29 Maggio, 2015

LIMITI E AMBITI DELLA PROVA CONTRARIA NELL’ACCERTAMENTO SINTETICO

1. Premessa

La Corte di Cassazione si sofferma, ancora una volta, sulla problematica relativa agli incrementi patrimoniali contestati dagli Uffici finanziari in sede di accertamento sintetico con specifico riguardo alla prova contraria che il contribuente è tenuto a fornire per poter ottenere l’annullamento dell’atto.

Si tratta di una questione della quale ci eravamo recentemente occupati in questa Rivista con riferimento ad una pronuncia della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia (1) che aveva fatto proprio un sentire diffuso nell’ambito delle decisioni di merito e che appare essere stato recepito anche dai giudici di legittimità.

Poiché l’orientamento in questione è stato già delineato, nei suoi tratti essenziali, nella nostra precedente e recente nota, appare opportuno, dopo una breve sintesi del contenuto della pronuncia in rassegna, dedicare attenzione a quei profili di novità che possono suscitare l’esigenza di un riscontro critico.

2. I punti salienti dell’annotata sentenza

L’Agenzia delle entrate notificava ad un contribuente un avviso di accertamento con il quale gli rettificava il reddito dichiarato a norma degli artt. 38 e 41-

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bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ritenendolo incongruo rispetto ad acquisti e disponibilità di alcuni mezzi e beni negli anni in questione.

Il contribuente proponeva ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano sostenendo l’incongruità dei conteggi operati dall’Ufficio fiscale e della motivazione dell’avviso di accertamento, nonché rilevando l’esistenza di disponibilità economiche che avevano giustificato gli acquisti, riconducibili, in particolare, ad una donazione effettuata dalla madre e a rendite derivanti da capital gains.

La Commissione tributaria provinciale di Milano accoglieva parzialmente il ricorso, riducendo l’importo rettificato.

Avverso la decisione di primo grado il contribuente e l’Ufficio finanziario proponevano rispettivamente appello principale e appello incidentale.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia respingeva le impugnazioni in quanto rilevava che l’accertamento fondato sui parametri si fondava sulla presunzione legale, a favore dell’Amministrazione finanziaria, rispetto alla quale il contribuente era tenuto a fornire, con qualsiasi argomentazione, la dimostrazione della insussistenza degli elementi e delle circostanze di fatto sulle quali si basa l’accertamento. La rideterminazione del reddito del contribuente effettuata dalla Commissione tributaria provinciale era considerata corretta in ragione di dimostrati mutamenti nella titolarità dei beni contestati. Nondimeno la Commissione tributaria regionale non riconosceva la donazione ricevuta dalla madre nell’anno 2004, in quanto risultante da scrittura privata non autenticata e non suffragata da data certa e perché considerava un escamotage difensivo l’inserimento nella denuncia di successione. Quanto ai redditi da capital gains, non appariva sufficientemente dimostrata la provenienza ed effettiva disponibilità finanziaria per l’effettuazione delle acquisizioni. L’appello incidentale dell’Agenzia delle entrate era rigettato in quanto le spese sostenute negli anni 2006 e 2007 non erano state adeguatamente esplicitate nell’avviso di accertamento.

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Il contribuente proponeva, pertanto, ricorso per cassazione deducendo il vizio di violazione di legge e di motivazione, ex art. 360, primo comma, nn. 3) e 5), c.p.c., in quanto il giudice di appello aveva omesso di considerare gli elementi, documentalmente prodotti nel corso del giudizio di primo grado, che erano in grado di provare il possesso di redditi esenti, soggetti a imposizione alla fonte o legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile per giustificare le spese indicate dall’Ufficio finanziario. L’Agenzia delle entrate si costituiva in giudizio affermando che, invece, il contribuente non aveva fornito la prova di avere utilizzato le disponibilità esistenti o parte di esse a giustificazione delle spese sostenute per gli incrementi patrimoniali rilevati a suo carico.

La Suprema Corte, dopo alcune considerazioni di ordine generale, rileva che secondo un proprio precedente indirizzo giurisprudenziale (2) in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’Ufficio finanziario determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dall’art. 38, sesto comma, del D.P.R. n. 600/1973 (nel testo vigente ratione temporis), non riguarda la sola disponibilità di redditi ovvero di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’essere stata la spesa sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, e non già con qualsiasi altro reddito (dichiarato). Il predetto indirizzo sancirebbe la correttezza della decisione impugnata e l’infondatezza della censura mossa dal ricorrente principale, in quanto il contribuente ha dedotto solo la sussistenza di redditi sufficienti per le disponibilità e gli incrementi patrimoniali contestati dall’Ufficio finanziario e non ha dimostrato che proprio quei redditi erano stati impiegati per affrontare le «spese per incrementi patrimoniali» con conseguente recupero a tassazione da parte dell’Ufficio. A questo punto, tuttavia, la Suprema Corte precisa di non aderire all’indirizzo indicato in quanto l’art. 38, sesto comma, del D.P.R. n. 600/1973, nella versione ratione temporis vigente, dispone testualmente che «il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione».

Si ritengono, pertanto, irrilevanti, per il caso in esame, le modifiche normative successivamente intervenute in materia. Di conseguenza, al contribuente non si richiede la dimostrazione dettagliata dell’impiego delle somme per la produzione degli acquisti o per le spese di incremento, cioè dell’effettiva destinazione del reddito esente o sottoposto a tassazione, bensì di vincere la presunzione, semplice o legale che sia, che il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti e gli incrementi, limitandosi a dimostrare l’esistenza di altri redditi.

