11 Aprile, 2018

SOMMARIO: 1. L’ISTITUTO DELL’ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA. LA NOVITÀ INTRODOTTA DALL’ART. 2-QUATER, COMMA 1-OCTIES, DEL D.L. N. 564/1994 – 2. IL PANORAMA VARIEGATO DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ – 3. I TRATTI DISTINTIVI DELL’ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA TRIBUTARIA; 3.1. Mancata previsione del requisito dell’interesse pubblico e natura vincolata dell’attività di autotutela; 3.2. Ambito applicativo dell’annullamento in autotutela; 3.3. Legittimazione del contribuente alla presentazione dell’istanza di annullamento in autotutela – 4. CONCLUSIONI.

1. L’ISTITUTO DELL’ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA. LA NOVITÀ INTRODOTTA DALL’ART. 2-QUATER, COMMA 1-OCTIES, DEL D.L. N. 564/1994

La potestà di autotutela amministrativa, quale facoltà dell’ente pubblico di revocare, annullare o sospendere i propri provvedimenti amministrativi, trova specifico fondamento normativo, di portata generale, nelle disposizioni contenute nel capo IV-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, aggiunto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, secondo cui l’organo che ha emanato un provvedimento amministrativo può: sospenderne l’efficacia «per gravi ragioni» (art. 21-quater); disporne la revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero per mutamento della situazione di fatto (art. 21-quinquies); annullare d’ufficio i provvedimenti illegittimi ai sensi dell’art. 21-octies (poiché adottati in violazione di legge, o viziati da eccesso di potere o da incompetenza), ma «sussistendo ragioni di pubblico interesse» ed «entro un termine ragionevole» (art. 21-nonies).
Nello specifico ambito tributario, l’art. 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656), concentra in un’unica norma l’attribuzione all’Amministrazione finanziaria della potestà di disporre l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti impositivi illegittimi, la revoca di quelli infondati e la sospensione degli effetti di entrambi. La concreta disciplina della autotutela in materia tributaria è poi articolata nelle disposizioni regolamentari dettate dal D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, al quale la citata norma di legge rinvia.
La questione circa l’ammissibilità ed i limiti del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti di autotutela ha riguardo alle ipotesi di rigetto, tacito o espresso, totale o parziale, della istanza del contribuente di annullamento in autotutela di un atto impositivo. Diversamente, i provvedimenti con i quali l’Amministrazione finanziaria si determina d’ufficio all’annullamento in autotutela dei propri atti impositivi non involgono problemi di tutela giurisdizionale del contribuente, privo dell’interesse ad agire nei confronti di atti di annullamento o riduzione della originaria pretesa impositiva, ovvero di sgravio totale o parziale dell’atto di riscossione.
In proposito la novella legislativa introdotta dall’art. 2-quater, comma 1-octies, del citato D.L. n. 564/1994, aggiunto dall’art. 11 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159, ha espressamente stabilito che gli atti di annullamento o revoca parziali non sono autonomamente impugnabili. La norma sopravvenuta è diretta ad esplicitare che anche gli atti di annullamento parziale in autotutela (oltre agli atti di annullamento totale inoppugnabili per carenza di interesse) non rientrano nel novero degli atti suscettibili di autonoma impugnazione davanti al giudice tributario ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Anche in assenza di una espressa specificazione, ragioni di ordine sistematico inducono a ritenere che la nuova disposizione abbia ad oggetto i soli annullamenti parziali in autotutela adottati d’ufficio, e non riguardi gli atti di annullamento adottati in accoglimento parziale dell’istanza di annullamento presentata dall’interessato. Diversamente, ne deriverebbe una irragionevole disparità di trattamento nella tutela giurisdizionale del contribuente, fondata su elementi di tipo “quantitativo”: il provvedimento di annullamento, in accoglimento parziale (anche minimo) dell’istanza di autotutela del contribuente, sarebbe inoppugnabile, mentre il provvedimento di rigetto totale dell’istanza di annullamento sarebbe sindacabile in sede giurisdizionale. L’incongruenza è evitata interpretando la disposizione come riferita al solo annullamento parziale in autotutela adottato d’ufficio dall’Amministrazione finanziaria, poiché in tal caso non sussiste alcun interesse del contribuente a dolersi di un provvedimento favorevole, il cui contenuto si esaurisce nella riduzione dell’originaria pretesa fiscale, ferma restando l’impugnabilità del pregresso atto impositivo, e l’interesse alla prosecuzione dell’eventuale giudizio già instaurato in relazione alla parte non caducata del provvedimento. La disposizione invece non incide sulla impugnabilità del provvedimento dell’Amministrazione finanziaria che, accogliendo solo in parte l’istanza di autotutela presentata dal contribuente, annulli solo parzialmente il pregresso atto impositivo. In tal caso il provvedimento che decide sull’istanza del contribuente non ha solo natura favorevole di riduzione della pretesa impositiva, ma costituisce al contempo un provvedimento di rigetto parziale della richiesta di annullamento in autotutela, interfaccia negativa dell’accoglimento parziale dell’istanza, con conseguente interesse del contribuente alla impugnazione della parte di provvedimento avente contenuto di diniego di annullamento.

