevano affrontato in ordine sparso (e soprattutto silenziosamente).
In particolare, Rossi e Ampolilla prendono le seguenti posizioni:
(a) sulla vexata quaestio dell’applicabilità alle banche stabilite in Stati extra UE dell’esenzione in commento, gli Autori ritengono che “tale possibilità appaia difficilmente conciliabile con (se non addirittura preclusa da) la lettera della norma,” poiché “non ci pare che la nozione di investitore istituzionale sia idonea a ricomprendere anche gli enti creditizi”, dato che “la nozione di investitore istituzionale, così come intesa dall’Amministrazione finanziaria, non sia suscettibile di comprendere i soggetti che esercitano attività bancaria”;
(b) in relazione alla portata del vincolo regolamentare, per quanto gli Autori condivisibilmente rilevino come “l’agevolazione non debba essere limitata ai soli soggetti che – in base alla normativa regolamentare – sono autorizzati ad ‘erogare’ i finanziamenti”, gli stessi tuttavia auspicano “in proposito un chiarimento dell’Amministrazione finanziaria volto a confermare che con riferimento agli interessi corrisposti a investitori istituzionali esteri, … che hanno acquistato il credito sul mercato secondario, non deve trovare applicazione la ritenuta”.
Per quanto chi scrive condivida in parte tali posizioni (ed è quindi grato ai predetti Autori per aver rotto il ghiaccio), vi sono alcuni dettagli sui quali si rende opportuna una puntualizzazione.

2. BANCHE EXTRA-UE

L’attuale formulazione normativa esenta gli interessi su finanziamenti “erogati da enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea … o investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti”.
Posto che le banche stabilite in Paesi UE sono evidentemente comprese nel predetto ambito applicativo, chi volesse ricomprendervi anche le banche stabilite in Stati extra-UE dovrebbe rispondere affermativamente ad entrambe le seguenti domande:
1. le banche rientrano tra gli investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. 1° aprile 1996, n. 239?
2. [qualora le banche rientrino in tale nozione d’investitori istituzionali] è possibile affermare che tale nozione sia impiegata in tutta la sua estensione nel particolare contesto della norma in questione, nonostante lo specifico e precedente riferimento agli “enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea”?
Mentre gli Autori citati rispondono negativamente ad entrambe le domande ad abundantiam (dato che basterebbe una sola risposta negativa), chi scrive ha invece una posizione più sfumata.

2.1. Investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. n. 239/1996

L’art. 6 del D.Lgs. n. 239/1996 esenta dall’imposta sostitutiva sui proventi dei titoli obbligazionari una serie di soggetti. Il suo ambito applicativo – inizialmente limitato ai soli soggetti residenti in Paesi, il trattato con i quali prevedeva un appropriato scambio d’informazioni – era stato successivamente esteso agli enti sovranazionali (6) e alle banche centrali (7) (anche in qualità di fondi sovrani). Last but not least, con l’art. 10, primo comma, lett. a), del D.L. 25 settembre 2001, n. 350 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 409), era finalmente apparsa – in sede di conversione (8) – la nozione di “investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, costituiti in Paesi di cui al primo periodo” (9). Tale nozione è poi stata oggetto di tre successivi interventi amministrativi.
In primo luogo, il D.M. 12 dicembre 2001 ha approvato il nuovo schema di autocertificazione (10) (ancor oggi vigente), secondo le cui note illustrative “la nozione di investitori istituzionali identifica gli enti che, indipendentemente dalla loro veste giuridica e dal loro status tributario nel paese di residenza, hanno come oggetto della propria attività quello di effettuare e gestire investimenti per conto proprio o di terzi, quali – ad esempio – società di assicurazione, società di investimento, fondi comuni d’investimento, SICAV e fondi pensione”; inoltre “gli investitori istituzionali … che abbiano soggettività tributaria sono considerati beneficiari effettivi esclusivamente dei proventi dei titoli di loro proprietà e non anche di quelli della propria clientela. Detti investitori istituzionali seguono, pertanto, le normali disposizioni previste per la generalità degli operatori non residenti”. Da queste due frasi apprendiamo che (i) l’elencazione degli investitori istituzionali è esemplificativa, non esaustiva; (ii) gli investitori istituzionali ben possono avere soggettività tributaria (non a caso nell’elenco figuravano le assicurazioni), senza per questo perder la natura di investitori istituzionali; (iii) gli investitori istituzionali (quantomeno, quelli con soggettività tributaria) possono possedere titoli per conto proprio e per conto della clientela.
In seconda battuta, la circolare 1° marzo 2002, n. 23/E (11), ha stabilito che “la nozione di investitori istituzionali identifica gli enti che, indipendentemente dalla loro veste giuridica e dal trattamento tributario cui sono assoggettati i relativi redditi nel Paese in cui sono costituiti, hanno come oggetto della propria attività l’effettuazione e la gestione di investimenti per conto proprio o di terzi. … Rientrano quindi in tale definizione, a titolo di esempio, le società di assicurazione, i fondi comuni di investimento, le SICAV, i fondi pensione, le società di gestione del risparmio, specificamente ricompresi tra gli investitori ‘qualificati’ di cui all’articolo 1, comma 1, lettera h), del decreto del Ministro del tesoro del 24 maggio 1999, n. 228 (emanato di attuazione dell’articolo 37 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), in quanto assoggettati a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti. Possono altresì definirsi investitori istituzionali anche quegli enti o organizzazioni privi di soggettività tributaria – diversi da quelli appena menzionati perché non assoggettati a forme di vigilanza – che siano in possesso di una specifica competenza ed esperienza in operazioni in strumenti finanziari, espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante dell’ente”. Ciò conferma che l’investitore istituzionale non è definito dalla forma giuridica o dalla soggettività tributaria, ma solo in base all’oggetto della propria attività, che deve comprendere (non pare sia prevista un’esclusività in questo senso) “l’effettuazione e la gestione di investimenti per conto proprio o di terzi”. Si noti come la circolare, nell’elencazione di cui è ribadito il carattere esemplificativo, faccia riferimento alla nozione di “investitori qualificati” ex D.M. 24 maggio 1999, n. 228: definizione che (quando la circolare fu emanata) comprendeva anche le banche; peraltro, la definizione della circolare appare per molti versi ricalcata su quella del D.M. all’epoca vigente (si noti l’enfasi sulla competenza finanziaria auto-dichiarata) (12).
Infine, la circolare 27 marzo 2003, n. 20/E (13), ha sostanzialmente ribadito la definizione della precedente circolare, precisando alcune questioni non rilevanti ai fini della presente trattazione.
