29 Dicembre, 2015

 

SOMMARIO: 1. Il problema 2. Esempio: prestazioni commerciali 3. Le Convenzioni contro le doppie imposizioni 4. La soluzione della circolare: l’imposta estera non è accreditabile ma è deducibile.

 

1. Il problema

La circolare n. 9/E del 5 marzo 2015 (1) dell’Agenzia delle entrate prende posizione su un altro problema importante (2) che da anni attende una risposta: cosa succede in Italia con un’imposta sul reddito prelevata all’estero su un elemento del reddito di impresa, che non rientra in nessuna delle categorie di reddito indicate dall’art. 23 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), letto a specchio, tranne che in quella della lett. e), cioè quella del tipico reddito commerciale che si considera prodotto all’estero solo se imputabile ad una stabile organizzazione all’estero? Tale imposta è accreditabile? È almeno deducibile? Non è né accreditabile né deducibile?

Come è noto, il problema nasce perché ai fini del credito di imposta non solo l’imposta deve essere estera, ma anche il reddito deve essere prodotto all’estero. Per il reddito di impresa la lettura a specchio dell’art. 23 del TUIR comporta che si considera reddito di impresa prodotto all’estero solo quello derivante da un’attività esercitata nel territorio estero mediante una stabile organizzazione.

È vero che ai fini del credito di imposta il reddito d’impresa può essere “smembrato” nelle sue singole componenti (nell’ambito del principio del trattamento isolato dei redditi come nei confronti di imprese non residenti) per potere (3) se tale componente rientri in una delle categorie di reddito elencate nell’art. 23 del TUIR, letto a specchio, che hanno un collegamento territoriale con lo Stato estero. Così, anche se le royalties percepite da una società italiana da un soggetto estero fanno parte del reddito di impresa della società italiana, la qualifica di reddito estero va riferita alla categoria di reddito specifico e ai collegamenti territoriali previsti dalla stessa, nella quale rientrano tali royalties [art. 23, secondo comma, lett. c), del TUIR] e non alla categoria di reddito d’impresa di cui all’art. 23, primo comma, lett. e), del TUIR, per il quale il requisito “estero” è legato alla connessione del reddito ad una stabile organizzazione all’estero.

Allora, quando è richiesta l’esistenza della stabile organizzazione ai fini del credito di imposta? Praticamente quando siamo in presenza di una componente del reddito d’impresa che possiamo definire tipica, cioè in presenza di ricavi per la vendita di beni e di servizi. Questi ricavi non sono inquadrabili in nessuna delle categorie di reddito di cui all’art. 23 del TUIR letto a specchio, tranne, appunto, in quella del reddito di impresa (vero e proprio) di cui alla lett. e). Questo tipo di reddito è considerato “estero” solo se derivante da attività esercitata nel territorio dello Stato estero mediante una stabile organizzazione.

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2. Esempio: prestazioni commerciali

Ecco un esempio: una società italiana fattura ad un cliente estero (per esempio in Brasile) un importo per una prestazione di servizi e la società estera applica su tale corrispettivo una ritenuta alla fonte in base alle leggi nazionali.

Siccome il reddito in questione non è inquadrabile in nessuna altra categoria di reddito di cui all’art. 23 del TUIR, tranne che in quella della lett. e), e siccome tale reddito non è collegato con un’attività esercitata dalla società mediante una stabile organizzazione in quel paese, il reddito non è un reddito estero (ma italiano) e l’imposta estera non è di conseguenza accreditabile. Questa conclusione è confermata dalla citata circolare n. 9/E/2015.

3. Le Convenzioni contro le doppie imposizioni

Giustamente la circolare afferma che tale problema non esiste – e quindi l’imposta estera diventa accreditabile – se con l’altro Stato è in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni.

La norma convenzionale prevede (anche per il reddito d’impresa) che lo Stato di residenza debba concedere il credito di imposta su qualsiasi elemento di reddito che l’altro Stato (Stato della fonte) ha assoggettato ad imposizione conformemente alla Convenzione.

In generale, lo Stato della fonte tassa nei confronti dei non residenti solo i redditi ivi prodotti per cui, se lo Stato di residenza è l’Italia, nella maggior parte dei casi, la tassazione nello Stato della fonte coincide con la natura estera del reddito dal punto di vista italiano. Ma appunto non sempre e ciò proprio per i redditi commerciali qui in discussione, però le Convenzioni prevedono che l’Italia, come Stato di residenza, deve accreditare alle imposte italiane “l’imposta sui redditi pagata” nell’altro Stato a prescindere dall’esistenza o meno di una stabile organizzazione.

Quindi l’imposta estera su un corrispettivo per servizi o addirittura su una fornitura di beni è sempre accreditabile in Italia in presenza di una Convenzione?

Se è accreditabile (solo in base alla Convenzione), l’eventuale eccedenza rispetto alla quota di imposta italiana è riportabile ai sensi dell’art. 165, sesto comma, del TUIR?

