28 Novembre, 2016

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1. Ambientamento: il procedimento da cui si origina la sentenza

L’annotata sentenza prende le mosse da un procedimento nell’ambito del quale era stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente in relazione al reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
Gli indagati – indicando in alcune dichiarazioni annuali IRPEF elementi attivi per un importo inferiore a quello effettivo – avevano evaso imposte pari ad euro: 151.796,04 per il 2007; 129.353,03 per il 2008; 132.459,78 per il 2009; 149.160,28 per il 2010. In accoglimento dell’adesione all’accertamento d’imposta presentata dall’indagato, l’Agenzia delle entrate accordava la rateizzazione delle imposte evase onde consentirne il recupero mediante accordo con il contribuente. Dando adempimento all’intesa raggiunta, l’indagato versava le prime due rate a parziale saldo del debito con l’erario. Conseguentemente, richiedeva la riduzione del quantum in sequestro proporzionalmente alle rate già versate all’Agenzia delle entrate. Il giudice per le indagini preliminari (Gip), tuttavia, rigettava l’istanza di revoca del sequestro sull’erronea supposizione che l’esecuzione dello stesso non fosse stata pienamente capiente rispetto al profitto astrattamente confiscabile. La difesa dell’indagato impugnava l’ordinanza di reiezione del Gip presentando appello cautelare, così reiterando l’istanza di riduzione del sequestro.
Il tribunale cautelare, pur rilevando l’esatta esecuzione dei sequestri in relazione al quantum confiscabile, respingeva le istanze difensive affermando che, stante l’impossibilità di determinare con esattezza le somme versate a titolo di imposta evasa e quelle versate a titolo di interessi, non era quindi definibile il quantum da restituire all’indagato.
L’accertamento contabile sarebbe stato precluso al tribunale cautelare sia in considerazione dell’inidoneità della produzione documentale offerta dalla difesa a fondare una stima dell’ammontare della riduzione “allo stato degli atti”, sia, soprattutto, in ragione dello sbarramento di cognizione imposto al giudice dell’appello cautelare, al quale non è consentito condurre accertamenti contabili istruttori. La Suprema Corte, rigettando i ricorsi presentati, conferma l’interpretazione propugnata dal tribunale cautelare alla stregua della quale «salvi i casi di evidenza dell’accertamento ossia di soluzione di una questione che sia ictu oculi definibile sulla base degli atti, non è tenuto a dirimere le questioni contabili essendo sprovvisto di poteri istruttori che sono incompatibili con l’incidente cautelare». Secondo la Corte di Cassazione, inoltre, al fine di conseguire la riduzione del sequestro in proporzione a quanto già pagato, i ricorrenti avrebbero più propriamente dovuto rivolgersi al pubblico ministero ai sensi dell’art. 321, terzo comma, c.p.p., dimostrando quanto era stato versato a titolo di imposta evasa e quanto, invece, corrisposto a titolo di interessi.

2. I problemi sul tappeto posti dall’annotata sentenza

L’arresto qui in commento si inserisce all’interno del filone giurisprudenziale della Sezione III della Corte di Cassazione dedicato alla corretta esegesi dell’istituto della confisca di valore – al quale il sequestro preventivo è funzionale – nell’ambito dei reati tributari.
La questione, seppur relativamente recente, ha sollecitato le puntualizzazioni della Suprema Corte, che, a più riprese, si è espressa con riferimento a diversi nodi controversi.
La pronuncia in esame coinvolge diverse questioni, che attingono profili tanto di interesse processual-penalistico, quanto di diritto penale sostanziale, che gravitano attorno al principio di diritto – ripreso dall’estensore della sentenza in oggetto, ma già consolidato nella precedente giurisprudenza di cassazione – secondo cui «in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa» (1).
Con riferimento al primo versante, la Suprema Corte affronta, in maniera più o meno esplicita, i temi relativi: (a) ai limiti connessi al principio devolutivo operante nella fase di appello cautelare in materia di misure cautelari reali; (b) all’estensione dei poteri istruttori del tribunale cautelare; (c) al mezzo processuale più idoneo per ottenere la riduzione del sequestro preventivo che si assume illegittimo in punto di proporzionalità e adeguatezza dello stesso.
Sul piano penalistico sostanziale, invece, affiorano le questioni inerenti all’oggetto del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei reati tributari. Segnatamente sotto i profili: (a) dell’inclusione/esclusione degli interessi connessi all’imposta evasa all’interno del profitto confiscabile; (b) dell’equivalenza del quantum sequestrabile rispetto al profitto confiscabile; (c) della riduzione del sequestro proporzionalmente a quanto già versato dal contribuente in adesione dell’intesa con l’Agenzia delle entrate.
Se dal punto di vista processuale l’arresto qui scrutinato non sembra prospettare esiti diversi da quelli già consolidati nella giurisprudenza della Suprema Corte, per contro, dal punto di vista strettamente penalistico pare trasparire, tra le righe della pronuncia, un’impostazione inedita della Suprema Corte che merita di essere evidenziata.

3. Profili di diritto processuale

I chiarimenti forniti dalla Corte di Cassazione circa gli aspetti procedurali del sequestro preventivo finalizzato alla confisca (e ai rimedi impugnatori ad esso connessi) costituiscono certo l’aspetto più evidente dell’annotata sentenza e di immediata tangibilità nel caso di specie. Va, forse, ricordato che l’istituto di cui all’art. 321, secondo comma, c.p.p., costituisce figura distinta e autonoma rispetto all’ipotesi “classica” di sequestro preventivo di cui al primo comma del medesimo articolo, che differisce soprattutto per un affievolimento dei requisiti necessari a procedere. In buona sostanza, il presupposto applicativo del sequestro preventivo finalizzato alla confisca coincide – fermo restando, ovviamente, il fumus commissi delicti – con il requisito della confiscabilità della res stessa (2). In questo snodo si ravvisano, quindi, le intersezioni più fitte tra diritto processuale e sostanziale: la nozione di profitto confiscabile nei reati tributari funge da parametro di legittimità del sequestro, specie rispetto alla proporzionalità ed adeguatezza del quantum oggetto della misura cautelare reale.
Nei procedimenti che hanno ad oggetto reati tributari, tale profilo assume una rilevanza cruciale proprio nei casi in cui il contribuente-evasore intraprenda con l’Agenzia delle entrate un accordo di rateizzazione per il pagamento dell’imposta evasa (oltre interessi e sanzioni connessi). Adempiendo all’accordo, e dunque pagando all’erario quanto dovuto, l’indagato/imputato “erode” – rata dopo rata – il profitto (confiscabile) del reato, annichilendo il vantaggio inizialmente ritratto con l’evasione dell’imposta e privando, quindi, di legittimità il mantenimento in vincoli dei beni sequestrati per un valore superiore a quello corrispondente al profitto confiscabile. Come segnalato in apertura, la giurisprudenza è tendenzialmente concorde nel ritenere necessario procedere al dissequestro parziale in casi come questi.
Tuttavia l’annotata sentenza, pur ribadendo il principio di diritto sopra enunciato, chiarisce alcuni aspetti procedurali di cui chi pretende la riduzione del sequestro deve avvedersi. In particolare la Suprema Corte si sofferma sull’improprietà dell’appello cautelare quale rimedio processuale utile per conseguire il risultato in forza di una pluralità di ragioni.