In buona sostanza, l’intervento interpretativo dove maggiormente l’Agenzia si è soffermata sulla nozione in questione ne ha tradito un’origine (o, quantomeno, un’ispirazione) regolamentare. Sembra quindi doveroso analizzare l’evoluzione della norma ispiratrice. Il D.M. n. 228/1999 è stato abrogato dall’art. 18, primo comma, del D.M. 5 marzo 2015, n. 30: tale provvedimento abbandona la nozione di “investitori qualificati” (14) per adottare quella (equivalente) di “investitori professionali” (15), che l’art. 1, primo comma, lett. p), definisce come “i clienti professionali privati, i clienti professionali pubblici, nonché coloro che su richiesta possono essere trattati come clienti professionali, ai sensi dell’articolo 6, commi 2-quinquies e 2-sexies, del TUF”. La definizione è coerente con quella del Testo Unico della Finanza, che all’art. 1, primo comma, lett. m-undecies), definisce gli “investitori professionali” come “i clienti professionali ai sensi dell’articolo 6, commi 2-quinquies e 2-sexies”; tali norme demandano l’identificazione:
– dei clienti professionali privati, ad un regolamento della Consob, sentita la Banca d’Italia;
– dei clienti professionali pubblici, a un regolamento (16) del Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob.
Ai nostri fini interessa il primo dei due provvedimenti: il Regolamento intermediari (17). L’allegato 3 a tale provvedimento definisce come segue i clienti professionali privati: “Un cliente professionale è un cliente che possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che assume. Si intendono clienti professionali per tutti i servizi e gli strumenti di investimento: (1) i soggetti che sono tenuti ad essere autorizzati o regolamentati per operare nei mercati finanziari, siano essi italiani o esteri quali: a) banche; b) imprese di investimento; c) altri istituti finanziari autorizzati o regolamentati; d) imprese di assicurazione; e) organismi di investimento collettivo e società di gestione di tali organismi; f) fondi pensione e società di gestione di tali fondi; g) i negoziatori per conto proprio di merci e strumenti derivati su merci; h) soggetti che svolgono esclusivamente la negoziazione per conto proprio su mercati di strumenti finanziari e che aderiscono indirettamente al servizio di liquidazione, nonché al sistema di compensazione e garanzia (locals); i) altri investitori istituzionali; l) agenti di cambio”.
Evidente il filo rosso che da almeno un ventennio caratterizza la normativa regolamentare (e quindi quella fiscale): competenza ed esperienza in materia di operazioni finanziarie; innegabile il fatto che le banche compaiano in tutti gli elenchi regolamentari – e come potrebbe essere altrimenti, se il criterio è quello? Si pone quindi la questione se all’omissione delle banche dall’elencazione (si ricorda: esemplificativa, non esaustiva) dell’Agenzia possa attribuirsi il preciso intento di escludere le banche dal novero degli investitori istituzionali, o se invece – più semplicemente – le banche non siano state richiamate soltanto perché, pur rientrando tra gli investitori istituzionali, già beneficiavano dell’esenzione da imposta sostitutiva ai fini del D.Lgs. n. 239/1996.
Qui l’opinione dello scrivente diverge da quella degli Autori citati. Rossi e Ampolilla ritengono che “la nozione di investitore istituzionale, così come intesa dall’Amministrazione finanziaria, non sia suscettibile di comprendere i soggetti che esercitano attività bancaria. E ciò in quanto, seppure tali soggetti possano anche effettuare e gestire investimenti, l’operatività in strumenti finanziari non rappresenta l’attività tipica di un ente creditizio, la quale consiste nella raccolta del risparmio presso il pubblico e nella erogazione di prestiti”. Sembrerebbe quindi che la nozione di investitore istituzionale debba richiedere un’esclusività dell’attività di gestione patrimoniale o, quantomeno, una sua prevalenza rispetto a ogni altra attività. Quindi certamente tutta l’industria del risparmio gestito: sia a livello di soggetto gestore SGR, sia a livello di prodotto gestito (fondi comuni e Sicav). Qualche perplessità genera però la situazione dei fondi pensione, per i quali non sembra così evidente che la gestione delle attività rivesta carattere preponderante rispetto alla raccolta dei contributi e alla corresponsione dei trattamenti pensionistici. Ammesso e non concesso che sia così, i fautori di questo teorema dovrebbero però spiegarmi come fanno le assicurazioni a rientrare tra gli investitori istituzionali: chi scrive ha qualche difficoltà a sostenere che la sola gestione patrimoniale sia “l’attività tipica” delle imprese assicuratrici; per le quali invece le attività di (i) valutazione dei rischi, (ii) raccolta dei premi e (iii) liquidazione dei sinistri (oltretutto, considerate unitariamente e nemmeno singolarmente) dovrebbero quindi rivestire un carattere meramente ancillare. Se le assicurazioni sono investitori istituzionali – e lo sono, dato che tutti i documenti di prassi richiamati le riportano – allora tale nozione non dovrebbe richiedere la prevalenza dell’attività di asset management rispetto a tutte le altre (né, men che meno, l’esclusività della stessa). Senza contare che non si è a conoscenza di alcun fondamento normativo a supporto di questa dottrina.
Come argomentato poc’anzi, l’unica norma cui rifarsi è quella regolamentare: è palese il debito che la nozione fiscale di “investitore istituzionale” ha nei confronti della definizione di “investitore qualificato” all’epoca vigente, oggi divenuta “investitore professionale”, nella duplice accezione di “cliente professionale pubblico” e “cliente professionale privato”. Nel corso dell’evoluzione, si ravvisano due caratteristiche fondamentali:
– condizione necessaria per l’appartenenza alla fattispecie è il “possesso di una specifica competenza ed esperienza in operazioni in strumenti finanziari” (circ. n. 23/E/2002, cit.) o, a dirla altrimenti, il soggetto “possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che assume” (regolamento intermediari);
– condizione sufficiente è invece l’essere “assoggettati a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti” (circ. n. 23/E/2002, cit.), ovvero che i “soggetti [siano] tenuti ad essere autorizzati o regolamentati per operare nei mercati finanziari” (regolamento intermediari).
Non sembra possibile affermare che una banca non soddisfi entrambe tali condizioni (ove ne basterebbe una soltanto per qualificarsi come investitore istituzionale):
– quanto alla condizione necessaria, l’idoneità allo svolgimento dell’incarico per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso banche è declinata non solo in termini di requisiti di onorabilità, indipendenza e correttezza, ma anche di professionalità e competenza (art. 26 del Testo Unico Bancario) e ci riesce difficile immaginare che non vi siano norme analoghe per le banche estere;
– quanto alla condizione sufficiente, non ci viene in mente alcun Paese dove l’attività bancaria non sia sottoposta ad alcuna forma di vigilanza.
