4 Luglio, 2014

La tassazione endosocietaria ma anche quella extraimpreditoriale, ved. redditi diversi, riposa sempre sui corrispettivi maturati (non simulati) fissati in regime di libertà contrattuale. Il corrispettivo, quale unico parametro di misurazione della base imponibile (regola di sistema quella dell’onerosità che prescinde dalla remuneratività, alludo ai corrispettivi inferiori ai costi sostenuti), con l’effetto che l’utilizzo ex se di criteri diversi, ved. “valore normale” configura de facto un’eccezione; il legislatore, con l’opzione/attuazione di cui all’art. 13 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, si è adeguato alla Direttiva n. 80 del 2006 sull’irrilevanza del corrispettivo per contrastare fenomeni di sovra o sotto fatturazione, quando vi sono limiti alla detrazione nelle operazioni poste in essere fra parti collegate. Il criterio del valore normale si dimostra strumento derogatorio, speciale, con sovraordinata finalità di simmetria, coerenza fiscale, oltre ripresa, a volte strumento antielusivo, con finalità correttiva di cautela fiscale (ved. art. 13 del D.P.R. n. 633/1972), per prevenire distorsioni di concorrenza, allorché sussistano limiti alla detraibilità del tributo.

Fra le tipizzate, nominate deroghe al criterio del “corrispettivo”, evochiamo l’autoconsumo esterno ed interno, ved. gli artt. 86 e segg. del tuir (manca un corrispettivo), per i conferimenti, le trasformazioni eterogenee, e per i rapporti transnazionali infragruppo (ved. infra, transfer pricing sulla tutela della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra Stati, al fine di prevenire l’erosione degli imponibili). L’autoconsumo e la destinazione a finalità estranee all’impresa, ved. gli artt. 86 e segg. del TUIR, riprendono formule normative già adottate in ambito IVA sulla tassazione delle operazioni “senza corrispettivo”, con una logica impositiva non strutturalmente diversa, ossia di chiusura del ciclo di impresa e di sottoposizione ad imposizione dei plusvalori latenti nei beni serventi l’impresa per ragioni di simmetria fiscale essendo dedotto il relativo valore fiscale. Difatti, in ambito IVA la tassazione delle operazioni “senza corrispettivo” ha le medesime ragioni di simmetria, cautela fiscale, ossia evitare che i beni e servizi pervengano al consumo “detassati”, in quanto non gravati da alcun onere impositivo in ragione del diritto alla detrazione dell’IVA assolta sull’acquisito.

Sul transfer pricing si osserva, con una breve notazione, che, sui delicati profili di ripartizione dell’onere probatorio, oltre riesumato, nelle rettifiche da transazione intercompanynon allineate” al c.d. arm’s length principle – ved. infra i recenti enunciati del superiore giudice di legittimità – la sostituzione del “valore normale” integra una violazione dell’art. 110, comma 2, del TUIR, e non il suo aggiramento, con il portato che la disciplina non ha mai natura antielusiva, verificata la natura sostanziale “di sistema”. Invero, di recente la Corte di Cassazione (1) sembra tornata sui propri passi – il tema dell’elusione e dell’abuso di diritto sembra aleggiare sullo sfondo di tale enunciato – dichiarandone la natura antielusiva dell’art. 110, in coerenza con i sovraordinati principi comunitari in tema di abuso del diritto.

[-protetto-]

