29 Maggio, 2013

sommario: 1.Premessa – 2. Introduzione al problema – 3.La sentenza n. 38753/2012 – 4. I principi affermati dalla Cassazione – 5.“Abnormità” del provvedimento del GIP– 6. Sulla validità dell’acquisizione della documentazione a rilevanza fiscale7.Conclusioni della sentenza n. 38753/2012 – 8.Orientamenti di merito.
 
1.Premessa
 
L’avvento del fenomeno della “globalizzazione” ha comportato la necessità per i Governi e le Amministrazioni finanziarie dei vari Paesi di intensificare il contrasto all’evasione e all’elusione fiscale internazionale con un intervento congiunto.
I singoli Stati hanno così acconsentito a limitare la propria sovranità per stimolare l’introduzione di regole fiscali comuni e limitare la patologica riduzione del gettito fiscale. L’acquisita consapevolezza dell’impotenza del singolo Stato di fronte a tipologie di reddito derivanti da fattori volatili e ad atti economicamente rilevanti e produttivi di effetti oltre i confini di un unico Paese ha creato le condizioni per lo sviluppo della c.d. cooperazione internazionale.
La cooperazione internazionale si sostanzia nell’attività coordinata, ma distinta, di organi interni di due o più Stati, che mirano di volta in volta ad adattare i fini di uno di essi indifferentemente, fini che trovano rispondenza negli analoghi degli altri, aventi egualmente diritto alla loro attuazione. La collaborazione deve realizzarsi attraverso una disciplina comune che permetta ai singoli Stati, nell’ambito dell’accertamento quanto della riscossione delle imposte oltre i propri confini, di esigere assistenza dagli altri Stati. Le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sottoscritte dall’Italia, come noto, sono ispirate al Modello OCSE. La principale fonte di regolamentazione è l’art. 26 di tale Modello.
La violazione delle norme riguardanti la cooperazione internazionale in materia di scambio di informazioni comporta, in generale, che il dato assunto non possa essere acquisito e utilizzato per la contestazione all’interessato, soprattutto laddove il materiale abbia una provenienza non lecita in quanto ottenuto in violazione di disposizioni a danno degli interessati. Le informazioni ottenute per il tramite di procedure di scambio di informazioni risultano utilizzabili in processi di altri Stati solo allorché tale facoltà sia esercitata nel rispetto delle procedure previste. Il contribuente eventualmente sottoposto a indagine deve, infatti, essere messo in condizione di far valere i propri diritti e interessi sia in seno alla procedura di richiesta e acquisizione dei dati da parte di uno dei due Stati, sia in quella del successivo utilizzo dei medesimi da parte dell’autorità richiedente.
Gli accordi internazionali che disciplinano gli strumenti di cooperazione stanno progressivamente aumentando e crescendo nell’intensità, dando luogo a un numero sempre maggiore di richieste da parte delle Amministrazioni fiscali, sia nei rapporti tra i diversi Stati membri dell’Unione europea sia nei rapporti con gli Stati terzi.
In ambito comunitario, in particolare, nell’era della globalizzazione, la necessità per gli Stati membri di prestarsi assistenza reciproca nel settore della fiscalità si fa infatti sempre più pressante. Per questo motivo uno Stato membro non può gestire il proprio sistema fiscale interno, soprattutto per quanto riguarda la fiscalità diretta, senza ricevere informazioni da altri Stati membri. Per ovviare agli effetti negativi di questo fenomeno è indispensabile mettere a punto una nuova cooperazione amministrativa tra le Amministrazioni fiscali dei diversi Stati membri. È necessario disporre di strumenti atti a instaurare la fiducia fra gli Stati membri mediante l’istituzione delle stesse norme e degli stessi obblighi e diritti per tutti gli Stati membri.
Un importante passo in avanti in questa direzione è stato fatto con l’approvazione della Direttiva 2011/16/UE del 15 febbraio 2011, la cui entrata in vigore, prevista per il 1° gennaio 2013, dovrebbe aumentare radicalmente la capacità di indagine delle Amministrazioni fiscali degli Stati membri agendo su due fondamentali vettori:
a) in primo luogo, ogni Stato membro dovrà fornire la cooperazione richiesta da un altro Stato membro nella stessa misura in cui è impegnato a darla a uno Stato terzo;
b) in secondo luogo, allo scopo di evitare restrizioni che possano favorire l’evasione fiscale nella UE, l’assistenza non può essere rifiutata soltanto perché l’informazione è detenuta presso un’istituzione finanziaria quando questa informazione riguarda un contribuente residente nello Stato membro che la richiede.
Occorre aggiungere ancora che, diversamente dalla Direttiva 2011/16/UE, il citato art. 26 del Modello OCSE prevede che l’accesso alle informazioni bancarie è consentito soltanto se la norma nazionale del Paese destinatario della richiesta lo ammette nel caso specifico. Inoltre, è fatto salvo il rispetto della procedura nazionale. Pertanto, per accedere alle informazioni potrebbe essere necessario attivare un procedimento giudiziario o amministrativo, purché la relativa procedura non sia talmente gravosa o dilatoria da sostanziarsi in un impedimento per lo Stato richiedente.
È infine da segnalare il recente ma sempre più vasto fenomeno delle cosiddette “liste” (elenchi di contribuenti che risultano titolari di disponibilità, partecipazioni o altri investimenti finanziari presso istituti di credito di Stati o territori a bassa fiscalità), che già sta generando un notevole contenzioso con riferimento alla legittimità delle attività di acquisizione e di delibazione di questi elementi di prova, che vengono acquisiti con modalità non sempre lineari dagli Stati di residenza. Infatti, non sempre le “liste” in questione sono state acquisite nel corso di regolari indagini; talvolta l’acquisizione è frutto di accordi onerosi con funzionari infedeli che hanno violato i loro obblighi.
In questo contesto si innesta la vicenda in trattazione.
 
