SOMMARIO: 1. INTRODUZIONE ALLA SHARING ECONOMY – 2. TAXING THE SHARING ECONOMY; 2.1. Inquadramento delle principali problematiche fiscali connesse al fenomeno della sharing economy; 2.2. Le soluzioni fiscali adottate dai Paesi dell’Unione europea all’avanguardia – 3. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE.
1. INTRODUZIONE ALLA SHARING ECONOMY
Inquadrare il fenomeno della c.d. “sharing economy” può risultare complesso, considerato che trattasi di una realtà in continua evoluzione che sfrutta le opportunità offerte dalle innovazioni digitali, adottando di volta in volta le soluzioni che più si confanno all’obiettivo perseguito, ossia incrociare domanda e offerta di beni e servizi e connettendo soggetti che, prima della rivoluzione digitale, ben difficilmente avrebbero potuto soddisfare le proprie esigenze.
Proprio a causa dei mille volti e sfaccettature dell’economia della collaborazione, tra i commentatori che sinora si sono occupati del tema manca in realtà una definizione condivisa di cosa effettivamente consista la sharing economy; in linea generale e di prima approssimazione possono comunque evidenziarsi le due caratteristiche principali dell’economia della collaborazione e, segnatamente: l’utilizzo di piattaforme digitali, ove si “incontrano” le esigenze e le offerte degli utenti (1) e l’impiego di risorse altrimenti non sfruttate, le quali vengono condivise dagli users.
Sul punto a fare chiarezza è recentemente intervenuto il Parlamento europeo, il quale ha inquadrato questo fenomeno come «the use of digital platform or portals to reduce the scale for viable hiring transactions or viable participation in consumer hiring market and thereby reduce the extent to which assets are underutilized» (2) e altresì la Commissione europea, secondo la quale con il termine “economia collaborativa” ci si «riferisce ai modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati» (3).
Si può quindi ritenere che entro il cappello della “sharing economy” rientrino tutte quelle attività che si sviluppano attraverso l’uso di piattaforme digitali (le c.d. “app”), grazie alle quali è possibile utilizzare, in vario modo, risorse in precedenza sottoutilizzate, ovvero non impiegate affatto. La piattaforma digitale agisce infatti alla stregua di un “intermediario digitale” e consente la messa in comunicazione di soggetti che necessitano di beni o servizi con altri soggetti in grado di soddisfare queste esigenze; questi ultimi, in particolare, soddisfano la domanda dei primi mettendo a disposizione i propri beni (4), condividendoli con chi ne ha (temporaneo) bisogno, ovvero le proprie capacità, prestando i servizi richiesti. Si tratta, quindi, di scambi di beni ovvero di prestazioni di servizi, dietro corrispettivo, che avvengono “tra pari” (c.d. “peer-to-peer transactions”): le transazioni di cui trattasi, invero, avvengono – o, perlomeno, dovrebbero avvenire (5) – tra soggetti che, di norma, non esercitano professionalmente le attività connesse alle prestazioni erogate e che agiscono, quindi, in qualità di “privati” nei confronti di altri soggetti “privati”.
Come osservato, l’esponenziale sviluppo di queste nuove opportunità di business, in precedenza inesistenti, è stato reso possibile grazie alle opportunità offerte dalla rivoluzione digitale; secondo un recente studio commissionato dalla Commissione europea e condotto da un noto studio legale internazionale (6), i principali settori in cui si è sviluppata l’economia della condivisione sono il c.d. “peer-to-peer transportation” e il c.d. “peer-to-peer accomodation”: si tratta dei ben noti mercati concernenti i trasporti (ove l’app leader è Uber) e le sistemazioni per la notte (regina indiscussa, l’app AirB&B). Su tali piattaforme digitali si incontrano, nel primo caso, soggetti che, disponendo di una propria auto, intendono offrire passaggi ad altri soggetti, dietro corrispettivo e, nel secondo caso, di soggetti proprietari di alloggi che vengono affittati per periodi più o meno lunghi ad altri soggetti.