3.1 L’appello cautelare e il principio devolutivo

Nel caso in analisi, l’iter procedurale origina dalla conferma, da parte del Tribunale della libertà di Taranto, dell’ordinanza di reiezione dell’istanza di revoca parziale del sequestro originariamente emessa dal Gip della medesima città.
La linea difensiva intrapresa per “correggere” l’estensione del sequestro è stata, quindi, l’impugnazione del provvedimento di diniego del Gip mediante un appello cautelare presentato al competente tribunale cautelare. A tal proposito, la Corte di Cassazione non manca di ricordare ai ricorrenti che tale rimedio è marcato dal principio devolutivo e che, nei limiti della materia devoluta con l’impugnazione, può condurre solamente a pronunce costitutive, modificative o estintive del rapporto giuridico cautelare, con certa esclusione di pronunce di mero accertamento che sarebbero, peraltro, prive di ogni utilità in fase cautelare.
La questione si pone in quanto la difesa degli indagati si doleva, nell’articolazione dei motivi di ricorso, del fatto che, pur aderendo all’interpretazione proposta circa la riduzione del sequestro preventivo, il tribunale cautelare non avesse poi emesso un provvedimento efficace per conseguire il risultato processuale. Segnatamente, i ricorrenti auspicavano che il tribunale della libertà riconoscesse – quantomeno – il fondamento delle ragioni alla base della revoca parziale del sequestro, demandando alla fase esecutiva la precisa individuazione di quanto versato a titolo di interessi e quanto corrisposto per la sorte capitale. La Corte di Cassazione ratifica la decisione del tribunale cautelare sulla base del rilievo che lo stesso – pur riconoscendo meritevolezza (in astratto) alla pretesa difensiva in tema di riduzione del sequestro con scomputo delle sole somme pagate a titolo di capitale – non è stato messo nelle condizioni di disporre in senso modificativo. Il perimetro di cognizione devoluto con l’appello cautelare dalla difesa (e il relativo comparto probatorio prodotto) non ha permesso, infatti, di determinare la congrua riduzione del quantum in sequestro. Differentemente dal riesame – nell’ambito del quale è prevista una cognizione pari a quella del giudice che ha emesso il provvedimento oltre alla possibilità di rivalutare la situazione precedente – in fase di appello cautelare il giudice è costretto a muoversi nel perimetro tracciato dai motivi di gravame indicati nell’atto introduttivo (3).

3.2 L’area dei poteri istruttori del giudice dell’appello cautelare in materia di misure cautelari reali

Le considerazioni da ultimo svolte conducono ad una ulteriore precisazione circa le prerogative cognitive proprie del tribunale cautelare nel giudizio di appello cautelare. L’effetto devolutivo dell’appello cautelare fa sì che il tribunale cautelare abbia contezza del provvedimento impugnato soltanto nei limiti di quanto devoluto dalla parte. Lo sbarramento è totalmente preclusivo se si ha riguardo a due particolari circostanze tipiche di questa fase processuale: la prima consta dell’impossibilità del giudice dell’impugnazione cautelare di svolgere atti istruttori in aggiunta rispetto a quanto dedotto in gravame; la seconda consiste nella necessaria completezza dell’atto di appello cautelare in quanto non integrabile con motivi aggiunti in udienza (possibilità concessa, invece, nell’ambito del riesame).
A tale proposito la Suprema Corte, richiamando un suo precedente orientamento, sottolinea che «il tribunale, salvi i casi di evidenza dell’accertamento ossia di soluzione di una questione che sia ictu oculi definibile sulla base degli atti, non è tenuto a dirimere le questioni contabili essendo sprovvisto di poteri istruttori che sono incompatibili con l’incidente cautelare». Da tale affermazione pare tuttavia potersi desumere che, in realtà, un diverso esito della fase cautelare d’impugnazione sarebbe stato possibile qualora la difesa si fosse effettivamente onerata di presentare tutti gli elementi necessari a rendere patente l’esatta detrazione dal complesso dei beni sequestrati della sola somma in sorte capitale. Nel caso di specie, per contro, la difesa non indicava alcuno specifico elemento idoneo a definire la corretta scorporazione degli interessi dalle somme versate all’erario. Quest’ultimo rilievo ha condotto la Suprema Corte a ritenere che l’argomentazione difensiva fosse meramente apodittica e assertiva, priva di riscontri probatori autosufficienti a fondare una proporzionata declaratoria di dissequestro.
Si coglie distintamente, dunque, un monito del Giudice di legittimità: la parte che intenda fare valere pretese costitutive, modificative od estintive della misura cautelare reale di fronte al tribunale competente per l’impugnazione è onerata di corredare l’atto di appello cautelare, oltre che con tutti i motivi ritenuti rilevanti ai fini della decisione, anche con tutti i dati probatori a sostegno della tesi sostenuta, onde consentire un accertamento di immediata evidenza al giudice. Differentemente l’impugnazione sarà destinata a sicura reiezione stante la preclusione al giudice di imbastire istruttorie ulteriori da parte del tribunale.