Ancora sulla casistica delle fattispecie “tassate” in deroga ai corrispettivi contrattuali le plusvalenze latenti nel trasferimento transfrontaliero di sede, residenza delle società all’estero, ved. infra art. 166 exit tax sul “realizzo virtuale”, con effetti differiti, recte; sospensivi opzionali del prelievo e della sua riscossione, condizionata appunto al realizzo effettivo all’estero dei plusvalori monitorati. In tutte queste ipotesi vige invece la tassazione in base al “valore normale” di cui all’art. 9 del TUIR (un realizzo a tale valore) (2). Pertanto il diritto positivo sostanziale non utilizza mai la grandezza “valore normaleex se, quale criterio impositivo nella “normalizzazione”, correzione dei corrispettivi pattuiti, ved. transfer pricing dove un corrispettivo esiste, essendo la tassazione allibrata sempre sui questi ultimi (in assenza di note di simulazione o decettività nei comportamenti intrapresi). La loro inferiorità al primo può essere al più un mero indizio (da qualificare) della dissimulazione, nascondimento dei ricavi dichiarati (permane un onere di allegazione e prova in capo all’Amministrazione finanziaria, anche nelle ipotesi “disallineate”). È stato retro illustrato che, nelle rettifiche da transfer pricing, l’Amministrazione finanziaria resta prima facie gravata dell’onere di provare che i corrispettivi non siano arm’s length unitamente all’esistenza di un rapporto qualificato fra le parti contraenti, essendo poi il contribuente obbligato a provare la correttezza della propria policy di transfer pricing. Tali criteri di riparto probatorio sono per altro in linea con le stesse Guidelines OCSE, secondo cui il contribuente in base al principio “di vicinanza della prova” di cui all’art. 2697 c.c. sarebbe gravato dell’onere di provare l’aderenza del prezzo applicato con quello di mercato.

Il criterio impositivo del valore normale dunque è sussidiario, subordinato a quello corrispettivo pattuito, con l’effetto deteriore che, al di fuori di questi casi nominati, tipizzati, l’Amministrazione finanziaria non può utilizzare tale valore per violare l’intangibilità contrattuale. Anche ai fini IVA nella definizione delle basi imponibili prevale il corrispettivo (3), non prevedendo le disposizioni nazionali che la base imponibile debba necessariamente corrispondere a un valore normale presunto, ammettendo, il legislatore, similmente ai tributi personali, che nei casi di autoconsumo esterno o interno la base imponibile sia identificabile nel valore normale, ved. anche il disposto comunitario ovvero l’art. 73 della Direttiva n. 2006/112/CE. Invero, in queste ipotesi di autoconsumo, la Corte di Giustizia (4) richiede che la base imponibile sia identificabile anche nel costo di acquisto o di produzione. Altra ipotesi, retro illustrata, di tassazione in base al “valore normale”, è stata introdotta nella legge finanziaria 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244), con la riformulazione dell’art. 13, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, che in deroga alla regola del corrispettivo pattuito obliterata dal primo comma (principio dell’onerosità, ved. Direttiva n. 2006/112/CE che evoca un concetto di corrispettività proprio del diritto comune) e in attuazione della Direttiva n. 80 del 2006, prevede la tassazione in base allo stesso valore delle operazioni, ancorché onerose, poste in essere tra soggetti collegati che hanno limiti alla detrazione.

Pertanto l’Amministrazione finanziaria, verificata la spiegata superiorità del criterio del corrispettivo, deve ricercare sempre le prove dell’effettivo corrispettivo, tutelando il meccanismo impositivo la libertà di iniziativa economica e contrattuale.

Altra non secondaria questione, in un contesto sovranazionale, ved. infra sugli effetti sospensivi nel trasferimento di residenza delle società, è quella relativa al contenuto del valore normale evocato dall’art. 9, terzo e quarto comma, del TUIR, diverso da quello “at arm’s length” determinato in base al Rapporto OCSE, linee guida, sui prezzi di trasferimento del 22 luglio 2010, non essendo identici i parametri di valore normale. Sul trasferimento di residenza all’estero delle società, quale ipotesi derogatoria nominata, di tassazione in base al valore normale delle plusvalenze latenti (realizzo virtuale) si osserva che il legislatore, adeguandosi alla sentenza della Corte di Giustizia UE 29 novembre 2011, causa C-371/10 (5), con l’art. 91 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), ha introdotto i commi 2-quater e 2-quinquies all’art. 166 del TUIR, riconoscendo ai soggetti che trasferiscono la residenza in ambito UE il differimento di imposta sui descritti plusvalori. La tassazione su questi plusvalori viene de facto sospesa fino al loro realizzo che costituirà l’effetto interruttivo della sospensione de qua (regime opzionale, ved. alternatività nel comma 2-quater), con una riscossione differita dell’imposta. Lo stesso dicasi per i fondi in sospensione d’imposta, di cui al comma 2 dell’art. 166 del TUIR ovvero non “ricostituiti”, i quali non sconteranno nell’immediato alcun prelievo, con tutte le criticità del loro monitoraggio all’estero (6).