2. IL PANORAMA VARIEGATO DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

La giurisprudenza di legittimità in materia di impugnazione dei provvedimenti di autotutela, contrassegnata da pronunce delle Sezioni Unite sul riparto della giurisdizione tese ad affermare la giurisdizione del giudice tributario, ha avuto un andamento altalenante, con passaggi argomentativi e conclusioni disomogenei.
L’elaborazione giurisprudenziale ha preso l’avvio dall’esame della norma regolamentare di cui all’art. 68 del D.P.R. 27 marzo 1992, n. 287, abrogato dall’art. 23 del D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, che già attribuiva all’Amministrazione finanziaria la generale facoltà di procedere all’annullamento d’ufficio dei propri atti impositivi ritenuti illegittimi o infondati. Con riferimento alla norma previgente, la Corte di Cassazione aveva affermato che, poiché il potere di annullamento in autotutela costituisce una facoltà discrezionale e non un obbligo dell’Amministrazione finanziaria, il mancato esercizio di essa non poteva essere sindacato in sede giurisdizionale (1). La conclusione presuppone che il potere di annullamento in autotutela costituisca esercizio di una attività discrezionale e di merito riservata alla pubblica Amministrazione e sottratta al sindacato del giudice, e che non sia configurabile in capo al contribuente una situazione soggettiva attiva qualificabile in termini di diritto a richiedere l’annullamento in autotutela degli atti impositivi illegittimi o infondati, con corrispondente obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento decisorio.
L’iniziale posizione di insindacabilità, da parte del giudice tributario, del mancato esercizio del potere di autotutela ad opera dell’Amministrazione finanziaria, ha subito una radicale modifica con la sentenza n. 16776 del 10 agosto 2005 resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (2) che, affermando la sussistenza della giurisdizione tributaria in materia di impugnazione del rifiuto espresso o tacito dell’Amministrazione finanziaria a procedere ad autotutela, ha così argomentato: il carattere generale assunto dalla giurisdizione tributaria a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, novellato dall’art. 12 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, «ha necessariamente comportato una modifica dell’art. 19 decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546», mediante devoluzione alla Commissione tributaria anche delle controversie relative all’impugnazione degli atti di diniego espresso o tacito a procedere ad autotutela; altra e diversa questione, attinente non più alla giurisdizione bensì alla competenza, «è stabilire se quel rifiuto sia o meno impugnabile». La conclusione è sibillina (dice e non dice): dopo avere statuito che il carattere generale della giurisdizione tributaria, derivante dal novellato art. 2, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, ha necessariamente comportato una modifica dell’art. 19 del medesimo decreto legislativo (in senso evidentemente estensivo, tale da includere nella elencazione degli atti impugnabili anche il rifiuto espresso o tacito all’annullamento in autotutela), le Sezioni Unite della Suprema Corte si astengono dal trarre conclusioni esplicite, allegando “l’alterità” della questione della giurisdizione, oggetto della pronuncia, rispetto alla questione della competenza, attinente alla riconducibilità del diniego di autotutela ad una delle categorie di atti impugnabili davanti al giudice tributario previste dal citato art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992.
