Con l’annotata sentenza i giudici regionali della Toscana, a conferma della decisione di primo grado, esprimono e riaffermano alcuni importanti principi in tema di studi di settore e particolarmente apprezzabile risulta la chiara censura contro l’utilizzo distorto del contraddittorio preventivo in sede di invito ad aderire alla proposta formulata dall’Ufficio verificatore e contro l’abuso nel ricorrere all’espediente del presunto comportamento antieconomico del contribuente per tentare di supportare le risultanze di “Gerico”, lo strumento informatico che calcola gli scostamenti da studi dei ricavi e compensi, in assenza di ulteriori e qualificanti prove o indizi di evasione.
Nel caso oggetto della annotata decisione la vertenza riguarda un’impresa edile che nell’anno 2006 aveva dichiarato un livello di ricavi inferiore a quanto propugnato dagli studi del 12,62 per cento, ma che aveva già sofferto dei sintomi della crisi del settore con una contrazione dei ricavi, nonostante operasse prevalentemente con clienti istituti di credito, quindi con soggetti aventi un più elevato potere contrattuale, ma in un settore ad elevata concorrenza per il forte potere contrattuale delle controparti.
Per avvalorare le conclusioni degli studi di settore l’Ufficio ha “giocato la carta” dell’antieconomicità della condotta della società di capitali accertata, senza però convincere né la contribuente in sede di contraddittorio, né i giudici di primo e secondo grado.
Sempre più spesso anche in tema di studi di settore gli accertatori tendono ad evocare, in presenza di uno scostamento dei ricavi da quelli calcolati dal programma Gerico, un presunto comportamento antieconomico per giustificare e motivare i maggiori ricavi e redditi derivanti dagli studi stessi. Questi strumenti calcolano un livello di ricavi considerato normalizzato all’interno del settore sulla base di proiezioni matematico-statistiche che sono state elaborate però in base alle dichiarazioni presentate in anni precedenti dalla generalità dei contribuenti. Trattasi di una elaborazione non oggettiva ma di parte e ritardata rispetto al periodo d’imposta considerato che dovrebbe portare ad una presunta normalità di ricavi, ma che non può però determinare un risultato certo per ogni contribuente perché ad esso corrisponde una ben precisa, più attuale e diversa realtà aziendale o professionale.
Un comportamento per essere definito antieconomico deve essere abnorme, irrazionale, in contrasto con le più elementari regole commerciali, aziendali e di economicità non in riferimento ad una singola operazione, ma nel contesto dell’attività in generale svolta. Un livello di ricavi presunto inferiore ad una soglia di normalità non è sinonimo di gestione antieconomica a meno che non si individuino dei comportamenti vessatamente controproducenti in termini di ragionevolezza e di economicità. Spetta a chi invoca l’esistenza di comportamenti anomali dal lato dei maggiori costi o dei minori ricavi o compensi individuare ed elencare tali fattori, quantificarne l’effetto economico e motivare perché non sia giustificabile una scelta di quel tipo.
Spetta invece al contribuente spiegare le motivazioni che lo hanno spinto ad effettuare le suddette operazioni nell’insieme dei rapporti intercorsi con quel cliente o fornitore in funzione anche delle transazioni effettuate nel suo insieme, pure riferite al passato o al futuro, nel senso che un’operazione a sé stante apparentemente non comportante un utile immediato può essere stata preceduta o successivamente trasformarsi in rapporti commerciali profittevoli, sicuri e duraturi o essere abbinata o allineata ad altre operazioni con la medesima controparte rilevanti una corretta e più marcata economicità (1).
La presunta antieconomicità della condotta aziendale può essere smentita anche dal conseguimento comunque di un reddito e/o dalla presenza di altri congrui compensi dei soggetti che svolgono l’attività (imprenditore, collaboratori, soci, amministratori, ecc.) che portano ad azzerare il reddito o a conseguire perdite. I risultati economici negativi possono essere tali per diversi motivi anche non afferenti direttamente singole operazioni o comportamenti contrari alla realizzazione di un profitto; esempi calzanti possono essere le perdite su crediti subite, gli elevati compensi riconosciuti ai soci, titolari, collaboratori e amministratori (su cui si pagano comunque imposte significative), i danni subiti per eventi imprevedibili, l’aumento dei costi delle materie prime non bilanciato dall’aumento dei prezzi di vendita, la repentina discesa dei prezzi sul mercato per motivi contingenti o di concorrenza, la crisi del settore con la contrazione delle vendite a fronte di costi fissi non comprimibili, la temporanea cessazione dell’attività per problemi di salute, ecc.
