29 Maggio, 2013

IRPEF – Redditi di lavoro dipendente – Stock option – Determinazione della normativa applicabile – Rileva il momento di esercizio dell’opzione e non quello di assegnazione.

Al fine della corretta individuazione della disciplina di tassazione applicabile alle stock options assegnate a lavoratori dipendenti dal datore di lavoro è necessario distinguere i due momenti della assegnazione del diritto di opzione, da un lato, e quello di esercizio dello stesso e, dunque, dell’effettiva assegnazione dei rispettivi titoli, dall’altro, e considerato che le azioni entrano a far parte del patrimonio del dipendente solo nel momento in cui l’opzione venga esercitata o ceduta, la disciplina applicabile va individuata in quella vigente al momento di tale esercizio; infatti, la disposizione contenuta nell’art. 48, secondo comma, lett. g-bis), del TUIR, aggiunta dall’art. 13, primo comma, lett. b), del D.Lgs. 23 dicembre 1999, n. 505, relativa ai criteri di tassazione delle cosiddette “stock options”, si applica in base al secondo comma del predetto art. 13, adecorrere dal 1° gennaio 2000, e, quindi, alle assegnazioni dei titoli avvenute dopo tale data, indipendentemente dal momento in cui sia stata offerta l’opzione.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Merone, rel. Valitutti), 25 luglio 2012, ord. n. 13088, ric. agenzia delle entrate]

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSOMOTIVI DELLA DECISIONELa Corte:

rilevato che, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“Con la sentenza n. 27/40/06 la CTRdella Lombardia accoglieva l’appello, proposto dalla contribuente, avverso la sentenza della CTP di Milano con la quale era rigettato il ricorso della stessa avverso il silenzio rifiuto dell’Amministrazione finanziaria riguardo l’istanza di rimborso di ritenuta IRPEF richiesta in quanto a dire della contribuente indebitamente operata dalla Nokia Italia sulle plusvalenze realizzate nell’anno d’imposta 2001, in conseguenza della vendita di opzioni su azioni assegnate in base ad un piano di stock options . A fondamento della decisione della CTR vi è la ritenuta impossibilità di applicare il regime introdotto con il D.Lgs. n. 505/1999, alle assegnazioni di titoli avvenute prima del 1° gennaio 1998, come nel caso de quo.

Contro la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, articolando un solo motivo con il quale viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 48, comma 2, lett. g-bis) del TUIR, così come modificato dall’art. 13 D.Lgs. n. 505/1999, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.

Il ricorso a parere del relatore è fondato.

In materia di plusvalenze realizzate attraverso l’esercizio del diritto di opzione su stock options assegnate a lavoratori dipendenti dal proprio datore di lavoro, si sono succeduti diversi regimi, il primo disposto dall’art. 48, comma 3, D.P.R. n. 917/1986 secondo cui l’assoggettabilità a tassazione delle plusvalenze relative alle stock options era legato al presupposto dell’esistenza di un “costo specifico” , un secondo regime introdotto dall’art. 3 D.Lgs. n. 314/1997, che ha novellato l’art. 48 D.Lgs. n. 917/1986 con il quale veniva rimosso il presupposto del costo specifico ed introdotto uno diverso regime di tassazione delle plusvalenze , ed infine un terzo regime disposto dall’art. 13 D.Lgs. n. 505/1999, che ha nuovamente modificato l’art. 48, alle lett. g) e g-bis), D.Lgs. n. 917/1986. Con quest’ultima novella è stabilito un principio di carattere generale riguardo l’assoggettabilità al regime ordinario dei redditi da lavoro dipendente del valore conseguito dal lavoratore con l’esercizio del diritto di opzione, salvo alcune specifiche eccezioni in relazione al valore delle azioni stesse, evitando da un lato che attraverso l’attribuzione di diritti di opzione a prezzo inferiore fossero corrisposti al dipendente compensi non soggetti a tassazione e dall’altro consentendo l’accesso a regimi fiscali meno onerosi in caso di plusvalore azionario realizzatosi per miglior andamento economico della società (Cass. 12425/2011[1]).