Il valore normale dunque è una grandezza neutra, ininfluente, con le deroghe di cui sopra, nella tassazione delle imprese non deflettendo mai in dichiarazione (non è una regola sostanziale, criterio legale di tassazione in sostituzione dei corrispettivi, non operando mai in sede di adempimento spontaneo) verificata l’assenza di sue coperture nel diritto positivo: alludo ad un obbligo di adeguamento al valore del contribuente; potrà rilevare nel giudizio antievasivo di dissimulazione dei corrispettivi dichiarati se congruamente qualificata. Difatti tale valore, ovvero la mancata corrispondenza dei corrispettivi pattuiti al valore, non potrà mai acquisire rilevanza fiscale ed extrafiscale, ved. l’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, essendo necessaria la prova del nascondimento degli imponibili, ossia il divario tra quanto effettivamente e quanto indicato in dichiarazione. La prova de qua è un baluardo per la tutela del contribuente dalle pretese ingiuste, una garanzia che il processo sul valore normale tenda verso l’accertamento della verità unitamente all’effettiva garanzia dell’onere di “allegazione”, sempre nel giudizio fattuale, valorizzata di recente dal principio di non contestazione per una corretta riperimetratura del giudizio di accertamento del fatto.

I “fatti” entrano nel processo e nella sfera conoscitiva del giudice e la delimitano rigorosamente, nel senso che egli ne è vincolato, non potendone introdurre ulteriori pur con gli ampi poteri istruttori di cui dispone. Pertanto l’Amministrazione finanziaria deve qualificare l’indizio (criterio presuntivo) da valore normale nel giudizio di sottomanifestazione degli imponibili dichiarati, ovvero allegare i fatti che delineano la presunta infedeltà dichiarativa, e tra l’altro, in caso di mancata allegazione, non vi è intervento sussidiario, assistito, integrativo possibile da parte del giudicante. Si vuole dire che, se l’Amministrazione finanziaria non qualifica nell’avviso di accertamento gli indizi di evasione da valore normale, nel senso di prova e allegazione dei fatti, non può introdurli tardivamente dopo oltre i termini di preclusione né il giudice potrà procedere, neppure d’ufficio, alla rilevazione d’ufficio di un inesistente criterio presuntivo da valore normale (esubero rispetto ai corrispettivi pattuiti). Peraltro vedremo che il livello di diseconomicità di alcune transazioni ed il loro livello di adeguatezza e di compatibilità con il valore normale, essendo estraneo all’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, determina la loro irrilevanza penale.

Invero di recente si assiste invece ad un “recupero” dell’inferiorità de qua per veicolarla attraverso il rimedio endoprocedimentale dell’abuso di diritto, svincolato dalla violazione di una disposizione specifica (7), nelle contestazioni di infedeltà dichiarative, appunto da valore normale, recte: abuso. Si vuole dire che l’Amministrazione finanziaria utilizza l’esubero di quest’ultimo rispetto ai corrispettivi pattuiti per contestare l’evasione dichiarativa canalizzando questa grandezza presuntiva ex se nella fattispecie endoprocedimentale dell’abuso di diritto, eludendo il ben noto degrado indiziario dello stesso valore normale, retro illustrato.

Vedremo che tale divieto consente di rendere inopponibili le operazioni abusive, con esclusione degli indebiti benefici fiscali, ma non anche di rimodularne gli effetti. Così, anche nella sentenza “Dolce & Gabbana”, pronunciata sia dalla Corte di Cassazione (8) che dalla Commissione tributaria provinciale di Milano (9), gli imputati sono stati ritenuti colpevoli di avere dichiarato corrispettivi per un importo inferiore al loro supposto valore normale, ancorché il sistema non preveda per i privati, osserva supratransfer pricing, l’obbligo di adeguamento al valore normale (principio di tassatività nell’imposizione a valore normale dei privati). Obbligo che d’altronde non può scaturire dall’art. 9, comma 3, del TUIR, il quale contiene una mera definizione di valore normale.