Una diversa interpretazione, in nessun modo correlata al tenore testuale del ricordato art. 38, sesto comma, determinerebbe, ad avviso della Suprema Corte, «una sorta di trasfigurazione del presupposto impositivo, non più correlato all’esistenza di un reddito ma, piuttosto, all’esistenza di una spesa realizzata da redditi imponibili ordinari e congrui o da redditi esenti o da redditi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo d’imposta».

La Corte di Cassazione rileva, infine, che l’omesso esame, da parte della Commissione tributaria regionale, della certificazione relativa alla donazione effettuata dalla madre, che non è stata considerata veritiera, ha condizionato l’intero passaggio argomentativo del giudice d’appello. I Supremi Giudici stessi hanno avuto modo di chiarire che qualora l’Ufficio finanziario determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali e il contribuente deduca che tale spesa sia il frutto di liberalità, ai sensi del ridetto art. 38, sesto comma, del D.P.R. n. 600/1973, la prova «deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, ai quali la motivazione della sentenza deve fare preciso riferimento» (3). Nel caso specifico, peraltro, vi è corrispondenza tra l’importo della donazione fatta dalla madre e l’importo versato sul conto del contribuente nello stesso anno indicato nella scrittura privata (anche se non autenticata e priva di data certa).

Anche in ordine all’irrilevanza delle rendite finanziarie del contribuente ai fini della controversia per le quali egli avrebbe dovuto «dimostrare la provenienza ed effettiva disponibilità finanziaria per l’effettuazione delle acquisizioni», la Suprema Corte riafferma i principi precedentemente formulati. E, per tali ragioni, i Supremi Giudici ritengono di dover accogliere il ricorso principale e rigettare quello incidentale, cassando con rinvio ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale della Lombardia, tenuta ad uniformarsi ai principi sopra esposti.

3. Riflessioni critiche sul tema

Appare opportuno seguire liter motivazionale della Corte di Cassazione al fine di chiarire alcuni aspetti rilevanti della pronuncia in esame.

Il punto di partenza è, a nostro avviso, la formulazione del principio generale al quale, fino ad oggi, i Supremi Giudici si erano sostanzialmente attenuti.

Essi stessi ricordano i propri precedenti (4) nei quali hanno affermato che è necessaria, oltre alla dimostrazione della sussistenza di redditi esenti o soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, a copertura delle spese sostenute dal contribuente rilevanti ai fini dell’accertamento sintetico, anche la prova che tali spese per incrementi patrimoniali sono state effettivamente sostenute con tali redditi.

Non sarebbe, cioè, sufficiente la semplice dimostrazione della disponibilità dei redditi, ma sarebbe essenziale la dimostrazione del nesso eziologico tra disponibilità e spese concretamente effettuate.

Dovrebbe, in sostanza, essere data la prova che le spese per incrementi patrimoniali sono state effettivamente sostenute con tali redditi.

Tale impostazione porterebbe al rigetto del ricorso del contribuente, il quale non avrebbe ottemperato al proprio onere probatorio.

I Supremi Giudici, tuttavia, ritengono di dover attenersi all’interpretazione del dettato normativo in ragione del rispetto del principio tempus regit actum.

Infatti il metodo comunemente definito come sintetico puro (5), nella sua formulazione ante riforma del 2010, ratione temporis vigente all’epoca dei fatti oggetto del giudizio, prevedeva che se l’Ufficio finanziario determinava sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali il contribuente aveva la facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente era costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso dovevano risultare da idonea documentazione.

La disposizione non richiedeva, dunque, nella sua precedente formulazione, una dimostrazione dettagliata del nesso di causalità tra i redditi disponibili e le spese per incrementi patrimoniali, ma si limitava a fare riferimento all’esistenza di tali redditi.

Per tale motivo i Supremi Giudici ritengono che interpretare la norma in modo diverso dal significato che si deduce in via letterale significherebbe attribuire al presupposto impositivo una dimensione che non è quella che il legislatore ha voluto individuare.

Tutto ciò, a nostro avviso, andrebbe a mettere seriamente in discussione il rispetto del principio di capacità contributiva e, ancor più, il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24.

Tant’è che gli studiosi più attenti (6), nell’esaminare il dettato normativo della disposizione in quella che è stata la sua evoluzione in seguito alla novella del 2010, hanno rilevato che anche l’applicare il primo indirizzo della Corte di Cassazione alle fattispecie regolate – da un punto di vista temporale – dalla disposizione ratione temporis vigente comporterebbe un aggravamento dell’onere probatorio per il contribuente non giustificabile

L’assunto ermeneutico formulato dalla Suprema Corte all’interno delle già citate sentenze 20 marzo 2009, n. 6813, 24 novembre 2010, n. 23785, e 20 febbraio 2013, n. 4183 (7), darebbe, infatti, luogo alla cosiddetta probatio diabolica che non appare applicabile nemmeno alla nuova versione dell’accertamento sintetico.

Tant’è che nella citata sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia 10 luglio 2013, n. 50 (8), si conclude che, anche con riferimento al testo dell’art. 38, sesto comma, del D.P.R. n. 600/1973, conseguente alle modifiche del 2010 per esso intervenute, l’interpretazione più corretta deve essere quella in base alla quale al contribuente si chiede solo di chiarire all’Ufficio finanziario quali siano le fonti dei singoli incrementi che avrebbero reso possibile l’investimento, senza la necessità di dimostrare la corrispondenza specifica tra gli incrementi patrimoniali e le spese sostenute.

L’Agenzia delle entrate (9), peraltro, avendo riguardo proprio alle spese per incrementi patrimoniali, ribadisce che il contribuente, in sede di contraddittorio, potrà fornire la prova relativa:

a) alla formazione della provvista, che potrebbe anche essersi realizzata nel corso di un periodo diverso rispetto ai quattro anni indicati nel decreto;

b) all’utilizzo della provvista per l’effettuazione dello specifico investimento.