 

[-protetto-]

 

Nell’ipotesi di cui al ricorso in esame la CTRnon ha ritenuto applicabile alla plusvalenza realizzata dalla contribuente la disciplina di cui al D.Lgs. n. 505/1999, in quanto essendo l’assegnazione del diritto di opzione avvenuta nel 1997, anche se posta in essere nel 2001, la stessa sarebbe assoggettabile al primo regime di cui sopra; questo in quanto, sempre secondo il giudice di appello, le situazioni giuridiche sorte prima del 1998 sarebbero state escluse dall’art. 13 D.L. n. 505/1999, il quale atterrebbe in via diretta al periodo che va dal 16 gennaio 2000 inavanti ed in via transitoria al lasso di tempo che va dal 1º gennaio 1998 al 15 gennaio 2000. Tale assunto deve essere disatteso in quanto, così come evidenziato dal ricorrente, al fine della corretta individuazione della disciplina applicabile è necessario distinguere i due momenti della assegnazione del diritto di opzione, da un lato, e quello di esercizio dello stesso e dunque dell’effettiva assegnazione dei rispettivi titoli, dall’altro. È condivisibile l’analisi del ricorrente secondo cui le azioni entrano a far parte del patrimonio del dipendente nel momento in cui l’opzione verrà esercitata o ceduta, e che dunque la disciplina applicabile sarà quella vigente al momento di tale esercizio. Questa corte si è già pronunciata sul punto, stabilendo che – la disposizione contenuta nell’art. 48, comma 2, lett. g-bis), cit. T.U.I.R., aggiunta dall’art. 13, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 505/1999, relativa ai criteri di tassazione delle cosiddette “stock options”, si applica secondo l’art. 13, comma 2, cit., a decorrere dal 1° gennaio 2000, e, quindi, alle assegnazioni dei titoli avvenute dopo tale data, indipendentemente dal momento in cui sia stata offerta l’opzione – (Cass. 11214/2011[2]). È di tutta evidenza come, dunque, all’ipotesi di plusvalenze derivanti dall’esercizio del diritto di opzione relativo ad un piano di “stock options” sottoscritto nel 1997 ma esercitato solamente nel 2001, sia applicabile la disciplina prevista dall’art. 48 T.U.I.R., così come novellato dal D.Lgs. n. 505/1999.

Per tutte le ragioni esposte, pertanto, il ricorso può essere deciso in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, comma 1, c.p.c.”;

– che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

– che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione, e pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

Concorrono giusti motivi – tenuto conto del fatto che la giurisprudenza in materia si è consolidata dopo la proposizione del ricorso introduttivo – per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese di tutti i gradi del giudizio.

 

P.Q.M. (Omissis).

Il regime di tassazione delle stock option nell’ultimo ventennio

 

1. Premessa

 

I piani di fidelizzazione dei dipendenti o piani di stock option hanno avuto storicamente l’obiettivo di legare il comportamento dei dipendenti al perseguimento di traguardi di performance e alla crescita di valore dell’impresa, nella prospettiva di determinare target aziendali condivisi tra la proprietà e il management.

Ai beneficiari del programma, che può essere implementato dalla società con la quale è intrattenuto il rapporto di lavoro o da altra società del gruppo, controllata o controllante, possono essere assegnate direttamente azioni, di vecchia (1) o di nuova emissione, ovvero diritti di acquisto o sottoscrizione a un prezzo predeterminato ed entro una data di scadenza futura.

Sotto il profilo fiscale la materia era stata compiutamente regolamentata dal D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, che aveva introdotto la formulazione previgente dell’art. 48, secondo comma, lett. g), del TUIR, e poi ampiamente rivisitata con il D.Lgs. 23 dicembre 1999, n. 505, che aveva apportato sostanziali modificazioni al meccanismo impositivo dei c.d. piani aziendali di stock option, nell’ottica di stimolare quelle operazioni che, nella prospettiva manageriale improntata a una gestione delle risorse umane presenti in azienda in una chiave di efficienza e secondo una logica premiale, prevedevano l’offerta a particolari categorie di dipendenti di diritti di opzione per l’acquisto di titoli della società presso la quale svolgevano particolari tipi di incarichi, con l’obiettivo ultimo di incentivarne l’impegno e, soprattutto, stimolarne la produttività, agganciando una parte delle relative retribuzioni all’evoluzione dei risultati della gestione aziendale.

Con l’art. 13, primo comma, lett. b), n. 2, del D.Lgs. n. 505/1999, infatti, è stata modificata sensibilmente la struttura dell’art. 48, secondo comma, del TUIR, riscrivendone la lett. g) relativa all’assegnazione di azioni ai dipendenti, e aggiungendovi una nuova lett. g-bis), disciplinante l’esercizio delle opzioni che l’azienda riserva a particolari categorie di dipendenti che intende incentivare a rimanere presso la propria struttura.

La relazione governativa di accompagnamento al D.Lgs. n. 505/1999 aveva precisato al riguardo che «si è ritenuto opportuno in ogni caso mantenere un regime di favore per i piani di azionariato che hanno l’obiettivo di fidelizzare determinate categorie di dipendenti e premiare quelli più meritevoli».