In quest’ottica, la banca dovrebbe senz’altro rientrare nel novero degli investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. n. 239/1996. La circostanza che le citate circolari n. 23/E/2002 e n. 20/E/2003 non la menzionino esplicitamente non dovrebbe pertanto rivestire carattere preclusivo di tale appartenenza e sarebbe quindi spiegabile con l’inutilità di andare a illustrare l’applicazione della norma a un soggetto non interessato (in quanto già beneficiario effettivo). Ad ulteriore riprova, le note illustrative allo schema di autocertificazione dispongono che “gli investitori istituzionali … che abbiano soggettività tributaria sono considerati beneficiari effettivi esclusivamente dei proventi dei titoli di loro proprietà e non anche di quelli della propria clientela”: una previsione che sembra un abito sartoriale per l’attività bancaria (18).
In conclusione, si ritiene di poter rispondere affermativamente alla prima domanda: le banche rientrano tra gli investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. n. 239/1996. Senza più il punto interrogativo.

2.2. Investitori istituzionali nel 5-bis

Veniamo quindi alla seconda domanda: è possibile affermare che tale nozione sia impiegata in tutta la sua estensione nel particolare contesto della norma in questione, nonostante lo specifico e precedente riferimento agli “enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea”?
Qui, purtroppo, il punto interrogativo non ha troppa voglia di andarsene.
Come affermato in premessa, l’art. 6, primo comma, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33), ha sostituito il criticato riferimento agli “organismi di investimento collettivo del risparmio che non fanno ricorso alla leva finanziaria” con quello agli “investitori istituzionali esteri, … soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti”. La convivenza di tale nozione con quella, precedente (cronologicamente e nella norma), di “enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea” non è mai stata facile; potrebbe declinarsi come:
– una norma cronologicamente posteriore (investitori istituzionali), in quanto tale prevalente su quella anteriore (enti creditizi); oppure
– una norma speciale (enti creditizi), in quanto tale derogatoria su quella generale (investitori istituzionali).
In merito, sono state avanzate due argomentazioni.
Secondo Rossi e Ampolilla, dovrebbe valere “l’argomento della non-ridondanza (o conservazione del testo) che impone all’interprete di attribuire al testo un significato tale per cui esso non risulti superfluo”, applicando il quale si giunge alla conclusione che “relativamente agli enti creditizi (ma lo stesso vale per le assicurazioni), il legislatore – richiamandoli espressamente – abbia voluto restringere geograficamente il campo di applicazione della disposizione”. Gli Autori utilizzano tale ragionamento ad ulteriore riprova del fatto che le banche, non rientrando tra gli investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. n. 239/1996, non possono rientrarvi nemmeno ai fini dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973; avendo chi scrive raggiunto una diversa conclusione ai fini del medesimo decreto n. 239, seguendo quest’argomento si perviene invece alla conclusione che il termine “investitore istituzionale” (che nel D.Lgs. n. 239/1996 comprende anche le banche) nel contesto del predetto comma 5-bis venga ‘compresso’ dalla presenza del precedente riferimento agli enti creditizi, risultando in tal modo inidoneo a ricomprendere le banche.
Secondo altri, dovrebbe invece applicarsi la dottrina dell’abrogazione implicita: la successiva previsione di una norma per gli investitori istituzionali, in quanto fattispecie comprendente fra l’altro anche gli enti creditizi, avrebbe come effetto l’automatico venir meno della disposizione precedentemente dedicata a questi ultimi (anche in assenza di una formale abrogazione della stessa).
In buona sostanza, l’argomento della non-ridondanza privilegia la norma speciale degli enti creditizi (per quanto anteriore) rispetto a quella generale degli investitori istituzionali (ancorché posteriore); la dottrina dell’abrogazione implicita, per converso, predilige la norma posteriore degli investitori istituzionali (ancorché generale) rispetto a quella anteriore degli enti creditizi (per quanto speciale).
In uno sciagurato impeto filologico, chi scrive ebbe un giorno l’infausta idea di provare a risolvere la questione, andando a rileggersi la documentazione relativa alla genesi della norma. Dato il caso straordinario di necessità e urgenza (senza il quale si sarebbe dovuto ricorrere ad altro veicolo legislativo), il D.L. n. 3/2015 non era corredato della relazione governativa (19); c’era però una copiosa documentazione ad accompagnare il percorso della legge di conversione.
La relazione illustrativa al disegno di legge n. 2844 (di conversione in legge del D.L. n. 3/2015, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), presentato alla Camera il 24 gennaio 2015 recitava quanto segue: “oltre alle banche non residenti abilitate ad operare in un altro Stato dell’Unione europea ovvero con il quale l’Italia abbia sottoscritto un accordo fiscale – si autorizzano gli investitori istituzionali esteri operanti in Stati appartenenti alla cosiddetta white list e soggetti a forme di vigilanza negli Stati in cui sono istituiti, che possono già investire in altri strumenti di supporto alle imprese, quali i mini-bond, a partecipare indirettamente in qualità di soggetti finanziatori a operazioni di finanziamento bancario e a godere dell’esenzione dalla ritenuta”. La nozione d’investitori istituzionali sembrerebbe qui utilizzata nel suo significato più ampio, corroborata dal riferimento a una normativa – quella sui mini-bond (20) – in cui è palese il richiamo regolamentare all’art. 100 del Testo Unico della Finanza: tale norma, infatti, identifica gli “investitori qualificati, come definiti dalla Consob con regolamento in base ai criteri fissati dalle disposizioni comunitarie”; la definizione della Consob è rinvenibile nel Regolamento intermediari citato poc’anzi (che, come si ricorderà, comprende le banche). Ad ulteriore conforto di tale conclusione, si potrebbe notare come l’iniziale riferimento alle banche non sia limitato soltanto a quelle “abilitate ad operare in un altro Stato dell’Unione europea”, ma comprenda altresì quelle abilitate ad operare in uno Stato “con il quale l’Italia abbia sottoscritto un accordo fiscale”; non può trattarsi dell’accordo sullo Spazio economico europeo (che era previsto per i soli OICR e non anche per banche e assicurazioni) e potrebbe forse interpretarsi come un accordo sullo scambio d’informazioni in materia fiscale (da solo o nell’ambito di un trattato): quindi l’appartenenza alla white list. Sembrerebbe quindi che la relazione illustrativa potrebbe spezzare una lancia in favore della possibilità di applicare la norma agevolativa anche alle banche non stabilite in Stati UE (sempreché, beninteso, le stesse siano stabile in Paesi white list).
Senonché, la successiva relazione tecnica ha l’effetto di una gelata primaverile su di una precoce fioritura: “di fatto, quindi, la disposizione elimina il riferimento al mancato ricorso alla leva finanziaria per quanto riguarda gli OICR compresi tra i soggetti finanziatori”. Qui la nozione d’investitori istituzionali viene addirittura ridotta ai soli OICR (che ora possono anche indebitarsi), senza nemmeno considerare l’allargamento territoriale dai soli Paesi UE e SEE alla ben più ampia platea dei Paesi white list. Certo, tale imprecisione potrebbe squalificare la relazione tecnica come strumento interpretativo della norma in questione; in ogni modo, è evidente come l’estensore di tale documento non contempli la possibilità di applicazione alle banche stabilite in Stati extra-UE.