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2.Introduzione al problema
 
Con l’annotata sentenza la Terza Sezionepenale della Corte di Cassazione ha affrontato seppure non direttamente, come vedremo, per la prima volta il dibattuto tema della possibilità di utilizzare le informazioni contenute nella c.d. “Lista Falciani”, e ha sostanzialmente sostenuto che se non vi è la prova oggettiva della loro iniziale acquisizione illecita spetta al giudice del dibattimento pronunciarsi sull’eventuale inutilizzabilità delle informazione contenute nella lista stessa.
La vicenda che ruota intorno alla Lista Falciani – contenente un insieme di informazioni su conti correnti e relativi nominativi di investitori all’estero – si riferisce alla sottrazione di dati della HSBC Private Bank di Ginevra da parte di un dipendente dell’istituto, Hervè Falcianì, i quali sono stati successivamente sequestrati dalle Autorità francesi e trasmessi alle Autorità fiscali di altri Stati.
Si trattava, in particolare, di “schede di sintesi individuale” (c.d. fiche) dalle quali emergeva l’esistenza di disponibilità finanziarie nella titolarità dell’imputato nel processo penale italiano presso l’HSBC Private Bank di Ginevra, consegnate dalle Autorità francesi alla Guardia di finanza e alla magistratura italiana, in ottemperanza alla Direttiva 77/799/CEE del Consiglio del 19 dicembre 1977 – come modificata dalle Direttive 2003/93/CE del Consiglio, del 7 ottobre 2003 e 2004/56/CE del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa alla reciproca assistenza fra le Autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette.
La Direttiva77/799/CEE prevede espressamente che le modalità acquisitive delle informazioni oggetto di scambio, relative a cittadini residenti in un Paese UE, devono uniformarsi alla legislazione vigente nello Stato di residenza del contribuente, specie per quanto attiene ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi degli interessati, con il conseguente obbligo dello Stato contraente di informare il proprio cittadino qualora vengano richieste informazioni che lo riguardano. Il contribuente sottoposto a indagine deve infatti essere messo in condizione di far valere i propri diritti e interessi sia in seno alla procedura di richiesta e acquisizione dei dati da parte di uno dei due Stati, sia anche in quella del successivo utilizzo dei medesimi da parte dell’Autorità richiedente. Il poter disporre di informazioni dei rapporti intrattenuti da un cittadino, in altro Stato, postula il corretto impiego degli accordi che regolano i rapporti tra i due Paesi.
La Corted’Appello di Parigi, che si è pronunciata sull’argomento, con sentenza 8 febbraio 2011, n. 104-145.7, ha dichiarato l’inutilizzabilità dei documenti in possesso dell’Amministrazione finanziaria francese, in quanto ottenuti illegalmente, sancendo così l’illegalità ab origine delle informazioni trasmesse dalla Procura di Nizza in quanto ottenute illegalmente da parte delle Autorità tributarie francesi. La decisione è stata poi confermata dalla Cassazione francese perché l’Amministrazione fiscale è entrata in possesso della lista ben prima che fosse trasmessa da parte dell’Autorità giudiziaria di Nizza, utilizzando dati “trafugati” per condurre le indagini. Di conseguenza le prove raccolte sono state ritenute illecite.
La pronunce giurisdizionali citate pongono in evidenza il problema dell’utilizzabilità o meno della documentazione acquisita non solo da parte delle Autorità fiscali francesi ma anche da parte delle altre Autorità fiscali europee (tra cui quella italiana, che ha acquisito i documenti tramite rogatoria internazionale) alle quali tali informazioni sono state trasmesse.
A questo riguardo va sottolineato che tanto le Convenzioni quanto le norme del diritto derivato europeo che disciplinano lo scambio non contengono un’esplicita disciplina del fenomeno rinviando, tutt’al più, alle norme nazionali.
Una vicenda analoga alla Lista Falciani si era verificata con la c.d. lista di Vaduz [1], relativa a conti correnti di un istituto bancario del Liechtenstein. Sulla base di alcune pronunce, come si vedrà nel prosieguo, i dati contenuti nella lista sono stati ritenuti inutilizzabili a causa del metodo di acquisizione non conforme alle norme (la lista infatti è stata “trafugata” dal tecnico informatico) e non possono avere valenza alcuna, nemmeno indiziaria; altre pronunce, invece, hanno sancito la piena legittimità poiché le categorie proprie del processo penale, secondo cui elementi probatori acquisiti in violazione dei divieti stabiliti dalla legge sono inutilizzabili dal punto di vista processuale, non possono essere pedissequamente trasposte nel giudizio tributario (non c’è alcun diritto del contribuente italiano alla segretezza di un conto bancario estero non dichiarato e l’acquisizione dei dati, comunque, non è avvenuta in violazione di norme italiane né tanto meno ad opera dell’Amministrazione fiscale italiana).
 
