27 Novembre, 2015

Con l’annotata sentenza la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul valore probatorio delle dichiarazioni di terzi (assunte fuori dal processo) nel giudizio innanzi alle Commissioni tributarie.

Come noto, tre sono gli orientamenti che sono stati espressi in proposito, due “estremi” e uno “intermedio” (come vedremo, preferibile).

1) Secondo un primo orientamento (1), le dichiarazioni di terzi non hanno alcuna valenza probatoria nel processo tributario, in considerazione del divieto di prova testimoniale di cui all’art. 7, quarto comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

L’erroneità di tale interpretazione appare evidente considerando che il loro utilizzo è previsto da numerose disposizioni, contenute in diversi testi normativi (ad esempio, art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e art. 51 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, a fini “accertativi”, da parte dell’Amministrazione finanziaria; art. 7, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, a fini “chiarificatori”, da parte del giudice tributario, legittimato all’assunzione, anche nei confronti di soggetti terzi rispetto al rapporto d’imposta in contestazione, di “dati, informazioni e chiarimenti”); ciò induce necessariamente a riconoscerne l’utilizzabilità, nonostante il divieto di cui si discute, anche in ambito processuale (oltre che, prima, in fase procedimentale-accertativa). Come è stato giustamente evidenziato, la tesi che esclude «qualsiasi valore probatorio alle dichiarazioni di cui trattasi»risulta «insostenibile. Sarebbe, infatti, veramente assurdo che la legge, nel mentre consente all’ente impositore, nell’espletamento dell’istruttoria amministrativa, di avvalersi delle dichiarazioni in esame ponendole a fondamento dei propri atti di accertamento del tributo, imponga poi di negare qualsivoglia valore probatorio alle medesime in seno al processo instaurato dal contribuente; e sarebbe ancor più assurdo sposare identica tesi con riguardo alle dichiarazioni di terzi che … il giudice tributario è a sua volta legittimato ad acquisire anche di ufficio in forza dell’ … art. 7, primo comma», del D.Lgs. n. 546/1992 (2).

2) Il secondo orientamento “estremo”, opposto al precedente, viceversa, non solo ne ammette l’utilizzabilità, oltre che in fase procedimentale, anche in fase processuale, ma ne riconosce una valenza probatoria “piena”, consentendo al giudice di fondare e motivare la sentenza, se del caso, esclusivamente sulla base delle stesse, senza ulteriori riscontri probatori.

È questa l’interpretazione accolta dalla sentenza in esame, il cui percorso motivazionale si basa sui seguenti “passaggi”:

«nel processo tributario, le dichiarazioni del terzo – acquisite dalla polizia tributaria o da funzionari accertatori dell’Ufficio nel corso di un’ispezione e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito nell’avviso di accertamento – hanno, invero, almeno in via di principio, un valore meramente indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, qualora confortate da altri elementi di prova»;

«tuttavia, tali dichiarazioni del terzo possono, nel concorso di particolari circostanze ed in ispecie quando abbiano valore confessorio (3), integrare non un mero indizio, ma una prova presuntiva,ai sensi dell’art. 2729 c.c., idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica, da parte dell’amministrazione finanziaria (Cass. 9402/2007; 9876/2011)» (4).

[-protetto-]

Siffatta interpretazione attribuisce alle dichiarazioni di terzi – ricorrendo determinate circostanze (5) – il valore di presunzioni “gravi, precise e concordanti”; potendo queste ultime essere considerate sufficienti a sostegno del convincimento del giudice (e, ancor prima, dell’avviso di accertamento), il risultato “finale” è che si giunge a legittimare una decisione fondata esclusivamente sudette dichiarazioni.

L’interpretazione in esame, peraltro, non può accogliersi. Infatti, può certamente escludersi che le dichiarazioni in parola possano assurgere al rango di prova “fondante” nel processo, e ciò essenzialmente per due motivi:

a) innanzitutto, diversamente opinando, verrebbe in via “indiretta” effettivamente eluso il divieto di prova testimoniale sancito dall’art. 7, quarto comma, del D.Lgs. n. 546/1992;

b) in secondo luogo, le dichiarazioni di cui si discute non presentano lo stesso grado di veridicità garantito dalla “vera” prova testimoniale assunta dinnanzi al giudice, nel rispetto del principio del contraddittorio (6) (art. 111, secondo comma, Cost.) – e non assunta unilateralmente da una delle parti (7) – secondo le formalità previste dal codice di procedura civile, con la lettura della formula di rito e la “visione diretta” del teste (8), sotto la “minaccia” costituita dalla previsione del reato di falsa testimonianza (art. 372 c.p.).