È fisiologico che relazione illustrativa e relazione tecnica siano scritte da mani diverse; è patologico che queste mani appartengano a persone che – evidentemente – non si sono mai parlate. Ad ogni modo: se la documentazione governativa non consente di prendere una posizione univoca, l’esame di quella parlamentare non riserva una sorte migliore.
La legge di conversione è stata presentata alla Camera, il cui documento illustrativo (21) non sembra intuire le potenzialità di conflitto tra (i) la norma superstite sulle banche stabilite in Paesi UE e (ii) quella novella, applicabile ad una fattispecie che comprende la precedente, espandendone però l’ambito territoriale. «Mediante la soppressione del riferimento agli organismi di investimento collettivo del risparmio “che non fanno ricorso alla leva finanziaria”, possono accedere all’agevolazione anche enti che fanno ricorso alla leva finanziaria (ad es. fondi speculativi) ancorché privi di soggettività tributaria e purché costituiti nelle zone geografiche di cui supra (Paesi white list). Rispetto alla normativa previgente, la disposizione sembra allargare l’ambito soggettivo di operatività dell’agevolazione anche a enti non residenti in paesi UE o aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo». L’utilizzo di un lemma non tecnico quale ‘enti’, privo di qualsiasi connotazione nell’uno o nell’altro senso, impedisce di classificare il documento della Camera tra i partigiani dell’una o dell’altra fazione: in altre parole, lo rende inutile ai nostri fini. Non sembra che l’estensore del documento avesse in mente fattispecie diverse dagli OICR, ma quantomeno ha usato l’accortezza di non prendere inutilmente posizione in merito.
La legge di conversione è quindi passata al Senato, il cui documento illustrativo (22) si limita a parafrasare la norma: “sopprimendo il riferimento agli organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR) che non fanno ricorso alla leva finanziaria costituiti negli stati dell’Unione europea (UE) e negli stati aderenti all’accordo sullo spazio economico europeo (SEE) inclusi nella c.d. white list, si estende l’esenzione dalla ritenuta alla fonte a tutti gli investitori istituzionali esteri, a prescindere dalla loro politica di utilizzo della leva finanziaria finalizzata agli investimenti nonché dalla loro appartenenza al territorio UE o del SEE”. Non si rilevano indizi utili a determinare la portata della nozione d’investitori istituzionali, nel contesto della norma in esame.
Vano quindi lo sforzo di ricostruzione ex ante della volontà del legislatore, attraverso l’esame della documentazione. Resta la norma (23), la quale va quindi considerata nella sua interezza:
– non solo per quanto ha stabilito (investitori istituzionali esteri white list soggetti a vigilanza);
– non solo per quanto ha abrogato (organismi di investimento collettivo del risparmio che non fanno ricorso alla leva finanziaria);
– ma anche per quanto non ha abrogato, pur avendone avuto la possibilità (enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea).
La dottrina dell’abrogazione implicita (rectius: preterintenzionale) ha questo problema: richiede una ricostruzione normativa che prescinde non tanto dalla presenza, ma dalla sopravvivenza della norma sulle banche stabilite in Paesi UE. Se il legislatore avesse abrogato (o dovesse in futuro abrogare) anche quest’ultima, nulla quaestio: in quanto investitori istituzionali, le banche tutte – UE ed extra-UE – rientrerebbero senza dubbio nell’ambito dell’esenzione. Se invece il legislatore si fosse limitato all’inserimento dell’inciso sugli investitori istituzionali, senza cancellare nulla del resto: in assenza di un’abrogazione esplicita, meglio si sarebbe potuto argomentare per un’abrogazione implicita. Però il legislatore ha fatto ciò che ha fatto:
– ha scelto di cancellare la norma sugli OICR che non fanno ricorso alla leva finanziaria;
– ha scelto di non cancellare la norma sugli enti creditizi stabiliti negli Stati UE.
La norma sulle banche stabilite nella UE (staticamente considerata) significa soltanto che queste banche hanno diritto all’esenzione. La persistenza di tale norma (dinamicamente considerata) nel mutato contesto successivo all’inserimento degli investitori istituzionali potrebbe invece assumere un significato preclusivo dell’agevolazione per le altre banche, non stabilite in Paesi UE. In origine, la norma aveva funzione inclusiva degli “enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea”; mutato lo sfondo generale sul quale essa si staglia (appunto, la nozione d’investitori istituzionali), la stessa norma assumerebbe ora funzione esclusiva degli stessi enti stabiliti altrove.
Pertanto, non ci sentiamo di condannare chi – date le obiettive condizioni d’incertezza in merito alla fattispecie di cui trattasi – raggiunga la conclusione che il termine “investitore istituzionale” (che nel D.Lgs. n. 239/1996 comprende anche le banche) nel contesto dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, venga invece ‘compresso’ dalla presenza del precedente riferimento agli enti creditizi, risultando in tal modo inidoneo a ricomprendere le banche (24). Ne conseguirebbe l’inapplicabilità (i) da un lato, dell’agevolazione in commento alle banche stabilite in Paesi extra-UE e (ii) dall’altro, delle sanzioni per chi l’avesse applicata (date appunto le più volte richiamate obiettive condizioni d’incertezza) (25).
Tale risultato cozza con il buon senso, ancora prima che con la ratio della norma. Che il più scalcagnato fondo delle Turks e Caicos (soggetto a vigilanza, certo: quella scalcagnata delle Turks e Caicos) abbia diritto all’agevolazione, mentre Citibank New York e Nomura Tokyo non ne avrebbero diritto, è qualcosa che non solo grida vendetta al cielo: fa ridere, il che è anche peggio.
Si auspica quindi che il legislatore, considerate le paradossali (oltre che inaccettabili) conseguenze di un’interpretazione prudenziale della norma in questione, intervenga a risolvere il ginepraio in cui ha cacciato il contribuente: abrogando il riferimento alle banche stabilite in Paesi UE (e, a tal punto, anche quello alle assicurazioni) e garantendo in tal modo alle stesse – investitori istituzionali per natura – il rientro in tale nozione finalmente piena, non più compressa dalla norma abrogata.

3. VINCOLO REGOLAMENTARE

L’art. 17, secondo comma, del D.L. n. 18/2016, ha premesso alla norma le parole “Ferme restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385”. Giudicando dal solo tenore letterale, la norma avrebbe potuto interpretarsi nel senso di non considerare l’agevolazione fiscale quale un via libera regolamentare; potrebbero darsi fattispecie (i) irregolari (26) dal punto di vista del Testo Unico Bancario, ma (ii) rientranti nell’ambito applicativo dell’esenzione: la norma chiarirebbe che il beneficio sub (ii) non sana l’irregolarità sub (i).