La pronuncia n. 7388 del 27 marzo 2007 resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (3) afferma che la natura discrezionale dei provvedimenti di autotutela, comportante l’affievolimento della posizione del contribuente ad interesse legittimo, non costituisce causa ostativa al riconoscimento della giurisdizione tributaria in luogo della giurisdizione del giudice amministrativo, posto che l’art. 103 Cost. non prevede una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo (4); il sindacato giurisdizionale attiene al corretto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione finanziaria di annullamento in autotutela dei propri atti impositivi finalizzato al perseguimento di interessi di tipo pubblicistico, quindi l’oggetto del giudizio attiene «soltanto alla legittimità del rifiuto e non alla fondatezza della pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa» (affermazione contraddetta nel passaggio successivo che recita «se il rifiuto di annullamento d’ufficio contiene una conferma della fondatezza della pretesa impositiva, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’Amministrazione finanziaria dovrà adeguarsi a tale pronuncia»). Con riguardo alla riconducibilità del diniego di autotutela alle categorie di atti impugnabili elencate dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, la sentenza in oggetto, dopo l’affermazione di rito circa l’estraneità della questione alla tematica della giurisdizione, assume una posizione più esplicita dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite del 2005, affermando che «la mancata inclusione degli atti in contestazione (diniego di autotutela) nel catalogo degli atti impugnabili ai sensi del citato art. 19 comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale» contrastante con il diritto di difesa costituzionalmente garantito (artt. 24 e 113 Cost.), posto che «il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti ad altri giudici» (5).
La successiva pronuncia delle Sezioni Unite n. 3698 del 16 febbraio 2009 (6) segna un cambio di rotta in tema di impugnabilità del rigetto dell’istanza del contribuente di annullamento in autotutela, che le precedenti sentenze davano per sottintesa. Premessa la sussistenza della giurisdizione del giudice tributario, e pronunciandosi ex professo sulla questione della competenza sotto il profilo della riconducibilità del diniego di autotutela nell’ambito degli atti impugnabili stabiliti dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, la Corte di Cassazione afferma che il diniego di annullamento in autotutela di un atto tributario divenuto definitivo (nella specie avviso di accertamento) non rientra tra gli atti impugnabili a norma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, ostandovi sia la natura discrezionale dell’attività di annullamento in autotutela sia la definitività dell’atto impositivo.
La giurisprudenza largamente maggioritaria della Sezione tributaria, discostandosi dalle conclusioni della citata pronuncia delle Sezioni Unite n. 3698 del 2009 e ritornando nel solco tracciato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 7388 del 2007, si è assestata sulla seguente posizione: il diniego espresso o tacito di annullamento in autotutela rientra nel novero degli atti impugnabili ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; tuttavia, il sindacato giurisdizionale sul diniego può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, diversamente, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa o un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (7). Sostanzialmente la giurisprudenza di legittimità, muovendo dal presupposto teorico della natura discrezionale della autotutela tributaria (8) pur includendo i provvedimenti di diniego di annullamento in autotutela tra quelli impugnabili davanti al giudice tributario, li costituisce in un categoria speciale di atti soggetti a “sindacabilità limitata”, non attinente alla fondatezza della sottostante pretesa tributaria, ma riguardante il diverso piano del corretto uso da parte dell’Amministrazione finanziaria del proprio potere discrezionale di autotutela (in relazione al vizio di “eccesso di potere”).

3. I TRATTI DISTINTIVI DELL’ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA TRIBUTARIA

La disciplina positiva, risultante dal combinato disposto della fonte normativa primaria e regolamentare (9), evidenzia i seguenti tratti distintivi dell’istituto dell’autotutela tributaria.