In proposito può osservarsi, in particolare, che ragionando diversamente si giungerebbe all’assurdo di un giudice che può fondare la propria decisione su una dichiarazione a contenuto testimoniale, assunta unilateralmente da una delle parti al di fuori del processo (9), senza al contempo poter disporre lui direttamente l’assunzione di una prova testimoniale all’interno del processo nel contraddittorio delle parti (stante il divieto di tale prova ex art. 7, quarto comma, di cui si discute), con tutte le garanzie di veridicità che assistono la stessa poco sopra indicate.

Come giustamente specificato nella pronuncia in rassegna, la disposizione in parola, «– a tenore della quale nel giudizio» tributario «“non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale” – in quanto limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica, disciplinati da altre disposizioni, vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia per quella narrazione qualificata che, richiedendo la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo, assume, solo se assunta con tali formalità, un particolare valore probatorio. Per converso, le dichiarazioni rese dai terzi ai verificatori, e inserite nel processo verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali meri indizi» («o anche quali elementi di prova piena, nel concorso delle circostanze suindicate»: su questa precisazione, come osservato, dissentiamo invece dalla pronuncia in esame).

Viene dunque qui in considerazione il terzo orientamento, c.d. “intermedio”, cui accennavamo all’inizio, e al quale va attribuito maggior fondamento:

3) il divieto di prova testimoniale sancito dal quarto comma dell’art. 7 in questione esclude l’assunzione della “vera” prova per testi, disciplinata dalle norme processual-civilistiche e fornita di valore di “piena” prova (da sola bastevole a fondare la decisione del giudice), ma non esclude l’introduzione nel giudizio tributario di dichiarazioni scritte di terzi (vuoi da parte dell’Amministrazione finanziaria, vuoi, per motivi di parità delle parti processuali e di diritto di difesa – artt. 3, 24 e 111 Cost. – da parte del contribuente), da considerare meri “indizi” o “argomenti di prova”, muniti di una minore “efficacia probatoria” (probatio inferior) e, dunque, da soli non sufficienti a supportare la decisione del giudice (e, prima, l’atto impositivo), richiedendosi in proposito ulteriori riscontri probatori (10).

Per concludere sul punto, non può che ribadirsi quanto evidenziato in altre occasioni (11), e cioè che «sarebbe auspicabile – anche per eliminare gli “inconvenienti”, pure di ordine costituzionale, e i divergenti orientamenti interpretativi che si sono avuti sul punto – un intervento legislativo volto ad abrogare quel divieto di prova testimoniale (12) che è considerato, dai più, come ormai “obsoleto” ed “anacronistico”». L’occasione, è evidente, è quella della delega per la riforma del sistema fiscale, prevista dalla legge 11 marzo 2014, n. 23 (il cui art. 10 è rubricato «Revisione del contenzioso tributario e della riscossione degli enti locali»).

