7 Febbraio, 2017

1. Si leggono e si sentono, con sempre maggiore intensità, richieste supplichevoli per la trasformazione del giudice tributario da organismo alla cui composizione concorrono persone non esclusivamente dedite alla soluzione delle controversie tributarie in istituzione professionale, al pari degli altri uffici giudiziali.
Questa metamorfosi – che implica una correlata modificazione del sistema di ingaggio – garantirebbe, da un canto, lo svolgimento pieno ed efficace della funzione e, d’altro canto, una migliore qualità del prodotto, per la più ampia disponibilità di tempo e una più assidua dedicazione ai compiti di giustizia.
Queste aspirazioni – così diffuse da divenire un mormorio comune – sono in linea di massima condivisibili. Osservo, peraltro, che il mutamento auspicato non potrà generare effetti radicalmente taumaturgici. Invero la carenza più rimarchevole nell’attuale esercizio della giurisdizione in materia tributaria sembra riguardare la preparazione culturale, che è non raramente inadeguata e che spicca solo nella parte ammirevole del corpo giudiziale; e si può escludere che il concorso pubblico possa garantire, in assoluto, una congrua conoscenza tecnica della disciplina.

2. Piuttosto qualche altro profilo dell’ordinamento rituale appare meritevole di esplorazione, nel quadro di una riforma incisiva, molto sollecitata: intendo alludere alla posizione rispettiva degli antagonisti nella lite fiscale e nel suo sviluppo. Mi permetto di richiamare, a questo proposito, alcune nozioni di base, conosciute, per rendere conto delle inferenze che da esse traggo.

A) Com’è noto e incontrovertibile (nonostante taluni sussulti degli interpreti teorici e pratici) il processo tributario è impostato secondo il modello del giudizio impugnatorio.
Nell’ambito di tale schema, solo all’atto finale (di un procedimento amministrativo) si possono rivolgere le contestazioni del soggetto coinvolto, quantunque le sue lamentele attengano all’attività preparatoria, i cui vizi inficiano, per derivazione, il provvedimento conclusivo. Raramente è consentito di anticipare le censure nei riguardi di un atto preliminare, purché esso sia formalmente manifestato e assuma rilevanza esterna.
Questo impianto processuale – che ha antiche ascendenze storiche – è stato pensato e attuato, con modalità variegate e diversamente apprezzabili, al fine di soddisfare due esigenze non necessariamente confliggenti, ma comunque distinte: per salvaguardare, da una parte, la supremazia istituzionale della pubblica Amministrazione con le sue prerogative e, dall’altro, per consentire al singolo, nei riguardi del quale l’azione autoritaria abbia un’incidenza pregiudizievole, di difendersi davanti al giudice, denunciando l’illegittimità, appunto, dell’atto conclusivo, che esprime e rende concreta la volontà precettiva del soggetto pubblico agente.
L’Amministrazione è in tal modo protetta da invadenze e da intralci, mentre elabora le sue iniziative, idealmente protese al perseguimento di interessi collettivi, la cui soddisfazione riceve una tutela rafforzata non tollerante di sindacati intermedi, ma solo di un vaglio a posteriori, quando è adempiuto il compito spettante all’autorità preposta.
Una rigida coerenza governa – conformemente all’esegesi secolare – gli effetti di tale ordine, i quali investono proprio o prevalentemente aspetti processuali.
Innanzitutto, essendo incompatibile, per principio, l’accertamento giudiziale preventivo, non è consentito di precedere qualunque movenza dell’Amministrazione, sebbene questa abbia già manifestato o di essa si conoscano le intenzioni, i propositi e gli orientamenti. Si tratta, per l’appunto, di un corollario desumibile dal principio di non interferenza con il compimento degli uffici conferiti all’autorità pubblica: ribadisco che solo l’atto conclusivo o l’atto con efficacia esterna è vagliabile in sede giudiziale, con il fine pratico di ottenerne l’annullamento.
Di contro – con efficace ricomposizione dell’equilibrio tra le parti contrapposte del rapporto generato dalle intraprese ufficiali dell’Amministrazione – gli oggetti dell’impugnazione, eventualmente proposta davanti al giudice dal soggetto interessato, sono unicamente l’atto emesso – con la forma, il contenuto e i connotati che lo qualificano – nonché la sua conformità, nello stato in cui esso si palesa, alla fattispecie reale, da cui ha preso le mosse l’autorità agente, e alla disciplina normativa pertinente.
Dunque non sono consentite divagazioni e l’intrusione, nella lite, di elementi estranei al provvedimento risolutivo e alle operazioni propedeutiche e preparatorie. Più significativamente (come, del resto, è ribadito anche da recenti pronunce di legittimità) (1) l’Amministrazione non può modificare o integrare l’atto, successivamente alla sua emissione (salve le deroghe, di stretta interpretazione, stabilite dalla legge), giacché la sua versione originaria è un limite oggettivo che non può essere valicato e che segna altresì i confini delle doglianze proponibili dall’impugnante, a loro volta preclusive di qualunque ampliamento. Né il giudice può sostituirsi all’Ufficio, autore di un atto illegittimo, e pronunciare una sentenza emendativa, che corregga il contenuto materiale dell’atto impugnato, rimuovendone il vizio palese.
Si diffonde, invece, un indirizzo giurisprudenziale che – attenendosi a tesi dottrinali non conciliabili con l’ordinamento positivo – riconosce al giudice tributario questa facoltà surrogatoria e di supplenza. Tale concezione attribuisce al giudice non solo il potere, ma l’obbligo funzionale di manipolare l’atto, sottoposto al suo giudizio e nei limiti delle contestazioni proposte, per regolare il rapporto tra la pubblica Amministrazione e il contribuente nei termini che lo stesso giudice ritiene conformi alla legalità, anche in riferimento alla fattispecie correttamente ricostruita. Cade dunque il principio che prescrive l’immutabilità dell’atto amministrativo, oggetto di verificazione giudiziale, e fissa un radicale contrasto alternativo tra il suo annullamento (totale o parziale) oppure la sua conferma, tipico del processo impugnatorio secondo il paradigma ideale.
È dunque percepibile, limpidamente, l’emergenza di uno squilibrio surrettizio tra le parti contendenti.
Invero, da un canto, la facoltà suppletiva riconosciuta al giudice è solo apparentemente preordinata al raggiungimento di una giustizia sostanziale, con l’ausilio attivo del magistrato; ma, in effetti, essa tende esclusivamente a salvare un provvedimento amministrativo viziato, giacché la sua difformità dall’ordinamento o dal caso concreto denunciata dall’interessato, qualunque dimensione essa manifesti, sarebbe causa bastevole e imprescindibile per l’annullamento conseguente.
D’altro canto, e con effetto inguaribilmente disarmonico, permane l’impossibilità – strutturale, come avvertivo, nel processo impugnatorio – di proporre l’azione preventiva di accertamento giudiziale. Tuttavia questa persistente esclusione non è più giustificabile e si risolve in uno svantaggio ingiusto per il contribuente. Se, infatti, il giudice è chiamato fisiologicamente a stabilire quale sia, in qualunque fattispecie, la giusta imposizione, potrebbe senz’altro esercitare questo suo compito di saggia ponderazione anche prima che sia emesso l’atto pretensivo, qualora sussistano le condizioni che rendono incontestabile l’interesse ad avviare un’azione di accertamento giudiziale, secondo gli schemi universali del contenzioso di merito.

