25 Maggio, 2018

1. Premessa

La vicenda inizia con l’accesso della Guardia di finanza presso gli uffici di uno studio legale associato nei cui confronti era stata avviata una verifica parziale ai fini delle imposte dirette (1). Durante le operazioni, avendo gli operatori iniziato ad acquisire il contenuto di ogni fascicolo e di ogni file presente nei computer dei professionisti, il rappresentante legale dello studio eccepiva il segreto professionale con specifico riguardo alla corrispondenza intrattenuta con la clientela. I militari, dunque, sospese le operazioni, chiedevano, seppur genericamente, e ottenevano dal Procuratore della Repubblica la prescritta autorizzazione (2). In forza di ciò, procedevano ad acquisire tutti i messaggi di posta elettronica nonché numerosi documenti informatici rinvenuti nei computer di alcuni professionisti associati allo studio. La verifica si concludeva con la sola contestazione di alcune irregolarità contabili – per nulla riconducibili alla documentazione e alla corrispondenza acquisita in forza dell’autorizzazione del Pubblico Ministero – che lo studio legale definiva prestandovi acquiescenza.
In considerazione dell’esito della verifica, lo studio, ritenendo che l’autorizzazione concessa dal Pubblico Ministero fosse priva delle indispensabili ragioni che la avrebbero dovuta giustificare, nonché di ogni valutazione circa la ragionevolezza e la proporzionalità, rispetto agli interessi pubblici in gioco, della disposta deroga al segreto professionale, la impugnava avanti al giudice amministrativo lamentando, da un lato, la violazione del diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza, quale diritto fondamentale ed inviolabile che può essere limitato, solo in ipotesi eccezionali, con atto motivato dell’autorità giudiziaria, e, dall’altro, la lesione dell’interesse alla segretezza della corrispondenza con i propri clienti, coperta dal segreto professionale. Lo studio legale chiedeva inoltre all’adito giudice amministrativo il risarcimento del danno non patrimoniale per l’asserito pregiudizio alla autonomia e alla riservatezza professionale nei confronti della clientela nonché all’immagine e alla reputazione dello studio stesso, da liquidare secondo equità ai sensi dell’art. 1226 c.c.
Sulla dichiarata carenza di giurisdizione del giudice amministrativo (3) venivano chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite della Suprema Corte che, con la sentenza n. 11082 resa in data 7 maggio 2010, rigettavano il ricorso e, condividendo le argomentazioni prospettate dai primi giudici, statuivano la giurisdizione del giudice tributario ritenendo a tal fine irrilevante che la verifica fiscale si fosse conclusa con un atto poi non impugnato (4) ovvero che l’atto autorizzatorio di cui si lamentava l’illegittimità non fosse riconducibile alle categorie di atti autonomamente impugnabili indicate dall’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (5).
Il ricorso veniva quindi riassunto avanti alla competente Commissione tributaria provinciale che, ritenuto ineludibile il vincolo imposto dalle Sezioni Unite non solo in punto di giurisdizione bensì anche in punto di proponibilità/accoglibilità della domanda, giudicava la questione nel merito e, rilevata la carenza di motivazione, l’indeterminatezza dell’oggetto nonché della finalità perseguita, annullava il provvedimento autorizzativo rigettando, tuttavia, la domanda risarcitoria (6). La sentenza veniva poi riformata in sede di gravame dalla Commissione tributaria regionale che dichiarava l’improponibilità del ricorso (7). Avverso la sentenza d’appello lo studio associato proponeva ricorso per cassazione che veniva respinto dalle Sezioni Unite con la sentenza qui annotata, confermativa della declaratoria di improponibilità per carenza di giurisdizione del giudice adito.
La sentenza affronta il tema della proponibilità, avanti al giudice tributario, della domanda di annullamento dell’autorizzazione all’esame e all’acquisizione di documenti in deroga al segreto professionale, rilasciata dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 52, terzo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nell’ambito della verifica fiscale a carico di uno studio legale, quando questa non abbia addotto all’emissione di un atto impugnabile, ovvero questo non sia stato impugnato. E, nel farlo, muove nell’alveo delle indicazioni contenute nella citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 11082/2010 che nel primo caso aveva affermato la giurisdizione esclusiva del giudice tributario. L’annotata sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite offre l’occasione per considerare i seguenti argomenti: a) la tutela giurisdizionale del contribuente a fronte dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell’art. 52, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, in deroga al segreto professionale con particolare riferimento al contesto nel quale è rilasciata, all’art. 7, quarto comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e alla natura del segreto professionale; b) il coordinamento tra l’esclusività della giurisdizione del giudice tributario e l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 quando si intenda far valere l’illegittimità di atti istruttori; c) la lesione di diritti soggettivi e la tutela giurisdizionale da parte del giudice ordinario.

2. La tutela giurisdizionale del contribuente a fronte dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell’art. 52, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, in deroga al segreto professionale

L’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992, come modificato dall’art. 12 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, attribuisce alla giurisdizione delle Commissioni tributarie tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali, l’abrogato contributo per il Servizio sanitario nazionale, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro accessorio (8).
Non tutte le controversie tributarie sono tuttavia devolute alla giurisdizione delle Commissioni, ravvisandosi ambiti di tutela devoluta tanto all’autorità giudiziaria ordinaria quanto a quella amministrativa: l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 conferma la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata successivi alla notifica della cartella di pagamento, e l’art. 7, quarto comma, della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) (9), conferma quella del giudice amministrativo per la tutela degli interessi legittimi non riconducibili nell’ambito della giurisdizione del giudice tributario. Tra le controversie di questo tipo possono annoverarsi le impugnazioni di provvedimenti individuali, lesivi di interessi legittimi, che non rientrino tra quelli previsti come impugnabili davanti le Commissioni tributarie dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, o che non siano strumentali a questi ultimi, nonché gli atti istruttori dell’Amministrazione finanziaria lesivi di interessi legittimi (10).
All’individuazione dei confini della giurisdizione tributaria, infatti, concorre il principio secondo cui il processo può essere introdotto solo con il ricorso avverso gli atti elencati dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, di talché gli altri atti non sono considerati autonomamente impugnabili, e i relativi vizi possono essere fatti valere – in via differita – solo in quanto comportino l’illegittimità di un successivo atto impugnabile.
Così definiti i contorni della giurisdizione tributaria, a prima vista sembrerebbe potersi affermare che l’illegittimità del provvedimento di autorizzazione rilasciato dal Pubblico Ministero in deroga al segreto professionale debba essere fatta valere avanti all’autorità giudiziaria amministrativa, in quanto atto istruttorio cui non abbia fatto seguito l’emissione di un avviso di accertamento ovvero questo non sia stato impugnato. La conclusione è però contraddetta delle considerazioni svolte dalla Corte di Cassazione con la citata sentenza n. 11082/2010, cui la sentenza in commento si richiama.
La questione è oltremodo rilevante con riferimento agli atti attraverso i quali si esplicano i poteri conoscitivi e di controllo dell’Amministrazione finanziaria che, imponendo al soggetto passivo obblighi di facere, di dare o di pati, interferiscono nella sfera delle libertà individuali del privato e, a prescindere dalle eventuali conseguenze in ambito patrimoniale – quindi, anche a prescindere dall’emissione di un avviso di accertamento – hanno ancor prima una immediata e diretta incidenza su posizioni giuridiche diverse che richiedono specifica tutela (11).
La Suprema Corte, infatti, muovendo dall’analisi della natura del segreto professionale e da un approfondito esame dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo in considerazione del fatto che il provvedimento di autorizzazione si colloca all’interno di un procedimento di verifica fiscale, di natura impositiva (in quanto finalizzato all’accertamento dell’effettivo assolvimento dell’obbligazione tributaria), cosa che – secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale – ne comporta la impugnabilità innanzi al giudice tributario soltanto con l’atto finale impositivo; e ha affermato che, nel caso esaminato, non potevano ravvisarsi i presupposti, soggettivi ed oggettivi, necessari ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo e, da ultimo, che anche ad ammettere che l’atto autorizzatorio potesse avere una immediata, concreta ed effettiva lesività, quest’ultima si sarebbe riverberata esclusivamente su di una posizione di diritto soggettivo, e non già di interesse legittimo, di talché l’eventuale tutela del diritto alla riservatezza della corrispondenza avrebbe dovuto essere azionata, al più, avanti al giudice dei diritti. Con il che il problema non è tuttavia risolto, dovendosi avere riguardo anche al contesto in cui l’autorizzazione si inserisce.

