3 Giugno, 2015

ESPORTAZIONI, FRA LA NORMA COMUNITARIA E QUELLA NAZIONALE

Il referente normativo della questione esaminata dalla Suprema Corte è rappresentato dagli artt. 8 e 71 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Costituiscono cessioni all’esportazione non imponibili, precisa il primo di questi articoli, quelle «eseguite mediante trasporto o spedizione di beni fuori del territorio della Comunità economica europea». La prova dell’esportazione deve risultare, prosegue, «da documento doganale, o da vidimazione apposta dall’ufficio doganale su un esemplare della fattura ovvero su un esemplare della bolla di accompagnamento».

Tali regole, afferma l’art. 71, si applicano anche alle cessioni eseguite mediante trasporto dei beni nel territorio della Repubblica di San Marino, «secondo modalità da stabilire preventivamente con decreti del Ministro per le finanze».

Dopo avere precisato che l’imprenditore italiano deve emettere la fattura di cui all’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972 in quattro esemplari, l’art. 3 del D.M. 24 dicembre 1993, emesso in esecuzione di tale rinvio, dispone che il contribuente deve registrare detta fattura a norma dell’art. 23 dello stesso D.P.R. n. 633/1972 e deve allegare al documento di accompagnamento dei beni viaggianti uno di questi esemplari «munito di timbro a secco circolare contenente intorno allo stemma ufficiale sammarinese la seguente dicitura “Rep. di San Marino – Uff. Tributario”».

Nel caso in esame, si discuteva degli effetti legati al mancato adempimento di quanto indicato nel successivo art. 4 del medesimo decreto ministeriale, laddove prevede che l’operatore italiano deve prendere «nota a margine delle corrispondenti scritture eseguite nel registro di cui all’art. 23» del possessodell’esemplare della fattura munita del timbro di cui sopra. La ditta accertata possedeva la prova della esportazione: l’esemplare della fattura vidimata dallo Stato di San Marino, ma non ne aveva annotato il possesso a margine delle corrispondenti scritture previste dal predetto art. 23 del D.P.R. n. 633/1972.

La tesi dell’Ufficio finanziario era quella per cui questo adempimento rappresentava una condizione essenziale per applicare il regime di non imponibilità previsto per le esportazioni dall’art. 8. Ciò non essendo avvenuto, tanto doveva bastare per rendere imponibile la correlata operazione.

La Corte di Cassazione non ha condiviso questo assunto. Le succitate disposizioni che condizionano la non imponibilità all’IVA agli adempimenti formali suindicati debbono essere lette, dicono i Supremi Giudici, «alla luce di quanto dispone, in proposito, il diritto comunitario cogente, e segnatamente la Sesta Direttiva CE n. 388/77, temporalmente applicabile alla fattispecie in esame».

A queste norme comunitarie il giudice nazionale deve conformarsi in qualsiasi stato e grado del processo, indipendentemente dal fatto che la loro applicazione venga o meno dedotta dalle parti. Applicare il diritto comunitario è infatti un dovere istituzionale del giudice per «assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie aventi un rango preminente rispetto a quelle del singoli Stati membri».

Chiaro a questo proposito l’art. 10 del trattato della Comunità economica europea del 1957, ratificato dalla legge 14 ottobre 1957, n. 1203: «gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente Trattato Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato».

[-protetto-]

L’art. 15 della VI Direttiva, laddove vuole che le cessioni di beni spediti o trasportati fuori del territorio nazionale siano esentate dall’applicazione dell’IVA, rientra nel novero di queste norme, di fronte alle quali il nostro diritto nazionale, se con esse confliggente, deve essere disapplicato.

La regola prevista in tale direttiva non ammette eccezioni. Gli Stati membri non possono assoggettare ad Iva un’esportazione che la norma comunitaria vuole esente. In questo senso, dice la Corte di Giustizia dell’Unione europea (1), una cessione di beni trasportati fuori dell’Unione è un’operazione non imponibile anche nelle ipotesi in cui essa «esportazione possa definirsi illecita».