L’abuso di diritto che ha confini sempre più dilatati, finendo per attrarre di recente oltre a quelle spiegate da esubero da “valore normale”, anche le rettifiche sull’antieconomicità delle spese che si prestano a un impiego extraimprenditoriale (10), la cui valutazione invece andrebbe calata in quella sovraordinata dell’inerenza (sindacato qualitativo).

Sull’antieconomicità, costi “sproporzionati” o “insoliti”, ved. le “coperture” di prassi con la risoluzione 31 dicembre 2012, n. 113/E, de facto rivelatori di finalità extraimprenditoriali, vengono rettificati, attraverso un sindacato quantitativo, indipendentemente dalla simulazione o meno degli atti generatori, avendo l’Amministrazione finanziaria il potere di valutare la congruità dei costi e dei ricavi. Antieconomicità de qua che, sul profilo probatorio motivazionale della relativa contestazione, veicola non di rado con l’abuso di diritto, quando in verità sono concetti distanti, inconciliabili, vertendo la prima sul piano distinto dell’evasione mentre la seconda è una vicenda sovrapponibile a quella dell’elusione. Il tema dell’adeguatezza dei costi e in genere dei prezzi pattuiti dovrebbe rimanere fuori dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e da ogni effetto penale.

L’antieconomicità ancorché canalizzata nell’abuso di diritto, e lo stesso dicasi per tutti i comportamenti elusivi in genere, non dovrebbe avere rilevanza penale, laddove il comportamento elusivo non contrastante con specifiche disposizioni rimane salvaguardato dal principio di legalità e tipizzazione dell’attività illecita. Si vuole dire che l’irrilevanza penale dell’abuso di diritto, genericamente inteso, quando il comportamento elusivo, recte: abusivo, non contrasti con una disposizione antielusiva specifica, ved. gli artt. 37 e 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (norme cui si possa riconoscere natura sostanziale e non procedimentale – obbligo conformativo – seguendo il teorema della sanzionabilità penale dell’elusione/abuso). Il limite superiore alla rilevanza penale dell’elusione è dunque rappresentato dal numerus clausus di operazioni regolate dal citato art. 37-bis, comma 3, al di fuori di esse non vi può essere una declinazione penale del comportamento elusivo (non vi è un obbligo conformativo, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento). Solo all’interno della norma de qua, un giudice penale potrà operare un’analisi comparativa di equivalenza tra comportamenti negoziali fungibili, per disapplicare la disciplina prescelta dal contribuente, in difetto di ragioni economiche prevalenti (il vantaggio fiscale è esclusivo). Il principio di legalità è dunque preservato nella misura in cui il contribuente ha violato l’art. 37-bis o l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 (cui si riconosce natura sostanziale), dovendosi escludere che tali operazioni debbano essere menzionate in seno al D.Lgs. n. 74/2000. La ricerca della base normativa dell’elusione rilevante penalmente va fatta alla stregua di questi presidi normativi. Invero vedremo che la non sanzionabilità dell’elusione/abuso va ben oltre la riflessione sulla tassatività delle fattispecie di cui all’art. 37-bis o nella stessa interposizione fittizia di cui all’art. 37 del medesimo D.P.R. n. 600/1973, trovando coperture nella stessa definizione di imposta evasa di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 74/2000, nella quale non dovrebbe rientrare quella elusa (non è effettiva).

Il criterio presuntivo nella tassazione della differenza tra il corrispettivo al quale sarebbe dovuta avvenire la cessione o la prestazione di servizi in unregime di libero mercato e il minor prezzo effettivamente pattuito trova dunque nuove solide “coperture” nell’innominato abuso di diritto, attraverso il quale viene liberata la contestazione dell’infedeltà dichiarativa da valore normale, ossia quest’ultimo si veste l’abito dell’abuso di diritto (autosufficiente sul profilo probatorio/motivazionale) per superare le resistenze ontologiche del suo degrado indiziario. Quella multilateralità fiscale e penale nell’irrilevanza del valore normale decade quando il valore normale viene riabilitato dall’abuso di diritto.