2.1 Il segreto professionale e il contesto all’interno del quale l’autorizzazione viene rilasciata: verifica fiscale a fini impositivi

Il segreto professionale, disciplinato dall’art. 6 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (12), è una componente fondamentale dell’attività professionale dell’avvocato che fonda su di esso la ragione stessa del proprio ministero: è un diritto e una difesa per la parte assistita ed è, nella coscienza dell’avvocato, un limite ideale non valicabile (13). Esso è tutelato sul versante penale dall’art. 622 c.p. (14) e su quello civile dall’art. 249 c.p.c. (15).
In sede di istruttoria tributaria, la tutela del segreto si risolve nella previsione di due ordini di cautele: da un lato, l’accesso presso locali adibiti a studi professionali, pur non necessitando di alcuna speciale autorizzazione se non quella del capo dell’Ufficio finanziario, richiede la presenza del professionista o di un suo delegato; dall’altro, è richiesta invece l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità giudiziaria più vicina per l’esame di documenti o per la richiesta di notizie che il professionista dichiari coperte dal segreto professionale (16), così come previsto dall’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, richiamato dall’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (17).
Il caso deciso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza che si annota induce a chiedersi come la tutela del segreto professionale debba atteggiarsi quando esso venga eccepito non già dal professionista del contribuente, nella sua qualità di difensore titolare del diritto-dovere di tutelare la riservatezza dei rapporti con la clientela, bensì dal contribuente che, in qualità di professionista, sia lui stesso soggetto all’attività di verifica fiscale.
Questa distinzione non è avulsa da implicazioni di ordine pratico in ordine all’individuazione della giurisdizione e alla titolarità dell’interesse a far valere la violazione del detto obbligo di segretezza. Lo studio, infatti, lamentando l’illegittimità del provvedimento autorizzatorio aveva contestato l’interpretazione dei giudici amministrativi che avevano ritenuto tale provvedimento atto meramente interno al procedimento tributario (come tale insindacabile in sede amministrativa) in quanto, nell’adire il giudice amministrativo, aveva inteso far valere un interesse autonomo e distinto rispetto a quello che sarebbe stato eventualmente pregiudicato da un atto di accertamento tributario. Interesse che assumeva maggiore rilievo e conseguente maggiore necessità di tutela in considerazione dell’esito negativo della verifica fiscale.
Le Sezioni Unite non hanno condiviso tale interpretazione. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, sussiste un’inscindibile identità soggettiva che impedisce di tenere distinte, nello stesso soggetto, la qualità di professionista (vincolato al segreto professionale) e quella di contribuente (assoggettabile a verifica fiscale). In primo luogo, poiché l’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 riflette esclusivamente le operazioni di verifica del “contribuente-professionista”: del contribuente, in quanto l’ispezione mira a verificare la posizione fiscale dello stesso; del professionista, perché l’autorizzazione mira a garantire la tutela del segreto professionale opponibile solo dal contribuente che sia anche professionista nonché, specularmente, dal professionista in verifica perché contribuente. In secondo luogo, perché il segreto professionale è posto a tutela del cliente per le attività inerenti la difesa e non a tutela dell’interesse soggettivo del professionista (18), di talché non solo non può coprire tutta e ogni attività professionale ma deve essere altresì verificabile poiché, diversamente opinando, si finirebbe per attribuire al professionista-contribuente il potere di sottrarre ogni e qualsiasi documentazione e/o notizia scomoda alla verifica fiscale cui è sottoposto con evidente lesione del principio di cui all’art. 53 Cost.
In un simile contesto l’autorizzazione di cui all’art. 52, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, costituisce quindi lo strumento per il giusto bilanciamento tra il dovere del contribuente-professionista di subire una verifica fiscale involgente tutti i documenti e tutte le notizie proprie dell’attività svolta rinvenuti nei luoghi destinati all’esercizio dell’attività professionale, e il dovere dello stesso di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione dell’attività difensiva (19). Tanto basta, ad avviso della Suprema Corte, a consentire all’Amministrazione finanziaria la facoltà di muovere al professionista contestazioni che ben possono fondarsi anche su notizie che riguardano i clienti dello studio nella misura in cui tali notizie siano rivelatrici di fonte reddituale non (o diversamente) dichiarata (20).
Considerato, dunque, che l’attività prevista dalla norma è solo quella finalizzata all’accertamento dell’imposta e che la necessità di richiedere l’autorizzazione prevista dall’art. 52, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, nasce nel corso di una verifica fiscale a carico del contribuente professionista tenuto all’osservanza del segreto professionale, la Suprema Corte ha affermato che l’autorizzazione in questione attiene esclusivamente al procedimento di verifica tributaria e produce effetti solo nell’ambito dello stesso (21). Eventuali vizi di illegittimità sono, conseguentemente, soggetti al sindacato del giudice tributario cui il legislatore ha demandato la tutela giurisdizionale esclusiva, concepita comprensiva di ogni questione afferente l’esistenza e la consistenza dell’obbligazione tributaria (22).