Gli Uffici finanziari, tuttavia, tendono a far diventare il “potrà” un “dovrà”, in quanto accolgono l’impostazione contenuta nel primo indirizzo della Corte di Cassazione, quantomeno con riguardo agli accertamenti ai quali è applicabile la nuova disciplina. E, quindi, vengono ricompresi in tale quadro gli accertamenti relativi ai redditi per i quali non è ancora scaduto, alla data del 31 maggio 2010, il termine per la presentazione della dichiarazione.

Un’impostazione siffatta non è invece accettabile, in quanto non v’è dubbio che la prova che deve essere fornita dal contribuente debba essere circostanziata, ma solo in relazione all’esistenza e alla natura delle eventuali ulteriori disponibilità, e non già rispetto al famigerato nesso eziologico tra queste ultime e gli acquisti effettuati.

Nel caso in esame, pertanto, il contribuente, al quale veniva richiesto di dimostrare eventuali altre disponibilità finanziarie che giustificassero i suoi incrementi patrimoniali, ha fornito indicazioni dettagliate relative ad entrate derivanti da capital gains scaturenti da posizioni azionarie e obbligazionarie, che erano stati sottoposti a tassazione separata, oltreché ad una liberalità proveniente da un familiare.

La Suprema Corte, dopo aver affrontato il tema del nesso eziologico, superandolo, si sofferma proprio su tale ultimo profilo della vicenda in esame.

Si tratta della donazione effettuata dalla madre al figlio della quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia non ha tenuto conto, in quanto era contenuta in una scrittura non autenticata e, quindi, priva di data certa, nonostante fosse stata inserita nella denunzia di successione. Quest’ultimo, infatti, era stato considerato un escamotage difensivo.

I Supremi Giudici rilevano che l’omesso esame della documentazione relativa alla donazione da parte della Commissione tributaria regionale ha costituito elemento condizionante l’esito della vicenda.

Essi precisano che nei casi in cui la determinazione sintetica del reddito complessivo netto del contribuente in relazione alla sua spesa per incrementi patrimoniali sia riconducibile – secondo quanto affermato dal contribuente stesso – ad una liberalità, ai sensi del sesto comma dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, la prova deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, ai quali la motivazione della sentenza deve fare preciso riferimento.

Nella sentenza della Commissione tributaria regionale non si fa riferimento alla documentazione fornita che, peraltro, consentiva di stabilire una perfetta identità tra l’importo della donazione fatta dalla madre, pur sempre derivante da una scrittura privata (anche se non autenticata e priva di data certa), e l’importo versato sul conto del contribuente – provato dalla certificazione di un bonifico bancario – nello stesso anno.

Alla luce delle sentenze citate dai Supremi Giudici (10), i giudici d’appello avrebbero, quantomeno, dovuto argomentare in relazione alla non idoneità di tali documenti a costituire una legittima prova a favore del contribuente.

4. Osservazioni conclusive

La pronuncia in esame va ad aggiungersi a numerose altre che ci siamo trovati a commentare negli ultimi tempi in tema di accertamento sintetico puro e/o effettuato con l’utilizzo dei parametri e del redditometro.

Appare evidente che la Corte di Cassazione si senta direttamente investita dell’esigenza di garantire un giusto equilibrio tra le posizioni delle due parti interessate dall’accertamento e dal processo tributario.

Si tende soprattutto ad evitare che la posizione del contribuente – certamente parte più debole a causa delle difficoltà evidenti che gravano a suo carico quando gli si richiede di suffragare il proprio onere probatorio – non diventi estremamente gravosa compromettendo e comprimendo eccessivamente il suo diritto di difesa.

A tale proposito bisogna anche tenere conto del fatto che l’Amministrazione finanziaria, al fine di assicurarsi il reperimento di gettito, ha oberato il contribuente di adempimenti di ogni genere. Non solo sotto il profilo delle dichiarazioni, ma anche rispetto alle modalità da seguire per effettuare alcune prestazioni che possono essere rilevanti per gli Uffici finanziari con riguardo alla determinazione del reddito del contribuente.

Pensiamo, ad esempio, al diffondersi di regole sempre più garantiste sulla tracciabilità dei pagamenti, oltreché alla necessità di mantenere documentazione da poter esibire in caso di contraddittorio con gli Uffici.

Con riguardo al caso in esame, la pretesa dell’Ufficio finanziario appare andare oltre il limite di una corretta e completa conservazione delle risultanze derivanti dalle operazioni rientranti nella gestione del proprio quotidiano.

Peraltro ciò è tanto più grave in una vicenda, quale quella in oggetto, in cui il contribuente aveva indicato e messo a disposizione, degli Uffici finanziari prima, e dei Giudici d’appello poi, ogni tipo di documentazione idonea a ricostruire l’excursus che aveva caratterizzato l’evolversi degli incrementi patrimoniali attenzionati.

A tale proposito riteniamo importante sottolineare l’ammonimento che i Supremi Giudici rivolgono ai giudici d’appello, i quali sono ritenuti colpevoli di non aver dato la giusta rilevanza alle prove raccolte e proposte dalla difesa del contribuente.