3.La sentenza n. 38753/2012
 
Nel corso di un procedimento penale a carico di un contribuente incluso nella riferita Lista Falciani, imputato del reato di presentazione di dichiarazione infedele cui all’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Como ha respinto la richiesta del Pubblico Ministero di dare seguito alla procedura incidentale prevista dall’art. 240 c.p.p. di disporne la distruzione di documenti anonimi e atti relativi a intercettazioni illegali. Infatti, come espressamente ricordato dalla Suprema Corte, «la competenza a provvedere sulle istanze del Pubblico Ministero in ordine alla distruzione del materiale indicato nell’art. 240 c.p.p., e quindi anche dei documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni, spetta al giudice delle indagini preliminari, come dispone testualmente la norma stessa».
In accoglimento di un’eccezione della difesa di distruggere parte dei documenti trasmessi dall’Amministrazione finanziaria francese alla Guardia di finanza, il Tribunale monocratico aveva dichiarato l’inutilizzabilità di taluni documenti allegati al processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza e acquisiti al fascicolo dibattimentale, disponendo la distruzione degli stessi ad opera del Pubblico Ministero, trattandosi di documenti acquisiti – secondo la tesi difensiva dell’imputato – illegalmente.
Come noto, ai sensi dell’art. 240 c.p.p., il Pubblico Ministero provvede all’immediata secretazione e alla custodia in luogo protetto dei documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni ed entro quarantotto ore chiede al giudice delle indagini preliminari di disporne la distruzione.
Ebbene, nel caso di specie il GIP rigettava la richiesta di distruzione formulata del P.M., evidenziando l’assenza di prova circa l’origine illecita degli atti, e osservando altresì che l’eventuale illiceità di detta acquisizione non comporterebbe anche l’automatica illiceità dell’acquisizione da parte dell’Amministrazione finanziaria italiana attraverso le procedure di cooperazione internazionale, in applicazione della Direttiva 77/799/CEE e della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia stipulata stipulata nel 1989 e ratificata con legge 7 gennaio 1992, n. 20.
A questo punto la vicenda è approdata in Cassazione, con il cui ricorso è stata dedotta l’abnormità del provvedimento impugnato e l’inosservanza ed erronea applicazione di norme processuali stabilite a pena di nullità (relative a prove acquisite illegittimamente in relazione a documenti anonimi e atti relativi a intercettazioni illegali), nonché contraddittorietà e illogicità della motivazione.
In particolare, l’imputato ha censurato il provvedimento impugnato sulla base dei seguenti assunti:
a) il provvedimento era abnorme e affetto da vizio di ultrapetizione perché in sede dibattimentale il Tribunale di Como aveva già ordinato la distruzione della documentazione di formazione illecita, sicché si era determinato un insanabile contrasto di decisioni e un’irreversibile paralisi della procedura incidentale che tentava di sanare ex post le conseguenze che la decisione del Tribunale aveva prodotto;
b) il provvedimento era inficiato da violazione di legge processuale ex artt. 568 e 240 c.p.p., perché già esisteva un provvedimento esecutivo di distruzione emesso dal Tribunale monocratico, per cui il giudice per le indagini preliminari aveva agito come giudice di appello in spregio al principio di tassatività di cui all’art. 568 c.p.p., e dell’art. 240 c.p.p., che non prevede l’appellabilità di tale provvedimento;
c) il giudice interpretava il contenuto dell’ordinanza del Tribunale monocratico come relativa all’inutilizzabilità della documentazione mentre invece il provvedimento aveva disposto la distruzione, con ciò violando gli artt. 191 e 240 c.p.p., e denotando contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione atteso che lo stesso giudice per le indagini preliminari aveva dato atto che al Tribunale monocratico era stata richiesta l’attivazione della procedura prevista per la distruzione dei documenti e che il Tribunale aveva disposto la distruzione a cura del Pubblico Ministero, facendo solo per mero errore materiale riferimento alla categoria della inutilizzabilità.
 