Prof. Avv. Andrea Colli Vignarelli

(1) In questo filone interpretativo può farsi rientrare Cass., sez. trib., 17 giugno 2008, n. 16348, in Boll. Trib. On-line, e anche in Rass. trib., 2008, 1685, ove si legge, con specifico riferimento alle dichiarazioni di terzi prodotte in giudizio dal privato a sua difesa, che «sul piano generale … la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale».Questa affermazione, a carattere generale, vale a maggior ragione, secondo la Corte, nel processo tributario, ove «la attribuzione di efficacia probatoria alle dichiarazioni sostitutive di notorietà trova ostacolo invalicabile nella previsione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4», in quanto, diversamente opinando, si verrebbe ad eludere «il divieto di giuramento, oltre che di prova testimoniale, sancito dalla richiamata disposizione», introducendosi «un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo» (in senso analogo, cfr. Cass., sez. trib., 15 gennaio 2007, n. 703, in Boll. Trib., 2007, 1395 – richiamata dalla stessa sentenza n. 16348/2008, cit., ove si trova affermato, tra l’altro, nell’accoglimento del ricorso dell’Amministrazione finanziaria, che «le produzioni documentali del contribuente considerate» dal giudice d’appello «sembrano esaurirsi in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, cui, in sede giudiziaria, non può attribuirsi alcun valore probatorio»). Tali affermazioni – e dunque l’orientamento interpretativo in parola – per i motivi indicati nel testo, sono certamente criticabili; quello che occorre comunque sottolineare è che, accogliendo in ipotesi detto orientamento, la conseguenza necessitata – per motivi di costituzionalità: cfr. artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., principio di uguaglianza e di parità delle parti processuali – è quella di escludere qualsivoglia efficacia probatoria alle dichiarazioni di terzi trasfuse in un documento, a prescindere dalla circostanza che questo sia rappresentato da una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (che viene utilizzata, come noto, dal contribuente per introdurre nel processo tributario dichiarazioni di terzi a lui favorevoli), o dal processo verbale di constatazione dell’Ufficio finanziario o della Guardia di finanza, e dunque a prescindere dalla circostanza che tali dichiarazioni siano invocate a proprio favore dall’Amministrazione finanziaria o dal contribuente per sostenere le proprie ragioni. In dottrina, si trova affermato (cfr. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, 385), che «il divieto di prove testimoniali dovrebbe comportare l’irrilevanza, nel processo tributario: a) delle dichiarazioni orali di terzi riprodotte nei processi verbali della Guardia di finanza o dell’Amministrazione finanziaria; b) delle dichiarazioni di terzi, riprodotte per iscritto, e introdotte nel processo con il documento che le riproduce».

(2) Così Russo-Fransoni, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 172; in senso analogo ved. anche Pistolesi, L’efficacia probatoria delle informazioni rese da terzi nel processo tributario, in Corr. trib., 2007, 2363.

(3) Attribuendo dunque una particolare attendibilità alla dichiarazione, in quanto di contenuto tale da risultare contraria all’interesse dello stesso dichiarante.

(4) Analogo il percorso motivazionale di cui a Cass., sez. trib., 5 maggio 2011, n. 9876, in Boll. Trib. On-line, richiamata da quella in esame, e che era già stato oggetto di un nostro commento critico (cfr. Colli Vignarelli, Dichiarazioni di terzi, intercettazioni telefoniche e giudizio tributario, in Boll. Trib., 2013, 808 s.), ove si afferma: – «nel processo tributario, le dichiarazioni del terzo – acquisite … dalla Polizia Tributaria nel corso di un’ispezione, e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito nell’avviso di accertamento – hanno per lo più valore meramente indiziario, per cui concorrono a formare il convincimento del giudice, se confortate da altri elementi di prova»; – «tuttavia, tali dichiarazioni – nel concorso di particolari circostanze – possono rivestire i caratteri delle presunzioni (generalmente ammesse nel processo tributario, nonostante il divieto di prova testimoniale) gravi, precise e concordanti, ai sensi dell’art. 2729 c.c., dando luogo, di conseguenza, non ad un mero indizio, bensì ad una prova presuntiva, idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica, da parte dell’amministrazione finanziaria»; – questo avviene, in particolare, «quando le dichiarazioni rese a verbale dal terzo si segnalino come dotate di una particolare attendibilità ed affidabilità, poiché aventi natura confessoria, per le conseguenze negative che possano derivarne a carico del terzo medesimo»; – da ciò deriva, «attesa la natura … confessoria di tale dichiarazione», che «alla stessa va attribuita la valenza di una presunzione rivestita dei caratteri di cui all’art. 2729 c.c. e perciò di per sé idonea a supportare l’avviso di accertamento».

(5) Ad esempio, come osservato, la particolare attendibilità della dichiarazione, in quanto di tenore tale da potersi considerare una “confessione” contraria all’interesse dello stesso dichiarante.

(6) Afferma che è «poco plausibile giungere ad attribuire» alle dichiarazioni scritte di terzi – pur se auspicabile nei casi in cui la testimonianza appare l’unico strumento per l’accertamento di un determinato fatto, in considerazione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. – «acquisite senza la garanzia del contraddittorio, il medesimo valore attribuibile alla testimonianza», Zizzo, Il regime delle prove e il giusto processo, in Rass. trib., 2013, 476.

(7) Il discorso vale ovviamente sia per le dichiarazioni assunte dall’Amministrazione finanziaria e trasfuse nel processo verbale di constatazione, sia per quelle introdotte in giudizio dal privato, di regola sotto forma di dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui ammissibilità nel processo tributario è “imposta” dal rispetto del principio di parità delle parti processuali, di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.