3.1. Mancata previsione del requisito dell’interesse pubblico e natura vincolata dell’attività di autotutela

Mentre l’attivazione della generale potestà di autotutela amministrativa richiede, oltre alla sussistenza di un provvedimento amministrativo illegittimo o viziato nel merito, anche la concorrente ricorrenza di un interesse pubblico alla rimozione d’ufficio del provvedimento viziato (artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990), l’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, al pari dell’art. 2 del D.M. n. 37/1997 di attuazione, non contengono alcun riferimento al requisito dell’interesse pubblico, ma subordinano l’esercizio del potere di autotutela tributaria esclusivamente al presupposto della illegittimità o infondatezza dell’atto impositivo. La mancata previsione della necessità di un interesse pubblico specifico alla rimozione, in via di autotutela, dell’atto tributario, lungi dal costituire un dettaglio marginale o casuale, rappresenta il dato normativo più foriero di conseguenze sul piano interpretativo. L’assenza del requisito della valutazione dell’interesse pubblico costituisce l’indice normativo più significativo a favore della tesi secondo cui l’attività di accertamento tributario, anche se esplicata mediante esercizio del potere di annullamento in autotutela, conserva la natura di attività vincolata e non discrezionale, poiché fondata sui principi costituzionali di legalità (art. 23 Cost.) e di effettiva capacità contributiva (art. 53 Cost.), dai quali discende che l’accertata illegalità del prelievo fiscale costituisce, per ciò stesso, una causa sufficiente per l’attivazione del potere di annullamento in autotutela (10). Attraverso la preselezione di specifiche situazioni di illegalità meritevoli dell’intervento in autotutela (elencate dall’art. 2, primo comma, del D.M. n. 37/1997), il legislatore stesso ha individuato ex ante i casi principali nei quali ricorre un “interesse pubblico” alla correzione in autotutela degli atti tributari illegittimi o infondati.