Per quanto riguarda il primo quesito, la risposta non può che essere questa: è accreditabile solo l’imposta estera che lo Stato estero (della fonte) aveva il diritto di applicare in base alla Convenzione. Quindi occorre verificare se lo Stato della fonte può tassare un semplice reddito commerciale (derivante dalla cessione di beni o dalla prestazione di servizi). Se in base alla Convenzione lo Stato della fonte non può tassare l’elemento di reddito in questione, non spetta il credito di imposta, ma il contribuente deve chiedere allo Stato estero il rimborso della ritenuta applicata. D’altra parte, quando il problema interpretativo può essere risolto solo tra le due autorità competenti, il contribuente non può essere penalizzato due volte (nelle more di un accordo tra due amministrazioni): prima in termini di liquidità, perché ha subito una ritenuta non prevista dalla Convenzione (ma che l’altro Stato nega di rimborsare) e dopo, col pagamento delle imposte in Italia sulla stessa componente di reddito senza potere scomputare le imposte estere. Dato che il problema non può essere risolto dal contribuente, sarebbe giusto permettere alle società italiane – in caso di diniego del rimborso dell’imposta da parte dello Stato estero – di accreditarsi l’imposta estera e di correggere eventualmente tale accredito nel futuro se l’accordo tra le due autorità riconoscesse l’imposta estera come non dovuta.

Altrettanto delicata è l’altra questione, cioè se, essendo l’imposta estera accreditabile solo per effetto della Convenzione, si applica la disciplina del riporto in avanti e indietro dell’eccedenza ai sensi del sesto comma dell’art. 165 del TUIR (è pacifico, ed è confermato anche dalla circolare n. 9/E/2015, che tale meccanismo, di per sé, vale anche per i singoli componenti del reddito di impresa). Rispondere in senso affermativo significherebbe applicare contemporaneamente (“the best of”) la norma convenzionale e la norma nazionale. Sarebbe opportuno un chiarimento da parte dell’Amministrazione a tale riguardo. A favore dell’applicabilità si potrebbe dire che il sesto comma è una disciplina autonoma ed integrativa rispetto alla disciplina convenzionale e quindi trova applicazione perché la Convenzione non regola tale aspetto. A sfavore invece varrebbe la seguente considerazione: il credito d’imposta come tale è nato solo in base alla convenzione e una volta scelta quest’ultima posso applicare la legge nazionale solo se posso considerarla una modalità tecnica di applicazione del credito d’imposta convenzionale (mentre il comma 6 non è una modalità di applicazione ma una regola che crea un credito d’imposta vero e proprio non previsto dalla Convenzione).

4. La soluzione della circolare: l’imposta estera non è accreditabile ma è deducibile

Tornando al problema del trattamento dell’imposta estera sul reddito commerciale senza stabile organizzazione in base alla legge italiana, la circolare n. 9/E/2015, dopo aver negato l’accreditabilità, permette invece la deduzione, come componenti negative, di tali imposte estere dal reddito imponibile «in quanto costi inerenti l’attività di impresa, conformemente alle indicazioni della risalente risoluzione del 12 marzo 1979, n. 416». Questa regola si applica, quindi, per tutti i casi in cui su un reddito “nazionale” (perché non considerato prodotto all’estero) grava un’imposta estera e non sia applicabile una Convenzione contro le doppie imposizioni. Il riferimento alla risoluzione del 12 marzo 1979, n. 9/416 (4), non mi pare molto felice, perché in quella risoluzione si parla di una situazione che ha tutte le caratteristiche di una stabile organizzazione.

Giustificando poi la deducibilità dell’imposta con l’inerenza del costo, la circolare ha evitato di affrontare esplicitamente la problematica di cui all’art. 99 del TUIR (cioè se il divieto di deducibilità delle imposte sul reddito ivi previsto vale solo per le imposte italiane e non anche per quelle estere).

È pienamente condivisibile l’altra affermazione contenuta nella circolare: se l’imposta estera rientra invece nella disciplina del credito di imposta di cui all’art. 165 del TUIR, un’eventuale sua parte non recuperabile in base a tale meccanismo, «non può essere dedotta né è altrimenti recuperabile in Italia». Questa frase può essere sviluppata ulteriormente aggiungendo che è recuperabile solo per il riporto in avanti e indietro delle eccedenze ai sensi del sesto comma dell’art. 165 del TUIR.

Siegfried Mayr

(1) In Boll. Trib., 2015, 366.

(2) Uno degli altri problemi risolti positivamente, cioè quello delle partecipazioni non qualificate in società di persone estere, è stato descritto da S. Mayr, Partecipazioni in società di persone estere: il credito d’imposta secondo la circolare n. 9/E del 5 marzo 2015, in Boll. Trib., 2015, 325.

(3) Su questo punto e sulla disciplina del credito d’imposta in generale vedi S. Mayr,

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La disciplina del credito d’imposta per i redditi esteri, in Boll. Trib., 2005, 741; 2006, 725; e 2007, 1253.

(4) In Boll. Trib., 1979, 805.

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