Si tratta di settori vertiginosamente in crescita: se nel 2013 le piattaforme dell’economia della condivisione erano relativamente poche, oggi gli utenti che desiderano accedere a questi modelli di condivisione e scambio di beni e servizi possono scegliere tra quasi 300 piattaforme informatiche, e il numero è in costante crescita (7). Secondo uno studio effettuato dall’ING (8) (luglio 2015), circa il 5 per cento dei consumatori dell’Unione europea ha dichiarato di aver preso parte a transazioni dell’economia collaborativa – si tratta, principalmente, di soggetti appartenenti alle giovani generazioni, con un livello di educazione medio-alto, che vedono nella sharing economy un’opportunità per risparmiare costi e al contempo una preziosa fonte di reddito (9). Al di fuori dell’Europa la partecipazione alle attività di sharing economy è più alta – circa il 9 per cento dei consumatori statunitensi ha già attivamente partecipato all’economia collaborativa.
Anche i dati economici confermano questo trend crescente: secondo gli ultimi dati elaborati disponibili, nel 2015 le transazioni da sharing economy hanno infatti complessivamente generato ricavi per euro 4 billioni – considerando i soli settori “chiave” – con una crescita del 97 per cento rispetto all’anno precedente (10).
Dati alla mano, è chiaro che la sharing economy è un fenomeno di vasta portata che ha cambiato e sta cambiando i mercati tradizionali, e che ha determinato il sorgere di nuovi modelli di business che abilmente consentono di incrociare domanda e offerta di beni e servizi attraverso l’utilizzo di piattaforme online. Questa caratteristica, congiuntamente al pregio di consentire l’impiego di beni in precedenza non economicamente sfruttati e di permettere potenzialmente a qualsiasi soggetto l’accesso a beni e servizi di cui necessita ovvero di mettere a disposizione propri beni e capacità, ha fatto sì che l’economia della collaborazione divenisse un fenomeno globale, progressivamente rendendo obsoleti i tradizionali mercati e modelli di business, i quali indubbiamente faticano a stare al passo a questa mutevole realtà digitale.
Non sono, tuttavia, solo le imprese operanti nei mercati tradizionali a fronteggiare sfide e difficoltà connesse alla forza dirompente della sharing economy; invero, l’economia della condivisione sta mettendo alla prova anche i sistemi normativi in essere. E infatti la nascita e la rapida diffusione dell’utilizzo delle piattaforme informatiche per lo sfruttamento di beni e la prestazione di servizi tra “pari” sta ponendo delle rilevanti questioni circa le modalità di regolamentazione di tali fenomeni. Nel dettaglio l’intervento che segue si prefigge di analizzare alcune peculiari e delicate questioni concernenti la tassazione dei proventi derivanti dall’economia della condivisione, a partire dall’inquadramento delle problematiche fiscali della sharing economy per poi evidenziare le possibili soluzioni, nonché quelle già adottate in altri Paesi in un’ottica comparata rispetto alla proposta attualmente in fase di studio in Italia.
2. TAXING THE SHARING ECONOMY
Come anticipato, tra le molteplici sfide poste dall’esponenziale sviluppo della sharing economy si rinvengono in particolare aspetti attinenti alla regolamentazione di questo nuovo mercato digitale, alle possibilità di convivenza tra imprese “tradizionali” e soggetti “digitali” e, naturalmente, alla rilevanza fiscale (o meno) delle transazioni dell’economia della condivisione. Tra tutti quest’ultimo profilo è probabilmente quello più denso di criticità tant’è che, come è stato coloritamente affermato, il trattamento fiscale da accordare ai proventi da sharing economy «is providing local tax authorities and legislators with quite the headache» (11).
Molteplici sono le questioni tributarie che i legislatori fiscali dei Paesi interessati dalle transazioni da sharing economy dovranno sbrogliare: in primis, stanti le peculiari caratteristiche di tali transazioni (12), sarà necessario individuare cosa debba (eventualmente) essere oggetto di tassazione e, secondariamente, in quale misura. Ciò implica verificare se gli attuali assetti dei sistemi tributari vigenti siano in grado di intercettare queste nuove realtà economiche ovvero se sia necessario intraprendere un percorso di adattamento ovvero di un vero e proprio cambiamento delle tax rules.
Nei paragrafi che seguono si darà quindi conto dello status quo delle normative fiscali di alcuni dei principali Paesi dell’Unione europea, individuando quali accorgimenti ovvero modifiche possano o debbano essere adottate, cercando di offrire indicazioni per il futuro.
2.1. Inquadramento delle principali problematiche fiscali connesse al fenomeno della sharing economy
Trattandosi di un tema particolarmente nuovo e in continua evoluzione, in dottrina solo di recente sono state (parzialmente) esaminate le problematiche fiscali connesse al fenomeno della sharing economy e, nel dettaglio, se tali transazioni diano origine a componenti reddituali positivi fiscalmente rilevanti ai fini dell’IRPEF e, in caso affermativo, quale sia la modalità di tassazione più adeguata di tali flussi.