Con la nuova lett. g-bis) si usciva dal campo delle azioni gratuitamente offerte ai dipendenti per entrare in quello dei veri e propri piani aziendali di stock option: l’offerta di azioni, in tal caso, era diretta esclusivamente verso una determinata categoria di dipendenti (ovvero verso alcuni dipendenti che la società intendeva specificamente premiare) e avveniva attraverso l’attribuzione di un diritto di opzione.

I piani aziendali di stock option presupponevano, infatti, l’attribuzione gratuita al dipendente (e non, si ripete, alla generalità dei dipendenti) di diritti di opzione per l’acquisto a un prezzo prestabilito ed entro una certa data di azioni (già emesse o da emettere). Se alla scadenza il valore di mercato dei titoli sottostanti fosse aumentato, il dipendente avrebbe avuto convenienza a far valere l’opzione attraverso il pagamento del prezzo di esercizio in precedenza determinato. Il beneficio fiscale introdotto allo scopo di incentivare simili operazioni consisteva nell’esclusione da tassazione (ovvero dal concorso alla formazione del reddito imponibile del dipendente sottoscrittore) della differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione (coincidente con quello di esercizio dell’opzione) e il prezzo di esercizio (determinato in precedenza) corrisposto dal dipendente alla società.

La fruibilità dell’agevolazione in parola non era stata, peraltro, concessa senza limiti, dal momento che la norma prevedeva espressamente che il diritto a godere del beneficio potesse essere perduto nelle due seguenti circostanze:

– quando il prezzo di esercizio pagato dal dipendente fosse risultato inferiore al valore delle azioni alla data dell’offerta dell’opzione;

– quando il complesso delle partecipazioni, titoli o diritti in possesso del dipendente fosse stato tale da garantirgli una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria ovvero (nell’ipotesi di società provviste di organo assembleare) di partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 10%.

Quest’ultima condizione risultava facilmente comprensibile alla luce dell’esigenza di evitare cessioni d’azienda in franchigia d’imposta e di scongiurare manovre che eludessero l’imposta sui capital gain e, più in generale, di non agevolare dipendenti che risultassero, già in epoca precedente all’assegnazione ovvero proprio a seguito di quest’ultima, in possesso di una partecipazione, per così dire, qualificata.

Perché la previsione di favore potesse operare, si ripete, era indispensabile che l’ammontare corrisposto alla società per l’esercizio dell’opzione fosse almeno pari al valore delle azioni sottostanti all’epoca, precedente, in cui l’opzione era stata offerta al dipendente.

Qualora, invece, il valore delle azioni al momento dell’offerta dell’opzione risultasse superiore al prezzo pagato in seguito dal dipendente per il relativo esercizio, si sarebbe verificata la perdita completa del beneficio fiscale, risultando tassata in capo al dipendente l’intera differenza tra il valore delle azioni al successivo momento dell’assegnazione e il prezzo di esercizio: tutto il maggior valore delle azioni, al netto del prezzo di esercizio pagato dal dipendente, veniva, perciò, considerato quale fringe benefit tassabile come reddito di lavoro dipendente.

 

2. Il caso in giudizio

 

Poiché il thema decidendum della sentenza annotata si è dipanato sull’individuazione delle regole applicabili  nel periodo intertemporale tra l’attribuzione del diritto di opzione e l’assegnazione delle azioni optate, si rende necessario chiarire e approfondire il regime transitorio previsto dal citato D.Lgs. n. 505/1999, regolante la sfera applicativa del nuovo meccanismo di imposizione delle stock option offerte a dipendenti che ricoprono particolari cariche sociali.

L’art. 13, secondo comma, del D.Lgs. n. 505/1999, aveva stabilito puntuali regole concernenti i tempi e le modalità di entrata in vigore delle disposizioni modificative, accogliendo le proposte di modifica elaborate dalla Commissione parlamentare dei Trenta, incaricata di formulare un parere sulla bozza del decreto legislativo in esame.

È stato così previsto che i nuovi principi di tassazione delle operazioni di assegnazione di titoli e diritti nell’ambito del reddito di lavoro dipendente si applicassero, in linea generale, alle operazioni deliberate a partire dal 1° gennaio 2000.

Più precisamente, le disposizioni che avevano modificano l’art. 48 del TUIR non trovavano applicazione nei confronti:

(i) delle assegnazioni di azioni già effettuate alla data del 1° gennaio 2000;

(ii) delle assegnazioni scaturenti dall’esercizio di opzioni che siano state in precedenza attribuite nel periodo che va dal 1° gennaio 1998 al 15 gennaio 2000 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 505/1999).