(8) A prescindere dalla circostanza che è oggi prevista, nel nostro ordinamento, della c.d. “testimonianza scritta” di cui all’art. 257-bis c.p.c., trattandosi di istituto che richiede l’accordo delle parti e che non esclude la possibilità, per il giudice, di disporre l’audizione orale del teste; si tratta inoltre di un istituto la cui applicabilità nel processo tributario è discussa: sul punto si vedano Marcheselli, Testimonianza scritta e deposito di documenti in appello, in Corr. trib., 2009, 2695 ss.; Perrucci, La miniriforma del processo civile e il diritto tributario, in Boll. Trib., 2009, 1188; Manzoni, La legge n. 69/2009 (interventi sul processo civile) ed il processo tributario. Primi rilievi, in Riv. dir. trib., 2009, 887 ss.; Comelli, Sub art. 7, in Consolo-Glendi (a cura di), Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2012, 103; Manoni, Utilizzabilità di dichiarazioni di terzi quale possibile correttivo al divieto di prova testimoniale: quali riflessi sul diritto di difesa?, in il fisco, 2014, 4541 s.; Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: ultime innovazioni dal c.p.c., in Corr. trib., 2014, 3036; per la sua ammissibilità cfr. Giovannini, L’interpretazione secundum constitutionem come strumento di riforma del processo tributario, in Dir. prat. trib., 2013, I, 1071 ss., il quale afferma che «l’esclusione si dovrebbe riferire soltanto alla prova orale, configurata come species del genus testimonianza e per la quale, forse, si potrebbero ritenere tuttora spendibili le giustificazioni preclusive che per la Consulta sono il fondamento storico del divieto medesimo. Ma la sua estensione all’altra species, ovvero a quella scritta, non è sostenibile già a fil di logica. E l’interpretazione secundum constitutionem consente di offrirne dimostrazione anche in termini sistematicamente ragionati». Sulla differenza esistente, circa la relativa attendibilità e valenza, tra semplice lettura, da parte del giudice, di una dichiarazione scritta di terzo, e il suo esame testimoniale diretto, non è necessario soffermarsi; sia qui sufficiente rinviare a Moschetti, Utilizzo di dichiarazioni di terzo e divieto di prova testimoniale nel processo tributario, in Dir. prat. trib., 1999, II, 17 ss., spec. 35 s. Sull’importanza – con riferimento alla valutazione della veridicità della prova testimoniale – del«l’osservazione del comportamento del teste durante l’esame, delle sue reazioni alle domande, della sicurezza delle risposte», cfr. Schiavolin, L’inammissibilità della testimonianza e l’utilizzazione della scienza dei terzi nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1989, 562; in proposito ved. anche Marcheselli, Testimonianza scritta e deposito di documenti in appello, cit., 2698.

(9) Considerando inoltre che il giudice tributario, qualora volesse “delucidazioni” dal terzo, si deve “accontentare” di una risposta scritta ad una richiesta «di dati, di informazioni e chiarimenti» inoltrata al terzo stesso nell’esercizio del potere previsto dall’art. 7, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, essendo esclusa una sua audizione orale innanzi al giudice [contra, Pistolesi, L’efficacia probatoria delle informazioni rese da terzi nel processo tributario, cit., 2364; Fanni, Sub art. 7, in Tesauro (a cura di), Codice commentato del processo tributario, Torino, 2011, 137 s.]; per approfondimenti sul punto, e sull’individuazione dei possibili soggetti destinatari della richiesta, si rinvia a Colli Vignarelli, I poteri istruttori delle Commissioni tributarie, Bari, 2002, 140 ss., 173 ss. In proposito occorre ricordare che Corte Cost., 27 luglio 2001, ord. n. 324, in Boll. Trib. On-line, e anche in il fisco, 2001, 10973, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Verbania, nella parte in cui non prevede che il giudice tributario possa disporre l’accompagnamento coattivo del terzo che si sia rifiutato di comparire dinanzi al giudice stesso, a seguito di specifico ordine in tal senso (l’ordine di comparizione personale del terzo – rimasto inadempiuto – era stato dato dalla stessa Comm. trib. prov. di Verbania, sez. I, ord. 16 maggio 2000, in Boll. Trib., 2001, 63, e anche in Riv. dir. trib., 2000, II, 360). In dottrina, afferma che il giudice tributario non può disporre «l’accompagnamento coattivo del terzo, ai sensi dell’art. 255, primo comma, c.p.c.», Pistolesi, L’efficacia probatoria delle informazioni rese da terzi nel processo tributario, cit., 2364; così anche Fanni, Sub art. 7, cit., 138.