Se così è, dice la Corte di Cassazione nella sentenza annotata, a maggior ragione tale deve restare quando si tratti, come nella fattispecie de qua, di un’esportazione semplicemente irregolare sul piano della forma. A ciò consegue, questa la conclusione, «che in presenza di una cessione all’esportazione regolarmente eseguita, mediante spedizione o trasporto dei beni nella Repubblica di San Marino, e quindi rientrante nella previsione dell’art. 15 della Sesta Direttiva, il diritto all’esenzione dall’IVA non poteva essere escluso sulla base di un mero presupposto formale», quale per l’appunto è la mancata annotazione del possesso della fattura vidimata dallo Stato di San Marino.

Detto questo sul piano della condivisione della decisione in commento, la cui valenza trascende il caso trattato, corre obbligo di aggiungere che identico risultato si raggiunge percorrendo l’itinerario normativo tracciato dal legislatore nazionale.

L’elemento essenziale di una esportazione è il trasporto o la spedizione dei beni oggetto della cessione fuori del territorio della Comunità economica europea.

Una volta che l’operatore economico dimostri tale elemento, nel caso specifico il trasporto dei beni nel territorio della Repubblica di San Marino attraverso la fattura vidimata dell’ufficio tributario del predetto Stato, l’esportazione tale resta a nulla potendo valere, in termini di qualificazione della medesima, il fatto che l’esportatore abbia o meno preso nota del possesso di questa fattura «a margine delle corrispondenti scritture eseguite nel registro di cui all’art. 23 D.p.r. 633/72». La condizione normativa per applicare la correlata fattispecie resta il fatto che il bene sia stato effettivamente trasportato o spedito nello Stato di San Marino, e non tanto che il possesso della fattura vidimata sia stato annotato a margine delle scritturazioni contabili.

L’omissione di tale formalità potrà legittimare l’irrogazione di sanzioni, giammai la decadenza dall’agevolazione fiscale sulla non imponibilità. Ammesso, per amore di tesi, che di agevolazione si tratti.

L’art. 8 del D.P.R. n. 633/1972 non regolamenta infatti un’esenzione, una sorta di privilegio fiscale che, come tale, si può anche perdere, ma «il sistema» della non imponibilità territoriale delle esportazioni, sancito dall’art. 1 del medesimo decreto: «l’imposta si applica sulle cessioni di beni … effettuate nel territorio dello Stato».

Pur vero che l’art. 71 del D.P.R. n. 633/1972 rimanda ad un successivo decreto ministeriale il compito di stabilire le modalità applicative dell’art. 8, è altrettanto vero che tale rinvio attiene per l’appunto alle modalità senza alcuna pretesa di incidere sul contenuto del presupposto territoriale sancito dall’art. 1 della stessa legge.

Se è vero poi che nel sistema tributario nazionale vale il principio sancito dall’art. 23 Cost., secondo cui nessuna prestazione patrimoniale «può essere imposta se non in base alla legge», pare evidente che non è per nulla ipotizzabile che il Ministero possa introdurre a carico del contribuente italiano formalità contabili in grado di incidere sulla essenza e sulla oggettività del presupposto d’imposta, così modificando il regime impositivo della operazione compiuta.

Ciò è quanto dire che la pretesa dell’ufficio di escludere dall’applicazione dell’art. 8 una esportazione nella Repubblica di San Marino, e questo solo perché il contribuente non annota il possesso della fattura vidimata dall’Ufficio tributario sanmarinese nelle sue scritture contabili, è una pretesa del tutto priva di fondamento normativo.

L’IVA è un’imposta neutra, colpisce il solo consumatore finale. Il diritto di rivalsa in capo al cedente e quello di detrazione per il cessionario che sia soggetto passivo d’imposta garantiscono questo risultato. Prima che l’art. 93 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), intervenisse sull’art. 60 del D.P.R. n. 633/1972, questa rivalsa non era ammessa per l’imposta o la maggiore imposta pagata dal venditore in conseguenza dell’accertamento o della rettifica della dichiarazione da parte dell’amministrazione finanziaria. La rivalsa era infatti collegata soltanto al compimento di una operazione imponibile e alla correlata emissione della fattura. Solo in questi casi, il cedente del bene doveva e poteva esigere il pagamento dell’imposta dal soggetto cessionario del bene.

Si diceva che questa disciplina, in manifesta contraddizione con il principio sulla neutralità dell’imposta, era giustificata dall’esigenza di garantire la stabilità dei rapporti giuridici. Stabilità che sarebbe stata compromessa se la rivalsa fosse stata ammessa anche su operazioni remote e, ancora, se fosse stato consentito al cessionario di detrarre, a mente dell’art. 19, quanto da lui così pagato.