Ci sembra, infatti, che l’utilizzo non corretto dello strumento presuntivo – sia esso riconducibile al sintetico puro o al redditometro e, anche, agli studi di settore – tenda a privilegiare una ricostruzione che si rivela frequentemente sbagliata, mentre dedicando attenzione alla documentazione probatoria fornita dai contribuenti (pensiamo alla scrittura privata alla quale si sovrapponeva perfettamente il bonifico bancario idoneo non solo a documentare il quantum ricevuto, ma anche ad identificare con precisione il donante, madre del contribuente, o ai capital gains documentati dalla titolarità delle azioni e obbligazioni relative, oltreché dagli atti della tassazione separata) e analizzandola in modo approfondito e privo di pregiudizi legati agli aspetti formali, è più probabile che si pervenga ad una determinazione del reddito dei contribuenti stessi più aderente alla realtà e, quindi, maggiormente rispettosa del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

Avv. Patrizia Accordino

Università degli Studi di Messina

(1) Cfr. Comm. trib. reg. del Friuli Venezia Giulia, sez. X, 10 luglio 2013, n. 50, in Boll. Trib., 2014, 788, con nota di Accordino, Notazioni in tema di accertamento sintetico del reddito complessivo delle persone fisiche.

(2) Cfr. Cass., sez. trib., 20 marzo 2009, n. 6813; Cass., sez. trib., 24 novembre 2010, n. 23785; e Cass., sez. I, 20 febbraio 2013, n. 4183; tutte in Boll. Trib. On-line.

(3) Cfr. Cass., sez. trib., 3 dicembre 2010, n. 24597; e Cass., sez. trib., 8 maggio 2008, n. 11389; entrambe in Boll. Trib. On-line.

(4) Cfr. nota 2.

(5) Cfr. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2011, 216 ss.; Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, Padova, 2012, 254 ss.; Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 426 ss.; e Lupi, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 188 ss.

(6) Cfr. Muleo, Limitazioni probatorie nella difesa del contribuente dall’accertamento sintetico, in Corr. trib., 2009, 1588 ss.; e Beghin, Accertamento sintetico, dimostrazione del nesso eziologico e «probatio diabolica», ivi, 2013, 275 ss.

(7) Cfr. nota 2.

(8) Cfr. nota 1.

(9) Cfr. circ. 31 luglio 2013, n. 24/E, in Boll. Trib., 2013, 1191.

(10) Cfr. Cass. n. 24597/2010, cit.; e Cass. n. 11389/2008, cit.

 

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Maggiore reddito determinato sinteticamente – Onere di provare l’esistenza di adeguati redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta – Sufficienza – Obbligo di dimostrare l’effettiva destinazione del reddito esente o soggetto a tassazione separata – Non sussiste.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Spese per incrementi patrimoniali – Prova documentale della liberalità invocata dal contribuente – Necessità – Obbligo del giudice di merito di farne preciso riferimento in sentenza – Sussiste.

Procedimento – Ricorso per cassazione – Motivi di ricorso – Vizio di omessa o insufficiente motivazione – Totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione – Necessità – Semplice difformità rispetto alle attese e alle deduzioni di parte – Insufficienza ai fini del vizio denunciato.

 Il sesto comma dell’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella versione vigente prima delle modifiche introdotte dall’art. 22 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), secondo cui «il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggiore reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta», non impone affatto la dimostrazione dettagliata dell’impiego delle somme per la produzione degli acquisti o per le spese di incremento, ma semmai richiede al contribuente di vincere la presunzione (semplice o legale che sia), che il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti e gli incrementi, il che significa che nessun’altra prova deve dare il contribuente circa l’effettiva destinazione del reddito esente o sottoposto a tassazione separata agli incrementi patrimoniali se non la dimostrazione dell’esistenza di tali redditi.

Qualora l’Ufficio finanziario determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali e il contribuente deduca che tale spesa sia il frutto di liberalità, a norma dell’art. 38, sesto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la prova delle liberalità medesime deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, ai quali la motivazione della sentenza resa in proposito dal giudice di merito deve fare preciso riferimento.

Il vizio di omessa o insufficiente motivazione della sentenza denunciabile a norma dell’art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza medesima, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della stessa sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, e non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese e alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi altrimenti il relativo motivo di ricorso per cassazione in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura e ai fini del giudizio di legittimità.

 [Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Bielli, rel. Conti), 19 marzo 2014, sent. n. 6396]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. L’Agenzia delle Entrate di Milano 6 notificava al contribuente Z.A.G. un avviso di accertamento per la ripresa a tassazione di IRPEF, addizionale regionale e sanzioni relativi all’anno 2004, rettificando il reddito dichiarato – pari a Euro 3.708,00 – ai sensi degli artt. 38 e 41-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, e ritenendolo incongruo rispetto agli acquisti di autovetture ed imbarcazioni operati dal contribuente fra il 2003 ed il 2005, al possesso di due autovetture e di un’ulteriore imbarcazione nonché alla disponibilità di cinque immobili, per un valore complessivo pari a Euro 1.230.000,00.

2. L’Ufficio, considerando il reddito per anno necessario per le disponibilità riscontrate, rideterminava per l’anno in esame il reddito del contribuente in Euro 391.737,00.

3. Il contribuente proponeva ricorso innanzi alla CTP di Milano sostenendo l’incongruità dei conteggi operati dall’Ufficio, la motivazione incongrua dell’avviso di accertamento e rilevando l’esistenza di disponibilità economiche che avevano giustificato gli acquisti.

4. La CTP di Milano accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando il reddito del contribuente in Euro 174.924,92.

5. Avverso la decisione di primo grado il contribuente e l’Ufficio proponevano rispettivamente appello principale e appello incidentale.

6. La CTR della Lombardia, con sentenza n. 5/24/2012 pubblicata il 10.1.2012 respingeva le impugnazioni compensando le spese.