3.3 Sui mezzi processuali per la riduzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca

Le precisazioni svolte dalla Corte di Cassazione in relazione alla fase cautelare scaturiscono, però, da un equivoco nell’iter procedurale intrapreso dalla difesa dei ricorrenti.
Infatti, è appena il caso di precisare che il Supremo Consesso, a chiosa di quanto precisato in relazione all’appello cautelare, specifica che il rimedio che maggiormente si attagliava alla fattispecie in esame sarebbe stato quello dell’istanza di revoca del sequestro divenuto, nelle more del procedimento, ultroneo rispetto alle finalità cui è preposto. L’appello cautelare in materia di misure cautelari reali è frutto di un intervento postumo sul codice di procedura ed è stato introdotto al fine di garantire un sistema impugnatorio equivalente rispetto a quello previsto per le misure cautelari reali ed è concepito come rimedio residuale rispetto al riesame. In tema di revoca del sequestro soccorre, però, un’ulteriore norma prevista dall’art. 321, terzo comma, c.p.p., che impone l’immediata revoca del sequestro quando, anche per fatti sopravvenuti, venga a mancare alcuno dei presupposti previsti per la sua applicabilità. Dunque, pare che il legislatore codicistico abbia demandato il vaglio sulla adeguatezza e proporzionalità del sequestro già al pubblico ministero.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, la Suprema Corte scredita l’idoneità del mezzo di gravame proposto dai ricorrenti a fare valere l’illegittimità del sequestro. La sentenza è lapidaria nell’affermare che «il ricorrente, anziché impugnare quella decisione, avrebbe dovuto rivolgersi al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 321, comma 3, cod. proc. pen., dimostrare il quantum corrisposto per i ratei di imposta depurati da interessi e sanzioni ed eventualmente ottenere dallo stesso pubblico ministero la revoca del sequestro in parte qua, perché divenuto nel frattempo illegittimo per l’eccedenza in violazione del principio di proporzionalità». La Corte di Cassazione riconduce così nell’alveo del percorso segnato dal codice di procedura penale le vicende riguardanti il sequestro preventivo.
Tale impostazione sembra, peraltro, offrire all’indagato maggiori garanzie dal momento che, nel caso in cui non ritenga di accogliere – in tutto o in parte – l’istanza modificativa/estintiva del sequestro, il pubblico ministero è tenuto a trasmettere al Gip la richiesta di revoca e gli atti del procedimento provvisti delle sue valutazioni. Successivamente, avverso l’ordinanza di rigetto del giudice per le indagini preliminari, è consentito l’esperimento dell’appello cautelare.

4. Profili sostanziali

Come è noto, l’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, ha esteso l’operatività della confisca ex art. 322-ter c.p. – in quanto applicabile – alla gran parte dei reati tributari (tra cui quello di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 che qui rileva), consentendo così una adprehensio sul patrimonio dell’indagato/imputato che prescinda da vincoli di diretta pertinenzialità rispetto ai proventi del reato. L’evoluzione giurisprudenziale e il dibattito dottrinale alimentati dalle questioni attinenti alla confisca ex art. 322-ter c.p. hanno trovato nuovi e vari spunti di approfondimento e confronto nell’ambito della materia penal-tributaria (4). In particolare la Suprema Corte ha affermato, con giurisprudenza ormai consolidata, che in materia di reati tributari il sequestro preventivo può essere disposto e per il prezzo e per il profitto del reato (5) e che deve avvenire su beni che si trovino nella disponibilità dell’indagato (6). Ampi spazi di incertezza permangono, invece, circa il concetto di profitto confiscabile nei reati tributari, anche in considerazione dell’assenza assoluta di una precisa definizione di matrice legislativa. Tale ambiguità ha fomentato l’avvicendarsi di pronunce del giudice di legittimità sul punto, cui hanno fatto eco le letture critiche della dottrina e un’applicazione ondivaga nella prassi delle corti di merito. Da ultimo, la giurisprudenza sembra essersi stabilizzata sull’interpretazione che identifica il profitto dei reati tributari come il risparmio di spesa (non esborso) del contribuente evasore comprensivo di sanzioni e interessi dovuti in conseguenza dell’accertamento tributario (7). Tale opzione ermeneutica – aspramente criticata dalle più autorevoli voci della dottrina penalistica – pare essere sconfessata da alcune applicazioni dei giudici di prime cure (8) e, seppur implicitamente, dalla sentenza in esame secondo cui non fanno parte del profitto confiscabile gli interessi e le sanzioni connessi all’imposta evasa.

4.1 L’ipotetica esclusione di interessi (e sanzioni) dalla nozione di profitto confiscabile

Prima di svolgere qualche considerazione in relazione all’annotata pronuncia, può rivelarsi non superfluo ripercorrere i due orientamenti contrappostisi in tema di rapporti tra profitto confiscabile e interessi (e sanzioni) dovuti in conseguenza dell’evasione del tributo.
La giurisprudenza, anche di legittimità (9), si è da qualche anno assestata sull’interpretazione secondo la quale gli interessi e le sanzioni sarebbero certamente da includersi nel concetto di profitto confiscabile derivante dal reato tributario. Ciò si giustifica sulla base della considerazione secondo cui, assumendo il profitto confiscabile come vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato, nei reati tributari lo stesso si traduce nell’ammontare delle ritenute o dell’imposta sottratta al fisco (anche se consistente in un mero risparmio di spesa), poiché degli importi non versati all’erario beneficia l’autore. Ai fini della quantificazione di questo risparmio, secondo la giurisprudenza, deve computarsi anche il mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario. Non si può, dunque, non far riferimento alla totalità del debito contratto nei confronti dell’erario (comprensivo degli interessi e delle sanzioni), a nulla rilevando la diversa natura delle voci che lo compongono. In buona sostanza, se gli interessi e le sanzioni non fossero inclusi, il reo potrebbe giovarsi dell’ulteriore vantaggio di non corrispondere – oltre che l’imposta – anche gli interessi e le sanzioni.
Per contro la dottrina (10) ha espresso più di una perplessità in relazione alla inclusione degli interessi e delle sanzioni all’interno della nozione di profitto confiscabile. In primis poiché l’eccessiva dilatazione in via ermeneutica del concetto di profitto confiscabile contrasta con il principio di stretta legalità oltre che con il principio di colpevolezza (11). D’altra parte l’interpretazione giurisprudenziale è frutto di un salto logico: interessi e sanzioni non possono essere considerate come esternalità positive godute dal reo in conseguenza del reato. Per converso, si può affermare proprio il contrario, cioè che queste sono la conseguenza negativa del reato gravante sull’evasore che se non avesse commesso il reato non avrebbe patito l’ulteriore diminuzione patrimoniale derivante dall’imposizione di sanzioni e interessi. Inoltre, la supposizione della giurisprudenza – secondo cui l’estromissione (dalla nozione di profitto confiscabile) degli interessi e delle sanzioni dovuti all’erario comporterebbe l’irragionevole conseguenza di accordare un regime di favore al contribuente-evasore i cui beni siano sottoposti a sequestro preventivo finalizzato alla confisca – pare essere inficiata da un erroneo presupposto che rimane latente nelle argomentazioni della Corte: quello secondo il quale non confiscare/non sequestrare equivarrebbe ad una sorta di rinuncia al credito da parte dell’erario per la parte equivalente a sanzioni e interessi. Ebbene, non pare proprio che tale assunto possa essere fondante.
A ben vedere, in effetti, gli interessi e le sanzioni possono certamente essere considerate obbligazioni del reo che trovano la loro fonte nell’illecito penale; tuttavia ciò non è di per sé sufficiente ad includere gli stessi nell’ambito del profitto confiscabile. In tale ottica, potrebbe – al più – ritenersi applicabile, adottando un’interpretazione estensiva della disposizione codicistica (12), il sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p., con riguardo ai soli interessi e sanzioni, nei limiti e con le modalità previsti dalla disciplina di questo istituto. In tale senso, qualora nell’ambito del processo insorgesse la fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano per il pagamento del debito tributario, il pubblico ministero potrebbe chiedere il sequestro conservativo dei beni dell’imputato in ogni stato e grado del processo di merito (al di fuori, dunque, della fase di indagini).
Venendo all’annotata sentenza, lungi dal potere parlare di un revirement della Suprema Corte in materia, si registra la non contestazione della tesi sostenuta dal tribunale della libertà in relazione alla necessità di procedere allo scomputo di interessi e sanzioni dalle somme pagate all’erario per determinare l’esatto ammontare della riduzione del quantum in sequestro. Il giudice di legittimità non espone mai perspicuamente la sua adesione alla tesi del Tribunale della libertà di Taranto; tuttavia, non la osteggia, ed anzi, l’intera motivazione in diritto pare essere improntata ad apprestare ai ricorrenti tutte le indicazioni necessarie per conseguire la riduzione del sequestro per via diversa da quella nei fatti esperita.
Non è chiaro se la reticenza della Suprema Corte sul punto sia dettata dalla volontà di non sindacare l’interpretazione del tribunale cautelare ovvero se si tratti di una timida apertura alla tesi propugnata in materia dalla dottrina. D’altro canto non si può mancare di rilevare che non constano altre differenti motivazioni – rispetto alla diversa ricostruzione del profitto confiscabile al netto di interessi e sanzioni – in virtù delle quali la Suprema Corte avrebbe dovuto ritenere necessaria la produzione probatoria per l’individuazione della sorte capitale da parte degli imputati. Certo è che nel caso la Corte di Cassazione aderisse anche in futuro a tale ricostruzione, il concetto di profitto confiscabile nei reati tributari verrebbe ulteriormente messo in discussione (13).

