2 Febbraio, 2016

 

 

 

SOMMARIO: Introduzione 1. Esenzione degli utili di una branch estera (e conseguente irrilevanza della perdita) 2. Trasferimento della sede all’estero 3. Valori di ingresso in caso di trasferimento della residenza dall’estero all’Italia 4. Le modifiche della disciplina CFC 5. Dividendi provenienti da società residenti in Stati a regime fiscale privilegiato 6. Consolidato nazionale con controllante estera (UE/SEE) 7. Deducibilità costi black list 8. Stabile organizzazione in Italia di soggetti non residenti 9. Novità sul credito per le imposte estere 10. Nuove black list e white list 11. Altre novità che incidono sui rapporti Italia-estero e viceversa.

 

 

Introduzione

Da alcuni anni assistiamo non solo ad una forte e specifica intensificazione delle verifiche su tematiche fiscali internazionali (rapporti Italia su estero e viceversa) ma anche ad un chiaro segnale dell’Amministrazione finanziaria di volere seguire puntualmente e tempestivamente certe nuove proposte sulla fiscalità internazionale avanzate soprattutto dall’OCSE (per esempio su indicazione del G-20) ma anche dall’Unione europea. Con riferimento a quest’ultimo approccio (di volere recepire tempestivamente e puntualmente gli sviluppi internazionali) si ha però l’impressione che non si tenga sufficientemente conto di una serie di problemi. Il primo è di tipo giuridico nel senso che alcune di queste proposte non possono essere recepite con un semplice provvedimento dell’Amministrazione ma occorre invece una modifica legislativa dell’ordinamento fiscale in vigore. Il secondo è di tipo “politico-fiscale”: spesso le proposte, cercando di limitare (per esempio con i BEPS) certe politiche fiscali internazionali aggressive ammesse in alcuni Paesi, partono da una situazione (tollerata) di “normale” concorrenza fiscale tra i vari Stati. E qui, se confrontiamo la legislazione fiscale italiana con quella di alcuni Paesi esteri, notiamo sicuramente un deficit sia per le imprese italiane operanti all’estero sia per le imprese estere operanti in Italia. Quindi, l’Italia, prima di attuare acriticamente certe proposte in elaborazione a livello dell’OCSE farebbe bene a non volere “fare il primo della classe” nel recepirle ma ad osservare attentamente l’atteggiamento degli altri Paesi soprattutto in termini di fiscalità competitiva per le proprie imprese e per attirare investimenti dall’estero.

Con la legge delega e con i decreti delegati si presentava una grande occasione per risolvere i due problemi sopraccennati (oltre a quello delle razionalizzazioni e della sistematicità). La Legge delega (legge n. 23 dell’11 marzo 2014), infatti, prevedeva alla lett. b) del primo comma dell’art. 12 un programma di riforma di vasto respiro: operazioni transfrontaliere, residenza fiscale, regime CFC, regime dei dividendi provenienti da Stati con regime fiscale privilegiato, costi black list, tassazione stabili organizzazioni in Italia e all’estero, rilevanza delle perdite di società del gruppo residenti all’estero, etc.

Con una prima analisi dei decreti delegati finora noti si può verificare quanto di questo programma ha trovato piena o parziale attuazione e soprattutto se con tale programma sono stati risolti i due problemi fondamentali descritti prima.

1. Esenzione degli utili di una branch estera (e conseguente irrilevanza della perdita)

Con questa misura viene sicuramente migliorata la competitività fiscale delle imprese italiane all’estero. Ecco l’esempio banale: se l’impresa italiana costruisce un ponte in Cina (stabile organizzazione da cantiere) e paga, per esempio, un’imposta del 18-20%, l’impresa italiana non solo deve ricalcolare il reddito della stabile organizzazione cinese ai fini italiani ma deve “portare” il livello di tassazione di tale reddito a quello italiano (con credito delle imposte cinesi). Per la società tedesca invece (belga, francese, spagnola, etc.) l’imposta cinese rappresenta il carico fiscale complessivo perché per legge interna o per convenzione il reddito di una stabile organizzazione all’estero viene escluso dalla tassazione nel Paese di residenza dell’impresa. Tali imprese hanno quindi un chiaro vantaggio economico – che possono sfruttare per fare al committente cinese un’offerta migliore in termini di prezzo – sull’impresa italiana.

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L’art. 14 dello schema di decreto rappresenta di per sé un importante passo avanti nella giusta direzione anche se i vincoli e le limitazioni previste dalla norma rischiano di avere lo stesso effetto negativo dei vincoli nell’ambito del consolidato mondiale, cioè quello di impedire che la norma trovi un’applicazione pratica su larga scala.

L’art. 14 introduce nel TUIR l’art. 168-ter che ai primi due commi prevede l’opzione irrevocabile per l’esenzione degli utili di tutte le stabili organizzazioni all’estero (ovviamente l’esenzione dell’utile comporta anche l’irrilevanza fiscale delle perdita). La limitazione “all in – all out” produrrà gli stessi effetti negativi che tale condizione produce tuttora – dopo 12 anni dalla sua introduzione – sull’applicabilità del consolidato mondiale. Ancora meno comprensibile appare la condizione della irrevocabilità dell’opzione. Ma come si può pretendere da un’impresa una scelta per un istituto giuridico per tutta la vita dell’impresa? Certo, il passaggio dal regime opzionale al regime normale e viceversa può essere dettato da certi interessi, ma è sufficiente regolare tali effetti, senza compromettere la disciplina di per sé.