(10) Nella fondamentale sentenza resa da Corte Cost., 21 gennaio 2000, n. 18, in Boll. Trib., 2000, 311 – ove si è affermata la legittimità costituzionale del divieto di prova testimoniale nel processo tributario – si legge che «il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento è … solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione». Tale sentenza è stata poi seguita da numerose pronunce della Corte di Cassazione; di recente cfr. Cass., sez. trib., 27 marzo 2013, n. 7707, in Boll. Trib. On-line, ove si legge: «Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 11785 del 2010; n. 4269 del 2002) “nel processo tributario, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546,art. 7, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – con il valore probatorio ‘proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione’ (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 18 del 2000) – va riconosciuto non solo all’Amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente – con il medesimo valore probatorio -, dandosi così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa”. Nella specie, la CTR non ha fondato la decisione unicamente sulle dichiarazioni del padre del contribuente, valutabili, appunto, come elemento indiziario a favore di costui, ma le ha ritenute integrate dalla prova documentale, secondo cui l’apertura di credito al padre era stata effettivamente concessa poco tempo prima dell’investimento immobiliare che, attribuito a mezzi propri del figlio, aveva dato causa all’accertamento»; Cass., sez. trib., 12 novembre 2014, n. 24079, ivi. In dottrina, attribuiscono invece, alle dichiarazioni in questione, valore di prove “fondanti”, «come tali anche da sole sufficienti» a giustificare il convincimento del giudice «in ordine all’accertamento dei fatti di causa», Russo-Fransoni, op. cit., 172; nello stesso senso Pistolesi, L’efficacia probatoria delle informazioni rese da terzi nel processo tributario, cit., 2363 s., il quale afferma che «niente vieta che le dichiarazioni dei terzi possano fornire la prova diretta ed immediata dei fatti che debbono essere dimostrati nel processo tributario». In proposito cfr. anche Marcheselli, Diritto alla prova e parità delle «armi» nel processo tributario, in Dir. prat. trib., 2003, II, 437 ss.

(11) Cfr. Colli Vignarelli, Dichiarazioni di terzi, intercettazioni telefoniche e giudizio tributario, cit., 810; e ID., Ambito di operatività dei poteri istruttori del giudice tributario (e connesso problema della prova e dell’onere della prova) in alcune sentenze della Corte di cassazione, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1207 s.

(12) Da ultimo, in tal senso, cfr. Tesauro, Giustizia tributaria e giusto processo, in Rass. trib., 2013, 327 s.

 

 

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – Valore meramente indiziario – Sussiste – Concorrono a formare il convincimento del giudice se confortate da altri elementi di prova – Dichiarazioni di terzi aventi valore confessorio – Costituiscono una prova presuntiva ex art. 2729 c.c. idonea a fondare l’accertamento tributario.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Prova testimoniale – Divieto di prova testimoniale ex art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 – Dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – Utilizzabilità nel processo tributario con valore meramente indiziario – Sussiste – Concorrono a formare il convincimento del giudice se confortate da altri elementi di prova – Dichiarazioni di terzi aventi valore confessorio – Costituiscono una prova presuntiva ex art. 2729 c.c. idonea a fondare l’accertamento tributario.

Imposte e tasse – Sanatorie – Definizione automatica ex art. 9 della legge n. 289/2002 – Diritto al rimborso vantato dal contribuente – Potere dell’Ufficio di procedere all’accertamento della sua inesistenza – Permane.

Nel processo tributario le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla polizia tributaria o da funzionari accertatori dell’Ufficio finanziario nel corso di un’ispezione e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, hanno, almeno in via di principio, un valore meramente indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, qualora confortate da altri elementi di prova. tuttavia, tali dichiarazioni del terzo possono, nel concorso di particolari circostanze e, in specie, quando abbiano valore confessorio, integrare non un mero indizio, ma una prova presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c., idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica.

Nel processo tributario le dichiarazioni del terzo non incorrono nel divieto di prova testimoniale, sancito dall’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, atteso che tale disposizione, a tenore della quale nel giudizio in questione «non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale», in quanto limitativa dei poteri delle Commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica, disciplinati da altre disposizioni, vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia per quella narrazione qualificata che, richiedendo la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo, assume, solo se assunta con tali formalità, un particolare valore probatorio. Per converso le dichiarazioni rese dai terzi ai verificatori e inserite nel processo verbale di constatazione hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali meri indizi, o anche quali elementi di prova piena, nel concorso di particolari circostanze, in particolare quando abbiano valore confessorio.