Dicesi antieconomica un’attività che sistematicamente non rende e che è svolta contro i canoni della ragionevolezza, almeno in alcune significative rilevazioni. Antieconomico a volte può essere invece praticare prezzi troppo elevati perché si rischia di andare fuori mercato, perdere o non acquisire clienti e quindi non aumentare negli anni il volume d’affari.
Quella della “antieconomicità” è diventata una subdola questione, una moda ricorrente e facile che l’Agenzia delle entrate cerca sempre più spesso, ma anche a sproposito, di utilizzare per tentare di giustificare, senza prove o validi indizi, la presenza di una presunta evasione; il concetto, come sopra definito, esula dalla realtà di quelle aziende che in periodi di crisi e di scarso lavoro cercano di minimizzare e ridurre i costi proprio per la difficoltà di conseguire ricavi e incassare quanto fatturato, per cui in simili situazioni il vano richiamo alla antieconomicità è pura e labile presunzione e non certo una prova, né un indizio, che è tutto da dimostrare e che non può essere genericamente attribuito soprattutto in presenza di redditi conseguiti e/o di coerenti e corretti comportamenti.
Nella logica perseguita dall’Agenzia delle entrate il “mito” della antieconomicità non sopporta le imprese in perdita o con utili non significativi, pena l’espulsione dal “mercato fiscale” al solo fine di ricercare in modo sbrigativo sempre maggiori imponibili. Nella realtà e nel mercato interno o globale continuano invece a sopravvivere, non solo nei periodi di crisi, anche le piccole, medie e anche grandi imprese in difficoltà che hanno bilanci in rosso o utili modesti, perché se così non fosse la maggioranza delle imprese ai primi sentori di crisi dovrebbe subito chiudere.
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Il fatto che l’Agenzia delle entrate possa arrivare invece a presumere e scomodare una inesistente o comunque non provata antieconomicità appare quindi un chiaro sintomo di come le presunzioni calcolate e formulate con gli studi di settore siano a loro volta altrettanto inconsistenti.
Secondo i giudici toscani la qualificazione della presunzione semplice derivante dagli studi di settore non può essere avvalorata unicamente dalla equazione che l’asserito comportamento antieconomico divenga elemento decisivo da cui dedurre l’inattendibilità della contabilità integrante la necessaria grave incongruenza legittimante la rettifica induttiva, con conseguente ingiustificata inversione dell’onere probatorio. Non basta invocare generici comportamenti antieconomici, ma questi devono essere esplicitati, enumerati, criticati in concreto, comparati con altre operazioni e calcolati.
Il fattore antieconomicità non è una presunzione prevista dalla normativa vigente né un’interpretazione normativa ma è una elaborazione concettuale e reddituale che deve essere supportata da riferimenti reali numerici e comparativi per dar modo anche al contribuente di replicare sulle singole operazioni e sul suo comportamento generale al fine di potersi adeguatamente difendere e controbattere ai rilievi emersi.
In genere la rilevanza tributaria dei comportamenti antieconomici è stata sentenziata in funzione soprattutto di specifici costi e spese esagerati, ritenuti abnormi e irrazionali e a fronte delle mancate giustificazioni che il contribuente non ha saputo fornire nemmeno in sede contenziosa. Secondo la sentenza di legittimità 23 gennaio 2008, n. 1409 (2), è ormai consolidato il principio secondo cui, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, è legittimo l’accertamento induttivo del reddito d’impresa qualora le dichiarazioni fiscali del contribuente evidenzino un comportamento completamente contrario ai canoni dell’economia, che non venga spiegato in alcun modo. Trattasi evidentemente di spese abnormi e ingiustificate che incidono pesantemente sul conto economico e che il contribuente non ha saputo giustificare, non di scostamenti di ricavi non rilevanti rispetto agli studi di settore, che sono fattori ed entità molto diversi perché collegati a situazioni di presunta normalità all’interno di uno specifico settore.