Tale interpretazione viene però sconfessata dal testo della relazione illustrativa, ove dispone che “la modifica del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, di cui al comma 2, è volta a specificare che l’esenzione fiscale … è subordinata al rispetto delle norme del TUB, in materia di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico, previste per gli omologhi soggetti costituiti in Italia, al fine di non creare uno svantaggio competitivo per gli operatori nazionali”. Non si tratta quindi di una conferma dell’indipendenza fra i requisiti della norma regolamentare e l’agevolazione fiscale; al contrario, si tratta di un’invasione di campo della prima nei confronti della seconda: l’esenzione da ritenuta è ora sottoposta ad un ulteriore requisito, di natura regolamentare. Lettura confermata dalla recente risoluzione 29 settembre 2016, n. 84/E (27).
Un’approfondita disamina della natura di tale vincolo esula dall’ambito del presente contributo. In questa sede, è tuttavia possibile passare in rassegna alcuni punti fermi, ormai invalsi nella prassi degli operatori. In primo luogo: la norma non ha carattere soggettivo, ma oggettivo; non verte quindi sullo status personale del lender, ma sull’operazione di prestito unitariamente considerata. Non si richiede (a) che il lender sia un soggetto autorizzato all’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico ai sensi del TUB: si richiede invece (b) che l’operazione non configuri una violazione delle disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico. La fattispecie sub (a) è più ristretta di quella sub (b): la prima richiede una determinata qualità soggettiva in capo al lender, venendo a mancare la quale si perde l’agevolazione fiscale; la seconda è soddisfatta non solo in presenza di tale qualità, ma anche ogniqualvolta si versi in una fattispecie non configurabile come “erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico”.
Ai fini di cui trattasi, il D.M. 2 aprile 2015, n. 53 (28) definisce sia la concessione di finanziamenti (29), sia i casi in cui tale attività si considera esercitata nei confronti del pubblico (30). Esulano pertanto dall’ambito della riserva di attività (e non richiedono quindi che il lender si qualifichi ai fini della stessa) tutte le operazioni che, alternativamente o congiuntamente:
– non configurano una concessione di finanziamenti, ovvero
– non si considerano come esercitate nei confronti del pubblico.
Appartiene a quest’ultima categoria – inter alia – la concessione di finanziamenti occasionale, senza quindi il “carattere di professionalità” connotante l’operatività nei confronti del pubblico. Vi rientra altresì la concessione di finanziamenti solo nei confronti del gruppo di appartenenza (31).
Più complessa la questione relativa al subentro nella posizione soggettiva di lender, a seguito di un’operazione di mercato secondario. Ci si chiede se la stessa possa rientrare nella nozione di “acquisto di crediti a titolo oneroso” di cui all’art. 2, primo comma, lett. b), del decreto. Posto che evidentemente il lender è identificabile nel creditore che acquista il credito, ci si chiede se il borrower sia (i) il debitore ceduto, ovvero (ii) il creditore cedente. Chi scrive propenderebbe per quest’ultima soluzione, sulla base della formulazione dell’esclusione per il gruppo di cui all’art. 3, secondo comma, secondo il quale: “non configurano operatività nei confronti del pubblico: (a) tutte le attività esercitate esclusivamente nei confronti del gruppo di appartenenza ad eccezione dell’attività di acquisto di crediti vantati nei confronti di terzi da intermediari finanziari del gruppo medesimo; (b) l’acquisto di crediti vantati da terzi nei confronti di società del gruppo di appartenenza”. Certamente, tale norma è imperniata sul debitore ceduto: l’acquisto di crediti nei confronti di terzi da banche del gruppo non è interna, mentre lo è l’acquisto di crediti di terzi verso società del gruppo. Tuttavia, tale risultato ha richiesto due norme specifiche (alle quali non appare possibile conferire valenza interpretativa): di esclusione dell’acquisto di crediti nei confronti di terzi da banche del gruppo nella seconda parte della lett. a) e di inserimento dell’acquisto di crediti di terzi verso società del gruppo nella lett. b). In assenza di queste due norme, la situazione sarebbe stata diversa: l’acquisto di crediti vantati nei confronti di terzi da intermediari finanziari del gruppo sarebbe stata operazione interna al gruppo; l’acquisto di crediti vantati da terzi nei confronti di società del gruppo di appartenenza non lo sarebbe stata. In definitiva, l’art. 3, secondo comma, è certamente imperniato sul debitore ceduto, ma con una formulazione derogatoria, tale da lasciar intendere che il principio generale sia invece quello del creditore cedente. Tale circostanza – oltre all’utilizzo del termine ‘crediti’ anziché di ‘finanziamenti’ – porta a ritenere che nella nozione di “acquisto di crediti a titolo oneroso” rientrino lo sconto salvo buon fine, il factoring e altri negozi consimili: una fattispecie, quindi, inadatta a ricomprendere l’acquisto sul mercato secondario non di un mero credito riveniente dal finanziamento, ma della stessa qualità soggettiva di lender.
In realtà, voler sindacare la riserva di attività in capo al lender avente causa è indice di una prospettiva errata. I miei venticinque lettori sono fiscalisti e in quanto tali – soprattutto dopo la conferma della circolare sul leverage buy-out (32) – interpretano l’esenzione ex art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, in un’ottica di beneficiario effettivo: benissimo, ma non dobbiamo pretendere che, per il solo fatto di essere inserita nell’ambito di una norma fiscale, la disciplina regolamentare funzioni con la stessa logica. Infatti, quest’ultima è incentrata sul borrower e quindi guarda la materiale concessione (meglio della ‘erogazione’ usato nel predetto comma 5-bis) del finanziamento: le successive vicissitudini del lato lender le rimangono estranee. Pertanto, una volta che il prestito sia stato erogato da un soggetto all’uopo autorizzato, l’esenzione in questione non dovrebbe venir meno per i successivi lender aventi causa:
– questi dovranno certo rientrare nel presupposto soggettivo della norma (disciplina fiscale);
– ma non sarà invece necessario che anch’essi siano abilitati all’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico (disciplina regolamentare).
L’istituzione del vincolo regolamentare ha comunque complicato ulteriormente l’applicazione di una norma che già non brillava particolarmente per semplicità. Sul piano sostanziale, sono state aggiunte notevoli incertezze; su quello procedurale, la necessità di un maggiore coinvolgimento di avvocati con esperienza regolamentare ha proporzionalmente aumentato i costi di transazione. Se il legislatore voleva favorire le banche italiane e le stabili organizzazioni italiane di banche estere, mettendo i bastoni fra le ruote alle altre operazioni di finanziamento, ci è riuscito. Se volesse favorire l’afflusso di credito alle imprese italiane, farebbe bene a sopprimere l’inciso in questione.