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Inoltre, la norma, per come è scritta, non impedisce l’esercizio dell’opzione in capo alla società A e la scelta, invece, del regime ordinario da parte della società B anche se le due società fanno parte dello stesso gruppo.

C’è poi una contraddizione tra il primo e il secondo comma: dal primo comma si comprende che l’opzione vale per tutte le stabili organizzazioni all’estero. Quindi se l’impresa ne possiede una e opta per l’esenzione, tale opzione vale automaticamente anche per la seconda stabile organizzazione che l’impresa apre dopo la prima. Ma in base al secondo comma l’opzione sembra esercitabile anche rispetto alla seconda stabile organizzazione nel momento della sua costituzione.

Interessante è il rapporto tra questa nuova disciplina (opzione per l’esenzione dell’utile e della perdita) e la disciplina CFC (controlled foreign companies), di cui si occupano i commi 3, 4 e 5 del nuovo art. 168-ter.

Innanzitutto si deve notare che l’opzione vale, come principio, solo per le stabili organizzazioni in Paesi non black list e tra questi solo se non ricorrono le condizioni di una CFC white list (comma 8-bis dell’art. 167). Il regime viene poi esteso anche alle stabili organizzazioni nei Paesi black list a condizione che esistano le esimenti di cui al comma 5, lett. a) o b), dell’art. 167 e anche alle stabili organizzazioni localizzate in paesi white list ma con requisiti della CFC white list a condizione che esista l’esimente di cui al comma 8-ter dell’art. 167.

Il comma 4 tratta del problema della stabile organizzazione in Paesi black list o in Paesi white list con regime CFC, ma senza esimenti. Queste stabili organizzazioni non possono essere considerate coperte dalla opzione esercitata per tutte le altre stabili organizzazioni all’estero per cui il comma 4 prevede l’applicazione del regime CFC ai sensi dell’art. 167. Questa è una disciplina assolutamente nuova perché finora l’art. 167 non si applicava alla stabile organizzazione posseduta direttamente dall’Italia in un Paese black list e l’utile o la perdita veniva imputato al soggetto italiano secondo le normali regole della tassazione mondiale (però non con le limitazioni – per esempio, tassazione separata – previste dall’art. 167).

Il comma 4 equipara ora ai fini della disciplina CFC la stabile organizzazione alla società controllata per cui il reddito della stabile organizzazione va sì imputato (automaticamente) al soggetto italiano ma non con le regole normali della tassazione mondiale ma con le regole della CFC (per esempio, trattamento separato dell’utile e delle perdita). Si tratta, quindi, di una disciplina più onerosa rispetto alla situazione attuale.

Interessante, ma anche di difficile comprensione, è il comma 5 del nuovo art. 168-ter: “nel caso di esercizio dell’opzione di cui al comma 1 con riferimento alle stabili organizzazioni per le quali sono state disapplicate le disposizioni di cui all’art. 167, si applicano, sussistendone le condizioni, le disposizioni degli articoli 47, comma 4 e 89, comma 3”.

Il riferimento agli artt. 47, comma 4, e 89, comma 3 (regime fiscale dei dividendi), non può riguardare l’utile della branch ma i dividendi distribuiti dalla società e formati, appunto, anche da utili di una branch estera. Così com’è scritta, la norma non brilla proprio per chiarezza – occorrerebbe precisare “in caso di distribuzione” – ma il significato dovrebbe essere il seguente:

se gli utili si riferiscono a una branch in Paesi white list per i quali si esercita l’opzione per l’esenzione, la distribuzione di tali utili comporta la detassazione normale del dividendo in capo al socio della società (senza dovere identificare l’utile della branch estera);

se gli utili si riferiscono a una branch in Paesi black list in assenza delle esimenti si avrà la piena tassazione degli stessi in capo alla società e in caso di distribuzione si avrà la normale detassazione del dividendo;

se gli utili si riferiscono invece a una branch in Paesi black list però con le esimenti di cui alle lett. a) o b) dell’art. 167 – o Paesi white list con esimenti di cui al comma 8-ter – può essere esercitata l’opzione dell’esenzione a livello della società ma in caso di distribuzione degli stessi come dividendi – per cui occorre identificare tale parte di utile – si applica la tassazione integrale del dividendo con credito d’imposta. Se invece ricorre la condizione della lett. c) del comma 1 dell’art. 87 dovrebbe applicarsi il normale regime di detassazione a tale dividendo.

Il comma 7 del nuovo art. 168-ter si preoccupa invece di evitare che il contribuente possa beneficiare degli effetti positivi sia del regime attuale che del regime nuovo. Ciò si potrebbe produrre se una perdita della stabile organizzazione estera ha ridotto l’imponibile in Italia sotto l’attuale regime e se, quando si manifesterà l’utile (che all’estero verrebbe compensato con la perdita mentre in Italia sarebbe pienamente tassabile), sia applicato in Italia il regime dell’esenzione.