6.1 Secondo i giudici di appello l’accertamento fondato sui parametri di cui ai D.M. 10 settembre 1992, e D.M. 19 novembre 1992, si fondava sulla presunzione legale a favore dell’Amministrazione nascente dai parametri, dovendo il contribuente fornire con qualsiasi argomentazione la dimostrazione della insussistenza degli elementi e delle circostanze di fatto sulle quali si basa l’accertamento e conseguentemente del reddito accertato.

6.2 Il contribuente, inoltre, aveva dimostrato di non essere più titolare dell’autovettura Jaguar dall’anno 1981, pure documentando che l’acquisto dell’imbarcazione Azimut 55 era avvenuto non in contanti ma in forza di un contratto di leasing. Sulla base di questi due elementi la CTP aveva correttamente rideterminato il reddito del contribuente. Non poteva, tuttavia – per la CTR – condividersi l’assunto del contribuente in ordine al sostenimento delle spese con la donazione di Euro 700.000,00 ricevuta dalla madre del suddetto nell’anno 2004, la stessa risultando da scrittura privata non autenticata non suffragata da data certa, nemmeno potendosi considerare la data di inserimento nella denunzia di successione che sembrava rivestire “i crismi di una strategia difensiva per contrastare l’accertamento in esame”.

6.3 Aggiungeva la CTR, quanto ai redditi da capital gain, che non appariva sufficientemente dimostrata la provenienza ed effettiva disponibilità finanziaria per l’effettuazione delle acquisizioni.

6.4 La CTR rigettava, infine, l’appello incidentale ritenendo che le spese sostenute negli anni 2006 e 2007 non erano state adeguatamente esplicitate nell’avviso di accertamento.

6.5 Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a un’unica complessa censura, al quale ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso e ricorso incidentale affidato a un unico motivo. La parte contribuente ha depositato controricorso e memoria ex art. 374 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 7. Con l’unica complessa censura la parte ricorrente principale deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione, ex art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c., rilevando che il giudice di appello, pur affermando che il contribuente poteva fornire prova contraria agli accertamenti dell’Ufficio sinteticamente determinati, aveva omesso di considerare gli elementi, documentalmente prodotti nel corso del giudizio di primo grado, che erano in grado di provare il possesso di redditi esenti, soggetti a imposizione alla fonte o legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile per giustificare le spese indicate dall’Ufficio.

7.1 In questa direzione, ad avviso del ricorrente, deponevano le ampie disponibilità finanziarie, rappresentate da titoli azionari, obbligazionari e titoli di stato oltre che la donazione di 700.00,00 Euro ricevuta dalla madre e documentata, nel corso del giudizio, dalla produzione della scrittura privata e del versamento sul conto corrente intestato al contribuente del novembre 2004. Le motivazioni esposte dalla CTR erano sul punto sbrigative quanto alle disponibilità certificate dalla Banca Euromobiliare ed errate quanto alla donazione della madre dovendosi ritenere, nonostante quanto prospettato dalla CTR, che la scrittura privata, indicata nella denunzia di successione e per la quale era stata pagata la relativa imposta, aveva quanto meno data certa dalla morte della donante ed era comunque attestata dal versamento risultante sul conto corrente.

Il vizio di motivazione era dunque palese sotto il profilo della decisività degli elementi non considerati.

8. L’Agenzia delle entrate, nel controricorso, ha dedotto l’infondatezza delle censure tanto sotto il profilo della violazione di legge che rispetto al prospettato vizio di motivazione.

8.1 Quanto alla prima questione, evidenzia che la giurisprudenza di questa Corte aveva ormai ammesso la piena operatività del sistema dell’accertamento sintetico alla stregua dell’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, determinando una presunzione di fondatezza della pretesa impositiva che aveva l’effetto di spostare l’onere della prova sul contribuente.

8.2 Quanto al dedotto difetto di motivazione, l’Agenzia osserva che la CTR aveva correttamente esaminato il materiale probatorio agli atti, ritenendo che il contribuente non aveva fornito la prova di avere utilizzato le disponibilità esistenti o parte di esse a giustificazione delle spese sostenute per incrementi patrimoniali rilevati a suo carico. Peraltro, proprio dalla documentazione prodotta dal contribuente era risultata una minusvalenza patrimoniale che, ben lungi dal tradursi in una potenzialità finanziaria, costituiva ulteriore elemento incompatibile con gli incrementi patrimoniali e con gli indici di spesa posti a fondamento della pretesa erariale.

8.3 Anche la documentazione relativa al capital gain, a parte la sua scarsa intelligibilità, non era oggettivamente idonea, per l’Agenzia, a comprovare con certezza la provenienza ed effettiva disponibilità della provvista finanziaria necessaria per l’effettuazione degli acquisti, riscontrati come enormemente sproporzionati rispetto al reddito dichiarato.

9. La parte contribuente, nel controricorso ex art. 371, comma 4, c.p.c., depositato in replica al ricorso incidentale dell’Agenzia, ha poi esposto ulteriori argomenti a sostegno della censura formulata in ricorso, contestando le prospettazioni esposte dall’Agenzia. Non poteva infatti sostenersi che il contribuente fosse gravato dell’onere di dimostrare che proprio le somme possedute fossero quelle effettivamente spese per gli incrementi patrimoniali. Così facendo, infatti, l’Agenzia aveva finito col pretendere una prova diabolica o quasi diabolica. In realtà, per superare gli elementi indicati dall’ufficio il contribuente era tenuto solamente a dimostrare – e ciò aveva fatto in concreto – “… di avere delle ricchezze a disposizione per donazioni, oppure per disponibilità di redditi esenti da imposta o da obbligo dichiarativo in quanto assoggettati ad imposta sostitutiva”.