4.2 Non esorbitanza del quantum in sequestro rispetto al profitto confiscabile

Le altre considerazioni svolte in diritto costituiscono, invece, una riproposizione di principi di diritto coerenti con la sua precedente giurisprudenza (14). In particolare si riprende quanto sostenuto in punto di principio di proporzionalità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca. In merito, si riscontrano nella giurisprudenza, anche di legittimità, orientamenti che sostengono che, ai fini del rispetto del principio di proporzionalità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, non sia necessario accertare l’esatta corrispondenza tra profitto del reato e quantum sottoposto a vincolo cautelare, ma che sia viceversa sufficiente che si motivi in punto di non esorbitanza dei beni sequestrati rispetto al credito garantito (15); tuttavia, questa pronuncia sembra abbracciare l’esegesi maggiormente garantistica fornita dalla stessa Corte di Cassazione con specifico riferimento ai procedimenti penal-tributari in costanza dei quali sia intervenuta un’intesa con l’Agenzia delle entrate. La Suprema Corte precisa, infatti, che «quando con il sequestro per equivalente, si vincolano oppure si mantengono in vinculis beni di valore superiore al prezzo, al prodotto o al profitto del reato – si ha una violazione del principio di proporzionalità della misura, con la conseguenza che la privazione del bene della vita, nella parte eccedente, rende il sequestro illegittimo, per quella parte» (16).
Il pagamento del debito con l’erario ha quindi come effetto la rimozione dell’oggetto sul quale dovrebbe insistere la confisca stessa: la restituzione del dovuto all’erario comporta l’eliminazione del profitto tratto dal reato tributario e priva di fondamento la misura ablatoria. Diversamente, si violerebbe il principio secondo il quale l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivante dal reato (17).
Alla luce di tutto quanto esposto, è chiaro che il profilo della proporzionalità del sequestro risulti strettamente dipendente dalla nozione di profitto confiscabile con riferimento ai reati tributari.

4.3 Riduzione del sequestro proporzionalmente a quanto già versato

Come anticipato, la questione circa la riconduzione del sequestro nell’alveo della legittimità alla stregua del principio di proporzionalità si manifesta – per i reati tributari – nell’ambito di convenzioni tra il contribuente e l’Agenzia delle entrate che vertono sulla definizione di un piano di pagamento rateale a saldo del debito contratto con il fisco. A tal proposito, è stato precisato che gli effetti riconosciuti a tali procedure non sono frutto di una interconnessione strutturale tra procedimento tributario e procedimento penale, ma semplicemente del riverbero degli effetti estintivi del debito aliunde prodottisi anche sul procedimento penale. Mentre la possibilità di estinzione del reato come conseguenza del tardivo pagamento dell’imposta è smentita dalla stessa lettera della legge che ha sinora accordato a tale condotta il mero riconoscimento dell’attenuante (18).
In merito la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, nei suoi arresti più ricorrenti (19), che la mera intesa tra il contribuente e l’Agenzia delle entrate, ancorché garantita da fideiussioni, non è sufficiente a fondare la revoca ovvero la riduzione del sequestro; è invece necessario che ci sia un principio di pagamento e che lo stesso avvenga ad opera del contribuente stesso (20). In tale senso, la Suprema Corte ha sostenuto che «in sostanza l’obiettivo che si vuole raggiungere è anzitutto quello di impedire che l’autore del reato continui a usufruire di quello che è stato il profitto del reato stesso. Tale scopo non può essere evidentemente raggiunto con la fideiussione in quanto tale garanzia lascerebbe il patrimonio dell’imputato invariato in quanto ad essere sottoposto a sequestro sostanzialmente finirebbe denaro del garante che, quindi, non è nella diretta disponibilità dell’imputato bensì del terzo» (21).
Con riferimento alla pronuncia de qua, la Suprema Corte mostra di condividere e di fare buon governo del principio di diritto richiamato, alla stregua del quale ogni qualvolta intervenga un pagamento (anche parziale) del debito tributario, non è possibile mantenere il vincolo cautelare sull’intero ammontare dell’originario profitto del reato. Il sequestro deve, invece, essere immediatamente ridotto in misura corrispondente alle rate già versate.