Per verificare questa situazione occorre, come dice il comma 7, sommare algebricamente gli utili e le perdite della stabile organizzazione estera nei cinque periodi d’imposta antecedenti a quello dell’effetto dell’opzione. Se la somma algebrica è una perdita netta (ciò significa che non si è ancora verificato all’estero l’utile con cui compensare la perdita) gli utili successivamente realizzati della stabile organizzazione non saranno esenti ma saranno tassati fino a concorrenza di tale perdita netta (“recapture”). Da tale imposta si possono scomputare però le eccedenze di imposta estere riportabili ai sensi dell’art. 165, comma 6. La stessa disciplina (“recapture”) vale nel caso del trasferimento della stabile organizzazione o di parte della stessa ad un’altra impresa del gruppo che ha optato per l’esenzione. Il comma 9 obbliga comunque il cedente ad indicare nell’atto di trasferimento della stabile organizzazione l’ammontare dell’eventuale perdita netta realizzata dalla medesima stabile organizzazione nei cinque periodi d’imposta precedenti al trasferimento. Per la determinazione del reddito da escludere da tassazione in Italia valgono ovviamente gli stessi principi applicabili nella determinazione del reddito nel caso di imponibilità in Italia, cioè i nuovi criteri di cui all’art. 152 che introduce il “separate entity approach” e l’applicazione del principio “at arm’s length” nei rapporti tra stabile organizzazione e casa madre.

In conclusione la nuova disciplina, pur nei limiti sopradescritti, può esser considerata un “buon passo in avanti” anche se un meccanismo opposto (stabilire come normale il regime di esenzione con l’opzione per la tassazione mondiale) avrebbe avuto il pregio di salvare il riconoscimento delle perdite estere (ovviamente con il meccanismo della recapture in caso di utili successivi) per le quali oggi la stabile organizzazione è l’unico “strumento” utile per far valere tale perdita in Italia (dopo che la svalutazione delle partecipazioni in una società estera non è più possibile e il consolidato fiscale mondiale è soggetto a troppe limitazioni).

2. Trasferimento della sede all’estero

L’art. 11 dello schema prevede, oltre alla soppressione dall’art. 166, comma 2-quater, delle parole “in conformità ai principi sanciti dalla sentenza 26 novembre 2011, Causa C-371-10, National Grid Indus B.V.”, due importanti novità. La prima riguarda l’estensione della sospensione della riscossione dell’imposta al trasferimento di una stabile organizzazione (o parte di essa, però sempre costituente un’azienda o ramo d’azienda) da parte di un’impresa non residente verso altro Stato UE o Stato aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo: l’inserimento di tale disciplina (nell’ultimo periodo del comma 2-quater dell’art. 166) è la conseguenza della sentenza della Corte di Giustizia UE 6 settembre 2012, causa C-38/10 (1). Stranamente la relazione illustrativa parla di una modifica avente carattere interpretativo. Ma già il decreto di attuazione del 2 luglio 2014 contiene tale disciplina.

L’altra novità “chiude il cerchio” sul trasferimento della stabile organizzazione. Non avrebbe senso applicare il regime di sospensione al trasferimento sede della società e al trasferimento della stabile organizzazione connesso a tale trasferimento o in modo “isolato” e negare tale sospensione al trasferimento della stabile organizzazione che nasce da una operazione straordinaria intracomunitaria (fusioni, scissioni e conferimenti). All’art. 179, comma 6, viene aggiunto, quindi, il seguente periodo: “si applicano, ove compatibili, le disposizioni dell’art. 166, commi 2-quater e seguenti”.

Esiste, però, a mio parere, una notevole differenza nella disciplina fiscale “controllata” per i due tipi di operazioni: da una parte il trasferimento sede, dall’altra le operazioni straordinarie di cui all’art. 179.

Mentre per il trasferimento sede la sospensione opera anche se la stabile organizzazione non nasce mai perché tutti i beni vengono trasferiti al momento del trasferimento della sede, per le operazioni straordinarie intracomunitarie sembra che i beni debbano confluire prima in una stabile organizzazione (solo così viene garantita la neutralità fiscale) e successivamente la stabile organizzazione o un ramo d’azienda della stessa può essere trasferito con sospensione dell’imposizione.

3. Valori di ingresso in caso di trasferimento della residenza dall’estero all’Italia

Prima di esaminare le importanti novità introdotte dall’art. 12 dello schema di decreto si deve notare la mancata modifica delle norme sull’acquisto della residenza fiscale sia per le società che per le persone fisiche. La formulazione attuale – “per la maggior parte del periodo d’imposta” – crea problemi di doppia tassazione oppure problemi di doppia non imposizione (e grandi problemi soprattutto nel caso di trasferimento sede). Sarebbe stato opportuno, quindi, prevedere l’acquisto o la perdita istantanea della residenza con il trasferimento nel territorio o fuori di esso (sia per la società che per le persone fisiche).