10. Per un più agevole esame della vicenda è opportuno premettere che la parte contribuente non pone in discussione che, per effetto dell’accertamento sintetico disciplinato dall’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 – nella versione ratione temporis vigente –, l’Ufficio possa beneficiare di una presunzione legale relativa fondata sui coefficienti redditometrici che il contribuente può superare fornendo la prova contraria. Su tale questione, decisa conformemente dalla CTR, deve ritenersi ormai formato il giudicato, ancorché si rinvengano precedenti di questa Corte che tale principio hanno talvolta declinato in maniera parzialmente diversa – cfr., da ultimo, Cass. n. 25532/12 – a fronte di un indirizzo, numericamente più consistente, orientato in maniera conforme ai principi esposti dalla CTR sul presupposto che è la fonte legale (art. 38 del citato D.P.R. n. 600 del 1973) a prevedere che la disponibilità di taluni beni (art. 2, D.P.R. ult. cit.) costituisce una presunzione legale di capacità contributiva che il contribuente può vincere provando che il reddito presunto sia esente, soggetto a ritenuta d’imposta o sia alimentato da indebitamento o da erogazione di patrimonio – v. Cass. n. 14168/12 (1).

10.1 A parte tale questione, che nel caso di specie assume marginale rilievo, il tema di indagine demandato a questa Corte è dunque esclusivamente correlato alle valutazioni che la CTR ha espresso in ordine alle prove che il contribuente assume di avere fornito per superare la presunzione alla quale l’Ufficio si è richiamato per giustificare la ripresa a tassazione.

10.2 Secondo la parte ricorrente principale, infatti, la motivazione addotta dalla CTR sarebbe “sbrigativa” in quanto il contribuente aveva fornito tutti gli elementi documentali idonei a dimostrare l’esistenza di disponibilità finanziarie capaci di giustificare le spese correlate al possesso di beni e gli incrementi patrimoniali, inizialmente stimate dall’Ufficio, per l’anno in esame, in Euro 1.230.000,00.

10.4 A tale risultato l’Amministrazione era giunta considerando, per il periodo 2003/2005: a) per l’anno 2003, la vendita di un’imbarcazione per Euro 10.000,00; b) per l’anno 2004, l’acquisto di altra imbarcazione (Zanuc II – stimato quale incremento patrimoniale pari ad Euro 280.000,00 sulla base del prezzo di vendita dello stesso natante riscontrato nell’anno 2005); c) per l’anno 2005, l’acquisto dell’imbarcazione da diporto Azimut a mezzo leasing per un corrispettivo stimato in Euro 960.000,00, da considerare come spese per incremento patrimoniale che l’Ufficio ha ritenuto sostenute, come tutte le precedenti indicate, con redditi conseguiti in quote costanti nell’anno in cui era stata effettuata e nel quadriennio precedente. A tali dati l’Ufficio aveva aggiunto i valori correlati al possesso di un auto a benzina Jaguar e di un’altra a gasolio, al possesso dell’imbarcazione a motore ed al possesso della residenza principale e di altre quattro residenze secondarie.

10.5 Sulla base di tali dati l’Ufficio, a fronte di un reddito dichiarato per l’anno 2004 in Euro 3.708,00, rideterminava il reddito per l’anno in esame in Euro 391.737,00.

10.6 In definitiva, l’Ufficio aveva determinato in via sintetica il reddito del contribuente avvalendosi, in parte, del meccanismo del c.d. redditometro che desumeva in via induttiva l’esistenza di elementi indicativi di capacità contributiva in forza dei D.M. che individuano la disponibilità dei beni ivi indicati come indici e coefficienti presuntivi di capacità contributiva ai fini dell’applicazione dell’art. 38, comma 4, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (accertamento con metodo sintetico) nella condizione di chi “a qualsiasi titolo o anche di fatto utilizza o fa utilizzare i beni” – nel caso di specie il possesso di immobili e di autovetture – (v. Cass. n. 7408 del 31/03/2011 (2), Cass. n. 1294 del 22/01/2007 (3) e Cass. n. 12448 del 08/06/2011 (4)). Per altro verso, l’Amministrazione procedeva all’accertamento sulle somme impiegate per incrementi patrimoniali alla stregua dell’art. 38, comma 5, D.P.R. ult. cit.

10.7 A fronte di tale accertamento il contribuente aveva contestato, per un verso, l’esistenza di un errore di calcolo nella quota relativa alle spese sostenute – pari ad Euro 246.000,00 – e, per altro, la circostanza che l’“acquisto” dell’imbarcazione Azimut era stato fatto con le forme del leasing, operando un pagamento del maxi canone con compensazione del credito che il ricorrente contribuente aveva maturato per la vendita di altro natante. Tali elementi, incidenti sulla determinazione del reddito accertato dall’Ufficio, avrebbero dovuto imporre la rideterminazione dei valori considerati dall’Ufficio in complessivi Euro 345.986,40 ed in quota parte di Euro 69.197,28 per l’anno di riferimento.

10.8 Per altro verso, il contribuente deduceva il possesso di disponibilità economiche ingenti, evidenziate, a suo dire, dalla gestione titoli che per gli anni 2004 e 2005 indicava somme in Euro comprese fra i 2.100.000,00 ca. ed i 2.700.000,00 ca. per anno.

Inoltre, il contribuente depositava certificati rilasciati dalla Banca Euromobiliare dalla quale risultavano minusvalenze pari ad Euro 2.207.108,63 per l’anno 2004 e ad Euro 913.920,51 per l’anno 2005, da ciò desumendo una potenzialità finanziaria di almeno Euro 3.121.029 per l’anno 2003.

10.9 Quanto alla donazione di Euro 700.000,00 ottenuta dalla madre, la stessa veniva documentata dal contribuente, giusta scrittura privata risalente al luglio 2004, alla quale doveva riferirsi il versamento sul di lui conto corrente, in data 18.11.2004, del relativo importo, anch’esso documentato da un estratto conto prodotto nel corso del giudizio di primo grado.