4.I principi affermati dalla Cassazione
 
Decidendo la vertenza, con la sentenza 4 ottobre 2012, n. 38753,la Cortedi Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso, affermando i seguenti principi di diritto:
«La competenza a provvedere sulle istanze del Pubblico Ministero in ordine alla distruzione del materiale indicato nell’art. 240 cod. proc. pen. e, quindi, dei documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni, spetta al giudice per le indagini preliminari».
Le notizie comunicate al Pubblico Ministero sul possesso di disponibilità estere acquisite dall’Amministrazione finanziaria non possono essere distrutte nel corso del procedimento penale se non vi è prova dell’illiceità delle modalità di acquisizione».
La Suprema Corteha in tal modo avallato il giudizio emesso dal GIP nell’ordinanza impugnata con la quale ha rilevato di non poter sanzionare in alcun modo i metodi illeciti che hanno permesso l’acquisizione della lista, fintanto che agli atti del processo non vi siano prove della lamentata illiceità.
Ripercorrendo lo svolgimento delle fasi processuali della contesa in narrativa, il giudice di legittimità ha posto l’accento – quale punto di partenza delle argomentazioni esegetiche – sulle due richieste formulate nel corso del dibattimento dal difensore dell’imputato, ossia:
a) con la prima, principale, aveva chiesto che fosse  avviata la procedura di distruzione di alcuni documenti, nonché del verbale basato sugli stessi documenti;
b) con la seconda, subordinata, aveva chiesto l’espunzione dal fascicolo del dibattimento di alcuni fogli della documentazione acquisita agli atti.
Il GIP, accogliendo integralmente la richiesta formulata in via subordinata, ha disposto che i fogli in questione dovessero essere stornati dal fascicolo e restituiti al Pubblico Ministero e, relativamente alla documentazione oggetto della richiesta principale, aveva ritenuto fondata l’eccezione di inutilizzabilità, disponendo che il Pubblico Ministero procedesse alla distruzione delle pagine di cui trattasi.
In merito allo svolgimento delle riferite scansioni processuali,la Sezione Penaleosserva che, contrariamente a quanto preteso dal ricorrente, il GIP non è affatto incorso nel denunciato vizio di ultrapetizione considerato che l’istanza a lui diretta dal Pubblico Ministero era volta proprio a dare corso alla procedura di cui all’art. 240 c.p.p., che prevede una previa valutazione della sussistenza dei presupposti (formazione illegale dei documenti).
Infatti, a norma del quinto comma dell’art. 240 c.p.p., nell’udienza in camera di consiglio (art. 127 c.p.p.) il GIP, sentite le parti comparse, legge il provvedimento in udienza e, «nel caso ritenga sussistenti i presupposti di cui al comma 2», dispone la distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti di cui al medesimo secondo comma e vi dà immediata esecuzione alla presenza del Pubblico Ministero e dei difensori delle parti.
La Sezione Penalecontinua nel proprio percorso esegetico escludendo ogni profilo di contraddittorietà di decisioni nell’ordinanza contestata, perché dalla lettura dei due provvedimenti si evince che il giudice del dibattimento, a differenza del GIP, non aveva provveduto direttamente sull’istanza di distruzione dei documenti, avendo accolto la richiesta subordinata dell’imputato dell’espunzione dal fascicolo di alcuni fogli della documentazione acquisita agli atti, essendosi invece limitato a ritenere fondata l’eccezione di inutilizzabilità – eccezione che logicamente è sempre compresa in quella finalizzata alla distruzione – tant’è che contestualmente ha incaricato il Pubblico Ministero di procedere, in un secondo momento, alla distruzione dei documenti di cui trattasi: se il giudice del dibattimento avesse provveduto direttamente sull’istanza di distruzione vi avrebbe dato corso immediatamente alla presenza delle parti secondo le particolari formalità previste dall’art. 240 c.p.p.
5.Abnormità” del provvedimento del GIP
 