2.2 La carenza degli elementi soggettivi e oggettivi idonei a fondare la giurisdizione del giudice amministrativo

L’afferenza ad un procedimento impositivo dell’autorizzazione in deroga al segreto professionale lascia aperto un ulteriore profilo di indagine avente ad oggetto la disposizione di cui all’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, secondo cui «la natura tributaria di un atto non preclude il ricorso agli organi della giustizia amministrativa, quando ne ricorrono i presupposti» (23).
A fronte di atti o comportamenti della pubblica Amministrazione (o dei soggetti ad essa equiparati, anche privati, preposti all’esercizio di attività amministrative) che siano produttivi di effetti, è sempre ammessa la tutela giurisdizionale del soggetto titolare di diritti o di interessi legittimi che reputi lesi dall’atto o dal comportamento medesimo, rispettivamente avanti alla giurisdizione ordinaria ovvero a quella amministrativa (24). Una volta affermatosi, nell’ambito della giurisdizione amministrativa, il principio secondo il quale il criterio di riparto della giurisdizione risiede nella causa petendi (o petitum sostanziale), ovvero sulla base della situazione giuridica che sia assume lesa, si è resa necessaria l’individuazione di ulteriori criteri cui riferirsi al fine di qualificare una lite tra pubblica Amministrazione e privato in termini di controversia avente ad oggetto la lesione di un diritto soggettivo ovvero di un interesse legittimo (25).
Tra questi assume particolare rilievo il criterio fondato sulla distinzione tra attività vincolata e attività discrezionale in relazione all’esercizio del potere amministrativo; potere inteso come capacità giuridica speciale che consente al soggetto o all’organo amministrativo che ne è titolare di adottare gli atti previsti dalla norma al fine della migliore cura degli interessi stabiliti dalla legge e che si connota per un ambito più o meno ampio di discrezionalità. Secondo parte della dottrina, infatti, sarebbe possibile parlare di esercizio del potere solo nell’ipotesi in cui l’attività abbia carattere discrezionale poiché, con la propria decisione, l’Amministrazione definisce, in ragione della cura dell’interesse pubblico, un assetto di interessi non interamente ricavabile dalla norma e produce, dunque, effetti giuridici innovativi in modo autoritativo (26). Ne discende che a fronte di un’attività interamente vincolata il privato vanta non già un interesse legittimo, bensì un diritto soggettivo la cui cognizione è devoluta al giudice ordinario; viceversa, a fronte di un’attività discrezionale, ravvisandosi esercizio del potere amministrativo, il privato vanta una posizione di interesse legittimo la cui competenza è attribuita al giudice amministrativo.
In ambito tributario, si è osservato che la questione relativa alla natura discrezionale o meno dell’attività istruttoria, a fronte di quella certamente vincolata della determinazione del tributo, impone di distinguere momenti in cui l’attività dell’Amministrazione sarebbe “libera”, da momenti in cui emergerebbero i connotati della discrezionalità amministrativa in senso proprio, da quelli, infine, caratterizzati da vincolatezza (27). Questione, questa, che, come già anticipato, esplica i suoi effetti anche sulla qualificazione circa la natura della situazione giuridica ravvisabile in capo al contribuente.
È proprio in ordine all’aspetto oggettivo della discrezionalità che i giudici amministrativi hanno ravvisato ulteriori profili per declinare la propria giurisdizione.
La tutela giurisdizionale amministrativa è invero riservata agli atti amministrativi individuali che si connotino tuttavia per essere manifestazione di aree di eccezionale discrezionalità riservate all’Amministrazione finanziaria (come ad esempio quelli in materia di domicilio fiscale); detta discrezionalità fa sì che l’interesse di cui si invoca tutela sia differenziato ed autonomo da quello dell’attuazione del prelievo tributario (28).
Di contro, dopo aver negato, sotto il profilo soggettivo, che il Procuratore della Repubblica possa essere considerato organo amministrativo, titolare di un potere discrezionale di autorizzazione, idoneo a sacrificare in generale il diritto di libertà del contribuente sub specie della violazione del diritto alla riservatezza della corrispondenza, i giudici amministrativi avevano affermato che il provvedimento autorizzatorio implica un controllo di natura sostanziale sulla sussistenza, in concreto, degli indizi di violazioni tributarie indicate dagli Uffici finanziari e della loro gravità e, pertanto, non può configurarsi come esercizio di attività amministrativa in senso stretto. Sul punto avevano sottolineato altresì come in materia tributaria l’attività di verifica finalizzata all’accertamento dell’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria risulti del tutto priva di carattere discrezionale, di talché sarebbe esclusa la possibilità di ravvisare l’esercizio, da parte degli Uffici finanziari, di poteri amministrativi sindacabili innanzi al giudice amministrativo. L’insussistenza di tali presupposti fa sì che la giurisdizione amministrativa non possa trovare fondamento nell’art. 7 della legge n. 212/2000 in quanto la giurisdizione amministrativa in materia tributaria può riguardare atti estranei all’elencazione contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, purché abbiano carattere di atti amministrativi e siano espressione di poteri discrezionali (29).
L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite con la più volte citata sentenza del 2010 conferma l’interpretazione classica riguardo lo spazio di tutela devoluta al giudice amministrativo che trova testuale riconoscimento nell’art. 7, quarto comma, dello Statuto dei diritti del contribuente. Si ritiene infatti, comunemente, che il ricorso agli organi di giustizia amministrativa avverso atti di natura tributaria sia limitato alle impugnazioni degli atti amministrativi a contenuto generale o normativo che costituiscono un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva e con le quali si tende all’annullamento dell’atto erga omnes, non trascurando, tuttavia, la facoltà, per il giudice tributario, di disapplicarlo – ai sensi dell’art. 7, quinto comma, del D.Lgs. n. 546/1992 – nelle controversie che su di esso si fondino, con effetto, in casi simili, solo nei confronti del ricorrente (30).

3. La giurisdizione esclusiva del giudice tributario e il coordinamento con l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992