4. CONCLUSIONI

L’agevolazione in esame è subordinata al rispetto di quattro tipi di requisiti:
a) regolamentare (del quale si è appena scritto),
b) oggettivo (finanziamenti a medio e lungo termine),
c) soggettivo lato borrower (imprese),
d) soggettivo lato lender.
Nei due anni e mezzo di operatività della norma, la quasi totalità delle correzioni legislative (e la maggior parte (33) delle problematiche applicative) hanno interessato quest’ultimo requisito: le banche ‘stabilite’ in Paesi UE, le assicurazioni costituite e autorizzate negli stessi, gli OICR non a leva, la Cassa Depositi e Prestiti (e affini), invece degli OICR non a leva gli investitori istituzionali che però non si capisce se comprendano o meno anche le banche non stabilite e le assicurazioni non costituite e autorizzate. In fisica, si definirebbe ‘entropia’ (effettivamente, è in costante aumento); nel registro aulico, il termine ‘ginepraio’ è forse il più adatto; nel linguaggio corrente si farebbe riferimento a un’istituzione soppressa nel 1958 (e celebrata in un pamphlet di Montanelli).
In una prospettiva de iure condendo, ci si chiede se e in quale misura sia giustificabile un tale accanimento legislativo sulle qualifiche soggettive del lender. Certamente, si tratta del soggetto giuridicamente colpito dalla ritenuta e sembrerebbe quindi naturale prevedere dei requisiti cui subordinare l’esenzione. Tuttavia, la norma in questione nasce dalla constatazione che – sul piano economico (attraverso le clausole di gross-up) – in realtà è molto più spesso il borrower a restare inciso dall’onere tributario (34). Si esenta il lender per agevolare il borrower: questa la ratio.
È assodato quindi che (i) l’esenzione del lender riveste carattere strumentale, mentre (ii) è il borrower il vero destinatario dell’agevolazione. Orbene: che senso ha stabilire tali e tanti paletti per il primo, mentre al secondo si richiede soltanto di esercitare un’attività di impresa “in qualsiasi forma”? Secondo la norma attuale, un’impresa italiana (magari meritevole) che si finanzi presso una banca o un fondo cileno (35) resterebbe economicamente incisa dalla ritenuta; un’altra impresa (magari non altrettanto meritevole) che si finanziasse presso il fondo delle Turks e Caicos la scamperebbe.
Non spetta allo scrivente stabilire criteri in base ai quali un’impresa italiana sia più o meno meritevole dell’agevolazione: si tratta di una questione di politica economica. L’interprete della norma tributaria può comunque auspicare che il legislatore rammenti il carattere strumentale dell’esenzione del lender, finalizzato all’agevolazione del borrower: su queste basi, non sarebbe del tutto illogico fare tabula rasa dei requisiti soggettivi lato lender.
A prescindere dalla scarsa realizzabilità politica (dato che la materia ben si presta a travisamenti mediatici), la norma ne guadagnerebbe in (i) semplicità ed (ii) efficacia. Sulla prima, si immagini la linearità di un testo depurato dal ginepraio dei requisiti soggettivi lato lender (e dal vincolo regolamentare): “la ritenuta di cui al comma 5 non si applica agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese”. Quanto alla seconda, si tratta di un’idea che nel corso dei secoli ha trovato fautori nelle più diverse culture:
– “Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (36);
– “Non importa se un gatto è bianco o nero, finché cattura i topi” (37);
– “Pecunia non olet” (38).

Dott. Michele Gusmeroli

* Pur mantenendo piena ed esclusiva responsabilità per le opinioni espresse (nonché per eventuali errori ed omissioni), l’autore desidera ringraziare per i confronti dialettici, i preziosi suggerimenti e le pazienti riletture Gioacchino Amato, Antonfortunato Corneli, Carlo Galli, Stefano Grilli, Francesco Guelfi, Mauro Messi, Luca Rossi, Paolo Ruggiero, Giancarlo Tardio, Federico Traversa, Raffaele Villa, Olivia Zonca e Paolo Zucca.
(1) “Ferme restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, la ritenuta di cui al comma 5 non si applica agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea, enti individuati all’articolo 2, paragrafo 5, numeri da 4) a 23), della direttiva 2013/36/UE, imprese di assicurazione costituite e autorizzate ai sensi di normative emanate da Stati membri dell’Unione europea o investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti”; questo l’attuale testo normativo.
(2) “La ritenuta di cui al comma 5 non si applica agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea, imprese di assicurazione costituite e autorizzate ai sensi di normative emanate da Stati membri dell’Unione europea o organismi di investimento collettivo del risparmio che non fanno ricorso alla leva finanziaria, ancorché privi di soggettività tributaria, costituiti negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 168-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917”; questo il testo originale.
(3) Introdotta dall’art. 22, primo comma, del D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116).
(4) La celeberrima circ. 30 marzo 2016, n. 6/E (in Boll. Trib., 2016, 616), ha tra l’altro confermato (i) la valenza sostanziale anziché procedurale dell’esenzione da ritenuta e (ii) l’applicabilità della norma in questione in base a criteri di beneficiario effettivo; la recente ris. 29 settembre 2016, n. 84/E (ibidem, 1498), ha ribadito anch’essa la valenza sostanziale della norma, ritenendo che “la tesi della possibilità che la non applicazione della ritenuta alla fonte non si traduca in un’esenzione, ma piuttosto, nel ben più gravoso obbligo per il percettore estero di assoggettare ad imposta gli interessi a seguito della presentazione di una dichiarazione dei redditi, non può essere condivisa, in quanto si pone in radicale contrasto con la ratio dell’articolo 26, comma 5-bis, del d.P.R. n. 600 del 1973, che finirebbe quindi con il perdere qualsiasi significato”.
(5) Limitando la rassegna alle riviste (ed escludendo quindi gli articoli sulla stampa quotidiana), si rilevano i seguenti: M. GUSMEROLI, Prime considerazioni in merito al nuovo regime di esenzione da ritenuta su interessi da finanziamenti a medio e lungo termine, in Boll. Trib., 2014, 1131 ss.; V. AMENDOLA PROVENZANO, Interessi ed altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine. Nuovo regime della ritenuta sui pagamenti a favore di non residenti, in Strum. fin. e fiscalità, 2014, 31 ss.; C. GALLI, Esenzione da ritenuta sugli interessi transfrontalieri da finanziamenti a medio e lungo termine, in Corr. trib., 2015, 2311 ss.; E. CACCIAPUOTI – D. MASSIGLIA, Regime fiscale degli interessi sui finanziamenti a medio-lungo termine: novità in merito ai requisiti per l’esenzione da ritenuta, su www.dirittobancario.it; A. DI DIO, Esenzione da ritenuta sugli interessi da finanziamento: limiti e condizioni del regime agevolativo, in il fisco, 2016, 4439 ss.; L. ROSSI – M. AMPOLILLA, La risoluzione 29 settembre 2016, n. 84/E, e i dubbi che ancora permangono sui presupposti per l’applicazione dell’esenzione di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, in Boll. Trib., 2016, 1538 ss.