la Cortedi Cassazione, quanto alla censurata “abnormità” del provvedimento del GIP, ha escluso che lo stesso potesse essere ritenuto tale, nella considerazione che, siccome il Tribunale monocratico con ordinanza resa all’udienza dibattimentale aveva disposto che il Pubblico Ministero procedesse alla distruzione di parte della documentazione asseritamente inutilizzabile, ordinando di fatto il compimento di un’attività istruttoria non prevista da alcuna disposizione processuale, e considerato altresì che il Pubblico Ministero non vi ha provveduto, ma ha invece ritenuto di investire a sua volta il GIP competente, è evidente che nessuna stasi nell’attività processuale si è verificata per effetto dell’ordinanza impugnata. Da ciò l’insussistenza dell’abnormità del provvedimento impugnato.
A questo riguardo occorre infatti rilevare che la giurisprudenza di legittimità [2] ha affermato che «è affetto da abnormità, non soltanto il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale ma, altresì, quello che, pur essendo in astratto espressione di un legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti o delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite».
Alla stregua della definizione della categoria dell’abnormità elaborata dalla giurisprudenza, nella sua duplice connotazione di “abnormità in senso strutturale” e di “abnormità in senso funzionale”, l’atto processuale:
a) nel primo caso si pone – per la sua eccentricità – radicalmente al di fuori del sistema processuale;
b) nel secondo, pur non potendosi considerare estraneo al sistema, determini la stasi irrisolubile del processo o del procedimento e l’impossibilità di proseguirlo [3].
La Cortedi Cassazione ha ritenuto altresì infondato anche il motivo del ricorso esplicitato nella sua plurima articolazione di inosservanza di norme processuali e contraddittorietà e illogicità della motivazione. Ciò in quanto non si era verificata alcuna violazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione [art. 606, primo comma, lett. c), c.p.p.] perché il Pubblico Ministero ha semplicemente proposto l’istanza di cui all’art. 240 c.p.p. ma non un’impugnazione nei confronti dell’ordinanza del Tribunale monocratico. Di conseguenza il GIP ha esplicitato la sua funzione demandatagli dalla legge decidendo la questione sulla base degli atti in suo possesso senza procedere in alcun modo al riesame del provvedimento del Tribunale monocratico (nel qual caso si sarebbe verificata la paventata violazione).
l’ordinanza del GIP non è stata parimenti ritenuta  affetta da contraddittorietà e/o illogicità della motivazione perché il Tribunale monocratico aveva considerato solo il profilo dell’inutilizzabilità dei documenti di cui trattasi, non essendo vincolato (iura novit curia) alla richiesta di avvio della procedura di distruzione contenuta nella richiesta principale avanzata dalla difesa dell’imputato.
 