Il nuovo testo dell’art. 60 corregge questa anomalia valorizzando le ragioni di politica tributaria sulla tassazione del solo consumo finale. La rivalsa è ora ammessa anche per la maggiore imposta accertata dall’amministrazione finanziaria e il cessionario dei beni ha conseguentemente diritto di esercitare la correlata detrazione per l’imposta così pagata all’interno della sua dichiarazione.

Anche in occasione di un accertamento, dunque, accanto al classico rapporto tributario e pubblicistico tra l’erario ed il cedente, se ne instaurano pure gli altri due: il primo civilistico tra quest’ultimo e il cessionario per quanto concerne la rivalsa, il secondo, di nuovo pubblicistico, tra l’erario e il cessionario per la detrazione dell’imposta così pagata.

Una vera e propria rivoluzione in termini che cancella tutte quelle ipotesi in cui l’IVA per cui era impedita la rivalsa restava a carico del cedente, come in una sorta di sanzione impropria.

In conclusione, vero l’asserto dell’ufficio finanziario, vero cioè che la mancata annotazione all’interno delle scritture contabili del possesso della fattura vidimata dallo Stato di San Marino rende imponibile la correlata operazione di vendita, al pari di una normale cessione effettuata sul territorio italiano, il caso in esame sarebbe un caso emblematico del come una interpretazione di un articolo di legge può giungere a “sfigurare” l’essenza dell’istituto della non imponibilità.

Non solo l’imposta verrebbe applicata sulla base di un inadempimento formale del cedente, del tutto estraneo al presupposto oggettivo d’imposta, ma l’imposta così applicata resterebbe definitivamente a carico di questi, posto che lo straniero non potrebbe essere chiamato a pagare le nostre imposte addirittura dopo che i beni a cui esse imposte ineriscono gli sono stati consegnati nello Stato di sua residenza.

Imposta a cui il cedente dovrebbe poi aggiungere, in una sorta di paradossale cupio dissolvi, le sanzioni edittali previste dagli artt. 5 e 6 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.

Avv. Bruno Aiudi

(1) Cfr. Corte Giust. Ue 2 agosto 1993, causa C-111/92, in Boll. Trib. On-line.

IVA – Comunità europea – Cessioni extra-comunitarie – Cessioni all’esportazione effettuate a clienti residenti nella Repubblica di San Marino – Diritto all’esenzione – D.M. 24 dicembre 1993 – Obbligo di presa nota a margine delle scritture contabili – Costituisce un adempimento formale – Omissione – Irrilevanza – Perdita dell’esenzione delle cessioni all’esportazione – Non si verifica – Prevalenza del diritto comunitario – Sussiste – Applicabilità del diritto comunitario in ogni stato e grado del processo.

IVA – Comunità europea – Cessioni extra-comunitarie – Esenzione dall’IVA – Norma interna che punisce la violazione di un adempimento formale con la perdita del diritto all’esenzione – È incompatibile col diritto comunitario – Diritto all’esenzione anche in presenza di un’operazione illecita o irregolare – Sussiste.

Le disposizioni del diritto nazionale, quali il D.M. 24 dicembre 1993, con cui il Ministero delle finanze ha emanato le disposizioni attuative di quanto stabilito dall’art. 71 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, che condizionano il diritto all’esenzione dall’IVA delle cessioni all’esportazione con la Repubblica di San Marino agli adempimenti formali, quali l’annotazione a margine delle corrispondenti scritture eseguite nel registro di cui all’art. 23 del medesimo D.P.R. n. 633/1972, devono essere rilette alla luce di quanto dispone, in proposito, il diritto comunitario cogente e, segnatamente, la VI Direttiva 388/77/CEE, con conseguente disapplicazione del diritto nazionale confliggente con le norme del diritto comunitario cogente da operarsi anche d’ufficio nel giudizio di legittimità, costituendo l’applicazione del diritto comunitario un dovere istituzionale per la Corte di Cassazione, onde assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie aventi un rango preminente rispetto a quelle dei singoli Stati membri.