Una volta affermata la giurisdizione del giudice tributario, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affrontato il tema del necessario coordinamento con l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992.
La più recente giurisprudenza privilegia un’interpretazione orientata a valorizzare la funzione dell’atto e, nello specifico, la sua idoneità ad esprimere una ben individuata pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria in ordine al rapporto tributario o ad un suo aspetto (31). Residua una tutela, per così dire, differita, per gli atti non autonomamente impugnabili i cui vizi possono essere fatti valere nel processo tributario in quanto comportino l’illegittimità “derivata” di un successivo atto impugnabile. Tra questi, possono annoverarsi tutti gli atti dell’istruttoria, finalizzati all’emanazione di un atto impositivo, tra i quali anche l’autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 52, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, dal Procuratore della Repubblica.
Qualora l’attività di verifica nel cui contesto l’autorizzazione è stata rilasciata conduca all’emissione di un avviso di accertamento, la tutela del contribuente è assicurata dalla possibilità di impugnare, ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, l’atto finale, sulla cui validità si riverbera l’illegittimità dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica. Tuttavia, nella diversa ipotesi in cui, come nel caso affrontato dalla sentenza in commento, dopo l’attività di verifica non venga emesso un avviso di accertamento, ovvero l’atto impositivo adottato sia del tutto avulso dalle notizie e dalla documentazione raccolta in ragione della predetta autorizzazione, si pone il problema di come garantire tutela al contribuente leso dal provvedimento istruttorio illegittimo.
Il tema è di particolare rilevanza in quanto da più parti della dottrina si sostiene la necessità e l’opportunità di riconoscere un certo grado di autonomia delle attività conoscitive dell’Amministrazione finanziaria dalle attività di controllo a cui esse sono soggette.
Si è infatti osservato (32) come la rilevanza giuridica dell’attività amministrativa non si esaurisca nei soli atti in cui essa può tradursi, ma abbracci ogni espressione di esercizio della funzione o del potere. In tal senso sarebbe consentito identificare un insieme di situazioni soggettive del privato che non si correlano solo ed esclusivamente all’atto o al provvedimento, ma sorgono anche prima ed eventualmente a prescindere dal provvedimento stesso, in quanto la fonte della illegittima lesione di una situazione giuridica è suscettibile di essere individuata non solo nel provvedimento ma anche nell’attività non provvedimentale in cui si esprime l’esercizio della funzione. Un esempio è offerto proprio dall’istruttoria tributaria in cui è dato ravvisare sia atti formali (provvedimenti in senso stretto) sia comportamenti ed operazioni espressivi dell’esercizio dei poteri istruttori (c.d. atti amministrativi strumentali all’emanazione del provvedimento finale). Tra questi, autorevole dottrina ricomprende le autorizzazioni rilasciate dal Procuratore della Repubblica a cui, nonostante siano emesse da un organo giurisdizionale, si riconosce la natura di atto materialmente amministrativo emesso non in funzione di amministrazione attiva ma in funzione di controllo (33).
Ad avviso della Corte di Cassazione la tutela contro gli atti del procedimento tributario è, in ogni caso, devoluta alla giurisdizione tributaria che si estende anche al controllo della regolarità formale e sostanziale di tutte le fasi del procedimento di imposizione (34).
Ecco allora che il problema che si pone non è solo, o non tanto, quello dell’individuazione del giudice avente competenza giurisdizionale, bensì quello di assicurare concrete possibilità di tutela del contribuente il cui ricorso, una volta adito il giudice tributario, venga sottoposto al vaglio di ammissibilità dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. Tutela che deve ritenersi imprescindibile considerato che, come è stato osservato in dottrina (35), sia che si attribuisca autonomia procedimentale alle attività conoscitive tributarie, sia che si attribuisca alle stesse natura meramente interna al procedimento di accertamento, non può che riconoscersi al soggetto che subisca attività conoscitive illegittime il diritto di agire in via diretta e immediata quando siano coinvolte libertà individuali.

4. La lesione di diritti soggettivi e la tutela giurisdizionale da parte del giudice ordinario: la sentenza in commento

Le Sezioni Unite sono state dunque chiamate a pronunciarsi sulla correttezza dell’interpretazione che il giudice dell’appello aveva fornito dei principi esposti nella sentenza n. 11082 del 2010 con particolare riguardo all’obiter dictum relativo alla possibilità di devolvere alla giurisdizione del giudice ordinario l’impugnazione del provvedimento autorizzatorio del Procuratore della Repubblica in assenza di un atto impositivo impugnato.
Sul punto, infatti, le Sezioni Unite con la pronuncia del 2010, sia pure con una prospettazione meramente incidentale, avevano affermato che l’eventuale esito negativo dell’attività compiuta in forza di un provvedimento ritenuto illegittimo (con conseguente riscontrata inesistenza delle condizioni per emettere un provvedimento fiscale), come del pari l’adozione di un provvedimento del tutto avulso dall’esame dei documenti e delle notizie secretati, avrebbe portato la valutazione di quell’atto (ove lesivo di un qualche diverso interesse giuridico del contribuente) nell’orbita giurisdizionale del giudice ordinario e non del giudice amministrativo, siccome ipoteticamente lesivo del diritto del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge e, di conseguenza, le connesse compressione legali ai suoi corrispondenti diritti anche costituzionalmente garantiti. Ad avviso della Corte, infatti, tale esito non avrebbe fatto sorgere l’imprescindibile collegamento con l’oggetto della giurisdizione tributaria indicato nell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, poiché la controversia non avrebbe interessato alcun tributo.
Con l’annotata sentenza la Suprema Corte ha ribadito (36) che, in tema di illegittimità degli atti istruttori tributari, l’individuazione della giurisdizione deve necessariamente distinguere l’ipotesi in cui l’attività conoscitiva e di verifica si concluda con un atto impositivo da quella in cui tale attività non conduca all’emissione di un avviso di accertamento ovvero questo non sia impugnato dal contribuente.
Nel primo caso, la giurisdizione del giudice tributario, avendo carattere pieno ed esclusivo, si estende non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla valutazione della legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento in quanto un suo eventuale giudizio negativo può determinare la caducazione – per illegittimità derivata – dell’atto finale impugnato. Viceversa, qualora l’attività di accertamento non conduca all’emissione di un atto impositivo ovvero questo sia del tutto avulso dalle notizie e dai documenti raccolti in sede di verifica, ovvero ancora (e questo è da riconoscere come l’apporto della sentenza in commento), l’atto non venga impugnato, l’autorizzazione, siccome in ipotesi lesiva del diritto del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, con le relative compressioni legali dei suoi diritti, anche costituzionalmente garantiti, è impugnabile davanti al giudice ordinario.
Ne consegue, allora, che nessun vuoto di tutela è prospettabile in conseguenza della statuizione di improponibilità del ricorso al giudice tributario posto che in relazione all’atto procedimentale cui non abbia fatto seguito una ben definita pretesa impositiva è comunque assicurata tutela giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario, con la possibilità, ricorrendone i presupposti, di agire anche in via cautelare.
Così è stato dunque risolto un problema che si può considerare caratteristico del processo tributario, dato dal fatto che il collegamento indefettibile con la giurisdizione tributaria è dato dalla presenza e dalla impugnazione di uno degli atti elencati nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. Vincolato alla giurisdizione tributaria, il contribuente che dovesse impugnare autonomamente un atto istruttorio lesivo vedrebbe il ricorso sottoposto al vaglio di ammissibilità del citato art. 19 con esito negativo. L’atto autorizzatorio, infatti, così come gli altri provvedimenti conoscitivi e di controllo adottati in sede di verifica, non può essere ricompreso nell’ambito applicativo della norma in quanto essa, ancorché estensivamente interpretata, si riferisce unicamente alle ipotesi con cui attraverso l’atto “atipico” venga manifestata al contribuente una ben individuata pretesa tributaria o che sia, ancorché indirettamente, espressione del potere impositivo (37).
Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno individuato nella giurisdizione ordinaria la sede in cui la tutela del contribuente può utilmente trovare riconoscimento. E per farlo hanno posto l’attenzione sul diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge; quasi ad affermare che l’esito negativo della verifica, ovvero l’adozione di un atto del tutto avulso dagli elementi raccolti in sede di istruttoria, siano intrinseca manifestazione dell’insussistenza “ab origine” dei presupposti per procedere al controllo.