In tema di condono fiscale, l’Amministrazione finanziaria può procedere, nelle ipotesi di cui all’art. 9, nono e decimo comma, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, all’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza di un diritto al rimborso, poiché il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio finanziario, tenuto conto che la previsione del nono comma del predetto art. 9, secondo cui «la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate», deve interpretarsi nel senso che tale definizione non sottrae all’Ufficio il potere di contestare il credito esposto dal contribuente.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Piccininni, rel. Valitutti), 23 dicembre 2014, sent. n. 27314, ric. Agenzia delle entrate c. Cantine Erroi s.n.c.]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. In data 22.12.2004, a seguito di un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza del 18.12.2003, veniva notificato alla società Cantine Erroi rag. C. di E.A. e C. s.n.c., con sede in …, un avviso di rettifica, con il quale l’Ufficio recuperava a tassazione, per l’anno 1999, le somme già rimborsate a titolo di credito IVA e denegava il rimborso infrannuale non ancora eseguito.

2. Avverso l’atto impositivo la contribuente proponeva ricorso alla CTP di Lecco, che lo accoglieva.

3. L’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione di primo grado veniva, altresì, rigettato dalla CTR della Lombardia, con sentenza n. 64/26/2007, depositata il 10/10/2007, con la quale il giudice di seconde cure riteneva: 1) che il c.d. condono tombale, ex art. 9 della L. n. 289 del 2002, perfezionato dalla contribuente, impedisse all’Amministrazione finanziaria di contestare anche i crediti IVA esposti in dichiarazione; 2) che le dichiarazioni rese da terzi in sede di verifica fiscale non fossero utilizzabili per la decisione, ostandovi il disposto dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992; 3) che non sussistessero agli atti elementi probatori idonei a comprovare l’assunto dell’Ufficio, circa l’inesistenza degli acquisti di merce operati dalla contribuente e la fittizietà delle successive vendite, presentate come operazioni intracomunitarie o come cessioni all’esportazione.

4. Per la cassazione della sentenza n. 64/26/2007 ha proposto, quindi, ricorso l’Agenzia delle Entrate, affidato a tre motivi. La società Cantine Erroi rag. C. di E.A. e C. s.n.c. ha replicato con controricorso e con memoria ex art. 378 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia la falsa applicazione dell’art. 9, commi 9 e 10, della L. n. 289 del 2002, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

1.1. Avrebbe, invero, errato la CTR nel ritenere che l’avvenuta definizione delle pendenze fiscali, oltre a precludere l’accertamento di ulteriori debiti di imposta del contribuente, impedisca all’Amministrazione finanziaria anche l’accertamento della non spettanza del credito esposto in dichiarazione. Siffatta interpretazione della norma di cui all’art. 9, commi 9 e 10, della L. n. 289 del 2002, invero, si porrebbe in netto contrasto con la ratio del condono in questione, che è quella di precludere all’Ufficio di effettuare i soli accertamenti tributari finalizzati al recupero di imposte evase e all’irrogazione delle relative sanzioni, ma non certo quella di impedire all’Amministrazione finanziaria anche di procedere all’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso.

1.2. Il motivo è fondato.

1.2.1. In tema di condono fiscale, l’Amministrazione finanziaria può procedere – nelle ipotesi di cui all’art. 9, commi 9 e 10, della L. n. 289 del 2002 – all’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza di un diritto al rimborso, poiché il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio.

Ed invero, la previsione del nono comma del citato articolo, secondo cui “la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate”, deve interpretarsi nel senso che tale definizione non sottrae all’Ufficio il potere di contestare il credito esposto dal contribuente (Cass. 375/2009 (1); 2597/2014 (2); 20433/2014 (3)).

1.2.2. Né va omesso di rilevare – per quanto riguarda l’IVA, imposta che viene in considerazione nel caso di specie – che la normativa suesposta va letta alla luce della pronuncia della Corte di Giustizia del 17.7.2008, C-132/06 (4), che ha ritenuto gli artt. 8 e 9 della L. 289/2002, nella misura in cui integrano una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, incompatibili con il diritto comunitario (Cass. 26 ottobre 2011, n. 22250 (5)).