3.2. Ambito applicativo dell’annullamento in autotutela

La norma regolamentare di cui all’art. 2, primo comma, lett. da a) a h), del D.M. n. 37/1997, contiene una elencazione dei casi nei quali l’Amministrazione finanziaria è legittimata ad esercitare la potestà di annullamento in autotutela di atti impositivi affetti da vizi di particolare gravità ed evidenza (quali errore di persona, evidente errore logico o di calcolo, doppia imposizione, errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile). L’elencazione non è esaustiva, essendo espressamente previsto che l’annullamento in autotutela si esercita «tra l’altro» nei casi tipizzati dalla norma regolamentare. Tuttavia l’esistenza di una elencazione di fattispecie in presenza delle quali lo stesso legislatore ha ritenuto che sussistano i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela comporta che, in tali casi, l’Amministrazione finanziaria non abbia una mera facoltà, ma un obbligo di procedere all’annullamento in autotutela degli atti impositivi che riconosca affetti da uno dei vizi indicati dalla norma regolamentare.
L’art. 2, secondo comma, del D.M. n. 37/1997, stabilisce il divieto di annullamento in autotutela quando i pretesi vizi di illegittimità o infondatezza dell’atto sono stati oggetto di un giudizio concluso con sentenza definitiva favorevole all’Amministrazione finanziaria. Il vigente divieto di annullamento in autotutela di atti tributari confermati con sentenza passata in giudicato differisce dalla analoga previsione contenuta nell’abrogato art. 68 del già citato D.P.R. n. 287/1992, secondo cui la formazione del giudicato sull’atto tributario precludeva comunque e in ogni caso l’esercizio della potestà di autotutela, determinando una sorta di estensione della intangibilità della cosa giudicata all’attività amministrativa di autotutela.
L’attuale disciplina è meno drastica. L’esistenza di una sentenza passata in giudicato preclude all’Amministrazione l’esercizio del potere di annullamento in autotutela limitatamente ai profili di illegittimità o infondatezza dell’atto che sono stati vagliati nel corso di un giudizio concluso con sentenza favorevole all’Ufficio; permane invece la facoltà di annullamento d’ufficio in relazione a vizi di illegittimità o infondatezza dell’atto che non hanno costituito oggetto di esame da parte del giudice. La norma ha l’effetto di conservare in capo all’Ufficio finanziario una limitata facoltà di annullamento d’ufficio in autotutela nei casi in cui ciò non contrasti con il giudicato, riguardando vizi dell’atto non dedotti e quindi non esaminati neppure implicitamente nel corso del giudizio. Tale disposizione non può essere direttamente invocata dal contribuente, rimasto soccombente nel giudizio avente ad oggetto l’originario atto impositivo. L’art. 2909 c.c. sulla cosa giudicata sostanziale stabilisce che la sentenza passata in giudicato «fa stato ad ogni effetto» tra le parti, nel senso che essa copre non solo le questioni dedotte con il ricorso, ma anche ogni altro fatto impeditivo o estintivo della pretesa tributaria, deducibile ma non dedotto (11). Ne consegue che il contribuente che presenti istanza di annullamento in autotutela di un atto impositivo già impugnato, allegando un motivo di illegittimità diverso da quello per i quali ha proposto ricorso giurisdizionale con esito sfavorevole, non potrà impugnare il diniego di autotutela ostandovi il giudicato già formatosi, che rende inammissibile un secondo giudizio sulla medesima pretesa impositiva.
L’art. 2-quater, primo comma, del D.L. n. 564/1994, precisa che l’annullamento in autotutela degli atti illegittimi o infondati può essere esercitato «anche in pendenza di giudizio» ed anche in caso di “atti non impugnabili”. L’ipotesi di inoppugnabilità dell’atto, perché divenuto definitivo a seguito di mancata proposizione del ricorso, rappresenta il caso tipico di ricorso all’autotutela, costituendo l’unico mezzo a disposizione del contribuente per provocare un riesame dell’atto ricorrendo una delle ipotesi previste dall’art. 2, primo comma, del D.M. n. 37/1997, con successivo accesso alla tutela giurisdizionale qualora si ritenga l’impugnabilità dei provvedimenti di diniego di autotutela.
Con riguardo all’annullamento in autotutela in pendenza di giudizio, occorre distinguere tra esercizio dei poteri di annullamento in via officiosa o su richiesta del contribuente.
L’Amministrazione finanziaria è senz’altro legittimata a riesaminare d’ufficio il proprio provvedimento annullandolo parzialmente o totalmente, con conseguente cessazione totale o parziale della materia del contendere nel corrispondente giudizio. Qualora invece l’Amministrazione finanziaria si determini a seguito di richiesta del contribuente, rigettando (espressamente o tacitamente) l’istanza di annullamento, la facoltà del contribuente di impugnare il diniego di autotutela rispetto ad un atto impositivo sub iudice, deve ritenersi preclusa per ragioni di ordine sistematico. Se la richiesta di annullamento è motivata con le medesime ragioni poste a fondamento del ricorso giurisdizionale già proposto, ricorre un’ipotesi di duplicazione di azioni (per identità dei soggetti, del petitum e della causa petendi) che dà luogo ad una situazione di litispendenza, la quale, a norma dell’art. 39, primo comma, c.p.c., comporta l’inammissibilità della proposizione della seconda azione identica alla prima. Se la ragione dedotta a sostegno della richiesta di annullamento in autotutela è diversa rispetto ai motivi posti a fondamento del ricorso giurisdizionale già instaurato contro l’atto impositivo, la facoltà di impugnazione del diniego di autotutela deve ritenersi preclusa dal principio generale secondo cui il ricorso giurisdizionale, proponibile entro un termine perentorio dalla notificazione dell’atto, deve esaurire i motivi di doglianza avverso l’atto che il contribuente intende sottoporre all’esame del giudice, non essendo ammessa la proposizione “frazionata” dei motivi di impugnazione, come si desume dall’art. 24 del D.Lgs. n. 546/1992, che consente al ricorrente la presentazione di “motivi aggiunti” esclusivamente se sono necessitati dalla produzione, ad opera della controparte, di nuovi documenti non conosciuti. A maggior ragione la proposizione “a rate” dei motivi di impugnazione di un atto impositivo (dapprima con il ricorso contro l’atto, quindi con l’impugnazione del diniego di annullamento in autotutela del medesimo atto) si traduce in un “abuso” dei mezzi di impugnazione, finalizzato ad aggirare le regole processuali sulla perentorietà dei termini di impugnazione e sulla concentrazione dei motivi di gravame nel ricorso introduttivo, determinando una protrazione sine die del contenzioso tributario, palesemente contrastante con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