Difatti l’abuso di diritto, similmente all’elusione, non ha rilevanza penale, avendo affermato la Corte di Cassazione (11) l’inutilizzabilità di tale strumento, non tanto perché incompatibile con il principio di legalità in materia penale, per il quale il reato è solo il fatto tipico, ma perché avente natura di presunzione legale. Il legislatore mostra di non attribuire alcuna rilevanza alla presunzione tributaria di cui all’art. 9 del TUIR, e non soltanto per l’inutilizzabilità nel processo penale delle presunzioni proprie del diritto tributario ma perché la grandezza de qua è ininfluente nella legislazione laddove rilevano i redditi effettivi e non stimati e presunti. La responsabilità penale può nascere se integrata, raggiunta la prova del nascondimento dei corrispettivi e non già qualora il prezzo dichiarato non sia quello determinato presuntivamente dalla legge. Così non costituiranno reato tutte quelle grandezze che trovano il loro fondamento in convenzioni di natura fiscale, ovvero forfetizzazioni diverse, le presunzioni legali, ved. indagini bancarie, le normalizzazioni dei corrispettivi da transfer pricing, e ancora le plusvalenze per trasferimento all’estero di sede.

Difatti il concetto di effettività utilizzato dal legislatore nel D.Lgs. n. 74/2000 non ha una latitudine tale da incorporare queste grandezze fiscali estimative non rispondenti alla realtà dei fatti, nella misura in cui la responsabilità penale resta ancorata all’omessa rilevazione dei ricavi realmente acquisiti al patrimonio del dichiarante e giammai le infedeltà da inesatta valutazione di elementi attivi passivi. Sempre sull’ininfluenza penale dell’abuso di diritto, si segnala che nel recente bilancio di responsabilità sociale della Procura di Milano sull’attività svolta nel periodo 2011-2012 – focus sulla criminalità economica – le archiviazioni delle denunce (in aumento i fascicoli sull’abuso di diritto aperti in seguito alle notizie di reato del fisco, più 440% per la violazione di cui all’art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000), sono cresciute visivamente.

Difatti la Procura cestina nella maggioranza dei casi le denunce sul presupposto che l’accertamento della maggiore imposta risulta motivato sulla base di meccanismi induttivi e presuntivi che non legittimano l’intervento del giudice penale. Pertanto quelle denunce risultano carenti sul necessario requisito, retro illustrato, di effettività della maggiore imposta, con l’effetto deteriore che questa tendenziale importante crescita delle denunce non si traduce in condanna definitiva, verificata anche la costante incidenza della prescrizione. Pertanto una contestazione di abuso del diritto fiscale non potrebbe avere una declinazione penale, per l’ovvia considerazione che mancherebbe una norma specifica che espressamente consideri elusiva la condotta del contribuente, con l’effetto che la mancata tassazione di una vendita in base al valore normale non può essere giustificata dall’aggiramento di alcun divieto previsto dal legislatore (12). Non potrebbero irrogarsi sanzioni penali sulla base di una riqualificazione, reinterpretazione dei processi comportamentali, attraverso una volontà legislativa non codificata.

Dunque il mero divario tra prezzo di cessione di un bene e il suo valore normale non integra ex se la presunzione che siano stati pagati in nero corrispettivi superiori a quelli dichiarati, né d’altro canto tale differenza può essere eccepita in forza del divieto dell’abuso del diritto fiscale. Difatti tale divieto consente di rendere inopponibile le operazioni abusive, ma non anche rimodularne liberamente gli effetti, diversamente tale divieto si presterebbe ad essere utilizzato come una norma impositiva in bianco con cui introdurre ex post nuove fattispecie impositive.

Esiste una contraddizione evidente tra la ben nota atipicità degli istituti di cui trattasi – abuso ed elusione – e la necessaria tipicità, invece, dell’illecito penale (13). Il principio di legalità e il principio di tassatività impongono al legislatore il dovere di procedere ad una determinazione della fattispecie penale (garantire la certezza del diritto), affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è penalmente illecito e ciò che è penalmente lecito. L’abuso di diritto e l’elusione non sono predeterminati, codificati (non essendo tale la tipizzazione di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973), ossia sono fatti atipici, innominati non riconducibili ad una fattispecie legale, stante il difetto di tassatività e determinatezza della fattispecie, non rilevando in funzione della violazione di norme di legge o di regolamento, con l’effetto deteriore che non può rilevarsi un contrasto con il principio di legalità. La tipizzazione dei fatti incriminati in modelli legali, cioè la descrizione legislativa dei modelli vietati, è la tecnica di produzione della norma da parte del legislatore.