6.Sulla validità dell’acquisizione della documentazione a rilevanza fiscale
 
Per quanto concerne la questione centrale della vicenda, ossia la censurata violazione degli artt. 191 e 240 c.p.p., in riferimento ai rapporti tra l’acquisizione di documenti avvenuta in uno Stato estero e la successiva trasmissione all’Autorità giudiziaria italiana attraverso i regolari canali della cooperazione internazionale, il giudice di legittimità ha osservato che dall’impugnato provvedimento emergeva che i fatti all’origine del procedimento erano conseguenti alla trasmissione alle Autorità fiscali nazionali di dati e notizie da parte dell’Amministrazione fiscale francese attraverso i canali della collaborazione informativa internazionale prevista dalla Direttiva n. 77/799/CE e della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia del 1989.
Dalla documentazione trasmessa e, in particolare, dalle schede di sintesi individuale (fiche) di cui si chiedeva la distruzione, è emersa l’esistenza di disponibilità finanziarie nella titolarità del contribuente/imputato, di cui si deduceva che le somme oggetto di deposito presso l’HSBC private Bank di Ginevra fossero proventi di redditi sottratti all’imposizione fiscale in Italia in modo tale da integrare il reato di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, il quale prevede che è punito con la reclusione chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente (a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro cinquantamila e (b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro due milioni.
Così ricostruita l’intera vicenda amministrativa,la Suprema Corteha affermato che la ventilata violazione dell’art. 191 c.p.p. – in base al quale le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate – non sussiste perché nell’impugnato provvedimento del GIP viene espressamente fatta salva la possibilità di ritenere tali documenti inutilizzabili in dibattimento qualora risulti illegittima l’acquisizione.
Vengono quindi condivise le argomentazioni del giudice per le indagini preliminari nella parte in cui ha evidenziato che si dà per scontata l’illiceità dell’acquisizione documentale sulla base di atti che invece non risultano nel procedimento. Da ciò ne consegue che non è stata raggiunta la certezza della prova dell’illegalità della raccolta documentale all’estero.
Occorre considerare che la distruzione dei documenti sacrifica senz’altro l’interesse al completo accertamento dei reati per i quali si procede, poiché i semplici verbali delle operazioni di distruzione non possono consentire un pieno dispiegamento delle facoltà probatorie delle parti. A tale proposito, peraltro, la Corte Costituzionale[4] – nella declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 240, commi quarto e quinto, c.p.p., nella parte in cui non prevede, per la disciplina del contraddittorio, l’applicazione dell’art. 401, commi primo e secondo, c.p.p., e del sesto comma della norma de qua nella parte in cui non esclude dal divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti, supporti e atti, nella redazione del verbale previsto dalla stessa norma, le circostanze inerenti l’attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi documenti, supporti e atti – ha sottolineato che la distruzione dei documenti appare come un rimedio d’emergenza da azionare contro indebite diffusioni di informazioni riservate.
Quanto evidenziato dal giudice di legittimità appare particolarmente importante e concerne proprio la questione fondamentale dell’intera vicenda: nella fattispecie de qua non è in discussione la possibilità di acquisire gli atti attraverso i canali di cooperazione internazionale fiscale (i quali espressamente prevedono l’utilizzo anche in sede giudiziaria delle informazioni pervenute dalle Amministrazioni estere), ma la loro provenienza illecita. Non è ipotizzabile, in altre parole, per il solo fatto che l’Amministrazione estera invii notizie a quella italiana per il tramite dei previsti canali informativi, che gli atti diventino di per sé utilizzabili, ancorché provengano da fatti illeciti. Si tratta, allora, come evidenziato nell’annotata sentenza, di far risultare dagli atti del procedimento che effettivamente, all’origine, le informazioni sono state acquisite illecitamente. Circostanza, questa, obiettivamente non facile da documentare in Italia.
 
7.Conclusioni della sentenza n. 38753/2012
 
Quanto alla denunciata contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, la Suprema Corteha considerato che il percorso argomentativo del giudice del merito non apparisse affatto contraddittorio o illogico in quanto aveva considerato esclusivamente la documentazione presente negli atti del fascicolo tralasciando altre fonti “informali”, quali articoli di stampa, decisioni di altri giudicanti, ecc., osservando sotto quest’ultimo profilo che detti provvedimenti danno per scontata l’illiceità della acquisizione di documenti sulla base di atti che non risultano mai confluiti nel procedimento in corso. In altre parole, giornali, commenti critici e quant’altro non sono elementi probatori sufficienti affinché il giudice possa dichiarare inutilizzabile la lista de qua, perché non è stata prodotta e raggiunta la prova processuale dalla genetica illegittimità di tali informazioni di fonte estera.
Giova qui ribadire che la funzione dell’indagine di legittimità sulla motivazione non è quella di sindacare l’intrinseca attendibilità dei risultati dell’interpretazione delle prove e di attingere il merito dell’analisi ricostruttiva dei fatti, bensì quella, del tutto diversa, di accertare se gli elementi probatori posti a base della decisione siano stati assunti, acquisiti e valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate, che rendano giustificate, sul piano della conseguenzialità, le conclusioni tratte, verificando la congruenza dei passaggi logici [5].
A questo riguardo è opportuno ricordare che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente analizzato e descritto le coordinate e i limiti entro cui deve svolgersi il controllo sulla motivazione dei provvedimenti giudiziali [6]. In particolare è stato chiarito che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato è – per espressa disposizione legislativa – rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il “senso della realtà” degli appartenenti alla collettività ed esenti da vistose e insormontabili incongruenze tra di loro.
Occorre inoltre che la motivazione non sia logicamente inconciliabile con “atti del processo” specificamente indicati e rappresentati dal ricorrente – che siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione; in altri termini – in aderenza alla previsione normativa che attribuisce rilievo solo al vizio della motivazione che risulti “dal testo del provvedimento impugnato” o da “altri atti del processo” specificamente indicati e rappresentati nei motivi di gravame – il controllo di legittimità si appunta sulla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l’oggettiva “tenuta” sotto il profilo logico-argomentativo e, tramite questo controllo, anche l’accettabilità da parte di un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento e da osservatori disinteressati della vicenda processuale [7]. Al giudice di legittimità è invece preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti rispetto a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa).
Sulla base delle considerazioni che precedono, nel caso di specie il GIP ha ritenuto non raggiunta con certezza la prova della illegalità della raccolta documentale, oggetto del processo, all’estero, assunto che ora viene confermato dalla Suprema Corte.
Da qui la condivisione da parte della Suprema Corte delle argomentazioni del giudice di merito, nella parte in cui si era evidenziato come il Tribunale monocratico avesse dato per scontato l’illecita acquisizione documentale avvenuta all’estero ad opera delle Autorità fiscali francesi sulla base di elementi probatori in realtà mai confluiti nel procedimento italiano, con conseguente incertezza dell’illegalità della supposta raccolta documentale all’estero.
L’insegnamento che si ricava dai sopra esposti assunti è che, quindi, le notizie comunicate al Pubblico Ministero sul possesso di disponibilità estere acquisite dal fisco italiano non possono essere distrutte nel corso del procedimento penale se non vi sia prova processuale della loro iniziale acquisizione illecita. Sarà il giudice nel corso del dibattimento a valutarne l’utilizzabilità.
 