(6) L’art. 12, terzo comma, lett. c), del D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, aveva aggiunto il seguente periodo: “Non sono altresì soggetti ad imposizione gli interessi ed altri proventi delle obbligazioni e titoli similari percepiti da enti od organismi internazionali costituiti in base ad accordi internazionali resi esecutivi in Italia”.
(7) L’art. 35, primo comma, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, aveva aggiunto il seguente periodo: “nonché quelli percepiti, anche in relazione all’investimento delle riserve ufficiali dello Stato, dalle Banche centrali di Paesi che non hanno stipulato con la Repubblica italiana convenzioni per evitare la doppia imposizione sul reddito”.
(8) Assente dal testo originale del decreto-legge (e quindi priva di relazione illustrativa), la nozione di cui trattasi nasce nella discussione del disegno di legge Camera 1654, di conversione del D.L. n. 350/2001. Appare una prima volta nel testo dell’emendamento 10.1, che il relatore Giorgio Jannone ritirò martedì 16 ottobre 2001 in Commissione Finanze: «a) nell’articolo 6, comma 1, [del D.Lgs. n. 239/1996] il secondo periodo è sostituito dai seguenti: “Ai fini della sussistenza del requisito della residenza si applicano le norme previste dalle singole convenzioni; gli investitori istituzionali non residenti privi di soggettività fiscale, i cui partecipanti non sono soggetti ad imposizione ai sensi del presente comma, si considerano residenti nello Stato in cui gli investitori istituzionali medesimi sono costituiti”». Questa norma avrebbe adottato una nozione di investitori istituzionali molto più ristretta rispetto all’attuale: la mancanza di soggettività fiscale sarebbe stata una caratteristica definitoria, come anche la circostanza che vi fossero stati dei partecipanti (anch’essi, peraltro, non soggetti a imposizione); in buona sostanza, questa nozione avrebbe ricompreso soltanto alcuni fondi. Ritirato l’emendamento in Commissione da parte del relatore, la disposizione sarà però integralmente riformulata (in senso conforme alla norma attualmente vigente) in Assemblea il 24 ottobre 2001, con un maxi-emendamento sul quale il Governo pose la fiducia. Nel successivo passaggio parlamentare al Senato (disegno di legge 786), non vi saranno modifiche di sorta; la nota di lettura del servizio del bilancio di Palazzo Madama non offre alcuno spunto in merito alla portata della nozione.
(9) Si tratta della nota “white list” di cui al D.M. 4 settembre 1996, plurime volte integrato e modificato.
(10) In Boll. Trib., 2002, 114.
(11) In Boll. Trib., 2002, 355.
(12) Decreto 24 maggio 1999, n. 228, Regolamento recante norme per la determinazione dei criteri generali cui devono essere uniformati i fondi comuni di investimento, abrogato dall’art. 18, comma 1, del D.M. 5 marzo 2015, n. 30. L’art. 1, primo comma, lett. h), definiva come “investitori qualificati” le seguenti categorie di soggetti: “(i) le imprese di investimento, le banche, gli agenti di cambio, le società di gestione del risparmio (SGR), le società di investimento a capitale variabile (SICAV), i fondi pensione, le imprese di assicurazione, le società finanziarie capogruppo di gruppi bancari e i soggetti iscritti negli elenchi previsti dagli articoli 106, 107 e 113 del testo unico bancario; (ii) i soggetti esteri autorizzati a svolgere, in forza della normativa in vigore nel proprio Paese di origine, le medesime attività svolte dai soggetti di cui al precedente alinea; (iii) le fondazioni bancarie; (iv) le persone fisiche e giuridiche e gli altri enti in possesso di specifica competenza ed esperienza in operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dalla persona fisica o dal legale rappresentante della persona giuridica o dell’ente” (enfasi aggiunta).
(13) In Boll. Trib., 2003, 522; si veda R.A. PAPOTTI, Recenti orientamenti di prassi amministrativa in merito al regime di esenzione da imposta sostitutiva per gli interessi, premi e altri frutti delle obbligazioni e titoli similari percepiti da soggetti non residenti, in Riv. dir. trib., 2003, IV, 143 ss.
(14) Nel D.M. n. 228/1999, la predetta nozione di “investitori qualificati” era funzionale alla previsione di cui al successivo art. 15, in base al quale le “SGR possono istituire fondi aperti e chiusi la cui partecipazione è riservata a investitori qualificati”.
(15) Nel D.M. n. 30/2015, la nozione di “investitori professionali” è funzionale alla previsione di cui al successivo art. 14 del medesimo decreto, in base al quale il “gestore può istituire FIA italiani riservati a investitori professionali in forma aperta o chiusa”. Dalla chiara identità delle norme in cui vengono utilizzate, discende necessariamente l’equivalenza delle due nozioni.
(16) Si veda il D.M. 11 novembre 2011, n. 236 che identifica il Governo della Repubblica e la Banca d’Italia.
(17) Regolamento intermediari, adottato con delibera 29 ottobre 2007, n. 16190, aggiornato con le modifiche apportate dalla delibera 17 marzo 2016, n. 19548.
(18) Si ricorda inoltre che il legislatore non ha mancato d’inserire le banche tra gli investitori istituzionali ai fini della disciplina dei fondi immobiliari istituzionali: l’art. 32, terzo comma, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), infatti identifica gli “intermediari bancari e finanziari assoggettati a forme di vigilanza prudenziale” e i “soggetti e patrimoni indicati nelle precedenti lettere costituiti all’estero”. Secondo la circ. 15 febbraio 2012, n. 2/E (in Boll. Trib., 2012, 273), si tratta dei “soggetti corrispondenti a quelli italiani indicati nelle lettere b), c), d) ed e), [quest’ultima indicante gli intermediari bancari disciplinati dal D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico Bancario – TUB)] assoggettati a forme di vigilanza prudenziale. Quest’ultimo requisito sussiste nelle ipotesi in cui l’avvio dell’attività sia soggetto ad autorizzazione preventiva e l’esercizio dell’attività stessa sia sottoposto in via continuativa a controlli obbligatori sulla base di disposizioni normative vigenti nello Stato estero di residenza dell’intermediario”.