Concludendo sull’irrilevanza penale dell’abuso, si osserva che tale figura giuridica oblitera una difformità valorativa del comportamento e non anche una difformità-devianza da obblighi normativi dedicati (alludo alla sua sussumibilità all’interno di una norma tributaria).

È stato in origine ricordato, sui regimi derogatori del “corrispettivo”, il transfer pricing, ex art. 110, settimo comma, del TUIR, sull’irrilevanza dei valori concordati dalle parti nell’ambito di transazioni “controllate” e l’inserimento ex se nelle transazioni medesime di valori legali, ancorati al regime della libera concorrenza (valore normale, ex art. 9 del TUIR). La disciplina de qua antielusiva (14) ha la finalità di evitare che, mediante fenomeni non simulatori come l’alterazione dei prezzi di trasferimento, l’erario italiano abbia a subire un pregiudizio, rilevato che i processi decisionali negli attori di queste transazioni controllate sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro d’interessi.

È evidente che la qualificazione della disposizione di cui all’art. 110 del TUIR, quale norma antielusiva (non ha natura sostanziale, con le plurime criticità in origine emarginate, anche se la sostituzione del valore normale al corrispettivo sembra evocare una disciplina di diritto sostanziale rilevante ex se in sede di autotassazione ed in sede penale) in coerenza con i principi comunitari in tema di abuso del diritto, comporta che sulla ripartizione dell’onere probatorio continui a gravare sempre sull’Amministrazione finanziaria. Su di essa – intende operare tali rettifiche da violazione della clausola antielusiva – permane la prova del teorema elusivo sul trasferimento transazionale di imponibili, ancorché trattasi di disconoscere componenti negative.

Una disciplina antielusiva quella dell’art. 110, settimo comma, del TUIR, diretta dunque a contrastare le manovre di erosione dell’imponibile, non nelle forme evasive di mero occultamento del corrispettivo, quanto piuttosto a neutralizzare le politiche, appunto elusive, che incidono sul corrispettivo palese e reale. Continua a non esistere un transfer pricing interno, ossia un obbligo di tassazione a valore normale, per le transazioni fra imprese residenti dello stesso gruppo, le quali semmai potranno essere monitorate sul piano della coerenza con i criteri di economicità, non potendosi escludere che si possa realizzare un deficit di inerenza quantitativa qualora siano utilizzati prezzi non allineati a quelli praticati dai players indipendenti. In altri termini, la disciplina di cui all’art. 110, settimo comma, del TUIR, trova applicazione solo in uno scenario cross border e non anche quando la transazione monitorata sia intervenuta fra attori residenti (15).

L’abuso di diritto, ritornando su una sua casistica, è stato riesumato anche per disconoscere la deducibilità degli interessi passivi nelle operazioni di leverage buy out, ossia si vuole evitare attraverso il giudizio di disvalore delle operazioni di “acquisizione a debito” che la base imponibile della società target, acquisita, sia erosa dagli oneri finanziari (16) connessi al finanziamento acceso per la sua acquisizione (traslazione del debito di acquisizione sulla target mediante fusione, manovre sul debito). Invero le operazioni di MLBO sono riconosciute nel codice civile (ved. art. 2501-bis c.c.), lo stesso legislatore delegato della riforma del diritto societario ha confermato tale liceità circondandole di una serie di cautele procedurali e informative (prescrizioni di disclosure), ragionevolezza dei programmi economici esposti nel piano per una sostenibilità finanziaria della fattispecie in parola. Tali operazioni non violano peraltro il divieto di assistenza finanziaria stabilito dall’art. 2358 c.c. e la fusione (libera la compensazione intrasoggettiva fra interessi passivi della newco e la redditività della target) ha ragioni extrafiscali, essendo imposta dalla banca finanziatrice, la quale è solita richiedere che il debito venga trasferito alla società acquisita operativa in modo da ottenere in garanzia direttamente i beni materiali e immateriali della target, in aggiunta al pegno sulle azioni di quest’ultima (avvicinamento del debito alla generazione di cassa). Pertanto, vi sono prevalenti ragioni extrafiscali per allontanare il fumus di elusività sulla fattispecie, sicché la fusione quale anello terminale delle MLBO non ha l’obiettivo di far gravare sulla società acquisita l’indebitamento contratto per la sua acquisizione. Invero, senza ricorrere alla fusione, monitorata ed enfatizzata dall’Amministrazione finanziaria per disconoscere la deducibilità degli interessi, la compensazione de qua, fra interessi passivi della newco e i redditi della target, anche in assenza di fusione, è abilitata dal sistema attraverso l’opzione per la tassazione consolidata, con l’effetto che non può qualificarsi indebito un benefit che potrebbe essere legittimamente conseguito anche seguendo un percorso alternativo che porta ad un risultato equivalente.