5. Brevi cenni su alcuni nuovi orizzonti prospettati dalla recente riforma dei reati tributari ex D.Lgs. n. 158/2015

Gli orientamenti espressi nell’arresto in commento si accostano, oggi, alla novella normativa prevista dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, che ha riformato il sistema penal-tributario anche con specifico riguardo ai profili della confisca per equivalente e del pagamento del debito tributario da parte dell’imputato (22). Per quanto qui più precipuamente rileva, nonostante le forti ambiguità fomentate dalla formulazione delle due disposizioni di cui ai nuovi artt. 12-bis e 13 del D.Lgs. n. 74/2000, si può certamente registrare un indirizzo nettamente incentivante nei confronti delle condotte resipiscenti del reo che si adoperi al fine di saldare la posizione debitoria con l’erario. All’art. 12-bis, secondo comma, del D.Lgs. n. 74/2000 viene, infatti, sancita l’inoperatività della confisca «per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro».
Sulla base delle considerazioni sinora svolte e nel solco di quanto ribadito a più riprese dalla Corte di Cassazione, l’intima connessione tra profitto confiscabile e quantum sequestrabile indurrebbe a sostenere che – d’ora innanzi – non sono, neppure, sequestrabili le somme che il contribuente si impegni a versare all’erario (23). In questo senso, la riforma pare superare gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità richiamati in materia, la lettera della legge pare infatti anticipare ad un – non meglio precisato – impegno alla restituzione (24) il momento a partire dal quale le pretese ablatorie divengono infondate (25). Il legislatore precisa, nell’ambito dello stesso secondo comma dell’art. 12-bis del D.Lgs. n. 74/2000, che la misura della confisca è sempre disposta in caso di mancato pagamento. L’estinzione dei debiti tributari mediante pagamento integrale del dovuto diviene, invece, suscettibile di integrare, a determinate condizioni, la causa di non punibilità prevista al nuovo art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000 (26).
Nell’attesa di appurare quale sarà l’effettivo precipitato applicativo della riforma, sembra potersi certamente ravvisare, prima facie, un arretramento delle istanze repressive statuali in presenza di chiari segni di ravvedimento da parte del reo che siano finalizzati all’annichilimento dell’offensività della condotta perpetrata.
Le prime impressioni circa la riforma dei profili qui richiamati sembrano rivelare che il legislatore abbia fatto lascito agli interpreti di una disciplina – a tratti – fosca. Come nel più classico dei copioni della prassi penalistica degli ultimi decenni, spetterà, dunque, alla Suprema Corte il compito di circoscrivere la portata delle espressioni ambigue utilizzate dalla citata riforma.