(19) Una precedente bozza del decreto legge riportava una norma identica a quella di cui trattasi all’art. 15 (anziché all’art. 6, come nella versione definitiva) ed era correlata dalla seguente relazione illustrativa. “Nell’ambito della finalità di sbloccare cantieri e opere, anche attraverso iniezioni di liquidità, l’obiettivo della proposta è di consentire alle imprese italiane di beneficiare di tutti gli strumenti finanziari di cui beneficiano i loro competitor europei, allineando al contempo la normativa italiana a quella di altri Paesi europei (quali Germania e Francia). In tale ottica si propone di autorizzare – oltre alle banche non residenti abilitate ad operare in un altro Stato dell’Unione Europea ovvero con il quale l’Italia abbia sottoscritto un accordo fiscale – gli investitori istituzionali esteri (che operano in Paesi “White List” e che sono soggetti a forme di vigilanza nei paesi in cui sono istituiti) i quali già possono investire in altri strumenti di supporto alle imprese, quali i mini-bond, di partecipare indirettamente in qualità di soggetti finanziatori ad operazioni di finanziamento bancario e di godere dell’esenzione della ritenuta”.
(20) Lato investitore, la norma è ora contenuta nell’ultima parte dell’art. 1, primo comma, del D.Lgs. n. 239/1996. In seguito alle modifiche operate prima dal Decreto Crescita (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) e poi dal Decreto Competitività (D.L. n. 91/2014), tale regime ora si applica non solo ai titoli dei grandi emittenti, ma anche “sugli interessi ed altri proventi delle obbligazioni e titoli similari, e delle cambiali finanziarie negoziate nei medesimi mercati regolamentati o sistemi multilaterali di negoziazione emessi da società diverse dalle prime [grandi emittenti] o, qualora tali obbligazioni e titoli similari e cambiali finanziarie non siano negoziate, detenuti da uno o più investitori qualificati ai sensi dell’articolo 100 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58”.
(21) D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33), Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, A.C. 2844 – Schede di lettura n. 267, 2 febbraio 2015.
(22) Senato, Dossier del Servizio Studi sull’A.S. n. 1813 “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti” marzo 2015, n. 200.
(23) Art. 6 del D.L. n. 3/2015: “All’articolo 26, comma 5-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, le parole da: «organismi di investimento collettivo» a «n. 917» sono sostituite dalle seguenti: «investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1º aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti».”.
(24) Si potrebbe forse restare disorientati dal fatto che le banche rientrino negli investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. n. 239/1996, per poi venirne espunte nel contesto dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973: indubbiamente non si tratta di una situazione lineare; sarebbe stato molto più semplice sostenere che è tutto bianco (sempre dentro) o tutto nero (sempre fuori). Non è tutto bianco: se le banche (oltre a essere residenti) rientrano (anche) fra gli investitori istituzionali ai fini del D.Lgs. n. 239/1996, non per questo si può ignorare che il contesto del predetto comma 5-bis richiede altrimenti. Non è tutto nero: se le particolari circostanze del comma 5-bis non consentono l’inclusione delle banche tra gli investitori istituzionali, non per questo si può circoscrivere la portata generale di tale nozione (oltretutto, precedente di parecchi anni) ai fini del D.Lgs. n. 239/1996. Corollario di quanto affermato è quindi l’infelicità (se non addirittura l’improprietà) del legislatore nell’aver utilizzato una nozione comprendente le banche, in presenza di una norma che già disponeva per tale fattispecie.
(25) Art. 6, secondo comma, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
(26) La norma sembrerebbe ipotizzare che, per tali fattispecie, il TUB preveda sanzioni diverse dalla nullità: altrimenti gli interessi si renderebbero indebiti e non ci sarebbe bisogno dell’esenzione.
(27) In Boll. Trib., 2016, 1498: “Al riguardo si segnala che l’articolo 17, comma 2, del decreto legge 14 febbraio 2016, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 2016, n. 49 ha modificato la disposizione in esame prevedendo come condizione per l’applicazione della stessa che restano ferme le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico Bancario – TUB)”.
(28) Regolamento recante norme in materia di intermediari finanziari in attuazione degli artt. 106, terzo comma, 112, terzo comma, e 114, del D.Lgs. n. 385/1993, nonché dell’art. 7-ter, comma 1-bis, della legge 30 aprile 1999, n. 130, in G.U. 105 del 8 maggio 2015.
(29) “Per attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma si intende la concessione di crediti, ivi compreso il rilascio di garanzie sostitutive del credito e di impegni di firma. Tale attività comprende, tra l’altro, ogni tipo di finanziamento erogato nella forma di: a) locazione finanziaria; b) acquisto di crediti a titolo oneroso; c) credito ai consumatori, così come definito dall’articolo 121, t.u.b.; d) credito ipotecario; e) prestito su pegno; f) rilascio di fideiussioni, avallo, apertura di credito documentaria, accettazione, girata, impegno a concedere credito, nonché ogni altra forma di rilascio di garanzie e di impegni di firma” (art. 2, primo comma, del decreto).
(30) “L’attività di concessione di finanziamenti si considera esercitata nei confronti del pubblico qualora sia svolta nei confronti di terzi con carattere di professionalità” (art. 3, primo comma, del decreto).
(31) “Non configurano operatività nei confronti del pubblico… tutte le attività esercitate esclusivamente nei confronti del gruppo di appartenenza” [art. 3, secondo comma, lett. a), del decreto].
(32) Circ. n. 6/E/2016, cit.: “per quanto concerne gli interessi corrisposti successivamente all’entrata in vigore del citato comma 5-bis, eventuali contestazioni aventi ad oggetto la corretta applicazione delle ritenute in uscita relative a strutture IBLOR o all’assenza della qualifica di beneficiario effettivo sono da ritenere non sostenibili nella misura in cui i soggetti non residenti (ossia i CSP o i soggetti che hanno fornito la provvista alla società del gruppo) rientrino nell’ambito di applicazione della citata norma”.
(33) Complice la relativa novità del requisito regolamentare: non certo semplice, ma istituito nel 2016.
(34) “Con questa misura, limitata ai finanziamenti a favore di soggetti che esercitano attività di impresa in qualsiasi forma, si intende eliminare il rischio di doppia imposizione giuridica, che economicamente risulta di norma traslato sul debitore, favorendo l’accesso delle imprese italiane a costi competitivi anche a fonti di finanziamento estere”; così la relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del D.L. n. 91/2014.
(35) Si tratta di un Paese ancora fuori dalla white list: questione di tempo, dato che il trattato è stato da poco ratificato.
(36) Atti degli Apostoli, capitolo 10, versetti 34-35 (versione CEI 2008).
(37) Frase tradizionalmente attribuita a Deng Xiaoping.
(38) Frase tradizionalmente attribuita all’imperatore Vespasiano.

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