Le novità introdotte dall’art. 12 sono però di grande rilievo portando finalmente chiarezza su un punto importante e sul quale esistevano finora solo alcune pronunce ministeriali, peraltro non uniformi e molto discutibili. La scelta di fondo è la seguente e corrisponde alla logica (corretta) che lo Stato italiano può tassare solo le plusvalenze che maturano dal momento dell’acquisto di residenza in Italia. Per assicurare tale principio non c’è altra via che stabilire come valore d’ingresso il c.d. valore normale, determinato secondo l’art. 9 del TUIR e ciò a prescindere dai valori fiscali attribuiti ai beni all’estero e a prescindere dal fatto che lo Stato di partenza abbia applicato una exit tax sul realizzo “in uscita” del bene o meno.

Questo è esattamente l’approccio scelto dal legislatore delegato nell’art. 12 del decreto con l’aggiunta dell’art. 166-bis “Trasferimento della residenza nel territorio dello stato”, però con la seguente limitazione che non è molto logica. Come non rileva, infatti, se all’estero c’è stato il realizzo e si è pagata un exit tax, così non deve essere rilevante la provenienza della società da un Paese con fiscalità privilegiata: secondo il decreto, il valore normale si applica solo se la società proviene da Paesi white list (con scambio di informazioni). Per i soggetti provenienti da Paesi black list il valore normale non è automatico ma è legato all’ottenimento di un ruling specifico. Se tale accordo non è raggiunto le attività saranno assunte in misura pari al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale. Così l’Italia tasserà le plusvalenze formatesi in passato in un Paese estero a bassa fiscalità. Visto che l’art. 12 del decreto affronta il problema dei valori d’ingresso in caso di trasferimento di residenza della società o dell’impresa verso l’Italia sarebbe stato logico dettare una disciplina valevole per tutti i casi in cui non solo una società o un’impresa ma anche un singolo bene entri per la prima volta nella giurisdizione fiscale italiana (ad esempio, persona fisica non imprenditore che trasferisce la residenza in Italia “portando con sé” asset esteri) oppure i beni di una società estera confluiti in una stabile organizzazione estera della società italiana per effetto di una fusione per incorporazione di una società estera in una società italiana.

4. Le modifiche della disciplina CFC

La modifica più importante contenuta nell’art. 8 dello schema del decreto riguarda l’abrogazione dell’art. 168 del TUIR, cioè la disciplina CFC applicata alle società estere collegate. Fin dalla sua introduzione operata dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, ed attuata con D.M. 7 agosto 2006, n. 268, tale disciplina è stata fortemente criticata dalla dottrina (vedi soprattutto Assonime che nella circolare n. 49/2006 affermava: “… occorre ribadire come l’estensione del regime di CFC alle società estere meramente collegate a soggetti italiani non costituisce un necessario corollario dell’attuale regime di tassazione dei dividendi da fonti estere … e inoltre sollevi seri problemi di compatibilità con i trattati internazionali, attraendo a tassazione in Italia i redditi di imprese estere che, diversamente dalle CFC, non sono sottoposte all’influenza di un dominus residente nel nostro Stato. Si tratta di problematiche, peraltro, che in ambito europeo assumono ancora più rilievo alla luce del recente orientamento restrittivo in materia di legislazione di CFC manifestato dalla Corte di Giustizia nella sentenza sul caso Cadbury Schweppes (C-196/04)”. L’eliminazione di tale norma – che si applicava anche al collegamento indiretto con grandi complicazioni pratiche per le imprese italiane che operano all’estero – rappresenta un notevole passo avanti nella semplificazione e razionalizzazione dei rapporti fiscali con l’estero (e, non per ultimo, un miglioramento nella competitività fiscale delle imprese nei confronti di altre imprese operanti all’estero).

Il cuore della disciplina CFC, cioè quella applicabile alle società controllate e disciplinata dall’art. 167 del TUIR non è cambiato. Il comma 1 dell’art. 167 è stato sostituito, però l’unica novità riguarda la formulazione riguardante i Paesi con tassazione privilegiata. La formulazione “residente o localizzato in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministero dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’art. 168-bis” viene sostituito dalla seguente: “residente o localizzato in Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto o al provvedimento emanati ai sensi del comma 4”. Ci sarà quindi una “nuova” lista (o un aggiornamento della lista di cui al D.M. 21 novembre 2001) ai fini della disciplina CFC che terrà conto della novità introdotta dalla legge Stabilità 2015 (una tassazione inferiore al 50% di quella italiana). Le altre modifiche al comma 1 riguardano l’inserimento di termini più esatti (soggetto estero controllato al posto di soggetto estero partecipato) anche a seguito dell’eliminazione dell’art. 168. Ma la modifica più importante riguarda l’eliminazione dell’obbligo dell’interpello preventivo ai fini del riconoscimento delle esimenti (per l’imputazione del reddito o per la tassazione integrale del dividendo).

L’interpello diventa quindi una mera facoltà del contribuente. Anche questa modifica, resasi necessaria anche ai fini della compatibilità – in termini di oneri – della disciplina CFC con il diritto europeo – rappresenta un passo avanti sia nella semplificazione che nell’adeguamento della disciplina a quelle vigenti in altri Paesi.