I piani di azionariato deliberati prima di quest’ultima data avrebbero continuato, dunque, ad essere disciplinati dal previgente regime e ai titoli da essi contemplati si sarebbe dovuta applicare l’imposta sostitutiva sui capital gain, in luogo delle aliquote progressive IRPEF (come, peraltro, precisato nel comunicato stampa del Ministero delle finanze del 17 dicembre 1999).

 

3. La posizione della Corte di Cassazione: notazioni critiche

 

L’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione si basa sulla lettera del secondo comma dell’art. 13 del D.Lgs. n. 505/1999. Tuttavia, la lettera compiuta dell’enunciato normativo sembra far emergere alcune incongruenze, sulle quali è mancata, nel caso in esame, una più approfondita riflessione.

Innanzitutto, è di immediata evidenza che la previsione contenuta nel citato art. 13, secondo comma, secondo cui le nuove disposizioni non si applicano alle «assegnazioni di titoli effettuate anteriormente alla predetta data» (i.e. il 1° gennaio 2000), si rivela del tutto ovvia e scontata, per l’elementare ragione che con l’assegnazione dei titoli optati si chiude la vicenda giudico-tributaria della stock option, sicché il conseguente realizzo assume il carattere di evento finale e definitivo, su cui non potrebbe incidere un successivo cambio di regime fiscale. In questi termini, pertanto, la norma, se interpretata come ha fatto la Suprema Corte, sarebbe pleonastica e persino inutiliter data, perché il principio enunciato è già presente nel sistema.

La seconda esclusione (le assegnazioni di titoli derivanti dall’esercizio di opzioni attribuite dal 1° gennaio 1998 fino alla data di entrata in vigore del nuovo decreto) appare in astratto suscettibile di due interpretazioni. Per la prima, essa potrebbe essere intesa come rivolta a coprire l’intero arco temporale della vicenda legata alle stock option, fissando un termine di completamento della relativa vicenda traslativa di due anni, compreso tra la data dell’offerta dell’opzione e la data di esercizio della stessa. In questi termini, tuttavia, la previsione sarebbe di scarso rilievo pratico, essendo piuttosto rari i piani di stock options della durata di soli due anni. Inoltre, essa ricadrebbe de plano nella prima causa di esclusione, perché l’assegnazione di titoli, a prescindere dalla data dell’offerta dell’opzione, sarebbe prevista nello stesso termine (rectius: ritardato di appena 15 giorni) fissato con la precedente causa di esclusione.

Appare logico, allora, propendere per la diversa interpretazione che individua la seconda causa di esclusione nell’assegnazione di titoli realizzata in data successiva a quella di entrata in vigore del D.Lgs. n. 505/1999, ma sulla base di opzioni offerte in data precedente, che il legislatore ha ritenuto di fissare, abbastanza arbitrariamente, nel periodo compreso tra il 1° gennaio 1998 e il 15 gennaio2000. In tal modo sarebbero penalizzate le offerte di opzioni avvenute in data più remota, che, invece, su un piano logico sistematico sarebbero dovute essere maggiormente salvaguardate, posto che, incidendo il nuovo regime su una vicenda storico-giuridica già in corso di perfezionamento, la sostituzione delle relative regole fiscali ne determina la sostanziale retroattività, che, nel caso in esame, assumerebbe i caratteri di un immutamento della stessa realtà economica colpita dal tributo.

La tesi della Corte di Cassazione – per quanto è dato capire dalle stringate note motivazionali – appare frutto di una generalizzazione non condivisibile. Partendo dalla premessa, esatta, che «le azioni entrano a far parte del patrimonio del dipendente nel momento in cui l’opzione verrà esercitata o ceduta», la Corte giunge alla conclusione, a nostro parere erronea, secondo cui: «dunque la disciplina applicabile sarà quella vigente al momento di tale esercizio». In realtà, per quanto evidenziato, non è questo il tenore della norma di diritto transitorio inserita nel testo dell’art. 13 in esame. Detta norma, ricollegandosi alla distinzione funzionale (e diacronica) tra il momento di attribuzione del diritto di opzione (cui corrisponde il momento genetico della fattispecie) e il momento di acquisizione delle azioni optate (cui corrisponde la fase realizzativa della medesima fattispecie), individua una causa di esclusione proprio con riguardo alla datazione temporale del momento genetico della fattispecie. Qualora, infatti, le opzioni fossero state attribuite al dipendente prima dell’entrata in vigore della nuova legge e, segnatamente, nel periodo compreso tra il 1° gennaio 1998 e il 15 gennaio 2000, anche se esercitate o cedute successivamente, il regime applicabile resterebbe quello previgente. E così, per le assegnazioni di azioni avvenute successivamente all’entrata in vigore della legge in esame, rileva il momento da cui si origina la vicenda acquisitiva: solo per le opzioni attribuite dopo l’entrata in vigore della legge, quest’ultima potrà dispiegare i nuovi effetti impositivi. Mentre qualora le opzioni fossero già entrate nel patrimonio del dipendente o amministratore prima dell’entrata in vigore della legge, nessuna immutazione del regime fiscale sarebbe consentita.