8.Orientamenti di merito
 
Relativamente all’argomento trattato, occorre in conclusione ricordare due interventi della giurisprudenza di merito di segno opposto.
La prima è il decreto del GIP del Tribunale di Pinerolo del 4 ottobre 2011 [8], emesso a proposito della lista Falciani, nelle cui motivazioni è stato sostanzialmente osservato che «non sono suscettibili di utilizzazione dati ed elementi rinvenuti nel contesto di documenti illegittimamente sottratti e gli eventuali documenti sottratti devono essere distrutti».
Il GIP di Pinerolo ha archiviato il procedimento avviato nei confronti di un supposto evasore fiscale contenuto nella lista Falciani, al fine di accertare se le somme depositate dall’indagato presso la HSBC fossero proventi di redditi sottratti all’imposizione fiscale e tali da integrare il reato di cui all’art. 4 (Dichiarazione infedele) o all’art. 5 (Omessa dichiarazione) del D.Lgs. n. 74/2000.
Il giudice adìto, constatando che l’investigazione difensiva si basava su un dato processualmente inutilizzabile (ex art. 240, secondo comma, c.p.p.), frutto non soltanto di un’appropriazione indebita aggravata di documenti di cui agli artt. 646 e 61, primo comma, n. 11, c.p., ma anche e soprattutto formato attraverso la “raccolta illecita di informazioni” ai sensi dell’art. 615-ter c.p. – trattandosi della stampa di file contenuti in un sistema informatico riservato, nel quale il Falciani si era abusivamente introdotto [9].
Secondo quanto si legge nel decreto di archiviazione del GIP, atteso che il funzionario tecnico si era abusivamente introdotto nei computer della HSBC rendendosi colpevole del reato di “accesso abusivo a sistema informatico” e di “appropriazione indebita”, i documenti della lista illecitamente acquisiti dovevano considerarsi inutilizzabili. La lista Falciani non sarebbe pertanto utilizzabile in Italia in quanto frutto di autonome fattispecie di reato previste dalla normativa penale italiana, e, ai sensi dell’art. 240, secondo comma, c.p.p., dovrebbe essere confiscata dalla competente Autorità italiana. Inoltre, aderendo a quanto prospettato dal P.M. procedente, il Tribunale di Pinerolo ha ritenuto altresì applicabile il disposto di cui al terzo comma dell’art. 240 c.p.p., e ha, pertanto, ordinato la distruzione della lista stessa a cura del P.M., anziché seguire le forme dell’incidente probatorio. Sul punto, gli stessi P.M. convenivano con la difesa sulla natura illegale dei documenti acquisiti.
Al contrario, con l’ordinanza 15 dicembre 2011 [10], concernente la lista Vaduz, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, escludendo la necessità di tutelare la riservatezza dell’indagato e riconoscendo invece la legittimità dell’acquisizione documentale da parte dell’Autorità amministrativa italiana, ha rigettato la richiesta di distruzione di alcuni documenti trasmessi dall’Agenzia delle entrate con la comunicazione della notizia di reato.
In particolare, i documenti oggetto del procedimento incidentale, che fanno parte del materiale contenuto nella lista Vaduz, come per la fattispecie della lista Falciani, erano stati ricevuti dall’Agenzia delle entrate nell’ambito della cooperazione amministrativa nel settore fiscale. Il Pubblico Ministero, dunque, in seguito all’istanza dell’indagato, aveva attivato la procedura di distruzione, ex art. 240 c.p.p., in quanto tali materiali permetterebbero di individuare le società, riconducibili allo stesso indagato o ai suoi familiari, attraverso le quali sarebbe stato costituito uno “schermo” per sottrarre beni all’imposizione italiana.
Di conseguenza, il giudice procedente di Milano, con la citata ordinanza ha osservato che non si sono verificate formazioni o acquisizioni di documenti illegali (ovvero illecite) secondo l’ordinamento italiano. L’illiceità della raccolta dei documenti avvenuta in Liechtenstein non si riverbera sulla successiva acquisizione delle informazioni da parte dell’Amministrazione italiana nell’ambito della cooperazione internazionale. Il trattamento dei documenti, per cui è stata richiesta la distruzione, infatti, non potrebbe essere sanzionato, ai sensi degli artt. 167 e segg. codice privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196), in quanto estraneo all’ambito di applicazione della disciplina sulla riservatezza così come definito dall’art. 5 del codice medesimo. D’altra parte, la raccolta delle informazioni ricevute dall’Agenzia delle entrate nell’ambito della cooperazione internazionale non può integrare una raccolta illegale, poiché si potrebbe teoricamente prospettare il paradossale risultato di ritenere l’Autorità amministrativa italiana, qualora venga ordinata la distruzione dei documenti, responsabile del reato previsto dall’art. 3 del D.L. 22 settembre 2006, n. 259, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2006, n. 281, che punisce chiunque consapevolmente detiene gli atti, i supporti o i documenti di cui sia stata disposta la distruzione ai sensi dell’art. 240 c.p.p. con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni.
In conclusione, la documentazione oggetto della procedura incidentale risulta essere il frutto di un trattamento lecito per il diritto italiano con l’unico limite della inutilizzabilità nel procedimento penale dei materiali trasmessi all’Autorità amministrativa nazionale, derivante dalla Direttiva 77/799/CEE e dalle leggi di ratifica delle Convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio, stipulate dall’Italia con Regno Unito e Australia.
L’astratta liceità della procedura di raccolta delle informazioni contenute nei documenti oggetto del procedimento incidentale, ex art. 240 c.p.p., sarebbe sufficiente a ritenere corretta la restituzione degli atti al Pubblico Ministero; tuttavia, il giudice nell’ordinanza annotata svolge un’ulteriore considerazione, affermando che il presunto diritto alla privatezza dell’imputato deve nel caso in esame cedere il passo alla necessità di accertamento delle violazioni fiscali, effettuate tramite allocazione di redditi e cespiti in Paesi off-shore o comunque a regime fiscale agevolato.
 