Il diniego da parte di uno Stato membro dell’Unione europea di esentare un’operazione di esportazione dall’IVA, come previsto dalla VI Direttiva 388/77/CEE, qualora detto diniego intenda punire la violazione di una disposizione nazionale che prevede un’autorizzazione in materia, o qualsiasi altro incombente a carattere formale, persegue una finalità estranea a quella della predetta Direttiva, come enunciata dall’art. 15 e dall’undicesimo “considerando” (equiparare le esenzioni nazionali, al fine di una riscossione paragonabile delle risorse proprie di tutti gli Stati membri), e il diritto del contribuente all’esenzione dall’IVA, laddove ricorrano i presupposti di cui all’art. 1 della stessa VI Direttiva, sussiste pure in presenza di un’esportazione illecita e, a fortiori, di un’esportazione irregolare, secondo le norme del diritto nazionale.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Bielli, rel. Valitutti), 18 luglio 2014, sent. n. 16450, ric. Agenzia delle entrate c. Consumer Electronics s.p.a.]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. A seguito di processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza del 16.12.03, veniva notificato alla società Consumer Electronics s.p.a. un avviso di accertamento, emesso ai fini IRPEG, IRAP ed IVA per l’anno 2002, con il quale l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione le maggiori imposte dovute in conseguenza di una serie di violazioni (violazione degli obblighi di tenuta della contabilità, deduzione di costi non inerenti e di competenza di altri esercizi, omessa individuazione e registrazione di operazioni, violazioni relative ad esportazioni di beni in San Marino), poste in essere dalla società contribuente nell’anno di imposta 2002.

2. L’atto impositivo veniva impugnato dalla Consumer Electronics s.p.a. dinanzi alla CTP di Milano, che accoglieva parzialmente il ricorso.

3. L’appello principale avverso tale pronuncia proposto dall’Agenzia delle Entrate veniva disatteso dalla CTR delle Lombardia, con sentenza n. 145/50/06, depositata il 12.1.07, mentre veniva accolto in parte l’appello incidentale della contribuente, ossia limitatamente al rilievo concernente, ai fini IVA, le esportazioni verso clienti con sede in S. Marino. La CTR ritenere, per il resto, di confermare l’intero percorso motivazionale seguito dal giudice di prime cure.

4. Per la cassazione della sentenza n. 145/50/06 ha proposto, quindi, ricorso l’Agenzia delle Entrate affidato a due motivi. La resistente ha replicato con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

1.1. L’impugnata sentenza – a parere dell’Amministrazione ricorrente – sarebbe affetta dal dedotto vizio motivazionale non avendo la CTR indicato le ragioni per le quali i costi – contestati dall’Amministrazione al punto B1 dell’avviso di accertamento – sarebbero, a suo avviso, riconducibili a spese pubblicitarie, integralmente deducibili, e non – piuttosto – a spese di rappresentanza, con conseguente deducibilità solo parziale, ai sensi dell’art. 74 del D.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta).

1.2. Il motivo è inammissibile.

1.2.1. Il ricorrente ha, invero, del tutto omesso di formulare un’indicazione riassuntiva e sintetica, contenente la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume contraddittoria o insufficiente, nonché le ragioni per le quali la motivazione debba considerarsi inidonea, per la sua insufficienza, a giustificare la decisione di appello. E ciò ai sensi dell’art. 366-bis, comma 2, c.p.c. (applicabile alla fattispecie ratione temporis), a tenore del quale la formulazione della censura, a norma dell’art. 360, n. 5, c.p.c. deve contenere un “momento di sintesi” omologo del quesito di diritto, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo operata dalla parte ricorrente (cfr., ex plurimis, Cass. 8897/08; 2652/08; Cass. S.U. 11652/08; 16528/08).

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1.2.2. Nel caso di specie, per contro, l’Agenzia delle entrate si è limitata ad esporre – in maniera ampia e diffusa – le ragioni per le quali la motivazione dell’impugnata sentenza sarebbe, a suo parere, affetta dal vizio motivazionale dedotto, senza operare la sintesi richiesta dalla norma succitata.