B) I poteri inquisitori concessi all’Amministrazione finanziaria e al suo braccio armato hanno assunto ampiezza, incisività e profondità inusitate, con relativo rovesciamento, a carico dell’inquisito, dell’onere di smentire la significanza dei risultati.
In effetti l’indagine dell’autorità preposta supera e travolge qualunque barriera documentale e contabile, qualunque sofisticato mezzo di contenimento e di riservatezza nonché, ormai, gli stessi argini geografici anche mediante un’efficace vigilanza indiretta: si rammenta che dal 2016 le Agenzie fiscali possono accedere liberamente ai rapporti bancari del contribuente. Accentua questa pesante subordinazione del soggetto passivo una giurisprudenza ad avviso della quale gli elementi probatori, di vario genere e provenienza, raccolti dall’Amministrazione, sono usufruibili, quantunque l’agente abbia eluso le, pur limitate, regole procedimentali o i dati risultanti non rispettino le qualità minime fissate dalla legge.
Talvolta, poi, la metodologia procedimentale scelta rischia di trasformarsi in un’oppressione nei confronti del contribuente, che non sia un evasore professionale o per tendenza.
Questo ingigantimento delle facoltà istruttorie si accompagna, con pericolosa ambiguità, ad una trasformazione – programmaticamente proclamata e di fatto perseguita – in senso aziendale (ma l’espressione è impropria: più confacente è l’aggettivo imprenditoriale) degli uffici amministrativi.
La locuzione ha un’accezione precisa e rivela un obiettivo coerente: ovvero le emanazioni periferiche delle Agenzie finanziarie devono cercare istituzionalmente il maggiore rendimento economico, esattamente come si comporta, in conformità alla sua stessa vocazione normativa, l’imprenditore.
Questo compito sovrastante, assegnato agli organi destinatari dei poteri impositivi, rivela, nella sua pratica applicazione, alcune conflittualità. Esso contraddice non solo e non tanto le funzioni statutarie, che devono essere esercitate con rigorosa ed anche eroica adesione alla relativa disciplina, ma anche e soprattutto gli alti fini di giustizia, di equità e di proporzionalità che qualunque organismo pubblico deve raggiungere, come ha predicato, nel secolo scorso, una sublime corrente dottrinale e statuisce la giurisprudenza comunitaria.
Questa sorta di voluta, tendenziale somiglianza tra il contribuente, che è comunque un uomo economico preoccupato di evitare qualsiasi impoverimento, e l’Amministrazione finanziaria, che opera con l’intento di ottenere, anche caparbiamente, esiti profittevoli, dovrebbe condurre, teoricamente, ad una pariteticità processuale: conclusione tuttavia paradossale, utopica e comunque inammissibile, perché l’Amministrazione non può essere privata delle sue prerogative autoritarie e delle connesse protezioni.
Ciò nondimeno lo scenario, cui si è poc’anzi alluso, mette in evidenza la fragilità sostanziale del contribuente, che è esposto ai pubblici poteri finanziari e che quindi appare meritevole, almeno nella lite davanti al giudice (posto che si è negata la necessità generale di un contraddittorio preventivo), di agevolazioni compensative con riguardo alla gestione pratica del processo tributario. Penso, per esempio, a quest’ultimo proposito (e indipendentemente da rinnovamenti legislativi) ad un’applicazione più equilibrata – tenendo conto delle facoltà inquisitorie sommamente invadenti e della necessità di non concedere nulla all’inerzia e alla negligenza degli uffici – della regola che discrimina l’onere della dimostrazione a carico delle parti, in riferimento alla cosiddetta vicinanza della prova, della quale si fa un uso spregiudicato. Se le Agenzie e la Guardia di finanza possono spingere le loro indagini al di là di ogni presidio e di ogni resistenza, nei termini prima enunciati, il ricorso a questo principio deve essere circondato da un’estrema cautela.
È altrettanto indubitabile che la presenza minacciosa del debito pubblico consolidato, che ha assunto dimensioni abnormi, incide sui rapporti fiscali, alterandone l’equilibrio, perché l’esasperata ricerca di rendimenti utili a frenare l’espansione del deficit induce, consapevolmente, a forzare l’interpretazione e l’applicazione delle norme tributarie in favore dell’ente impositore, sacrificando la ragionevolezza.
Infine allo sbilanciamento complessivo, che opprime il contribuente, concorre anche la prassi – non rigorosamente concorde con l’ordine costituito – in virtù della quale i progetti delle leggi tributarie sono preparati e le novità normative suggerite dai vertici dell’Amministrazione finanziaria, che poi ne offre l’interpretazione (2).