Della complessità del tema di cui trattasi ha dato conto anche la Commissione europea in una recente comunicazione avente ad oggetto l’economia collaborativa, a mezzo della quale ha tentato di inquadrare il fenomeno e di individuare le principali problematiche connesse alla tutela degli utenti, al profilo della responsabilità per danni, all’inquadramento dei prestatori come lavoratori autonomi ovvero subordinati e, infine, anche alla fiscalità, suggerendo delle linee guida per gli Stati membri.
Con riferimento a quest’ultimo profilo, la Commissione europea ha osservato che «Gli operatori economici nell’ambito dell’economia collaborativa sono soggetti alla normativa fiscale al pari degli altri. … Sono tuttavia emersi problemi per quanto riguarda l’adempimento degli obblighi fiscali e la loro applicazione: difficoltà nell’identificazione dei contribuenti e dei redditi imponibili, mancanza di informazioni sui prestatori di servizi, una pianificazione fiscale aggressiva» (13), concludendo per la necessità che gli Stati membri si adoperino per individuare un approccio generale alla sharing economy sotto il profilo tributario (14).
La principale difficoltà nel definire il regime fiscale dei proventi percepiti dai soggetti che “mettono a disposizione” beni ovvero prestano servizi utilizzando le tecnologie informatiche della sharing economy risiede principalmente nella circostanza che le caratteristiche proprie di queste nuove forme di business sembrano di primo acchito ostacolare all’inquadramento dei proventi percepiti dagli utenti attivi in una piuttosto che in un’altra categoria reddituale (15).
Le strutture delle imposte “personali” nei vari Paesi dell’Eurozona sono infatti costruite secondo un modello casistico, e cioè i redditi conseguiti dalle persone fisiche assumono rilevanza fiscale – e devono quindi essere dichiarati e sottoposti a tassazione – allorquando presentino i tratti caratteristici per essere inquadrati in una data categoria di redditi, normativamente disciplinata dal legislatore fiscale. Viceversa, il conseguimento di redditi non ascrivibili ad alcuna categoria reddituale non fa sorgere alcun obbligo fiscale in capo al percettore.
Ebbene, nel commentare i modelli di business propri della sharing economy, è stata sostenuta l’impossibilità (o, perlomeno, la difficoltà) di classificare i proventi percepiti dagli utenti a fronte delle attività dell’economia della collaborazione entro le predeterminazioni normative – solitamente, si discute se inquadrare tali proventi entro la categoria dei redditi di lavoro autonomo piuttosto che nei redditi d’impresa. Ciò deriverebbe proprio dalle peculiarità di queste prestazioni: nella maggior parte dei casi, invero, si tratta di prestazioni rese tra soggetti “privati” e, quindi, da soggetti che non esercitano professionalmente un’attività da cui percepire redditi di lavoro autonomo, e inoltre gli scambi sono, in linea di massima, resi occasionalmente (spesso mancando, quindi, il requisito dell’abitualità, così ostando all’inquadramento tra i redditi d’impresa).
Al fine di meglio comprendere le problematiche riscontrate si possono confrontare le posizioni di due soggetti che offrono dei passaggi in auto: l’uno, attraverso l’app Blablacar, viene contattato da altre persone che devono fare il suo stesso tragitto, i quali pagano delle somme essenzialmente destinate a rimborsare le spese sostenute dal guidatore; l’altro, attraverso l’app Uber, offre passaggi su richiesta da parte degli altri utenti, percependo un corrispettivo per il servizio reso.
Nel primo caso, diversamente dal secondo, potrebbero non verificarsi i presupposti per assoggettare i rimborsi spese a tassazione, non rinvenendosi alcun “arricchimento” di colui che mette a disposizione l’auto. Eppure anche nel secondo caso bisognerebbe verificare se l’attività avviene occasionalmente – al limite una sola volta, oppure solo in concomitanza di determinati eventi e/o festività – oppure continuativamente, ad esempio ogni weekend.