Dott. Sara Bianca Taverriti
Università degli Studi Milano Bicocca

(1) In questo senso Cass., sez. III pen., 1° dicembre 2010, n. 10120; Cass., sez. III pen., 17 luglio 2012, n. 46726; Cass., sez. III pen., 8 gennaio 2014, n. 6635; Cass., sez. III pen., 15 aprile 2015, n. 20887; tutte in Boll. Trib. On-line.
(2) D’ONOFRIO, Il sequestro preventivo, 1998, Padova, 43. Cfr. Cass., sez. III pen., 24 giugno 2014, n. 36734; Cass., sez. II pen., 5 febbraio 2014, n. 5656; Cass., sez. III pen., 5 maggio 2014, n. 18311.
(3) D’ONOFRIO, Il sequestro preventivo, cit., 250 ss.; GUALTIERI, Sub art. 322-bis, in Cod. proc. pen. comm., a cura di GIARDA – SPANGHER; Cass., sez. III pen., 14 agosto 1993, n. 194655; Corte Cost., 24 marzo 1996, n. 131; Cass., sez. VI pen., 5 febbraio 2004, n. 1655.
(4) La bibliografia di riferimento è sempre più nutrita: in campo tributario ved. SOANA, La confisca per equivalente nei reati tributari. Il punto della giurisprudenza, in Boll. Trib., 2014, 805; MARTONE, La confisca per equivalente in presenza di reati in materia tributaria, ivi, 2013, 1466; SERVIDIO, La confisca per equivalente in ambito penal-tributario, ibidem, 492; FURIA, Confisca e imposizione tributaria. Due strumenti per colpire la ricchezza da attività criminali, ivi, 1990, 245. Per un quadro generale ed aggiornato sulle tematiche connesse alla confisca per equivalente si vedano, su tutti, PALIERO – MUCCIARELLI, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in Dir. pen. cont., 20 aprile 2015; LANZI, La confisca diretta e di valore nei reati tributari: riflessioni e questioni aperte, in L’indice penale, 1/2014, 167 ss.; EPIDENDIO, Reati tributari e sequestro a fini di confisca di beni societari, in Dir. pen. cont., 28 gennaio 2014; ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, in Scritti in onore di Giorgio Marinucci, a cura di DOLCINI – PALIERO, III, Milano, 2006, 2107 ss.; BOTTALICO, Confisca del profitto e responsabilità degli enti tra diritto ed economia: paradigmi a confronto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1749 s.; FONDAROLI, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale. Ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bologna, 2007; DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. pen. cont., 13 novembre 2010; VARRASO, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle sezioni unite in tema di sequestro a fini di confisca e reati tributari, in Cass. pen., 2014, fasc. 9, 2806-2821; CUOMO, Problemi di giustizia penale tributaria: la confisca per equivalente del profitto, in Arch. pen., 2014, fasc. 1; e FIDELBO, La nozione di profitto confiscabile nella giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, in Corte di Cassazione – Ufficio del Massimario – Settore Penale – Orientamento di Giurisprudenza, rel. n. 41/2014, Roma, 2014.
(5) Cfr. Cass., sez. III pen, 23 aprile 2013, n. 23108, Nacci, rv. 25546, e precedentemente, ex multis Cass., sez. III pen., 7 luglio 2010, n. 35807, Bellonzi e altri, rv. 248618; e Cass., sez. III pen., 26 maggio 2010, Molon, rv. 248058.
(6) A tale proposito si ritengono sequestrabili i beni che ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, anche se la signoria o il potere dispositivo su di essi sia esercitato tramite terzi. Cfr. Cass., sez. III pen., 8 marzo 2012, n. 15210.
(7) Pur non essendo questa la sede per l’approfondimento del punto, si segnala che, alla stregua della recente pronuncia delle Sezioni Unite penali della Suprema Corte 5 marzo 2014, n. 10561 (in Boll. Trib. On-line), il profitto dei reati tributari (come sopra definito) è considerato potenzialmente suscettibile anche di confisca diretta. Tuttavia l’arresto delle Sezioni Unite ha sollecitato le perplessità della dottrina e un’applicazione non costante in giurisprudenza.
(8) In tale senso sembra essersi orientato il Tribunale della libertà di Taranto e, prim’ancora, il Gip della medesima città nel caso in analisi.
(9) Così, da ultimo, Cass., sez. III pen., 24 marzo 2015, n. 16108; Cass., sez. un. pen., n. 10561/2014, cit.; Cass., sez. un. pen., 23 aprile 2013, n. 18374, rv. 255036; Cass., sez. III pen., 23 ottobre 2012, n. 45849; Cass., sez. III pen., 23 novembre 2012, n. 45847; Cass., sez. V pen., 17 gennaio 2012, n. 1843.
(10) In tale senso LANZI, La confisca diretta e di valore, cit., 170-171; e PALIERO – MUCCIARELLI, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile, cit., 10.
(11) I rischi si concretizzano ancor più se si considera che è ormai dominante la tesi che avvicina la confisca di valore ad una vera e propria sanzione penale più che ad una misura di sicurezza, con conseguente applicazione delle garanzie legate alla materia penale, anche di derivazione sovranazionale.
(12) Ci si riferisce all’art. 316 c.p.p. nella misura in cui consente il sequestro conservativo di «ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato». Va precisato, però, che tradizionalmente la disposizione è interpretata nel senso che il sequestro conservativo è volto a garantire i crediti endoprocessuali, e cioè scaturenti dal processo. Tuttavia, l’interpretazione estensiva della norma consentirebbe di addivenire a tale differente impostazione ermeneutica.
(13) La possibilità di un’apertura verso la tesi che esclude interessi e sanzioni dal profitto confiscabile sembra, però, poter essere smentita da una pronuncia della stessa III Sezione della Corte di Cassazione (seppure in composizione del Collegio differente), di poco precedente rispetto a quella in esame, che richiama tra i principi fondanti in materia di confisca nei reati tributari l’orientamento giurisprudenziale consolidato. Cfr. Cass., sez. III pen., 17 aprile 2015, n. 16108.
(14) Cfr. Cass., sez. III pen., 19 giugno 2012, n. 33587; Cass., sez. III pen., 16 maggio 2012, n. 30140; Cass., sez. III pen., 23 ottobre 2012, n. 45847; Cass., sez. III pen., 12 ottobre 2011, ord. n. 1893; Cass., sez. III pen., n. 10120/2010, cit.; Cass., sez. un. pen., 27 marzo 2008, n. 26654; Cass., sez. III pen., 11 novembre 2010, n. 42462. Il principio è stato confermato anche in relazione a materie diverse da quella tributaria, cfr. Cass., sez. V pen., 3 febbraio 2010, n. 10810; Cass., sez. II pen., 5 dicembre 2011, n. 45054; Cass., sez. VI pen., 6 marzo 2009, n. 18356.
(15) Cfr. Cass., sez. III pen., 23 aprile 2013, n. 39091, rv. 257284; Cass., sez. III pen., 17 aprile 2015, n. 16108.
(16) Tale lettura non è nuova alla giurisprudenza di legittimità; la Suprema Corte ha avuto modo di affermare il principio in occasione della reiezione di un’eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 322-ter c.p. e 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, sollevata in riferimento agli artt. 23 e 25 Cost. Cfr. Cass., sez. III pen., n. 10120/2010, cit. Sul punto si veda altresì LANZI, La confisca diretta e di valore, cit., 176-177, che non manca di sottolineare come l’interpretazione paia alimentata dalla concezione della confisca di valore come sanzione penale; concezione che, tuttavia, varrebbe a smentire l’illegittimità della coesistenza della confisca (sanzione) e del debito con l’erario.
(17) Cfr. MUSCO – ARDITO, Diritto penale tributario, Bologna, 2010, 74; SOANA, La confisca per equivalente nei reati tributari. Il punto della giurisprudenza, cit.; e DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente, cit.
(18) Cfr. SOANA, La confisca per equivalente, cit., 810. In materia fa tuttavia irruzione la nuova formulazione dell’art. 13 stesso come modificato dall’art. 11 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (su cui meglio al paragrafo seguente), che per prontezza di riscontro del Lettore si riporta: «Art. 11 Modifica dell’articolo 13 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, in materia di cause di estinzione e circostanze del reato. Pagamento del debito tributario 1. L’articolo 13 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, è sostituito dal seguente: Art. 13 (Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario). – 1. I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso. 2. I reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. 3. Qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini dell’applicabilità dell’articolo 13-bis, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal caso la prescrizione è sospesa. Il giudice ha facoltà di prorogare tale termine una sola volta per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione».
(19) Cfr. Cass., sez. III pen., 19 giugno 2012, n. 33587, in Boll. Trib., 2012, 1489, con nota di SERVIDIO, Rateazione dell’omesso versamento IVA e sequestro per equivalente; Cass., sez. VI pen., 17 settembre 2009, n. 36095.
(20) Anche a tale proposito è intervenuta la riforma di cui al D.Lgs. n. 158/2015 che ha introdotto il nuovo articolo 12-bis nel D.Lgs. n. 74/2000 in materia di confisca. Di seguito il testo: «Art. 10 Confisca. 1. Dopo l’articolo 12 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, è inserito il seguente: Art. 12-bis (Confisca). – 1. Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. 2. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta».
(21) Così Cass., sez. III pen., n. 33587/2012, cit.; cfr., anche, Cass., sez. VI pen., n. 36095/2009, cit.
(22) La recentissima entrata in vigore della disciplina preclude, per ora, l’osservazione della concretizzazione delle nuove disposizioni nella prassi giurisprudenziale e implica che le posizioni dottrinali risultino, allo stato, in fieri. Tuttavia non sono mancati alcuni primi commenti a margine della riforma; si segnalano in particolare CAVALLINI, Osservazioni “di prima lettura” allo schema di decreto legislativo in materia tributaria, in dirittopenalecontemporaneo.it; FINOCCHIARO, Sull’imminente riforma in materia di reati tributari: le novità contenute nello “schema” di decreto legislativo, ivi; ID., La riforma dei reati tributari: un primo sguardo al d.lgs. 158/2015 appena pubblicato, ivi; hanno, inoltre, affrontato il tema la Procura di Trento (Ufficio del Procuratore della Repubblica Giuseppe Amato) nella nota avente ad oggetto «La revisione del sistema sanzionatorio penale tributario in attuazione della legge 11 marzo 2014 n. 2: decreto legislativo 24 settembre 2015 n. 158», disponibile su dirittopenalecontemporaneo.it; e da ultimo l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, settore penale, rel. n. III/05/2015 del 28 ottobre 2015, a cura di MOLINO – SILVESTRI, consultabile all’indirizzo www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/RelIII515.pdf
(23) Tuttavia tale interpretazione parrebbe adombrata da una differente ricostruzione prospettata dall’Ufficio del Massimario della Suprema Corte nella citata relazione nella misura in cui si sostiene che «L’uso del termine “opera” utilizzato nella prima parte della norma sembrerebbe interpretabile nel senso di ritenere che la confisca debba comunque essere disposta nonostante l’impegno a restituire e che essa, nondimeno, produca effetti (operi) e, quindi, sia eseguibile solo in un momento successivo, cioè in caso di mancato adempimento dell’impegno assunto. In tale contesto si dovrebbe ipotizzare una forma di costante e virtuosa comunicazione tra Amministrazione finanziaria e Autorità giudiziaria finalizzata ad informare quest’ultima della esecuzione del programma obbligatorio e, soprattutto, dell’intervenuto inadempimento dell’obbligo restitutorio. Il corollario che pare potersi fare derivare è, quindi, che comunque il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, adottato prima o dopo l’“impegno a restituire”, dovrebbe ritenersi legittimo».
(24) L’identificazione della nozione di tale impegno costituisce uno degli interrogativi più inestricabili posti dalla nuova normativa, ed a tal proposito la citata rel. n. III/05/2015 dell’Ufficio del Massimario precisa: «La norma non chiarisce in cosa debba consistere “l’impegno”: a) se esso debba avere carattere formale con l’Amministrazione finanziaria; b) se, per produrre effetti nel procedimento penale, possa essere anche solo unilaterale, cioè solo del soggetto che “rischia” la confisca del profitto o se, invece, come parrebbe logico, debba essere consacrato in un accordo con l’Amministrazione finanziaria che, quindi, fornisca un riscontro formale al giudice penale dell’intervenuto obbligo restitutorio, della sua entità, delle sue modalità adempitive; c) quale sia il termine ultimo entro il quale l’impegno a restituire possa intervenire; d) se la prestazione restitutoria concordata possa essere adempiuta da un terzo garante o debitore ceduto». Critico rispetto all’opzione legislativa in termini di efficace politica criminale della disposizione FINOCCHIARO, La riforma dei reati tributari, cit.
(25) L’orientamento è registrato altresì nella citata rel. n. III/05/2015 dell’Ufficio del Massimario a pag. 41.
(26) Con specifico riferimento alla fattispecie che qui occupa rileva il nuovo art. 13, secondo comma, del D.Lgs. n. 74/2000, secondo cui «I reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali».