Ancora sui confini dilatati e “abusati” dell’abuso di diritto, verificata la sua indeterminatezza (comunque positivizzato nell’elaborazione del superiore giudice di legittimità), l’antieconomicità delle spese abnormi, che viene attratta nel primo, per disconoscere la deduzione dei costi sproporzionati che si prestano ad un impiego extraprofessionale. Invero le frizioni, discontinuità dell’antieconomicità de qua, con la categoria concettuale madre apparentemente contigua dell’abuso di diritto sono evidenti, nella misura in cui la prima, in quanto inquadrata nell’inerenza, ha a che fare con l’evasione. Invece l’abuso è una vicenda sovrapponibile a quella dell’elusione. Difatti, nelle rettifiche sull’antieconomicità è in discussione l’inerenza, che è un giudizio solo qualitativo della spesa, si allude al suo collegamento con l’attività imprenditoriale, con l’effetto deteriore che la stessa, verificata l’esclusione nelle spese insolite della figura dell’abuso di diritto, veicola attraverso il subprocedimento ordinario, ved. presunzioni qualificate per sostenere un teorema evasivo.

Avv. Fabio ciani

Università roma tre

(1) Cfr. Cass., sez. trib., 25 settembre 2013, n. 22010, in Boll. Trib. On-line.

(2) Sul punto ved. Bonazza, Valore venale, valore normale e valore corrente, in Boll. trib., 2007, 335.

(3) Sulla prevalenza e superiorità della libertà contrattuale nella definizione delle base imponibili anche nell’IVA, ved. Ficari, Libertà dell’imprenditore e poteri amministrativi e giudiziali, in Boll. Trib., 2012, 803 ss., il quale, sull’intangibilità, inviolabilità de qua del corrispettivo osserva che «Rispetto a disposizioni nazionali per le quali la base imponibile deve corrispondere necessariamente ad un valore normale presunto e non al corrispettivo effettivamente pagato (OMI), in ragione del condizionamento operato sul valore degli scambi tra operatori e tra operatori e consumatori finali, la Corte richiede, quale ragione di legittimità, che in sede di accertamento si arrivi ad una prova dell’effettivo corrispettivo, ammettendo nei casi dell’autoconsumo e della destinazione a finalità extra-imprenditoriali che la base imponibile sia identificabile anche nel costo di produzione o di acquisto».

(4) Cfr. Corte Giust. UE, sez., I, 20 gennaio 2005, causa C-412, in Boll. Trib., 2005, 565.

(5) In Boll. Trib. On-line.

(6) Sulle criticità nel monitoraggio estero dei fondi quiescenti non ricostituiti nella “stabile” e appunto trasferiti, ved. Mayr, Trasferimento della residenza delle società: i problemi che dovrà affrontare il decreto attuativo, in Boll. Trib., 2012, 331 ss., il quale enfatizza le difficoltà nel monitoraggio delle ipotesi di decadenza della sospensione delle imposte in Italia, osservando «Come per i beni d’impresa, per determinare l’imposta da pagare in via ordinaria o di cui chiedere la sospensione, si deve fingere un realizzo al valore normale, così anche per i fondi in sospensione d’imposta (se non ricostituiti presso la stabile organizzazione) si dovrebbe fingere il verificarsi di quegli eventi – diversi a seconda del tipo di fondo che, in base alla legge che ha permesso la formazione di tali fondi – che comportano l’assoggettamento ad imposta degli stessi. L’imposta così determinata deve essere però sospesa – se richiesto dal contribuente – ma le difficoltà maggiori sorgeranno in questo caso in merito al monitoraggio di tali fondi all’estero e nell’identificazione dei predetti eventi all’estero che comporteranno l’interruzione della sospensione dell’imposta in Italia».