In definitiva, per stabilire la rilevanza fiscale o meno dei proventi conseguiti dagli utenti bisognerebbe chiedersi quale sia la finalità perseguita dagli utenti, se i servizi siano resi per scopi privati ovvero lucrativi, se e in caso come viene organizzata l’attività etc., non basandosi esclusivamente sulla piattaforma digitale utilizzata. Nel caso in cui si affermasse l’imponibilità dei proventi, bisognerebbe poi stabilirne le modalità di tassazione – e cioè se come redditi di lavoro autonomo (da tassare al netto delle spese di produzione, con l’ulteriore problematica di quali spese ammettere e in che misura), ovvero redditi diversi, etc. Una verifica caso per caso, tuttavia, risulterebbe ovviamente impossibile ed è per questo che, nello scegliere quale rilevanza fiscale conferire ai proventi ottenuti dagli utenti, alcuni Paesi hanno scelto di adottare criteri forfetari (cfr. infra).
Senza contare, poi, ulteriori problematiche connesse all’enforcement e alla compliance fiscale, esacerbate dell’esponenziale diffondersi dei modelli economici di sharing economy. Infatti recenti studi (16) hanno messo in luce una certa tendenza dei soggetti che percepiscono redditi da attività dell’economia della collaborazione ad approfittare della mancanza di chiarezza e uniformità delle disposizioni tributarie, di volta in volta cercando di applicare il regime ritenuto più favorevole. In altri termini, in base alle regole che governano la classificazione dei redditi e la determinazione dei redditi imponibili, gli utenti della sharing economy adottano la condotta fiscale loro più conveniente. Al fine di ovviare a questi comportamenti opportunistici, si segnala in ogni caso la positiva tendenza di alcune piattaforme digitali a informare preventivamente gli utenti circa i relativi obblighi fiscali (17). Sarebbe opportuno, naturalmente, provare a circoscrivere tali comportamenti di vero e proprio “opportunismo fiscale”, e ciò potrebbe essere possibile in primis attraverso una semplificazione delle norme tributarie. D’altro canto, tuttavia, permarranno pur sempre ostacoli a una “perfetta” compliance fiscale, posto che si è di fronte a una vasta platea di operatori economici, composta da centinaia di migliaia di soggetti di microdimensioni, ed è inimmaginabile una precisa e puntuale attività di controllo su ciascuno di essi, la quale sarebbe per certo antieconomica per le autorità fiscali.
2.2. Le soluzioni fiscali adottate dai Paesi dell’Unione europea all’avanguardia
Le criticità testé evidenziate hanno indotto alcuni commentatori a ritenere preferibile l’inserimento nei sistemi tributari di norme ad hoc che vadano a disciplinare sia la definizione dei redditi derivanti dalle attività di sharing economy, sia le modalità di calcolo della base imponibile (se al lordo o al netto delle spese sostenute, e in tale ultimo caso quali spese ammettere in deduzione ed entro quali limiti quantitativi), nonché i conseguenti aspetti procedurali e, segnatamente, la disciplina della dichiarazione e riscossione delle imposte dovute (18).
Ciò è stato ritenuto necessario proprio sulla base dell’osservazione che i sistemi tributari oggi vigenti e così come attualmente strutturati non sarebbero in grado di cogliere appieno l’essenza della sharing economy sia sotto il profilo dei redditi da considerare imponibili sia sotto il profilo delle tutele da garantire a coloro che non esercitano professionalmente tali attività: alla luce di queste considerazioni, quindi, bisognerebbe ripensare gli attuali schemi tributari, adattandoli al mutato contesto socio-economico.
In realtà, secondo un orientamento per il momento minoritario, l’esigenza di apportare ulteriori modifiche e integrazioni alle discipline fiscali delle imposte sui redditi in vigore non sarebbe così pressante, potendo già individuarsi all’interno delle strutture in essere gli elementi per raggiungere una giusta e commisurata tassazione dei proventi dell’economia della collaborazione. Tutt’al più, sarebbe necessario chiarire alcuni aspetti (19), e rendere in generale più trasparenti e facilmente accessibili le regole per coloro che, prestando occasionalmente servizi di questo tipo, con buona probabilità non hanno dimestichezza con le regole del diritto tributario (20). Senza dubbio, infatti, ripensare ulteriormente gli schemi impositivi in essere coltivando nuove eccezioni al regime “generale” di classificazione e tassazione dei proventi percepiti dalle persone fisiche finirebbe con lo svuotare ulteriormente l’ambito di applicazione dell’imposta personale e delle aliquote progressive, aggiungendo un ulteriore regime speciale a quelli già esistenti – ciò determinando, quale conseguenza, un sicuro incremento delle possibilità di porre in essere comportamenti opportunistici da parte dei contribuenti (21).