La modifica non ha toccato invece un’altra norma per effetto della quale la disciplina CFC italiana si differenzia – nel senso più restrittivo per il contribuente – dalle discipline di altri Paesi: il famoso requisito, ai fini dell’esimente dell’attività commerciale, dell’attività “nel mercato” dello Stato o territorio di insediamento. Tale norma, introdotta dal D.L. 1° luglio 2009, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102), rende praticamente impossibile ottenere l’esimente della commercialità per le società che si rivolgono ai mercati fuori dai confini del loro Stato o territorio di insediamento e rappresenta un fattore negativo di competizione fiscale internazionale delle imprese italiane nei confronti di imprese di altri Stati che pur hanno una disciplina CFC per i propri residenti.

Il decreto legislativo era l’occasione di ristabilire la formulazione originaria, cioè di un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, “nello Stato o territorio di insediamento”. Alla mancata eliminazione della formulazione attuale si aggiunge un’altra mancanza: come si vedrà con riferimento alla disciplina dei dividendi provenienti da Paesi black list, il requisito della commercialità (comma 5, lett. a) è rimasto come esimente valevole solo ai fini dell’imputazione del reddito della CFC e non anche come esimente ai fini della tassazione integrale del dividendo proveniente da tale utile (vedi punto 5) come è stato auspicato da più parti qualificate.

Nel comma 8-bis è aggiunto il seguente punto: con provvedimento del Direttore dell’Agenzia sono indicati i valori per determinare con modalità semplificative l’effettivo livello di tassazione di cui alla precedente lett. a). Nella dichiarazione dei redditi il soggetto residente controllante deve comunque segnalare la detenzione di partecipazioni in imprese estere controllate di cui al comma 1 e al comma 8-bis (se non è stata applicata la disciplina CFC).

5. Dividendi provenienti da società residenti in Stati a regime fiscale privilegiato

L’art. 3 del decreto affronta il regime del rimpatrio, sotto forma di dividendi, degli utili prodotti da società partecipate residenti in Stati a regime fiscale privilegiato. Il decreto mantiene l’impostazione fondamentale della riforma fiscale 2004 secondo la quale la disciplina di detassazione generalmente prevista per i dividendi nazionali e quelli esteri non si applica ai dividendi provenienti da società residenti in Paesi c.d. black list, e ciò a prescindere dalla percentuale di partecipazione (in realtà la formulazione “provenienti” sia per i soggetti IRPEF – art. 47 – che per i soggetti IRES – art. 89 – risale solo all’anno 2006). Mentre per l’imputazione del reddito ci vuole il controllo – oppure anche il semplice collegamento prima dell’abrogazione dell’art. 168 del TUIR – la tassazione integrale del dividendo vale per qualsiasi percentuale di partecipazione (diretta) e vale anche in presenza dell’esimente della commercialità e ovviamente non in caso dell’imputazione del reddito. La ratio consiste nel non accordare la detassazione ai dividendi che non abbiano scontata una tassazione congrua.

Il decreto mantiene la formulazione “provenienti”, dandone però una propria definizione con un perimetro più ristretto rispetto alla disciplina attualmente in vigore. Si considerano provenienti da società residenti in Stati a regime fiscale privilegiato gli utili relativi al possesso di partecipazione diretta in tali società (quindi a prescindere dalla percentuale di partecipazione; certo, se la percentuale diventa di controllo e non scatta l’esimente per l’imputazione, il dividendo non è più tassabile fino a concorrenza degli utili imputati).

Interessante è la nuova formulazione di “provenienti” nel caso di una partecipazione indiretta in una società estera a regime fiscale privilegiato: possesso di partecipazione di controllo, anche di fatto, diretto o indiretto, in altre società residenti all’estero che conseguono utili dalle partecipazioni in società residenti in Stati o territori a regime privilegiato e nei limiti di tali utili. Da qui si possono identificare due punti fermi: il soggetto italiano deve controllare (direttamente o indirettamente) la società estera intermedia (white list), questa deve detenere una qualsiasi percentuale di partecipazione nella società con regime fiscale privilegiato (ovviamente non nella misura da fare scattare il meccanismo dell’imputazione al socio residente in Italia) e questa società deve aver distribuito l’utile (tutto o parte) alla società intermedia partecipante. Ma qual è l’ordine con cui l’utile distribuito dalla società intermedia estera al soggetto controllante italiano si ritiene formato da quello distribuito prima dalla società black list alla società intermedia? La norma non dà alcuna indicazione al riguardo. Seguendo la tesi dell’Assonime espressa nella circolare n. 38/2007 si potrebbero considerare distribuiti al socio italiano, in via prioritaria e fino a concorrenza, gli utili prodotti dalla società intermedia che risultino presso di essa sottoposti ad ordinaria imposizione.

Rimane però una differenza significativa: mentre in caso di una partecipazione diretta nella società estera con privilegio fiscale anche la minima quota di utili distribuiti da quest’ultima al socio italiano comporta la tassazione integrale di tale dividendo – salvo le esimenti –, nel caso di una partecipazione indiretta nella società estera con privilegio fiscale attraverso una partecipazione non di controllo in una società estera white list, il dividendo proveniente dalla società nel paradiso fiscale non deve essere identificato e “si confonde” quindi nel dividendo distribuito dalla società intermedia al socio italiano.