3.3. Legittimazione del contribuente alla presentazione dell’istanza di annullamento in autotutela

L’autotutela tributaria non si esercita soltanto in via officiosa, ma anche su richiesta del contribuente, espressamente legittimato dall’art. 5 del D.M. n. 37/1997 alla presentazione dell’istanza di annullamento dell’atto impositivo, illegittimo o infondato, allorché ricorrono le medesime fattispecie che legittimano l’Amministrazione finanziaria ad esercitare il potere di annullamento d’ufficio a norma del primo comma dell’art. 2.
La previsione della norma regolamentare di cui all’art. 5 del citato decreto ministeriale, unitamente al disposto dell’art. 7, secondo comma, lett. b), della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), che stabilisce l’obbligo di indicazione dell’Autorità presso cui è possibile promuovere il riesame dell’atto in sede di autotutela, legittimano l’interpretazione secondo cui il contribuente non ha una semplice facoltà di sollecitare l’Amministrazione finanziaria all’esercizio dei poteri officiosi di annullamento in autotutela, ma è titolare di un diritto all’esame della propria istanza, al quale corrisponde la facoltà processuale di impugnazione del provvedimento espresso o tacito di diniego di autotutela, come ritenuto dalla maggioritaria giurisprudenza di legittimità.

4. CONCLUSIONI

La giurisprudenza di legittimità che ha teorizzato l’intervenuto ampliamento normativo della categoria degli atti impugnabili, mediante inclusione del diniego di annullamento in autotutela, non appare fondata su argomentazioni particolarmente convincenti.
Il dedotto carattere generale della giurisdizione tributaria, discendente dall’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, esaurisce i propri effetti nell’attribuzione in via esclusiva al giudice tributario della cognizione di qualunque controversia inerente ai tributi (con conseguente difetto di giurisdizione, in subiecta materia, di ogni altro giudice), e non possiede efficacia modificativa della disciplina degli atti impugnabili stabilita dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, che connota il processo tributario come processo impugnatorio delle sole categorie di atti tipici di esercizio della potestà impositiva, di riscossione dei tributi e di irrogazione delle sanzioni, nominativamente elencati nella norma e accomunati dalla capacità di incidere nella sfera patrimoniale del contribuente. La predeterminazione normativa della categoria degli atti tributari impugnabili presuppone, logicamente, l’esistenza della categoria degli atti tributari non impugnabili, rappresentati dagli atti dell’Amministrazione finanziaria privi della capacità di ledere la sfera giuridica del contribuente (12). Sotto tale profilo il rigetto dell’istanza di annullamento in autotutela di un atto impositivo (o di riscossione o di irrogazione di sanzioni) appare ontologicamente inidoneo ad apportare (ulteriori) effetti negativi in danno del destinatario, per la fondamentale ragione che la lesione della sfera giuridica del contribuente si è già interamente consumata “a monte”, con l’emissione dell’atto tributario verso il quale il destinatario ha prestato acquiescenza non avvalendosi della facoltà di impugnazione riconosciutagli dall’ordinamento.
In senso contrario si può argomentare che la rilevata esistenza, in capo all’Amministrazione finanziaria, di un obbligo di provvedere sull’istanza del contribuente che richiede l’annullamento di un atto impositivo, allegando la ricorrenza di uno dei casi di inesistenza dell’obbligazione tributaria tipizzati dall’art. 2, primo comma, lett. da a) ad h), del D.M. n. 37/1997, appare non facilmente conciliabile con la tesi della inoppugnabilità del provvedimento, espresso o tacito, di rigetto dell’istanza del contribuente, essendo prospettabili, in caso di ritenuta inoppugnabilità, i sospetti di illegittimità costituzionale (per violazione degli artt. 24 e 113 Cost.) evidenziati dalla già citata pronuncia delle Sezioni Unite n. 7388 del 2007.
In ogni caso, se si assume che i provvedimenti di rigetto della richiesta di annullamento in autotutela siano impugnabili, le conseguenze che ne discendono appaiono diverse da quelle ritenute dalla giurisprudenza di legittimità che pure propugna tale tesi, e sono riassumibili nei seguenti termini:
a) l’annullamento in autotutela non richiede la sussistenza di un “interesse pubblico” alla eliminazione dell’atto, quale requisito ulteriore e diverso rispetto alla rilevata illegittimità o infondatezza della pretesa impositiva;
b) la natura di impugnazione-merito propria del processo tributario, finalizzato non solo all’annullamento dell’atto impugnato ma anche ad una decisione di merito sul rapporto tributario (13), comporta che dall’accertamento giurisdizionale della sussistenza di una delle situazioni tipizzate dall’art. 2, primo comma, del D.M. n. 37/1997, consegua, unitamente all’annullamento del diniego di autotutela, l’affermazione della insussistenza della sottostante pretesa impositiva;
c) la facoltà del contribuente di impugnazione del diniego di annullamento in autotutela si risolve in una deroga indiretta al principio della definitività degli atti impositivi che non sono stati impugnati nel termine previsto dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992. Nelle circoscritte ipotesi di non debenza del tributo specificamente elencate nell’art. 2, primo comma, del D.M. n. 37/1997, il contribuente, attraverso la presentazione della richiesta di annullamento in autotutela, è posto nella condizione di provocare un accertamento giurisdizionale sulla legittimità e fondatezza dell’originaria pretesa tributaria, nonostante la definitività dell’atto di accertamento o di riscossione o di irrogazione di sanzione a suo tempo non impugnati.