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Misure cautelari – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente – Rateazione e riduzione del debito tributario – Riduzione del sequestro in misura corrispondente ai ratei versati – Spetta.
Imposte e tasse – Sanzioni penali – Misure cautelari – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente – Istanza di revoca del sequestro preventivo per violazione del principio di proporzionalità – Organi competenti.

In tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché altrimenti verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa.

Allorquando con il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente si vincolano oppure si mantengono in vinculis beni di valore superiore al prezzo, al prodotto o al profitto del reato, si ha una violazione del principio di proporzionalità della misura, con la conseguenza che la privazione del bene della vita, nella parte eccedente, rende il sequestro illegittimo per quella parte, di talché il soggetto interessato deve rivolgersi al Pubblico Ministero, ai sensi dell’art. 321, terzo comma, c.p.p., e dimostrare il quantum corrisposto per i ratei di imposta depurato da interessi e sanzioni per eventualmente ottenere dallo stesso Pubblico Ministero la revoca del sequestro in parte qua, perché divenuto nel frattempo illegittimo per l’eccedenza in violazione del principio di proporzionalità, e qualora, in siffatti casi, nel corso delle indagini preliminari il Pubblico Ministero non accolga in tutto o in parte la richiesta di revoca del sequestro proposta dall’interessato, deve trasmettere al Giudice per le indagini preliminari la richiesta e gli atti del procedimento con le sue valutazioni e, avverso la decisione del medesimo Giudice per le indagini preliminari, se di rigetto dell’istanza, l’interessato può proporre l’appello cautelare a norma dell’art. 322-bis c.p.p.

[Corte di Cassazione, sez. III pen. (Pres. Mannino, rel. Di Nicola), 30 luglio 2015, sent. n. 33602]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. P.A. ed V.I. ricorrono per cassazione impugnando l’ordinanza emessa dal tribunale della libertà di Taranto che ha rigettato l’appello cautelare interposto avverso l’ordinanza con la quale il Gip presso il tribunale della medesima città aveva respinto l’istanza di revoca del sequestro preventivo disposto con decreto del 22 aprile 2013 per il reato di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, per avere indicato nelle dichiarazioni annuali Irpef per gli anni di imposta 2006, 2007, 2008, 2009 e 2010 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con imposta evasa per l’anno 2007 di Euro 151.796,04; per l’anno 2008 di Euro 129.353,03; per l’anno 2009 di Euro 132.459,78 e per l’anno 2010 di Euro 149.160,28.