L’art. 3 dello schema del decreto, continuando a considerare l’esimente di cui alla lett. a) del comma 5 dell’art. 167 (attività commerciale) non sufficiente per accordare il regime fiscale normale ai dividendi provenienti dall’utile di tale attività, elimina almeno un’assurda differenza nel trattamento fiscale di detti utili: oggi viene trattato meglio, infatti, chi non esercita un’attività “buona” e subisce quindi l’imputazione del reddito della società estera, però con credito per le imposte pagate dalla società, rispetto a chi ottiene il riconoscimento dell’attività “buona” con conseguente non applicazione dell’imputazione (se non viene accordata anche l’esimente ai fini della tassazione del dividendo). In quest’ultimo caso, infatti, il dividendo rimane tassabile per il 100% senza poter detrarre l’imposta pagata a livello della società estera.

Questo effetto “perverso” viene eliminato dall’art. 3 dello schema del decreto riformulando l’art. 47, comma 4 (e nello stesso senso anche l’art. 89, comma 3), concedendo un credito d’imposta “indiretto”, cioè un credito da detrarre dall’imposta sul dividendo che rappresenta l’imposta “sottostante”, cioè pagata dalla società, applicando la seguente formula: somma delle imposte estere pagate durante il possesso della partecipazione per utili distribuiti diviso utili maturati durante il periodo di possesso di partecipazione. Con ciò si esprime la quota di imposta pagata dalla società estera che grava sugli utili distribuiti.

Questa possibilità spetta però solo al socio che ha il controllo della società estera residente in uno Stato a regime fiscale privilegiato. L’esimente di cui alla lett. a) del comma 5 dell’art. 167 “blocca” infatti l’imputazione del reddito e in caso di distribuzione il socio potrà beneficiare di tale credito d’imposta. Ma l’altro socio (per esempio quello che detiene una partecipazione del 30%, se il primo ha il 70%) non potrà beneficiare del credito d’imposta. Il credito d’imposta si applica anche nel caso di vendita delle partecipazioni.

6. Consolidato nazionale con controllante estera (UE/SEE)

Attualmente, ai fini del consolidato, la società controllante deve essere residente in Italia e nel caso di una controllante estera (residente in un Paese con accordo per evitare una doppia imposizione) essa deve esercitare in Italia un’attività d’impresa attraverso la stabile organizzazione nel cui patrimonio sia compresa la partecipazione in ciascuna società controllata italiana. Esattamente tale limitazione è stata considerata dalla Corte di Giustizia UE (2) in contrasto con le norme comunitarie.

La Corte di Giustizia ha stabilito che: “Nella causa C-40/13, gli articoli 49 TFUE e 54 TFUE devono essere interpretati nel senso che essi ostano alla normativa di uno Stato membro in forze della quale un regime di entità fiscale unica viene concesso a una società controllante residente che detiene controllate residenti, ma viene escluso per società sorelle residenti la cui società controllante comune non abbia la sua sede in tale Stato membro e non disponga ivi di una stabile organizzazione”.

L’art. 6 dello schema del decreto modifica l’art. 117 del TUIR nel senso di ammettere il consolidato fiscale nazionale anche tra due società o più società italiane (sorelle) controllate dalla società non residente (anche senza stabile organizzazione in Italia) purché la società controllante sia residente in un Paese UE o dello Spazio economico europeo con il quale esiste un accordo su un effettivo scambio di informazioni. Con ciò la legge italiana si adeguerà al dettato della Corte di Giustizia.

La nuova norma prevede che la controllante estera debba designare la controllata italiana che assumerà la funzione di società consolidante con tutti i diritti e obblighi connessi a tale status. La norma entrerà in vigore nel periodo d’imposta in corso alla data di pubblicazione del decreto (anche se occorre tenere conto dell’eventuale effetto retroattivo della sentenza della Corte di Giustizia).

L’altra novità dello schema del decreto in merito al consolidato nazionale è contenuta nell’art. 4 (Interessi passivi) che abroga il comma 8 dell’art. 96 del TUIR. Tale comma permette di considerare, ai fini del calcolo della deducibilità degli interessi nell’ambito del consolidato nazionale, anche l’eccedenza del 30% dell’EBITDA di una società estera rispetto ai suoi interessi passivi. La società estera deve avere i requisiti per poter virtualmente partecipare al consolidato. La norma è stata introdotta per evitare una discriminazione – anche ai fini comunitari – per le holding italiane in funzione della localizzazione della società partecipata (in Italia o all’estero). L’abolizione di questa norma per effetto dell’art. 4 del decreto viene giustificata dalla Relazione illustrativa perché la norma avrebbe creato “potenziali effetti distorsivi” (senza ulteriore spiegazione).

Per considerare comunque in un certo modo gli interessi passivi connessi all’investimento in società estere l’art. 4 del decreto modifica il comma 2 dell’art. 96 del TUIR nel senso di includere nel calcolo dell’EBITDA anche i dividendi provenienti dalle società controllate estere (ovviamente l’importo civilistico del dividendo e non quello fiscalmente imponibile) e ciò, inoltre, anche a prescindere dall’esistenza di un consolidato nazionale.