1.3. Di conseguenza, la censura – per le ragioni suesposte – non può trovare accoglimento.

2. Con il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 71, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, nonché dell’art. 4, lett. b), del D.M. 24 dicembre 1993, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

2.1. La CTR avrebbe, invero, erroneamente accolto – ad avviso dell’Amministrazione finanziaria – l’appello incidentale della contribuente, in relazione al rilievo rubricato al n. C2 dell’avviso di accertamento, con il quale l’Ufficio aveva escluso che fossero esenti dall’assoggettabilità all’IVA, ai sensi del combinato disposto degli artt. 8 e 71 del D.P.R. n. 633 del 1972, le cessioni all’esportazione effettuate dalla Consumer Electronics s.p.a. a clienti residenti nella Repubblica di San Marino. Tale esclusione – ritenuta illegittima dalla CTR – deriverebbe, invece, a parere dell’Amministrazione finanziaria dal fatto di non avere la contribuente provveduto, come richiesto dall’art. 4, comma 1, lett. b), del D.M. 24 dicembre 1993, alla “presa nota a margine”, nel registro IVA delle vendite, delle fatture di vendita vidimate a clienti aventi sede in San Marino.

2.2. Il motivo è infondato.

2.2.1. Va osservato, al riguardo, che l’art. 71 del D.P.R. n. 633 del 1972, dispone che le norme in materia di esenzione delle cessioni all’esportazione, di cui agli artt. 8 e 9 del decreto cit., “si applicano alle cessioni eseguite mediante trasporto o consegna dei beni nel territorio (oltre che dello Stato della Città del Vaticano….) della Repubblica di San Marino ed ai servizi connessi, secondo le modalità da stabilire preventivamente con decreti del Ministro per le Finanze in base ad accordi con i detti Stati”.

2.2.2. Con il D.M. 30 [24, n.d.r.] dicembre 1993, il Ministero delle Finanze ha, dipoi, emanato le disposizioni attuative di quanto stabilito dall’art. 71 del D.P.R. n. 633 del 1972, stabilendo, all’art. 4, che “in relazione alle cessioni di cui all’art. 1, si applicano le disposizioni di cui agli artt. 8 e 9 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modifiche e integrazioni, a condizione che l’operatore italiano: a) sia in possesso dell’esemplare della fattura indicata all’art. 3, n. 3 (ossia la fattura vidimata dalla Repubblica di San Marino); b) ne abbia preso nota a margine delle corrispondenti scritture eseguite nel registro di cui all’art. 23 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modifiche ed integrazioni”; c) (…)”- Ed è proprio l’inadempimento di tale obbligo di “presa nota a margine”, previsto dalla lettera b) della disposizione succitata, da parte della Consumer Electronics s.p.a., che – a parere dell’Agenzia delle Entrate – impedirebbe l’esenzione delle cessioni all’esportazione effettuate, nel caso di specie, a clienti aventi sede nella Repubblica di San Marino.

2.3. Tale assunto della ricorrente non può essere condiviso.

2.3.1. Non può revocarsi in dubbio, infatti, che le succitate disposizioni del diritto nazionale, che condizionano il diritto all’esenzione da IVA delle cessioni all’esportazione in questione agli adempimenti formali suindicati, debbano essere rilette alla luce di quanto dispone, in proposito, il diritto comunitario cogente, e – segnatamente – la Sesta Direttiva CE n. 388/77, temporalmente applicabile alla fattispecie in esame. La disapplicazione del diritto nazionale confliggente con le norme del diritto comunitario cogente, invero, deve essere operata anche d’ufficio nel presente giudizio di legittimità, costituendo, anzi, l’applicazione del diritto comunitario un dovere istituzionale per la Suprema Corte (come si desume, altresì, dall’art. 267 del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea), onde assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie aventi un rango preminente rispetto a quelle dei singoli Stati membri.

2.3.2. A tanto induce, invero, il principio di effettività, enunciato nell’art. 10 del Trattato CE, che comporta l’obbligo per il giudice nazionale di applicare il diritto comunitario in qualsiasi stato e grado del processo, senza che possano ostarvi preclusioni procedimentali o processuali di sorta (Cass. S.U. 26948/06, Cass. 19546/11).

2.3.3. Ebbene, tanto premesso in via di principio, va osservato – con riferimento al caso concreto – che, ai sensi dell’art. 15 della Sesta Direttiva, in materia di IVA, “fatte salve le altre disposizioni comunitarie, gli Stati membri esentano a condizioni da essi fissate per assicurare una corretta e semplice applicazione delle esenzioni stesse e prevenire ogni possibile frode, evasione ed abuso: 1) le cessioni di beni spediti o trasportati dal venditore o per suo conto fuori del territorio del paese di cui all’art. 3 (ossia della CE); 2) (…)”.