Ciononostante, a un attento esame delle politiche fiscali adottate da quei Paesi dell’Unione europea più “toccati” dal fenomeno della sharing economy, la tendenza assunta dai legislatori fiscali va proprio nella direzione di inserire norme e disposizioni specifiche per disciplinare la tassazione, ai fini dell’imposta sui redditi, dei proventi così conseguiti. Pertanto, a fronte delle indubbie difficoltà fronteggiate dai sistemi tributari nell’inquadrare questi nuovi modelli di business, la strada che è stata scelta è stata non tanto quella di chiarire le regole fiscali già esistenti, bensì di crearne di nuove, nella speranza che queste siano in grado di intercettare con più accuratezza l’imponibilità dei proventi conseguiti dagli utenti.
In questa direzione, cioè nel senso di integrare le normative in essere ovvero inserire disposizioni ritenute maggiormente confacenti alle caratteristiche della sharing economy, si stanno indirizzando i sistemi tributari di alcuni Paesi dell’Eurozona. I tratti ispiratori di queste riforme, seppure declinati differentemente, sono condivisi: invero, tra i Paesi che hanno introdotto specifiche disposizioni circa la tassazione dei redditi da sharing economy, vi è la comune intenzione di assoggettare tali redditi a tassazione in misura agevolata, di volta in volta concedendo un’esenzione di base (22) ovvero prevedendo l’applicazione di aliquote marginali fortemente ridotte rispetto le aliquote vigenti fino a un certo ammontare di redditi percepiti.
Emblematico, tra tutti, è il caso del Belgio – di particolare interesse per la nostra analisi in quanto il regime fiscale concernente i proventi da sharing economy, introdotto nel 2016 (23), è nella sostanza molto simile a quello attualmente in fase di studio in Italia, proposto con atto della Camera n. 3564 del gennaio 2016 (24).
Con la menzionata modifica normativa, il legislatore fiscale belga ha introdotto una nuova categoria di redditi imponibili: quella relativa ai proventi da attività dell’economia collaborativa (“income from collaborative economy”). Entro tale specificazione rientrano quei redditi derivanti da prestazioni di servizi (25) rese tra soggetti “privati” – i.e. soggetti che agiscono, quindi, al di fuori della sfera professionale/imprenditoriale – concluse attraverso l’utilizzo di una piattaforma online. Il ruolo della piattaforma digitale è determinante nella qualificazione dei redditi percepiti in quanto, affinché i proventi di cui trattasi rientrino nella categoria dei “redditi da sharing economy” e fruiscano del regime agevolativo previsto, è necessario che il pagamento della prestazione resa sia tracciato dalla piattaforma. Non solo, i proventi conseguiti saranno “ammessi” nella categoria in parola all’ulteriore condizione che la conclusione dell’accordo e il pagamento avvengano su specifiche piattaforme “validate” dalle competenti autorità belghe.
Soddisfatti questi preliminari requisiti, qualora siffatti proventi non superino la soglia annuale di euro 5.000 – individuata quale elemento di “discrimine” tra attività occasionali ovvero rese professionalmente (26) – essi saranno soggetti ad imposizione ad aliquota ridotta, e segnatamente pari al 20 per cento (27).
L’agevolazione in parola per i redditi da sharing economy è rilevante, in quanto l’aliquota applicabile al reddito imponibile così determinato è significativamente inferiore a quella prevista per le imprese (aliquota proporzionale, pari al 30 per cento) ovvero a quelle proprie dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. L’imposta personale belga, strutturata, in modo del tutto analogo all’IRPEF italiana, secondo il modello progressivo a scaglioni, è caratterizzata dall’applicazione di aliquote decisamente elevate già in corrispondenza di redditi di modesto ammontare. Si consideri che già in corrispondenza di un reddito imponibile di circa euro 11.000 l’aliquota marginale applicabile è pari al 25 per cento, e incrementa notevolmente per redditi leggermente superiori (28).
L’intervento del legislatore belga ha inoltre previsto un particolare accorgimento per cercare di ridurre gli accennati rischi circa la mancata ottemperanza, da parte dei contribuenti interessati da attività di sharing economy, degli obblighi fiscali. Invero, il prelievo fiscale su tali proventi avviene attraverso il meccanismo della ritenuta d’imposta, effettuata direttamente dalla piattaforma – ecco perché, al fine di poter fruire di questa agevolazione, è necessario che gli accordi vengano conclusi su piattaforme “riconosciute” e anche che il pagamento sia veicolato tramite queste – e successivamente versato all’erario.