10.10 Ora, a fronte di tale compendio documentale, la CTR ha per un verso escluso la rilevanza della donazione di Euro 700.000,00, ritenendola non documentata ed anzi lasciando intravedere un’operazione di aggiramento postumamente posto in essere dal contribuente – all’atto della morte della genitrice – al solo fine di contrastare l’accertamento. Quanto al rendiconto del capital gain, la CTR ha dichiarato che “… non appare sufficientemente dimostrata la provenienza ed effettiva disponibilità finanziaria per l’effettuazione delle acquisizioni di cui trattasi”.

10.11 Occorre a questo punto rammentare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dall’art. 38, sesto comma, del D.P.R. n. 600 del 1973, non riguarda la sola disponibilità di redditi ovvero di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’essere stata la spesa per incrementi patrimoniali sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, e non già con qualsiasi altro reddito (dichiarato) cfr. Cass. n. 6813 del 20/3/2009 (5); conf. Cass. 23785/2010 (6) e Cass. n. 4183/2013 (7).

10.12 Si è in particolare ritenuto, nella prima delle decisioni teste evocate – alle quali le sentenze successive fanno pedissequo riferimento –, che per l’art. 38, sesto comma, ult. cit. «… non è sufficiente la prova della sola disponibilità di redditi – e men che mai di redditi esenti ovvero di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta – ma è necessario anche la prova che la spesa per incrementi patrimoniali sia stata sostenuta, non già con qualsiasi altro reddito (ovviamente dichiarato), ma proprio con redditi esenti o … soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta». Secondo questa interpretazione «… senza (la prova anche de) il nesso eziologico tra possesso di redditi e spesa per incrementi patrimoniali, questa spesa (siccome univocamente indicativa, per presunzione di legge, della percezione di un reddito corrispondente) continuerebbe a produrre i suoi effetti presuntivi a danno del contribuente, non avendo lo stesso superato la forza della presunzione iuris tantum (la stessa si presume) posta, a suo svantaggi dalla norma …».

10.13 In definitiva, secondo l’indirizzo appena espresso, sembra implicita al sistema normativo l’esistenza, accanto all’onere di dimostrare l’esistenza di redditi esenti capaci di sostenere le spese per incrementi patrimoniali anche di altro – aggiuntivo – onere di tenere i propri conti in modo da ricostruire i movimenti finanziari per fornire giustificazioni in merito al sostenimento delle proprie spese in caso di accertamento.

10.14 Ora, rileva il Collegio che a seguire l’indirizzo appena ricordato dovrebbe ritenersi comunque corretta la decisione impugnata ed infondata la censura esposta dal ricorrente principale, in quanto il contribuente ha dedotto solo la disponibilità di redditi sufficienti per la disponibilità e gli incrementi patrimoniali contestati dall’Ufficio, ma non risulta avere neppure allegato né che proprio quei redditi erano stati impiegati per affrontare le “spese per incrementi patrimoniali” recuperata a tassazione dall’Ufficio.

10.15 Ma a tale indirizzo non ritiene di aderire questa Corte.

10.16 Ed invero, il sesto comma dell’art. 38 D.P.R. n. 600 del 1973, nella versione ratione temporis vigente all’epoca del presente giudizio, dispone testualmente che “… il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.

10.17 A ben considerare, il testo della norma – qui la Corte limitando ovviamente l’indagine all’art. 38 comma 6 ult. cit. nel testo vigente all’epoca, in relazione all’irrilevanza delle modifiche normative successivamente intervenute in materia – non impone affatto la dimostrazione dettagliata dell’impiego delle somme per la produzione degli acquisti o per le spese di incremento, semmai richiedendo al contribuente di vincere la presunzione – semplice o legale che sia – che il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti e gli incrementi. Il che, a ben considerare, significa che nessun’altra prova deve dare la parte contribuente circa l’effettiva destinazione del reddito esente o sottoposto a tassazione separata agli incrementi patrimoniali se non la dimostrazione dell’esistenza di tali redditi.

10.18 Né dalla disciplina normativa anzidetta pare potersi evincere un onere di dimostrazione, aggiuntivo, circa la provenienza oltre che l’effettiva disponibilità finanziaria delle somme occorrenti per gli acquisti operati dal contribuente.

10.19 Se, infatti, l’Ufficio ha desunto dagli incrementi un maggior reddito rispetto a quello dichiarato e il contribuente ha dedotto e dimostrato attraverso il prospetto di gestione titoli di Stato, azionali e obbligazionari l’esistenza di disponibilità finanziarie sottoposte a tassazione separata capaci di consentire detti incrementi, il fatto presuntivo esposto dall’Ufficio non può continuare a produrre i propri effetti in ragione della condotta del contribuente, ove la stessa sia idonea a comprovare l’esistenza di redditi non dichiarati capaci di realizzare gli incrementi o e spese correlate al possesso di beni.

10.20 Una diversa interpretazione, in nessun modo correlata al tenore testuale del ricordato art. 38, comma 6, ult. cit., determinerebbe in definitiva, una sorta di trasfigurazione del presupposto impositivo, non più correlato all’esistenza di un reddito ma, piuttosto, all’esistenza di una spesa realizzata da redditi imponibili ordinari e congrui o da redditi esenti o da redditi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo d’imposta.

10.21 Orbene, appare evidente, in relazione a quanto testé affermato, la fondatezza dei rilievi esposti nel motivo di ricorso principale.