Dott. Salvatore servidio

 
 
 
 



[1] Il testo integrale della sentenza di Cass., sez. III pen., 4 ottobre 2012, n. 38753, è pubblicata in questo stesso fascicolo a pag. 396.
 
[2] Cfr. per tutte Cass. 19 marzo 2012, n. 10744, in Boll. Trib. On-line; per una diversa fattispecie di convalida di perquisizione ricorribile per Cassazione se il decreto risulta abnorme, ved. Cass., sez. VI pen., 27 novembre 2012, n. 46250, ivi.
[3] Cass., sez. un. pen., 23 aprile 2004, nn. 19289-19290, in Boll. Trib. On-line.
[4] Corte Cost. 11 giugno 2009, n. 173, in Giur. costit., 2009, 3536.
 
[5] Cass., sez. I pen., 13 ottobre 2010, n. 39259, in Rep. Foro it., 2011, prova penale (5320), n. 34.
[6] Cfr. al riguardo, Cass., sez. un., 29 gennaio 1996, n. 930; Cass. 2 luglio 1997, n. 6402; Cass. 4 gennaio 2000, n. 12; Cass., sez. VI pen., 15 marzo 2006, n. 10951; e Cass. 24 marzo 2006, n. 14054; tutte in Boll. Trib. On-line.
[7] Cass., sez. VI, 6 giugno 2006, n. 23528, in Boll. Trib. On-line.; cfr. anche Cass., sez. un., 26 maggio 2009, n. 12110, in Boll. Trib., 2009, 1144, con nota di f. brighenti, Sezioni Unite: agenti di commercio e promotori finanziari esonerati dall’IRAP se non sono autonomamente organizzati.
 
[8] In Boll. Trib., 2012, 1711, con nota di s. servidio, La “Lista Falciani” e l’accertamento tributario.
[9] Cfr. Cass., sez. V pen., 18 gennaio 2011, n. 24583, in Giur. it., 2012, 683, secondo cui «integra il delitto previsto dall’art. 615 ter cod. pen. non solo la condotta di colui che si introduca abusivamente in un sistema informatico protetto, ma altresì quella di chi, pur autorizzato ad accedervi, vi si trattenga, contro la volontà espressa o tacita di chi abbia il diritto di escluderlo, per finalità diverse da quelle per le quali era stato abilitato», ha decretato l’immediata archiviazione del procedimento penale nei confronti del contribuente.
[10] Cfr. Trib. Milano 15 dicembre 2011, in Boll. Trib., 2012, 896.
 

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