In ogni caso, che l’economia della condivisione abbia posto sfide per i legislatori fiscali europei è un dato di fatto ed è testimoniato dalla recentissima proposta delle istituzioni belghe di modificare ulteriormente il regime fiscale dei proventi da sharing economy introdotto poco più di un anno fa. Infatti è attualmente in fase di studio la proposta di concedere un’esenzione da imposizione per quei redditi generati da attività di sharing economy che non superino la soglia mensile di euro 500 ovvero la soglia annuale di euro 6.000, accompagnato da una ridefinizione dei redditi ammissibili a fruire di tale regime.
3. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
L’esponenziale crescita delle transazioni da sharing economy risultante dalle prime elaborazioni statistiche effettuate su commissione della Commissione europea incontrovertibilmente testimonia come, nel prossimo futuro, questa tipologia di transazioni non costituirà più un fenomeno marginale, bensì preponderante nel panorama economico mondiale. L’utilizzo di piattaforme informatiche, grazie alle innovazioni digitali, sarà sempre maggiore, coinvolgendo una sempre più ampia platea di utenti, con conseguente incremento delle transazioni dell’economia collaborativa.
La possibilità di prevedere il probabile evolversi di questi nuovi modelli di business, che abilmente sfruttano i “mercati digitali” per permettere l’incontro di domanda e offerta di beni e servizi, impiegando risorse in precedenza non utilizzate, deve essere colta come un’occasione per verificare se i sistemi normativi tradizionali siano adatti a rispondere alle sfide poste da queste nuove realtà. Viceversa, ignorare ovvero sottovalutare la portata del cambiamento in atto non condurrà ad alcun miglioramento, né fermerà lo sviluppo delle diverse forme di sharing economy.
Ciò considerato e avuto particolare riguardo alle sfide poste dalla sharing economy sul fronte della regolamentazione, dal punto di vista tributario, delle transazioni avvenute grazie alle piattaforme informatiche, l’atteggiamento di chiusura adottato da alcuni Paesi (29) verso queste nuove forme di business non sembra la strada corretta da percorrere, dovendosi piuttosto accogliere favorevolmente un’aperta discussione su tali tematiche.
Sul punto, tuttavia, la tendenza riscontrata a introdurre discipline fiscali ad hoc per i proventi da sharing economy potrebbe non portare ai risultati sperati, all’opposto aprendo ad altre criticità; l’introduzione di un altro regime speciale porterebbe infatti a un ulteriore sgretolamento del contenuto delle imposte personali. Non solo, subordinare l’accesso a un regime speciale al possesso di determinati requisiti, alcuni dei quali valutativi, potrebbe comportare sicuri arbitraggi da parte dei contribuenti, i quali cercherebbero di fruire della possibilità di volta in volta ritenuta maggiormente conveniente.
In ogni caso, essendo la sharing economy “figlia” del progresso dell’information technology, ben potrebbero essere utilizzati i dati in possesso delle piattaforme digitali per (cercare di) risolvere alcune delle problematiche connesse alla tassazione dei proventi dell’economia della condivisione. Le piattaforme digitali, cioè, potrebbero fare uso dei Big Data per fini fiscali, trasmettendo costantemente i dati raccolti alle autorità fiscali. In questo senso positiva è l’esperienza dell’Estonia, la quale ha intrapreso la strada della responsabilizzazione delle piattaforme online, attribuendo a queste una qualifica simile a quella del sostituto d’imposta (a titolo d’acconto), in un’ottica di cooperazione tra autorità fiscali e app (30).
In conclusione, trattandosi di un tema particolarmente “caldo” cui è sensibile una vasta platea di soggetti rappresentanti diversi interessi, la soluzione migliore consisterebbe nel promuovere lo sviluppo di standard comuni, se non altro entro i Paesi dell’Unione europea, sotto il profilo dei servizi, delle piattaforme, dei criteri e requisiti, evitando il proliferare di regimi fiscali alternativi connotati da diverse caratteristiche che renderebbero, senza dubbio, molto più complesso inquadrare questo fenomeno.
Dott. Alessia Sbroiavacca
(1) Internet e il progresso tecnologico costituiscono elementi fondanti lo sviluppo della sharing economy. Come infatti attentamente osservato in dottrina, «without this technological aspect, the sharing economy would exist from the beginning of the bartering and sharing» (J. RICHARDSON, The real sharing economy is booming, in Alternet, 2013).