Avv. Ramona Tombini
Università Statale di Milano

(1) Artt. 52 e 63 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e art. 1 del D.Lgs. 19 marzo 2001, n. 68.
(2) Art. 52, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, richiamato dall’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973.
(3) TAR Lombardia, sez. IV, 5 febbraio 2008, n. 261, inedita; e Cons. Stato, sez. IV, 5 dicembre 2008, n. 6045, in Boll. Trib. On-line.
(4) Sul punto le Sezioni Unite, richiamandosi a pronunce precedenti, affermano che l’esclusività della giurisdizione tributaria non è suscettibile di venir meno in presenza di situazioni di carenza di provvedimento impugnabile (ovvero di provvedimento non impugnato) – e quindi di proporre contro tale provvedimento quel reclamo che costituisce veicolo di accesso ineludibile a detta giurisdizione – poiché tali situazioni incidono unicamente sull’accoglibilità della domanda e non già sulla giurisdizione: cfr. Cass., sez. un., 7 maggio 2010, n. 11082, in Boll. Trib. On-line.
(5) Anche su questo punto le Sezioni Unite, richiamata la precedente giurisprudenza, affermano che «tale problematica non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda» e che «costituisce compito esclusivo del giudice tributario verificare anche la natura (tassativa o meno) dell’elenco delle categorie degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19 del medesimo D.Lg.vo sottoponendo eventualmente la questione al vaglio del giudice delle leggi ovvero adottando, ove possibile, una interpretazione delle conferenti norme rispettosa sia dei principi costituzionali … che di quelli, posti da fonti internazionali, se vincolanti pure il giudice nazionale» (cfr. Cass. n. 11082/2010, cit.).
(6) Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXII, 9 ottobre 2013, n. 207, mass. in Boll. Trib. On-line, che ha giudicato nel merito la questione, rigettando la domanda risarcitoria per difetto di prova sul danno, nonostante ritenesse condivisibile il principio espresso da Cass., sez. un., 16 marzo 2009, n. 6315, in Boll. Trib., 2009, 729, secondo cui «qualora l’attività di accertamento non sfoci in un atto impositivo, gli ordini di verifica ipoteticamente lesivi di diritti soggettivi del contribuente a non subire verifiche fiscali fuori dei casi previsti dalla legge, e le connesse compressioni dei propri diritti anche costituzionali (in particolare, libertà di domicilio, di corrispondenza, di iniziativa economica, etc.) saranno autonomamente impugnabili dinanzi al giudice ordinario».
(7) Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. XLIV, 11 marzo 2014, n. 1267, in Boll. Trib. On-line.
(8) Com’è noto, il D.Lgs. n. 546/1992 è stato da ultimo modificato dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156.
(9) L’art. 7, quarto comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212, dispone che «La natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti».
(10) Cfr. G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, Padova, 2010, 566 ss., con riguardo ai provvedimenti individuali lesivi di interessi legittimi che non siano strettamente strumentali agli atti impugnabili ex art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, cosicché la tutela nei confronti di essi non possa essere assicurata attraverso il ricorso contro i suddetti atti impugnabili davanti al giudice tributario (come per esempio i provvedimenti in tema di domicilio fiscale di cui all’art. 59 del D.P.R. n. 600/1973). L’Autore ritiene poi prospettabile l’impugnabilità davanti al giudice amministrativo degli atti istruttori dell’Amministrazione finanziaria lesivi di interessi legittimi sottolineando tuttavia la necessità di verificare, caso per caso, se si realizzi effettivamente una lesione siffatta e se sussista un interesse a ricorrere.
(11) G. VANZ, Attività amministrativa di raccolta prove e tutela giurisdizionale delle libertà individuali, in Riv. dir. trib., 2012, I, 1143, ove si riferisce, tra le altre, alla libertà di domicilio e di comunicazione, al segreto professionale e al diritto alla riservatezza tutelati dagli artt. 14 e 15 Cost., nonché dall’art. 8 della CEDU e dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea.
(12) L’art. 6 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense», dispone che «L’avvocato è tenuto verso terzi, nell’interesse della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e del massimo riserbo sui fatti e sulle circostanze apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale». Precedentemente il segreto professionale era disciplinato dall’art. 9 del Codice deontologico forense, approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 17 aprile 1997, con le modifiche introdotte il 16 ottobre 1999 e il 26 ottobre 2002.
(13) R. DANOVI, Corso di ordinamento forense e deontologia, Milano, 2003, 286.
(14) L’art. 622 c.p. prevede che «chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento».
(15) Ai sensi dell’art. 249 c.p.c. si applicano all’audizione dei testimoni le disposizioni degli artt. 200, 201 e 202 c.p.p. relative alla facoltà di astensione dei testimoni.
(16) G. FALSITTA, op. cit., 492, che richiama L. SALVINI, Accesso e ispezioni negli studi professionali, in Riv. dir. trib., 1992, I, 28.
(17) Per l’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche si applicano le disposizioni dell’art. 52 del citato D.P.R. n. 633/1972 che, al terzo comma dispone che «è in ogni caso necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’articolo 103 del codice di procedura penale».
(18) A tal fine richiama Corte Cost. 8 aprile 1997, n. 87, in Boll. Trib. On-line, ove si chiarisce che «la protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell’attività professionale svolta da chi sia legittimato a compiere atti propri di tale professione assume carattere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti alla difesa e non l’interesse soggettivo del professionista».
(19) Ad avviso delle Sezioni Unite, peraltro, il segreto professionale verso terzi sarebbe in ogni caso tutelato dall’obbligo, per i verificatori, di osservanza del segreto d’ufficio di cui all’art. 15 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e dalla possibilità di esaminare i documenti e le notizie oggetto di “segreto” nei limiti dell’accertamento dell’imposta e della repressione delle altre violazioni.
(20) A tal fine viene dato rilievo alla circostanza che, nel caso di specie, risultava dimostrato che gli elementi acquisiti dalla Guardia di finanza avevano ad oggetto fatti inerenti l’attività professionale esercitata dallo studio e/o dai suoi associati e quindi, direttamente, la redditività, ai fini fiscali, vera o logicamente presumibile, tradibile dalla stessa.
(21) Sul punto si veda anche TAR, cit. in nota 3, ove si afferma che l’autorizzazione rilasciata e le connesse operazioni svolgono una mera funzione servente, trattandosi di atti endoprocedimentali funzionalmente collegati alla pretesa tributaria e il cui contenuto e finalità consistono nel reperimento di elementi utili all’accertamento fiscale.
(22) Cfr., ex multis, Cass., sez. un., 12 marzo 2001, n. 103, in Boll. Trib. On-line.
(23) Lo studio, infatti, aveva eccepito come in ogni caso si sarebbe dovuta ritenere sussistente la giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo in applicazione dell’art. 7, quarto comma, della legge n. 212/2000, ai sensi del quale i ricorsi dei cittadini avverso atti dell’Amministrazione tributaria lesivi di posizione giuridiche diverse da quelle azionabili dinanzi al giudice tributario devono essere indirizzati al giudice amministrativo e, a tal fine, aveva invocato i principi sanciti dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo sulla necessità che avverso attività tributarie di controllo ritenute illegittime sia garantita la possibilità di esperire azioni dirette a tutela delle libertà individuali. Sul punto ved. Corte EDU, sez. III, 21 febbraio 2008, n. 18497/03, Ravon e altri c. Francia, in Boll. Trib. On-line, e anche in Riv. dir. trib., 2008, IV, 181, con nota di S. MULEO, L’applicazione dell’art. 6 CEDU anche all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008 della Corte europea dei Diritti dell’Uomo del caso “Ravon e altri c. Francia” e le ricadute sullo schema processuale vigente.
(24) V. CERULLI IRELLI, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2012, 555 ss., ove fa riferimento al c.d. principio generale dell’azionabilità dei diritti sancito dall’art. 24 Cost. e affermato nella Carta dei Diritti di Nizza e nell’art. 6 della CEDU.
(25) F.G. SCOCA, Giustizia amministrativa, Torino, 2006, 61 ss., ove sono illustrati gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, a partire dall’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, tra l’applicazione del criterio del petitum ovvero della causa petendi.
(26) F.G. SCOCA, op. cit., 67 ss., secondo cui quando vi sia attività interamente vincolata, la pubblica Amministrazione altro non deve fare se non accertare la corrispondenza tra fattispecie concreta e fattispecie astratta prevista dalla norma. L’Autore dà atto anche di un diverso orientamento secondo cui si ha esercizio del potere amministrativo ogni qualvolta vi sia una competenza riservata alla pubblica Amministrazione di assumere determinazioni produttive di effetti giuridici e rispetto al quale, tuttavia, non ha alcun valore la distinzione tra attività amministrativa vincolata e discrezionale.
(27) S. BURELLI, La responsabilità civile da atto o da attività istruttoria illegittima, in La responsabilità civile dell’Amministrazione finanziaria, Quaderni di Riv. dir. trib., 2009, 9 ss.
(28) C. CONSOLO – C. GLENDI, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2012, 20.
(29) Così Cons. Stato, sez. IV, 15 febbraio 2002, n. 948, in Foro amm. CdS, 2002, 394.
(30) Cfr. C. CONSOLO – C. GLENDI, op. cit., 20.
(31) G. FALSITTA, op. cit., 576 ss., ove si richiama Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, in Boll. Trib., 2005, 1828, secondo cui il criterio interpretativo “funzionale” è giustificato dal richiamo all’art. 12, secondo comma, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, in forza del quale la giurisdizione tributaria ha assunto “carattere generale”.
(32) S. BURELLI, op. cit., 5 ss., richiama A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 273, per sottolineare che la nozione di attività, in ambito tributario, sottende la considerazione unitaria di atti e comportamenti in relazione a un dato scopo.
(33) P. RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2002, 279 ss.; G. VANZ, op. cit., 1147 ss., secondo cui si tratta di un atto a contenuto materialmente amministrativo, interno a un procedimento che rimane amministrativo così come amministrativa è l’Autorità cui la legge attribuisce il potere di adottare un provvedimento finale destinato ad incidere sulle libertà individuali.
(34) Cass. n. 11082/2010, cit., che richiama Cass., sez. un., 13 novembre 1997, n. 11217, in Boll. Trib., 1998, 1332.
(35) G. VANZ, op. cit., 1153.
(36) Richiama la precedente giurisprudenza Cass. n. 6315/2009, cit.
(37) Cfr. l’annotata Cass. n. 8587/2016.