Si pone, allora, in netto contrasto con il dettato positivo la conclusione della Suprema Corte, che, astraendo dalla specifica disciplina legislativa, afferma: «alle assegnazioni dei titoli avvenute dopo tale data (i.e. 1° gennaio 2000), indipendentemente dal momento in cui sia stata offerta l’opzione, si applica l’art. 13, comma 2, cit.».

Resta da dire della singolare scelta di limitare l’intertempo relativo all’attribuzione dell’opzione al periodo compreso tra il 1° gennaio 1998 e il 15 gennaio 2000. Inmerito, non appaiono rinvenibili razionali ragioni giustificatrici della scansione temporale adottata, che, al contrario, si palesa priva di ragionevolezza posto che finisce per apprestare una tutela maggiore alle situazioni più recenti, a detrimento di quelle più risalenti, per loro natura maggiormente meritevoli di tutela. Ne deriverebbe, se così fosse, una retroattività per saltum: valevole, cioè, per situazioni selezionate in base a criteri di datazione ad libitum. Sulla legittimità di una simile impostazione è consolidato l’orientamento avverso della Corte Costituzionale (2), la quale, pur rimarcando che la retroattività non possa essere esclusa a priori, esige tuttavia che essa debba trovare una corretta giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti. Tra i principi meritevoli di tutela sono certamente da annoverare il principio della capacità contributiva ex art. 53 Cost., il rispetto dei «principi generali di ragionevolezza e uguaglianza; la tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla certezza dell’ordinamento giuridico, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (3). Sotto il profilo della ragionevolezza della tassazione, basti rilevare, infatti, che nella fattispecie, come quella di cui alla sentenza in commento, dove l’opzione era stata attribuita nel 1997, il legame tra l’imposizione e la capacità contributiva si presenta ancora più remoto e discontinuo rispetto alle fattispecie, testualmente escluse dall’art. 13, caratterizzate dall’assegnazione dell’opzione a partire dal 1998. La maggiore vicinanza tra il momento generatore e quello del realizzo di queste seconde fattispecie porta, infatti, a ritenere operanti per esse, piuttosto che per quelle di più antica generazione, il criterio di giustificazione della presumibile sussistenza attuale dei proventi realizzati, con il quale si giustifica, di solito, l’estensione retroattiva di un nuovo regime di tassazione (4). Anche per queste ragioni la conclusione cui perviene la sentenza annotata appare collidere con l’assetto regolatore dei rapporti tributari dedotti in giudizio.

Infine, deve osservarsi che diverse modifiche normative, successive al D.Lgs. n. 505/1999, sono state introdotte al trattamento fiscale delle stock options [art. 36, comma 25, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248); art. 2, comma 29, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286)] fino all’abolizione del previgente regime agevolato ad opera dell’art. 82, comma 23, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112  (convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), che ha “cancellato” la lett. g-bis) dell’art. 48 (ora 51) del TUIR.

 

Avv. Giovanni d’Abruzzo

Università di Parma

 

 

(1) In proposito circ. 17 maggio 2000, n. 98/E, in Boll. Trib., 2000, 826, aveva precisato che «anche le azioni della controllata possedute dalla controllante, qualora quest’ultima le assegni ai dipendenti della società controllata, possono rientrare nella disciplina agevolativa prevista dall’art. [51, comma 2, lett. g) e g-bis)] del TUIR».

(2) Cfr., ex multis, Corte Cost. 11 giugno 1999, n. 229, in Boll. Trib., 1999, 1082.

(3) Corte Cost. 22 novembre 2000, n. 525, inBoll. Trib., 2001, 392.

(4) Ex Corte Cost. 20 luglio 1994, n. 315, in Boll. Trib., 1994, 1458.



[1] Cass. 8 giugno 2011, n.12425, in Boll. Trib. On-line.

[2] Cass. 20 maggio 2011, n.11214, in Boll. Trib. On-line.