(2) P. GOUDIN, The cost of non-Europe in the sharing economy, European Parliament Research Service, gennaio 2016.
(3) Commissione europea, Un’agenda europea per l’economia collaborativa, Com (2016), 356 final.
(4) Nell’economia della collaborazione non vi è, infatti, alcun trasferimento della proprietà dei beni i quali vengono meramente messi a disposizione del soggetto che ne ha bisogno; si parla, a tal proposito, di “temporary sharing”. Segnatamente, «In a peer-to-peer model, companies facilitate access and connections between costumers. What the costumer are able to access within this model is other costumers’ property, skills, and competencies» (B. MOHAJERI, Collaborative service network, case study of Uber and Airbnb, in International Journal of Innovative Studies in Sciences and Engineering Technology, luglio 2017).
(5) La precisazione è d’obbligo. Invero, tra le principali sfide insite nell’economia della collaborazione vi è in particolare l’esigenza di tutelare la posizione di quei consumatori che, nel richiedere la messa a disposizione beni ovvero prestazioni di servizi, credono di rivolgersi a soggetti privati, quando invece i prestatori sono veri e propri professionisti che tuttavia non palesano la loro posizione.
(6) La PwC firm, nato dall’unione di Price Waterhouse e Coopers & Lybrand, ha pubblicato l’esito dello studio in PwC, Assessing the size and presence of the collaborative economy in Europe, 2016.
(7) La ricerca effettuata da Pwc (2016) riguarda il mercato europeo e ha evidenziato che le piattaforme informatiche attive sono oltre 270: tra i Paesi europei spiccano in particolare Francia e Regno Unito (oltre 50 piattaforme), seguiti da Germania, Spagna e Olanda (ciascun Paese, oltre 25 piattaforme). In Italia, Svezia e Belgio si contano invece, mediamente, meno di 25 piattaforme su cui gli utenti sono attivi (PwC, Assessing the size and presence of the collaborative economy in Europe, 2016).
(8) ING Direct N.V. era una banca diretta facente parte del Gruppo olandese ING, presente in più di 40 Paesi. Recentemente è stata incorporata in ING BANK N.V., analogamente ad altre realtà dello stesso gruppo, quali, ad esempio, ING Lease N.V.
(9) I dati concernenti la popolazione italiana sono leggermente inferiori: ben il 33% della popolazione è a conoscenza degli “scambi collaborativi” su piattaforme digitali, ma meno del 5% vi ha partecipato (ING, The European sharing economy set to grow by a third in the next 12 months, 2015).
(10) In termini di ricavi, il settore della sharing economy più importante è quello del peer-to-peer transportation; in termini di transazioni totali, il settore principale è quello del peer-to-peer accomodation (Pwc, Assessing the size and presence of the collaborative economy in Europe, 2016).
(11) Cfr. lo studio pubblicato da EY, Digital: disruptive business or business disruption?, 2016. EY, acronimo di Ernst Young, è una organizzazione a diffusione mondiale fondata nel 1989 dalla fusione di Ernst & Whinney e Arthur Young & Co., dinastia di capaci avvocati d’affari famosi in tutto il mondo.
(12) Come visto, l’elemento digitale, e cioè la circostanza che le transazioni vengano perfezionate attraverso l’utilizzo di piattaforme informatiche, costituisce un elemento fondamentale che caratterizza queste nuove forme di business; non solo, un altro elemento che indubbiamente influenzerà le scelte di tassazione concerne la circostanza che gli utenti che operano sulle piattaforme non sono, nella maggior parte dei casi, “professionisti”.
(13) Commissione europea, Un’agenda europea per l’economia collaborativa, Com (2016) 356 final.
(14) Come anche osservato dalla Commissione europea nel paper «Le piattaforme online ed il mercato unico digitale. Opportunità e sfide per l’Europa», Com (2016) 288 final, «in un mercato unico non possono esistere 28 diversi quadri normativi in materia di piattaforme online».