Procedimento – Commissioni – Giurisdizione delle Commissioni – È piena ed esclusiva e si estende a tutti gli atti del procedimento impositivo – Autorizzazione della Procura della Repubblica per l’esame di documenti coperti da segreto professionale – Impugnabilità unitamente all’avviso di accertamento conclusivo della verifica fiscale – Autonoma impugnabilità in caso di mancata adozione o di omessa impugnazione dell’atto impositivo – Esclusione – Giurisdizione del Giudice ordinario – Limiti e condizioni.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Atti impugnabili a norma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 – Sono solo quelli emessi dall’Amministrazione finanziaria – Autorizzazione della Procura della Repubblica per l’esame di documenti coperti da segreto professionale – Autonoma impugnabilità – Esclusione.

Procedimento – Ricorsi – Atti impugnabili – Sono solo quelli emessi dall’Amministrazione finanziaria – Autorizzazione della Procura della Repubblica per l’esame di documenti coperti da segreto professionale – Autonoma impugnabilità – Esclusione.

Procedimento – Ricorsi – Atti impugnabili – Illegittimità dell’autorizzazione della Procura della Repubblica per l’esame di documenti coperti da segreto professionale – Lesione di un diritto soggettivo del contribuente – Può verificarsi.

Procedimento – Giurisdizione – Illegittimità dell’autorizzazione della Procura della Repubblica per l’esame di documenti coperti da segreto professionale – Comporta la lesione di un diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi espressamente previsti – Lesione di un interesse giuridico del contribuente diverso da quello azionabile col ricorso tributario – Giurisdizione del Giudice ordinario – Consegue.

La giurisdizione del giudice tributario ha carattere pieno ed esclusivo e si estende non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento, ivi compresa l’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 52, terzo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per consentire nel corso di una verifica fiscale l’esame di documenti rispetto ai quali il contribuente abbia eccepito l’esistenza del segreto professionale, sostanzialmente perché l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità formale o sostanziale su un atto istruttorio prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto finale impugnato, con la conseguenza che gli eventuali vizi di atti istruttori prodromici possono essere fatti valere dinanzi al giudice tributario soltanto in caso di impugnazione del provvedimento che conclude l’iter di accertamento, mentre qualora invece l’attività di accertamento non sfoci in un atto impositivo ovvero tale atto non sia fatto oggetto di impugnazione, l’autorizzazione in questione, siccome in ipotesi lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, è autonomamente impugnabile dinanzi al giudice ordinario.