(7) Ved. Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Boll. Trib., 2009, 484; e Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30057, ibidem, 481.

(8) Cfr. Cass., sez. II pen., 28 febbraio 2012, n. 7739, in Boll. Trib. On-line.

(9) Così Comm. trib. prov. di Milano, sez. XVIII, 4 gennaio 2012, n. 1, in Boll. Trib. On-line.

(10) Ved. Cass., sez. VI, 11 febbraio 2013, ord. n. 3243, in Boll. Trib. On-line.

(11) Cfr. Cass., sez. III pen., 2 aprile 2009, n. 14486, in Boll. Trib. On-line.

(12) Sono le espressioni condivise di Escalar, Un caso esemplare di trasformazione indebita del divieto di abuso del diritto in norma impositiva in bianco, in Corr. trib., 2012, 1670 ss., il quale aggiunge, sull’irrilevanza penale di una contestazione da abuso di diritto fiscale, che «… tale contestazione implicherebbe il ricorso ad un procedimento interpretativo che comporta l’estensione alla condotta contestata di un divieto dettato per altra condotta che, pur consentendo il conseguimento di consimili risultati giuridici, sarà nella più parte dei casi difforme rispetto ad essa».

(13) Sulla risolutiva assenza di una definizione normativa della categoria civilistica dell’abuso di diritto, incapace pertanto di avere una declinazione penale, per la non sussumibilità all’interno di una norma tributaria, per lesione della necessaria tipicità dell’illecito penale, con le sue coperture costituzionali nell’art. 25, secondo comma, Cost., ved. Mereu, Abuso del diritto ed elusione fiscale: rilevanza penale o mera mancanza di un explicatio terminorum? Alcune riflessioni a margine del caso Dolce e Gabbana, in Dir. prat. trib., 2012, I, 1001 ss., il quale, sulla necessaria predeterminazione normativa dell’abuso, aggiunge che «… Nella tipizzazione dei fatti incriminati in modelli legali, il principio di legalità e il sotto-principio di tassatività (dal primo derivante) impongono al legislatore il dovere di procedere ad una precisa determinazione della fattispecie legale, affinché risulti tassativamente stabilito ciò che è penalmente lecito e ciò che è penalmente illecito, al fine di garantire la certezza della legge».

(14) Ved. Cass., sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11949, in Boll. Trib., 2013, 216, con nota di Faggion – Ziliotto, Transfer price, natura della norma e onere della prova: la confusione persiste.

(15) Ved. Cass., sez. trib., 20 dicembre 2012, n. 23551, in Boll. Trib. On-line.

(16) Ved. Rossi – Ampolilla, Leverage buy out: gli illegittimi accertamenti del fisco italiano, in Boll. Trib., 2013, 18 ss.; gli Autori nell’operare una ricognizione critica degli ultimi orientamenti di prassi sull’indeducibilità degli oneri finanziari nelle acquisizioni a debito attraverso il ricorso all’abuso di diritto osservano che «… l’attuale art. 96 del TUIR che, come innanzi evidenziato, pone un limite forfetario alla deducibilità degli interessi commisurato al risultato operativo lordo, conferma indirettamente (ma chiaramente) l’assenza di simili preclusioni, consentendo alle società aderenti al consolidato (e, quindi, anche alla holding sulla quale grava il debito assunto per l’acquisizione) di tenere conto, ai fini della determinazione dell’importo di interessi deducibili, dei risultati conseguiti dalle altre società del gruppo sia italiane sia estere». Sempre secondo gli Autori «… la sottrazione di tale componente reddituale al giudizio di inerenza deriva dall’impossibilità di stabilire, in via analitica, un nesso preciso tra uno specifico finanziamento produttivo di interessi passivi e il suo utilizzo per una particolare attività aziendale. Di qui la scelta legislativa di ricorrere ad un criterio ‘forfetario’ … che pone in relazione l’ammontare di interessi passivi deducibili al risultato operativo lordo della gestione caratteristica (art. 96 del TUIR)».

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