1.3. Il mezzo in esame va, di conseguenza, accolto.

2. Con il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia la falsa applicazione dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

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2.1. La ricorrente si duole del fatto che la CTR abbia erroneamente escluso, dal materiale probatorio valutato ai fini della decisione della controversia, le dichiarazioni rese, in sede di verifica fiscale, da L.C., legale rappresentante della Autotrasporti Laurenza s.a.s.

Quest’ultimo aveva, infatti, dichiarato che la merce asseritamente inviata, mediante la stessa società Autotrasporti Laurenza, al cliente tedesco Europa Import Export – e fatta apparire come oggetto di una cessione all’esportazione in sospensione di imposta, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 633 del 1972, o come cessione all’esportazione non imponibile – in realtà non aveva mai raggiunto il destinatario estero.

E ciò in quanto la società di trasporto summenzionata effettuava esclusivamente trasporti nazionali, non essendo abilitata al trasporto di merci all’estero.

2.2. L’errore nel quale sarebbe incorso il giudice di appello avrebbe, di conseguenza, inficiato – a parere dell’Agenzia delle Entrate – il giudizio di fatto demandato al giudice di merito, inducendolo ad espungere dal materiale cognitivo uno dei principali elementi indiziari che, unitamente ad altri desumibili dall’avviso di accertamento, avrebbero dovuto convincere la CTR della fondatezza del rilievo mosso alla contribuente dall’Amministrazione finanziaria.

2.3. La censura è fondata.

2.3.1. Nel processo tributario, le dichiarazioni del terzo – acquisite dalla polizia tributaria o da funzionari accertatori dell’Ufficio nel corso di un’ispezione e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento – hanno, invero, almeno in via di principio, un valore meramente indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, qualora confortate da altri elementi di prova. Tuttavia, tali dichiarazioni del terzo possono, nel concorso di particolari circostanze ed in ispecie quando abbiano valore confessorio, integrare non un mero indizio, ma una prova presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c., idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica, da parte dell’amministrazione finanziaria (Cass. 9402/2007 (6); 9876/2011 (7)).

2.3.2. Né può ritenersi che siffatte dichiarazioni possano incorrere nel divieto di prova testimoniale, sancito – per il processo tributario – dall’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992. Ed invero, tale disposizione – a tenore della quale nel giudizio in questione “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale” – in quanto limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica, disciplinati da altre disposizioni, vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, ovverosia per quella narrazione qualificata che, richiedendo la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento da parte del terzo, assume, solo se assunta con tali formalità, un particolare valore probatorio. Per converso, le dichiarazioni rese dai terzi ai verificatori, e inserite nel processo verbale di constatazione, hanno natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e sono, pertanto, pienamente utilizzabili quali meri indizi, o anche quali elementi di prova piena, nel concorso delle circostanze suindicate (cfr. Cass. 20032/2011 (8); 21812/2012 (9)).

2.3.3. Ne consegue che, nel caso di specie, la CTR ha errato nel non tenere conto delle dichiarazioni rese dal trasportatore Autotrasporti Laurenza s.a.s. – trasfuse nel processo verbale di constatazione recepito dall’avviso di accertamento – il quale aveva dichiarato ai verificatori che la merce, asseritamente destinata alla società tedesca Europa Import – Export, non era mai stata consegnata al cliente estero, atteso che la ditta di autotrasporti in questione effettuava solo trasporti nazionali, e non anche trasporti internazionali. Tali dichiarazioni, trasfuse nell’atto conclusivo della rettifica, avrebbero, pertanto, dovuto essere adeguatamente valutate dal giudice di appello. Siffatta omissione – come si dirà in sede di esame del terzo motivo di ricorso – ha finito, pertanto, per inficiare il percorso motivazionale dell’impugnata sentenza.

2.4. Il mezzo in esame va, di conseguenza, accolto.

3. Con il terzo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

3.1. Posto che i rilievi mossi dall’Ufficio alla contribuente si erano incentrati sull’inesistenza degli acquisti della merce operati dalla Cantine Erroi s.n.c. e sulla fittizietà delle successive vendite, fatte apparire artificiosamente come operazioni intracomunitarie o come cessioni all’esportazione, la CTR si sarebbe limitata ad affermare che la effettività e realtà di tali operazioni sarebbe dimostrata dalla regolarità dei relativi pagamenti, atteso che il pagamento per contanti è consentito dall’ordinamento, e che la falsità delle dichiarazioni dei clienti esteri ex art. 41 del D.L. n. 331 del 1993, ai fini della regolarità delle cessioni intracomunitarie, non fosse imputabile al cedente.