Dott. Giuseppe Locatelli
Consigliere della Corte di Cassazione,
Sezione Tributaria

(1) Cfr. Cass., sez. trib., 26 ottobre 2001, n. 13208, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, in Boll. Trib., 2003, 141.
(2) Cfr. Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, in Boll. Trib., 2005, 1828.
(3) Cfr. Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7388, in Boll. Trib., 2007, 1223, con nota di F. CERIONI, Il sindacato sulla legittimità del diniego di autotutela spetta sempre ai giudici tributari.
(4) Con richiamo alle pronunce rese da Corte Cost. 28 maggio 2001, ord. n. 165; e Corte Cost. 22 giugno 2006, n. 240; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(5) Per una lettura critica del contenuto di entrambe le sentenze citate cfr. P. ROSSI, Il riesame degli atti di accertamento, Milano, 2008, 332 ss.
(6) Cfr. Cass., sez. un., 16 febbraio 2009, n. 3698, in Boll. Trib., 2009, 547.
(7) Cfr. Cass., sez. VI, 2 dicembre 2014, ord. n. 25524; Cass., sez. VI, 11 dicembre 2014, ord. n. 26087; Cass., sez. trib., 20 febbraio 2015, n. 3442; tutte in Boll. Trib. On-line.
(8) In tal senso D. STEVANATO, L’autotutela dell’Amministrazione finanziaria, Padova, 1996; in senso contrario, a favore della natura vincolata dell’attività di accertamento tributario, ivi compresa l’attività di autotutela, si vedano gli Autori citati nel successivo par. 3.1
(9) Regolamento di attuazione, previsto dall’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994 ed approvato con il già citato D.M. n. 37/1997.
(10) In tal senso F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, 2016, 179; e R. PIANESE, Il principio di autotutela nel diritto tributario, in Innov. e dir., Speciale, 2010, 68.
(11) Sul punto cfr. C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, 2016, 194; e Cass., sez. III, 17 dicembre 2015, n. 25355, sul profilo civilistico del giudicato.
(12) Così M. CANTILLO, Il processo tributario, Napoli, 2014, 149 ss.
(13) Da ultimo Cass., sez. trib., 28 giugno 2016, n. 13294, in Boll. Trib. On-line.

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