10.22 Ed invero, l’iter motivazionale esposto dal giudice di appello è gravemente lacunoso, contenendo anche non marginali errori in diritto che viziano l’iter logico della decisione quanto alla rilevanza delle disponibilità finanziarie.

10.23 Per un verso, quanto alla donazione della somma di Euro 700.00,00, non pare potersi revocare indubbio che l’omesso esame, da parte della CTR, della certificazione relativa al versamento di Euro 700.00,00 sul conto del contribuente per l’anno 2004 non poteva in ogni caso essere tralasciato dalla CTR al fine di verificare la disponibilità finanziaria dello stesso, se appunto si considera che l’omissione di tale elemento ha condizionato l’intero passaggio argomentativo del giudice di appello, il quale ha apoditticamente ritenuto di non considerare veritiera la scrittura privata relativa alla donazione indicata nella denuncia di successione.

10.24 L’identità tra l’importo della donazione fatta dalla madre e l’importo versato sul conto del contribuente nello stesso anno indicato nella scrittura privata (anche se non autenticata e priva di data certa) avrebbe dovuto indurre il giudice di appello ad un più attento esame dell’intera documentazione, mancando il quale l’affermazione circa il carattere artificioso dello stesso risulta illogica.

10.25 Del resto, proprio su tale punto questa Corte ha avuto modo di chiarire che, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali ed il contribuente deduca che tale spesa sia il frutto di liberalità, ai sensi dell’art. 38, comma 6, del D.P.R. n. 600 del 1973, la prova delle liberalità medesime deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, ai quali la motivazione della sentenza deve fare preciso riferimento – cfr. Cass. n. 24597 del 3/12/2010 (8); conf. Cass. n. 11389/2008 (9).

10.26 Non meno lacunose ed, anzi, addirittura fondate su un presupposto contrario a legge, appaiono le argomentazioni spese dalla CTR in ordine alla irrilevanza delle rendite finanziarie del contribuente ai fini della controversia, posto che il giudice di appello ha illogicamente motivato la decisione di rigetto del ricorso escludendo ogni valore probatorio alla documentazione prodotta dal contribuente sul presupposto, errato in diritto, che detto contribuente fosse tenuto a “dimostrare la provenienza ed effettiva disponibilità finanziaria per l’effettuazione delle acquisizioni”.

10.27 Tale motivazione si fonda, infatti, per un verso su argomentazioni in netto contrasto con i principi fatti propri da questo Collegio ed esposti nei paragrafi precedenti e, per altro verso, si dimostra gravemente lacunosa, non contenendo un esame analitico delle disponibilità finanziarie allegate dalla parte contribuente, sottoposte a tassazione separata, e alla loro idoneità a giustificare i fatti posti a base dell’accertamento fiscale.

11. Passando all’esame dell’appello incidentale, affidato ad un unico motivo, l’Agenzia lamenta l’insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rappresentato dalla quantificazione delle spese prospettate dall’Ufficio. La CTR, dedicando due sole righe per rigettare l’impugnazione incidentale proposta, avrebbe tralasciato di rispondere ai rilievi esposti dall’Ufficio in ordine alla quantificazione degli incrementi patrimoniali considerati in sede di avviso di accertamento.

12. La parte contribuente ha dedotto l’inammissibilità e infondatezza della censura.

13. Il motivo è inammissibile.

13.1 È noto, infatti, che la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione – n. 24148 del 25/10/2013.

13.2 Orbene, nel caso di specie la ricorrente incidentale si è limitata a prospettare la carenza motivazionale della decisione impugnata, erroneamente deducendo che la CTR avesse dedicato solo due righe di motivazione all’appello incidentale proposto in appello.

13.3 Così facendo l’appellante incidentale non si è avveduta che il giudice di appello aveva specificamente individuato gli elementi fattuali dai quali inferire che l’originario accertamento compiuto dall’Ufficio aveva erroneamente valutato alcuni elementi, considerando la titolarità di una autovettura già da tempo ceduta dal contribuente e omettendo di considerare il maxi canone di leasing corrisposto per l’”acquisto” dell’imbarcazione Azimut mediante compensazione di somma proveniente da alienazione di altro natante.

Ciò la CTR aveva fatto condividendo le prospettazioni difensive esposte dalla parte contribuente – v. infatti il conteggio riprodotto a pag. 8 del ricorso dal contribuente a suo tempo esposto nel ricorso introduttivo.

13.4 Orbene, rispetto a tale ricostruzione degli incrementi patrimoniali e del possesso di beni l’Ufficio non ha formulato alcuna critica all’operato della CTR, invece limitandosi a riproporre le tesi difensive rivolte, in definitiva, a determinare un risultato diverso dagli accertamenti compiuti dalla CTR che, in quanto esenti da illogicità e incongruità, non possono essere rivisti in questa sede.

L’appello incidentale va quindi rigettato.

14. In conclusione, il ricorso principale deve essere accolto, mentre quello incidentale va rigettato. La sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della CTR della Lombardia che si uniformerà ai principi sopra esposti, provvedendo altresì sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M. – La Corte accoglie il ricorso principale, Rigetta il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della CTR della Lombardia che si uniformerà ai principi sopra esposti, provvedendo altresì sulle spese del giudizio di legittimità.

(1) Cass. 6 agosto 2012, n. 14168, in Boll. Trib., 2012, 1718.

(2) In Boll. Trib. On-line.

(3) In Boll. Trib. On-line.

(4) In Boll. Trib. On-line.

(5) In Boll. Trib. On-line.

(6) Cass. 24 novembre 2010, n. 23785, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cass. 20 febbraio 2013, n. 4183, in Boll. Trib. On-line.

(8) In Boll. Trib. On-line.

(9) Cass. 8 maggio 2008, n. 11389, in Boll. Trib. On-line.

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