2.3.4. La Corte di Giustizia (cfr. C. Giust. 2.8.1993, C-111/92, Lange) ha chiarito, al riguardo, che tale disposizione, in conformità al principio della neutralità fiscale su cui si fonda la Sesta direttiva, non delinea, in materia di esenzioni, alcuna distinzione fra esportazioni lecite e illecite. Con la conseguenza che, perfino nelle ipotesi in cui un’esportazione possa definirsi illecita alla stregua del diritto nazionale, qualora quest’ultima abbia ad oggetto merci ricomprese nella sfera d’applicazione della Sesta direttiva, la medesima non potrà che essere trattata allo stesso modo delle esportazioni lecite di merce.

2.3.5. Ne discende che la suddetta disposizione di cui all’art. 15 della Sesta Direttiva non autorizza in alcun modo gli Stati membri ad assoggettare all’IVA un’esportazione dichiarata esente ai sensi della medesima norma. Tale interpretazione – osserva la Corte di Giustizia – è, del resto, corroborata dall’art. 17, n. 3, della medesima direttiva, laddove prevede che gli Stati membri accordano, altresì, ad ogni soggetto passivo la deduzione ovvero il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto, nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini di sue operazioni esenti. Il diniego da parte di uno Stato membro di esentare un’operazione di esportazione dall’IVA, come previsto dalla Sesta direttiva, qualora detto diniego intenda punire la violazione di una disposizione nazionale che prevede un’autorizzazione in materia, o qualsiasi altro incombente a carattere formale, persegue, dunque, una finalità estranea a quello della Sesta Direttiva, come enunciata dall’art. 15 e dall’undicesimo “considerando” (equiparare le esenzioni nazionali, al fine di una riscossione paragonabile delle risorse proprie di tutti gli Stati membri) (C. Giust. 2.8.1993, cit.).

2.3.6. In definitiva, dunque, per il diritto comunitario il diritto del contribuente all’esenzione da IVA, laddove ricorrano i presupposti di cui all’art. 15 della Sesta Direttiva – nella specie, la cessione di beni trasportati o spediti fuori della Unione Europea (già Comunità Europea) –, sussiste pure in presenza di un’esportazione illecita ed – a fortiori – di un’esportazione irregolare, secondo le norme del diritto nazionale.

2.4. Ciò posto, nel caso di specie, la CTR ha accertato – con ampia e motivata valutazione del fatto, non censurata dall’Agenzia delle Entrate sotto il profilo del vizio di motivazione – che l’azienda esportatrice aveva ricevuto, come del resto non era stato contestato neppure dall’Ufficio, la “prescritta certificazione dell’ufficio tributario di San Marino, attestante l’effettivo espletamento degli adempimenti necessari per il perfezionamento delle operazioni”. Ed, in effetti, che i beni fossero stati realmente esportati nel territorio di San Marino risulta secondo la CTR – sul punto non contrastata dal gravame dell’Amministrazione finanziaria – dalla copia delle fatture emesse dalla Consumer Electronics s.p.a., regolarmente “vidimate dall’Ufficio Tributario della Repubblica di San Marino, recanti la prescritta marca a timbro”; il che si desume, d’altro canto, dallo stesso avviso di accertamento dell’Ufficio (p. 9).

2.5. Ne discende che, in presenza di una cessione all’esportazione regolarmente eseguita, mediante spedizione o trasporto dei beni nella Repubblica di San Marino, e quindi rientrante nella previsione dell’art. 15 della Sesta Direttiva, il diritto all’esenzione dall’IVA non poteva essere escluso dall’Amministrazione finanziaria sulla base di un mero presupposto formale, ferma restando, comunque, la competenza dello Stato italiano a censurare tale violazione sul piano sanzionatorio (C. Giust. 2.8.1993, cit.).

2.6. Il motivo di ricorso in esame va, di conseguenza, disatteso.

3. Per le ragioni che precedono, pertanto, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con conseguente condanna dell’Amministrazione ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M. – La Corte Suprema di Cassazione; rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.000,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi ed accessori di legge.