7. Deducibilità costi black list

I problemi sollevati in pratica dall’art. 110, comma 10 – soprattutto per effetto di certe pronunce giurisprudenziali negli ultimi anni – non hanno trovato una soluzione del tutto soddisfacente nell’ambito del decreto sull’internazionalizzazione. L’art. 5 sostituisce il comma 10 con uno nuovo che contiene le seguenti novità: per Stati o territori aventi regimi fiscali privilegiati si intendono quelli che saranno individuati dal decreto del Ministero dell’economia e delle finanze in ragione della mancanza di un adeguato scambio di informazioni. Il livello di tassazione non sarà più rilevante. La modifica di maggiore rilievo riguarda però il criterio per la deducibilità. Non è più rilevante “l’attività commerciale effettiva” (prima esimente, comunque eliminata) né che “le operazioni poste in essere rispondano ad un effettivo interesse economico” (seconda esimente). Il criterio nuovo (l’unico per giustificare la deducibilità) è quello del valore normale (quello di cui all’art. 9 del TUIR o quello – che non è lo stesso – “at arm’s length” di cui alle Guidelines dell’OCSE?).

Inoltre, se si applica l’unica esimente rimasta (interesse economico) la deduzione può “superare” il valore normale: ciò è logico?

Sarebbe stato opportuno, anche per la difficoltà di determinare il valore normale, di limitare tale norma alla sola prestazione di servizi e non anche ai beni materiali.

8. Stabile organizzazione in Italia i soggetti non residenti

L’art. 7 dello schema di decreto introduce importanti novità per le stabili organizzazioni in Italia di imprese non residenti. Vengono sostituiti sia l’art. 151 e 152 (Reddito complessivo e determinazione del reddito complessivo per le società ed enti commerciali non residenti) che l’art. 153 (Reddito complessivo degli enti non commerciali non residenti). Finalmente la nuova versione del comma 2 dell’art. 151 elimina quel lungo periodo dopo le parole “si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi indicati nell’art. 23” che in parte era incomprensibile, in parte sbagliato e in parte completamente inutile. La formulazione “tenendo conto, per i redditi d’impresa, anche delle plusvalenze e delle minusvalenze dei beni destinati o comunque relativi alle attività commerciali esercitate nel territorio dello Stato, ancorché non conseguite attraverso le stabili organizzazioni” è rimasta una norma dal contenuto misterioso fin dalla sua introduzione, mentre l’altra “nonché gli utili distribuiti da società ed enti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 73 e le plusvalenze indicate nell’art. 23, comma 1, lettera f)” era in parte superata da altre norme (per quanto riguarda l’attrazione dei dividendi alla stabile organizzazione) e in parte era una semplice ripetizione della territorialità già sancita con il richiamo dell’art. 23 del TUIR.

L’art. 7 introduce anche una nuova ripartizione della materia finora trattata dall’art. 151 e dall’art. 152. Mentre attualmente è l’art. 152 che contiene la distinzione, per la determinazione del reddito complessivo, tra società estere con o senza stabile organizzazione, la nuova versione dell’art. 151 non solo si riferisce alla territorialità dei redditi ma indica anche le regole di determinazione del reddito complessivo per gli enti esteri senza stabile organizzazione (confermando in questo caso il c.d. “trattamento isolato dei redditi” di cui all’art. 23 del TUIR). Quest’ultimo principio è attualmente contenuto nell’art. 152. Le deduzioni dall’imponibile e le detrazioni dall’imposta non hanno subito modifica.

Le modifiche più importanti riguardano l’art. 152. Il nuovo art. 152 è più puntuale rispetto a quello attualmente in vigore: mentre quest’ultimo parla del reddito complessivo per le società e gli enti commerciali con stabili organizzazioni in Italia che viene determinato secondo le regole del reddito d’impresa per le società di capitali residenti, il nuovo comma 1 è più preciso limitando l’applicazione del regime del reddito d’impresa delle società commerciali residenti al reddito della stabile organizzazione sulla base di un apposito rendiconto economico e patrimoniale. Ma soprattutto viene eliminata la c.d forza attrattiva della stabile organizzazione che nasceva dall’attuale formulazione …. “e alle altre attività produttive di redditi imponibili in Italia”. Con il nuovo art. 152, comma 1, sparisce l’ultimo “relitto storico” della forza attrattiva della stabile organizzazione. Il reddito imponibile della stabile organizzazione è quello “riferibile” alla stabile organizzazione. Ed è proprio intorno a questo concetto che si è concentrato negli ultimi anni il lavoro da parte dell’OCSE (nel tentativo di allargare la base imponibile per lo Stato delle fonte cioè per lo Stato in cui si trova la stabile organizzazione). Vedi i Report 2008 e 2010 sull’attribuzione dei profitti alla stabile organizzazione. Tali raccomandazioni alle quali, come sembra, l’Italia vuole uniformarsi, contengono dei concetti e principi – finzione della stabile organizzazione come impresa indipendente, riconoscimento fiscale delle operazioni tra stabile organizzazione e casa madre, finzione di un fondo di dotazione per una stabile organizzazione, etc. – che non possono essere recepite nel nostro ordinamento senza modifica legislativa. Ed è proprio ciò che intende fare l’art. 7 dello schema del decreto inserendo un nuovo comma 2 nell’art. 152: “Ai fini del comma 1, la stabile organizzazione si considera entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attività in condizioni identiche o similari, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati. Il fondo di dotazione alla stessa riferibile è determinato in piena conformità ai criteri definiti in sede OCSE, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati”. Questa modifica legislativa era necessaria per poter applicare le raccomandazioni dell’OCSE su questo argomento nell’ordinamento tributario italiano. Ma allora sorge una domanda spontanea: su quale base l’Amministrazione poteva accertare nel passato – come è avvenuto – in capo ad una stabile organizzazione un fondo di dotazione e su quale base il giudice confermava l’operato dell’Amministrazione?