L’impugnata sentenza, oltre che del tutto anapodittica nell’operare le affermazioni suesposte, avrebbe, per contro, trascurato – a parere della ricorrente – una serie di elementi indiziari allegati dall’Amministrazione finanziaria nel giudizio e che avrebbero, se adeguatamente valutati, certamente indotto il giudice di appello ad una decisione diversa da quella emessa.

3.2. Il motivo è fondato.

3.3. Premesso che il fatto controverso è stato individuato, nel momento di sintesi formulato dalla ricorrente, nella natura fittizia degli acquisiti operati dalla contribuente tramite ditte c.d. cartiere e delle successive vendite, la motivazione della sentenza di appello si rivela insufficiente sotto un triplice profilo.

3.3.1. Anzitutto, per quanto concerne i pagamenti in denaro e le dichiarazioni di intento, la sentenza appare del tutto anapodittica, in quanto la CTR si è limitata ad affermare, tout court, la liceità dei pagamenti in contanti, anche se superiori a venti milioni di lire, e la non imputabilità al cedente della falsità delle dichiarazioni ex art. 41 del D.L. n. 331 del 1993, operate dalle ditte cessionarie. E tuttavia, il giudice di appello non ha in alcun modo esposto le ragioni che lo abbiano indotto a formulare tali asserzioni perentorie, le quali, peraltro, – nell’economia dell’impugnata sentenza – hanno assunto un valore decisivo.

3.3.2. Per quanto attiene, poi, agli elementi di prova presi in esame, la CTR ha trascurato – in maniera del tutto erronea, per le ragioni dianzi esposte – sia le dichiarazioni del trasportatore della merce asseritamente ceduta all’esportazione, che ne aveva escluso la consegna al cliente estero sia il ruolo chiave, risultante dal processo verbale di constatazione (trascritto sul punto nel ricorso, p. 2), svolto nella frode fiscale da tale S.M. risultato, al contempo, fornitore della Cantine Erroi mediante una ditta individuale, rivelatasi inesistente, e titolare della ditta tedesca Europa Import-Export, destinataria fittizia delle cessioni della stessa merce all’esportazione, nonché dai L., titolari della suddetta ditta di trasporti, i quali risultavano avere pagato, insieme allo S., forniture di merce apparentemente destinate a terzi.

Siffatte anomalie nei rapporti tra le ditte, idonee ad evidenziare, sul piano indiziario, la consapevolezza della Cantine Erroi s.n.c. di essere inserita a pieno titolo in una frode fiscale, non sono state, invero, tenute in considerazione alcuna dalla CTR.

3.3.3. Il giudice di appello ha, infine, operato una valutazione atomistica di alcuni degli elementi di prova presuntiva offerti dall’Ufficio in giudizio, laddove la valutazione degli indizi deve essere globale, al fine di verificare se gli stessi, quand’anche singolarmente sforniti di una adeguata valenza probatoria, nel loro insieme, possano dare luogo ad una valida prova presuntiva (Cass. 19894/2005; 9108/2012 (10); 5787/2014).

3.4. Il mezzo in parola non può, pertanto, che essere accolto.

4. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio ad altra sezione della CTR della Lombardia, che procederà a nuovo esame del merito della controversia, attenendosi ai principi di diritto suesposti e valutando unitariamente e globalmente tutti gli elementi indiziari e presuntivi sopra indicati.

5. Il giudice di rinvio provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.(Omissis).

(1) Cass. 12 gennaio 2009, n. 375, in Boll. Trib. On-line.

(2) Cass. 5 febbraio 2014, n. 2597, in Boll. Trib. On-line.

(3) Cass. 26 settembre 2014, n. 20433, in Boll. Trib. On-line.

(4) In Boll. Trib., 2008, 1384.

(5) In Boll. Trib. On-line.

(6) Cass. 20 aprile 2007, n. 9402, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cass. 5 maggio 2011, n. 9876, in Boll. Trib. On-line.

(8) Cass. 30 settembre 2011, n. 20032, in Boll. Trib. On-line.

(9) Cass. 5 dicembre 2012, n. 21812, in Boll. Trib. On-line.

(10) Cass. 6 giugno 2012, n. 9108, in Boll. Trib. On-line.

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