3. In un simile scenario urge domandarsi se sia parte del processo tributario un soggetto che è o può essere considerato strutturalmente debole; e se dunque – in previsione di una prossima riforma – la disciplina rituale (come è accaduto in altri, noti settori dell’ordinamento, perfino clamorosamente) debba essere conformata a questa condizione deteriore, generata da uno stato di fatto e giuridico preprocessuale al quale occorre contrapporre misure di alleggerimento, almeno, appunto, nel contenzioso.
Lascio irrisolto l’interrogativo, preferendo, allo stato, limitarmi a sollevarlo.
Né si potrà plausibilmente replicare – per opporre resistenza ad una impostazione processuale correttiva – che l’evasione dai tributi, in Italia, è elevata e che le misure di contrasto, pure attuate con ricorrente periodicità, non hanno sortito e non sortiscono effetti del tutto soddisfacenti, nei confronti soprattutto di una micropropensione a sottrarsi ai doveri fiscali.
Proprio in questa condizione di fatto critica si corre concretamente il rischio di soccombere alla tentazione di rimediare alla inadeguatezza degli strumenti antievasivi inasprendo la pressione fiscale – anche con azioni grevi – nei confronti di contribuenti sostanzialmente corretti o colpevoli di soli peccati veniali.

Prof. Avv. Gianfranco Gaffuri

(1) Si veda Cass., sez. trib., 30 marzo 2016, n. 6103, in Boll. Trib. On-line.
(2) Si vedano, sul tema, gli accenni perspicui di M. BASILAVECCHIA, L’etica dell’Amministrazione finanziaria fra responsabilità ed autotutela, in Neotera, 2/2015, 30.