Ma un’analoga necessità (di modificare l’ordinamento tributario italiano per poter recepire certe raccomandazioni dell’OCSE) sarebbe esistita anche per le Linee Guida dell’OCSE sul transfer pricing (Rapporto 2010) che in più punti sono incompatibili con la definizione del valore normale di cui all’art. 9 del TUIR. È strano quindi che il legislatore delegato abbia sentito la necessità di adattare la legislazione nazionale per poter recepire le raccomandazioni dell’OCSE per la determinazione dell’utile della stabile organizzazione e non si sia preoccupato dello stesso problema per le raccomandazioni sul transfer pricing.

9. Novità sul credito per le imposte estere

L’art. 15 dello schema di decreto interviene sull’art. 165 con due modifiche: con la prima viene esteso a tutti i contribuenti la disciplina di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 165, attualmente applicabile solo ai redditi d’impresa prodotti all’estero con stabile organizzazione o nel caso del consolidato mondiale (il comma 5) e al reddito d’impresa anche in assenza di una stabile organizzazione (il comma 6): le imposte estere possono essere detratte per competenza cioè nel periodo in cui il reddito estero concorre al reddito complessivo (purché le imposte estere siano poi pagate entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d’imposta successivo). Il riporto in avanti e indietro delle eccedenze d’imposta estera sulla quota dell’imposta italiana e l’eccedenza della quota d’imposta italiana rispetto a quella estera viene introdotto anche per i redditi non d’impresa! La seguente domanda è lecita: qual è la ratio di questa estensione, tenendo conto che questi problemi si manifestano solo per il reddito d’impresa e, per precisione, solo per il reddito da una stabile organizzazione?

L’altro intervento sull’art. 165 riguarda l’interpretazione del comma 1 dello stesso articolo: sono ammesse in detrazione non solo le imposte estere oggetto di una convenzione contro la doppia imposizione ma anche le altre imposte estere sul reddito. In casi di dubbio il contribuente può presentare istanza di interpello.

10. Nuove black list e white list

L’art. 10 dello schema di decreto è rubricato “Liste dei paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni e coordinamento black list”.

L’articolo interviene sull’impianto normativo esistente con l’abrogazione dell’art. 168-bis, come si legge nella relazione illustrativa, “dal momento che si è rilevato di difficile attuazione …”.

In sostituzione del precedente assetto, in futuro le disposizioni che ora richiamano l’art. 168-bis, comma 1, del TUIR (paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni) dovranno intendersi riferite alla ripristinata “white list” emanata (e modificabile in futuro) ai sensi dell’art. 11, comma 4, del d.lgs. 1° aprile 1996, n. 239.

Analogamente, per le disposizioni che ora fanno riferimento di cui all’art. 168-bis, comma 2, del TUIR (paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia), dovranno intendersi riferite in futuro ai Paesi diversi di cui al decreto ministeriale e al provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate emanati ai sensi dell’art. 167, comma 4, del TUIR (c.d. black list ai fini della CFC).

È notizia di questi giorni che a breve saranno pubblicati sia il nuovo decreto ai sensi dell’art. 167, comma 4, del TUIR – per tenere conto delle modifiche apportate con la legge di stabilità per il 2015 – con la conseguente cancellazione dall’elenco di Filippine, Malaysia e Singapore, sia il nuovo decreto per l’indeducibilità dei costi, dal quale (stando alle ultime notizie) vengono espunti alcuni paesi (Singapore, Emirati Arabi Uniti, Mauritius e Costarica).

11. Altre novità che incidono sui rapporti Italia-estero e viceversa

Tra le novità – contenute in questo schema di decreto e anche in altri – che possono incidere positivamente sul “going abroad” delle imprese italiane oppure sulla “Destinazione Italia” di investimenti esteri possono essere citate la nuova disciplina sull’abuso del diritto, l’estensione del ruling internazionale (art. 1 dello schema di decreto qui commentato) e l’interpello sui nuovi investimenti di cui all’art. 2 del decreto. Queste tre nuove discipline contribuiscono in modo significativo ad aumentare quel requisito che è forse il più importante per l’investitore (più importante del carico fiscale nominale): la certezza del diritto, la pianificabilità del costo fiscale e la certezza e prevedibilità del comportamento dell’Amministrazione finanziaria.

Siegfried Mayr

(1) In Boll. Trib. On-line.

(2) Cfr. Corte Giust. UE, sez. II, 12 giugno 2014, cause riunite C-39/13, C-40/13 e C-41/13, in Boll. Trib. On-line.

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