(15) Come osservato in dottrina, «Sul piano giuridico risulta palese come il continuo ed inarrestabile sviluppo di internet, dei rapporti e dei contratti informatici, dia vita a problematiche sempre nuove nel sistema tributario, che soffre in quanto rigidamente imperniato sul principio di legalità … la legislazione tributaria (e non solo quella Italiana) resta sostanzialmente ancorata alle categorie giuridiche civilistiche ed alle fattispecie negoziali concepite in un periodo storico in cui non era ipotizzabile l’attuale assetto dell’economia digitale. Emerge quindi la difficoltà di ricondurre i diversi strumenti negoziali che si sono venuti a creare nel mondo di internet alle categorie civilistiche tradizionali, il che crea notevoli ricadute sl sistema tributario» (L. DEL FEDERICO, Le nuove forme di tassazione della Digital Economy ed i limiti delle scelte legislative tradizionali, in I Venerdì di Diritto e Pratica Tributaria, I, Fondazione A. Uckmar, 2016.
(16) S. OEI – D. RING, Can sharing be taxed?, Washington University Law Review, 2016.
(17) Ad esempio di pregio è l’iniziativa di Uber che ha stretto una partnership con Intuit al fine di offrire ai propri utenti una serie di tool contabili e fiscali.
(18) In particolare la dottrina tributaria statunitense conferma la necessità di riconsiderare, integrare ovvero modificare le leggi tributarie esistenti per recepire le novità della sharing economy (J. BARRY – P. CARON, Tax regulation, transportation innovation and the sharing economy, U. Chi. Law Review, 2015).
(19) Segnatamente è stata evidenziata la necessità di chiarire quale, dei regimi fiscali già vigenti, deve essere applicato ai proventi da sharing economy, piuttosto che introdurre un ulteriore regime speciale (S. OEI – D. RING, op. cit.).
(20) S. OEI – D. RING, op. cit., secondo cui «fundamental substantive overhaul of the tax law or introduction of new rules is not necessarily required».
(21) D. STEVANATO, Dalla crisi dell’IRPEF alla flat tax, Bologna, 2016, 91.
(22) Così in Inghilterra, ove a decorrere dal 2016 è stata prevista la possibilità, per i soggetti che percepiscono redditi imponibili da attività di sharing economy, di fruire di un’esenzione di base: i redditi così percepiti fino alla cifra di sterline 2.500 sono invero esenti da imposizione.
(23) Introdotto dagli artt. 35-43 della legge 1° luglio 2016 (concernente l’introduzione di disposizioni fiscali relative alle attività da sharing economy sia sotto il profilo dell’imposta sui redditi sia sotto il profilo dell’IVA).
(24) Con il menzionato atto è stato proposto di introdurre nell’IRPEF una nuova categoria reddituale, e segnatamente quella dei “redditi da attività dell’economia della condivisione”, con applicazione di un’imposta sostitutiva pari al 10 per cento per redditi inferiori ad euro 10.000, prelevata direttamente dalla piattaforma.
(25) Sono esclusi, quindi, dall’ambito di applicazione di questa disciplina quelle attività che hanno per oggetto la condivisione di beni.
(26) Infatti, qualora il reddito ecceda euro 5.000 annui, questo viene “automaticamente” attratto a tassazione secondo le modalità previste per i redditi da lavoro autonomo.
(27) Considerato che i redditi da sharing economy sono forfetariamente abbattuti del 50 per cento a titolo di deduzione per tener conto dei costi di produzione, l’aliquota effettiva d’imposta è pari al 10 per cento.
(28) Invero, per redditi imponibili nella fascia di circa euro 11.000-12.500 si applica l’aliquota marginale del 30 per cento, per redditi imponibili compresi tra circa euro 12.500-21.000 si applica l’aliquota marginale del 40 per cento, per redditi imponibili superiori e fino circa euro 38.500 l’aliquota marginale di prelievo è pari al 45 per cento, mentre per redditi maggiori è pari al 50 per cento.
(29) Emblematico il caso francese; pur se attualmente al Senato è in fase di studio l’ipotesi di concedere una deduzione “speciale” per i lavoratori “occasionali” da sharing economy, la proposta di un più ampio intervento avanzata nel 2016 non ha avuto riscontro positivo, non essendo stata approvata.
(30) Come osservato dalla Commissione europea, «Le transazioni tra il guidatore e il cliente sono registrate dalla piattaforma di collaborazione, che invia alle autorità solo i pertinenti dati fiscali. Le autorità provvedono poi a precompilare i moduli fiscali del contribuente. Il concetto di base è aiutare i contribuenti ad adempiere i loro obblighi fiscali in maniera efficace e con il minimo sforzo» (Commissione europea, Un’agenda europea per l’economia collaborativa, Com (2016), 356 final).