L’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, pur suscettibile di interpretazione estensiva in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento dell’amministrazione di cui agli artt. 24, 53 e 97 Cost. nonché in considerazione delle modifiche introdotte dalla legge 28 dicembre 2001, n. 448, si riferisce in ogni caso sempre ad atti dell’Amministrazione finanziaria che, pur non rivestendo l’aspetto formale proprio di uno di quelli dichiarati espressamente impugnabili, portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, suscitandone l’interesse a chiedere il controllo di legittimità in sede giurisdizionale, o comunque costituiscano pur sempre, sia pure indirettamente, espressione del potere impositivo, a differenza quindi dell’atto autorizzatorio rilasciato dal Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 52, terzo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per consentire l’esame di documenti rispetto ai quali il contribuente abbia eccepito l’esistenza del segreto professionale, che pertanto non rientra tra gli atti autonomamente impugnabili di cui al citato art. 19.

L’eventuale illegittimità del provvedimento autorizzatorio rilasciato dal Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 52, terzo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per consentire nel corso di una verifica fiscale l’esame di documenti rispetto ai quali il contribuente abbia eccepito l’esistenza del segreto professionale, non lede un semplice interesse legittimo ma integra, se effettivamente sussistente, la lesione di un diritto soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica, perché solo quel provvedimento rende legittimo l’esercizio dell’azione accertatrice e fa sorgere, a carico del contribuente-professionista sottoposto a verifica, l’obbligo di soggiacere a detta azione anche in ordine ai documenti secretati nonché di fare quanto eventualmente le norme gli impongano per consentire agli inquirenti di svolgere appieno la propria attività.

L’ipotizzabile esito negativo per l’Ufficio finanziario dell’attività di accertamento compiuta in forza di un provvedimento ritenuto illegittimo dal contribuente, con conseguente riscontrata inesistenza delle condizioni per emettere un provvedimento fiscale, oppure l’adozione di un provvedimento impositivo del tutto avulso dall’esame dei documenti secretati, ovvero di un provvedimento impositivo che il contribuente non abbia impugnato, porta inevitabilmente la valutazione di quel fatto, ove lesivo di un qualche diverso interesse giuridico del contribuente ispezionato, nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario siccome in ipotesi incidente sul diritto soggettivo del contribuente a non subire, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, verifiche fiscali, con relative compressioni legali dei suoi corrispondenti diritti, anche costituzionalmente garantiti, oltre i casi previsti dalle leggi che attribuiscono e circoscrivono l’esercizio del potere di controllo degli Uffici finanziari.
[Corte di Cassazione, sez. un. (Pres. Amoroso, rel. Di Iasi), 2 maggio 2016, sent. n. 8587, ric. Studio legale e tributario associato B.N. c. Agenzia delle entrate]

RITENUTO IN FATTO – Nel corso di una verifica fiscale presso lo Studio legale e tributario associato B.N. furono esaminati, previa acquisizione dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, anche documenti rispetto ai quali era stato opposto il segreto professionale in quanto relativi a corrispondenza con i clienti dello studio medesimo.
L’autorizzazione suddetta fu impugnata dinanzi al Tar della Lombardia che, con sentenza confermata dal C.d.S., declinò la propria giurisdizione.
Queste sezioni unite, investite dell’impugnazione proposta avverso la decisione del C.d.S. dallo Studio e dai professionisti associati al medesimo all’epoca dei fatti contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della G.d.F. di Milano, il MEF, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, con sentenza n. 11082 del 2010 hanno respinto il ricorso e confermato che non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nell’ipotesi di impugnazione dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell’art. 52 comma 3 d.p.r. n. 633 del 1972, per consentire nel corso di una verifica fiscale l’esame di documenti rispetto ai quali il contribuente abbia eccepito l’esistenza del segreto professionale. Le sezioni unite hanno altresì precisato che la giurisdizione del giudice tributario si estende non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento, ivi compresa l’autorizzazione in questione, onde gli eventuali vizi della stessa possono essere dedotti nell’ambito dell’impugnazione del provvedimento che conclude l’iter di accertamento, e che, qualora l’attività di accertamento non sfoci in un atto impositivo (ovvero questo non sia oggetto di impugnazione), l’autorizzazione suddetta, in quanto in ipotesi lesiva del diritto del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, può essere impugnata dinanzi al giudice ordinario. La C.T.P. di Milano, adita a seguito della sopra richiamata pronuncia delle sezioni unite, ha accolto parzialmente il ricorso annullando il provvedimento di autorizzazione impugnato e respingendo la domanda risarcitoria.
Con la sentenza n. 1267 del 2014 impugnata in questa sede, la sezione n. 44 della C.T.R. della Lombardia, pronunciando sull’appello proposto da Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della G.d.F. di Milano, MEF e Presidenza del Consiglio dei Ministri, rilevato che nella specie il provvedimento conclusivo del procedimento di verifica fiscale a carico dello studio non era stato oggetto di impugnazione e che pertanto difettava l’imprescindibile collegamento tra l’impugnazione del suddetto provvedimento e l’autorizzazione in questione ed escluso che quest’ultima fosse di per sé suscettibile di essere ricompresa tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario alla stregua dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ha dichiarato l’improponibilità dei ricorsi.
Avverso questa sentenza ricorre lo studio associato nonché, in proprio, i professionisti che ad esso erano associati all’epoca dei fatti. Resistono la Procura della Repubblica di Milano, il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della G.d.F. di Milano, il MEF, il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Le parti hanno depositato memoria illustrativa.