2. Per la cassazione dell’impugnata ordinanza i ricorrenti sollevano, a mezzo del comune difensore, un unico ed articolato motivo di gravame, qui enunciato, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Con esso si lamenta la violazione di legge penale e processuale (art. 606, comma 1, lettere b) e c), codice di procedura penale) sul rilievo che in relazione alle contestate violazioni fiscali, l’agenzia delle entrate aveva accolto l’istanza di accertamento con adesione formulata dal P., rideterminando di conseguenza l’Irpef ritenuta evasa con riferimento a ciascuno degli anni di imposta 2008, 2009 e 2010. Successivamente il ricorrente, in adempimento dell’impegno assunto con l’agenzia delle entrate, aveva effettuato il pagamento delle prime due rate (per complessivi Euro 43.662,66) per ognuno dei tre periodi di imposta innanzi indicati.
Sulla base di ciò, aveva chiesto, tra l’altro, la riduzione del valore complessivo dei beni sequestrati in ragione dell’importo delle due menzionate rate dell’Irpef versate dal contribuente per ciascuno degli anzidetti periodi 2008, 2009 e 2010 ed oggetto dei riferiti piani di ammortamento, essendo pacifico, anche in giurisprudenza, che ciò comporta il diritto del contribuente ad una proporzionale riduzione del quantum in giudiziale sequestro in ragione di quanto versato e quindi il rapporto alle singole rate pagate in favore dell’agenzia delle entrate.
Sennonché il tribunale cautelare riteneva fondati i rilievi difensivi sollevati in proposito contro il provvedimento reiettivo del Gip e tuttavia respingeva ugualmente l’istanza sul rilievo che il contribuente avesse diritto alla riduzione del quantum in giudiziale sequestro non già in ragione dell’importo complessivo di ciascuna rata versata all’erario, ma invece soltanto in ragione della parte di ogni rata corrispondente all’imposta evasa e con esclusione, quindi, della parte del medesimo rateo relativa agli interessi dovuti.
Siccome dai modelli di pagamento e dalle quietanze di versamento prodotti dalla difesa non risultavano quali somme fossero state versate a titolo d’imposta evasa e quali quelle pagate a titolo di interessi, riteneva che la decisione in ordine alla riduzione del quantum in giudiziale sequestro competesse all’organo dell’esecuzione.
Epilogo, questo, contestato dal ricorrente il quale rileva che dalla documentazione prodotta fosse possibile scorporare gli interessi dalla sorta capitale con conseguente riduzione del quantum in giudiziale sequestro in corrispondenza ai ratei corrisposti al fisco; in ogni caso, il tribunale cautelare avrebbe dovuto accogliere l’appello nei termini in cui la stessa ordinanza ha ritenuto valide le ragioni di una riduzione del quantum, riservando poi alla sede esecutiva, rimessa ai competenti organi, quella di individuare le somme corrisposte per la sorta capitale del debito e quelle corrisposte per gli oneri accessori.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. I ricorsi sono infondati nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.

2. L’appello cautelare è un mezzo di impugnazione de libertate il cui perimetro cognitivo è segnato dal principio devolutivo, con la conseguenza che, nei limiti della materia devoluta con l’impugnazione, il provvedimento conclusivo della fase procedimentale, quando non sia di rigetto del gravame, può produrre esclusivamente, secondo i casi, effetti costitutivi (se l’impugnazione è proposta dal pubblico ministero), modificativi o estintivi del rapporto giuridico cautelare (se l’impugnazione è proposta da una delle parti interessate) sicché l’epilogo procedimentale non può mai essere segnato da un provvedimento di mero accertamento, che è estraneo alla logica ed alla dinamica cautelare.
Ciò premesso, quanto al punto controverso, risulta dal provvedimento impugnato che il Gip aveva disatteso l’istanza di riduzione sul rilievo che, in fase di esecuzione del decreto di sequestro preventivo, non erano stati sottoposti a vincolo beni sino alla concorrenza del profitto del reato.
Il tribunale cautelare – pur avendo evidenziato che dagli atti, diversamente da quanto ritenuto dal provvedimento impugnato, il sequestro del 22 aprile 2013 e quello del 3 giugno 2014 erano stati eseguiti per il loro esatto ammontare – ha tuttavia affermato, dopo aver esaminato l’elenco dei versamenti effettuati con il modello di pagamento unificato, non essere possibile determinare con esattezza le somme versate a titolo di imposta evasa e quelle versate a titolo di interessi, con la conseguenza che doveva ritenersi preclusa al tribunale cautelare la possibilità di disporre la riduzione del sequestro in misura proporzionale alle somme versate, trattandosi di operazione che avrebbe richiesto, nel caso di specie, accertamenti non compatibili con la fase procedimentale instaurata innanzi al tribunale della libertà, ma demandati alla fase esecutiva.
Nel caso di specie, dunque, il tribunale cautelare si è attenuto al principio di diritto espresso da questa Corte secondo il quale, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa (Sez. 3, n. 6635 del 8/1/2014, Cavatorta, Rv. 258903).
Tuttavia – quando, con il sequestro per equivalente, si vincolano oppure si mantengono in vinculis beni di valore superiore al prezzo, al prodotto o al profitto del reato – si ha una violazione del principio di proporzionalità della misura, con la conseguenza che la privazione del bene della vita, nella parte eccedente, rende il sequestro illegittimo, per quella parte, e ciò esula dai profili riguardanti l’esecuzione del sequestro che ha una ragion d’essere in un errore compiuto a seguito della fase genetica del vincolo quando cioè sia riscontrabile una discrasia desumibile dal mero raffronto tra il contenuto impositivo del provvedimento cautelare e l’adprehensio ossia di ciò che è stato oggetto dell’esecuzione e che non doveva esserlo.
Il tribunale cautelare ha però respinto l’appello sul fondamentale rilievo che non fosse possibile stabilire il quantum da restituire e ciò ha fatto in maniera corretta perché, in sede di riesame o di appello avverso una misura cautelare reale, il tribunale, salvi i casi di evidenza dell’accertamento ossia di soluzione di una questione che sia ictu oculi definibile sulla base degli atti, non è tenuto a dirimere le questioni contabili essendo sprovvisto di poteri istruttori che sono incompatibili con l’incidente cautelare (Sez. 3, n. 19011 del 11/2/2015, Citarella e altro, Rv. 263554).
L’ordinanza impugnata è quindi giunta ad una soluzione corretta ed il ricorrente, anziché impugnare quella decisione, avrebbe dovuto rivolgersi al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 321 comma 3, cod. proc. pen., dimostrare il quantum corrisposto per i ratei di imposta depurati da interessi e sanzioni ed eventualmente ottenere dallo stesso pubblico ministero la revoca del sequestro in parte qua, perché divenuto nel frattempo illegittimo per l’eccedenza in violazione del principio di proporzionalità. In siffatti casi, nel corso delle indagini preliminari, quando il pubblico ministero non accoglie in tutto o in parte la richiesta di revoca del sequestro proposta dall’interessato, deve trasmettere al giudice per le indagini preliminari la richiesta e gli atti del procedimento con le sue valutazioni (art. 321, comma 3, cod. proc. pen.) e, avverso la decisione del Gip, se di rigetto dell’istanza, l’interessato può proporre l’appello cautelare (art. 322-bis cod. proc. pen.), che cognita causa può essere definito.
I ricorrenti, solo con affermazione apodittica ed assertiva, hanno contestato che dagli atti fosse possibile scorporare le somme pagate a titolo di sorte capitale da quelle corrisposte a titolo di interessi ed infatti non hanno indicato alcun elemento specifico che consentisse una verifica di fondatezza dell’assunto.
Né il tribunale cautelare poteva, come precisato in premessa, emettere una pronuncia di mero accertamento ma, in tal caso, esclusivamente di rigetto per mancanza di idonea prova cautelare circa il quantum detraibile e rivendicato in relazione al diritto fatto valere (riduzione del sequestro).

3. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M. – Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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