CONSIDERATO IN DIRITTO – Con un unico motivo, deducendo violazione delle norme sulla giurisdizione e del dictum delle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 11082 del 2010; violazione e falsa interpretazione degli artt. 2 e 19 d.lgs. n. 546 del 1992; violazione degli artt. 24, 13 e 117 comma 1 Cost., nonché 6 e 13 CEDU, i ricorrenti sostengono che la decisione impugnata si fonda su di una erronea lettura della sentenza delle sezioni unite, le quali avrebbero statuito – con efficacia vincolante nel presente giudizio – che nella specie l’impugnativa immediata e diretta del provvedimento adottato dal Procuratore della Repubblica di Milano rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice tributario, precisando solo in via incidentale, in un passaggio “completamente frainteso” dai giudici della C.T.R., che la giurisdizione apparterrebbe al giudice ordinario ove venisse lamentata la lesione di un diritto soggettivo derivante da un’attività di verifica fiscale posta in essere al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.
I ricorrenti ritengono pertanto che l’autorizzazione di cui si discute debba considerarsi, alla stregua della citata sentenza delle sezioni unite, sempre impugnabile dinanzi al giudice tributario e chiedono che – eventualmente previa rimessione degli atti alla Corte costituzionale in relazione alla ritenuta illegittimità dell’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992 nella parte in cui non comprende tra gli atti immediatamente impugnabili dinanzi al giudice tributario anche l’autorizzazione in questione – la sentenza impugnata, in accoglimento del proposto ricorso, venga cassata con rinvio.
La censura è infondata.
Come emerso dalla narrativa che precede, nella controversia in esame queste sezioni unite si sono pronunciate in punto di giurisdizione confermando la decisione del C.d.S. impugnata ai sensi dell’art. 362 c.p.c., e lo hanno fatto con una sentenza ampia e chiara, peraltro nel solco univocamente tracciato dalla precedente giurisprudenza delle medesime sezioni unite in materia (cfr. tra le altre s.u. n. 6315 del 2009).
In particolare le sezioni unite hanno affermato che la giurisdizione del giudice tributario ha carattere pieno ed esclusivo e si estende non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento, ivi compresa l’autorizzazione di cui si discute, sostanzialmente perché l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità (formale o sostanziale) su di un atto istruttorio prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto “finale” impugnato, con la conseguenza che gli eventuali vizi di atti istruttori prodromici possono essere fatti valere dinanzi al giudice tributario soltanto in caso di impugnazione del provvedimento che conclude l’iter di accertamento.
Qualora, invece, l’attività di accertamento non sfoci in un atto impositivo (ovvero, è da ritenersi, tale atto, come nella specie, non sia fatto oggetto di impugnazione), secondo le sezioni unite l’autorizzazione in questione, siccome in ipotesi lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, è autonomamente impugnabile dinanzi al giudice ordinario.
Infine le sezioni unite hanno precisato che il problema della riconducibilità dell’atto impugnato alle categorie indicate dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, è questione che non attiene alla giurisdizione del giudice adito bensì alla proponibilità della domanda dinanzi a quel giudice.
Come chiaramente risulta da quanto sopra esposto la decisione delle sezioni unite sulla questione di giurisdizione – vincolante nel presente giudizio – non si presta a fraintendimenti di sorta in quanto esplicita ed esaustiva, senza che, attraverso l’impugnazione della sentenza della C.T.R. e la deduzione di un fraintendimento, da parte di quest’ultimo giudice, della portata della citata decisione delle sezioni unite, sia possibile “veicolare” in questa sede una inammissibile censura avverso la suddetta decisione al fine di sollecitare una nuova e diversa statuizione sul punto.
I giudici della C.T.R. della Lombardia, invero, in piena consonanza con quanto chiaramente espresso nella più volte richiamata statuizione delle sezioni unite, non hanno declinato la giurisdizione loro attribuita ma l’hanno esercitata dichiarando l’improponibilità dei ricorsi.
In particolare i suddetti giudici hanno affermato l’impugnabilità dinanzi al giudice tributario di tutti gli atti del procedimento di imposizione tributaria unitamente all’atto che tale procedimento conclude; hanno precisato che tale estensione al controllo della regolarità di tutte le fasi del procedimento di imposizione fiscale unitamente all’atto conclusivo comporta, a contrario, l’applicabilità agli atti fiscali “istruttori” del principio della non autonoma ed immediata impugnabilità proprio in quanto aventi carattere infraprocedimentale; hanno conseguentemente escluso nella specie la proponibilità dei ricorsi avverso l’autorizzazione in questione, non essendo stato impugnato l’atto tributario conclusivo del procedimento di verifica nel quale è intervenuta l’autorizzazione suddetta.
I giudici della C.T.R. hanno inoltre più in generale escluso che, in mancanza dell’imprescindibile correlazione con l’atto conclusivo del procedimento di accertamento, possa comunque giungersi a ricondurre l’autorizzazione in questione nell’ambito degli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario alla stregua dell’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992 anche estensivamente interpretato.
L’affermazione è corretta, posto che l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 citato, pur suscettibile di interpretazione estensiva – in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento dell’amministrazione (artt. 24, 53 e 97 Cost.) nonché in considerazione delle modifiche introdotte dalla legge n. 448 del 2001 – si riferisce, in ogni caso, sempre ad atti dell’Amministrazione finanziaria che, pur non rivestendo l’aspetto formale proprio di uno di quelli dichiarati espressamente impugnabili, portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, suscitandone l’interesse a chiedere il controllo di legittimità in sede giurisdizionale o comunque costituiscano pur sempre, sia pure indirettamente, a differenza dell’atto autorizzatorio di cui si discute, espressione del potere impositivo (v. in tal senso s.u. n. 3773 del 2014 nonché Cass. nn. 21392 del 2012, 16100 del 2011 e 285 del 2010).
È infine appena il caso di precisare che la statuizione di improponibilità del ricorso non crea un vuoto di tutela (né pertanto comporta alcuna violazione della Costituzione e della CEDU), posto che, qualora il procedimento di verifica fiscale non si sia concluso con un provvedimento “tributario” ovvero tale provvedimento non sia stato impugnato dal contribuente, in relazione all’atto “procedimentale” è comunque assicurata la tutela giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario, con la possibilità, ricorrendone i presupposti, di agire anche in via cautelare.
Come affermato anche nella più volte citata sentenza di queste sezioni unite, infatti, l’eventuale illegittimità del provvedimento adottato dal Procuratore della Repubblica non lede un semplice interesse legittimo ma integra (se effettivamente sussistente) sempre la lesione di un diritto soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica, perché solo quel provvedimento rende legittimo l’esercizio dell’azione accertatrice e fa sorgere, a carico del contribuente-professionista sottoposto a verifica, l’obbligo di soggiacere a detta azione anche in ordine ai documenti secretati nonché di fare quanto eventualmente le norme gli impongano per consentire agli inquirenti di svolgere appieno la propria attività. L’ipotizzabile esito negativo per l’Ufficio dell’attività di accertamento compiuta in forza di provvedimento ritenuto illegittimo dal contribuente (con conseguente riscontrata inesistenza delle condizioni per emettere un provvedimento fiscale), oppure l’adozione di un provvedimento impositivo del tutto avulso dall’esame dei documenti secretati, ovvero di un provvedimento impositivo che il contribuente non abbia impugnato porta dunque inevitabilmente la valutazione di quel fatto (ove lesivo di un qualche diverso interesse giuridico del contribuente ispezionato) nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario siccome in ipotesi incidente sul diritto soggettivo del contribuente a non subire, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, verifiche fiscali – con relative compressioni legali dei suoi corrispondenti diritti, anche costituzionalmente garantiti – oltre i casi previsti dalle leggi che attribuiscono e circoscrivono l’esercizio del potere di controllo degli Uffici fiscali.
Il ricorso deve essere pertanto respinto. Considerate le peculiarità della vicenda in esame ed il relativo iter processuale così come risultanti dalla narrativa che precede, si ritiene la sussistenza delle condizioni per disporre l’integrale compensazione delle spese del presente giudizio.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è respinto, sussistono i presupposti per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del d.p.r. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M. – La Corte respinge il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese di lite.

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