Se tuttavia i verificatori non individuano le singole situazioni e operazioni da contestare, il richiamo a comportamenti definiti genericamente antieconomici si trasforma in una accusa senza fatti, né prove, né validi indizi, né tantomeno si può quindi inquadrare in una presunzione qualificata. Se la differenza tra i ricavi dichiarati e quelli calcolati da Gerico rappresenta di per sé una presunzione semplice (3), questa andrà avvalorata con ulteriori elementi fattuali e indiziari coincidenti, gravi e precisi, non certo con accuse generiche, non motivate né specificamente individuate.
La generica contestazione della presunta antieconomicità del comportamento in presenza di scostamenti non rilevanti rappresenta spesso un modesto e non efficace tentativo dei verificatori di individuare un ulteriore elemento indiziario per tentare di corroborare l’accertamento con un altro infondato indizio che si trasforma tuttavia in un abuso di potere, soprattutto quando non vi sono differenze gravi in termini di maggiori ricavi rispetto al totale e non si individua in concreto l’abnormità e l’irragionevolezza delle operazioni che non avrebbero un senso economico, in quanto ritenute presuntivamente deleterie e contraddittorie rispetto al fine di conseguire un giusto profitto.
In presenza di un non ben motivato e solo presunto comportamento definito e supposto antieconomico, siamo di fronte ad un comportamento invece abusivo e illegittimo dei verificatori in quanto l’accertamento finisce per essere basato solo sul nulla, su labili asserzioni non argomentate, non fondate e non provate.
La Commissione tributaria provinciale di Bari, con la sentenza n. 197/2010 (4), aveva già precisato che, ai fini della corretta applicazione dell’art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non è sufficiente l’applicazione automatica di strumenti statistici e standardizzati come gli studi di settore, ma è necessario che le risultanze siano avallate da ulteriori indizi che rendano giustificata la contestazione del maggior ricavo, e quindi è doveroso che l’Ufficio finanziario dimostri che sia stata riscontrata l’esistenza di gravi incongruenze dei ricavi dichiarati con quelli desumibili dalle caratteristiche e condizioni di esercizio dell’attività svolta, non essendo qualificante, né sufficiente il generico riferimento ad un comportamento antieconomico del contribuente; né può essere accolta la tesi per cui l’accertamento non sarebbe tanto basato sullo scostamento da studi, ma induttivamente su una serie di elementi che rileverebbero un comportamento contrario ai canoni di economia per evitare e giustificare il mancato invito al contraddittorio.
La Commissione tributaria provinciale di Treviso, con la sentenza n. 12/2012 (5), ha accolto il ricorso di un contribuente contro gli studi di settore in quanto l’andamento negativo dell’impresa in perdita non può considerarsi di per sé indice di condotte evasive, né il fisco può pretendere che il contribuente debba sempre dichiarare redditi positivi e congrui o che altrimenti chiuda l’attività per cercarsi un altro lavoro; la sentenza ammette poi che in presenza di eventi particolari come le malattie e lo stato di crisi sono compatibili anche redditi inferiori a quelli praticati ai lavoratori dipendenti.
La sentenza n. 96/2012 della Commissione tributaria regionale della Lombardia (6) ha statuito che le reiterate perdite conseguite in più annualità non sono da sole sufficienti a configurare una gestione antieconomica e non possono supportare di per sé una rettifica basata su un accertamento induttivo da studi di settore. La sopportazione di perdite economiche aveva infatti costretto l’amministratore a riversare i suoi compensi e poi portato alla liquidazione della società e alla conseguente cessazione dell’attività, dimostrando così un comportamento coerente e consono con la difficile situazione economica e finanziaria.
Con la sentenza n. 1/2013 la Commissione tributaria regionale della Lombardia (7) ha statuito che il risultato economico negativo non costituisce un motivo sufficiente per rettificare i ricavi e il reddito imponibile in base agli studi di settore e all’antieconomicità della gestione, in quanto l’Ufficio fiscale si è limitato ad ipotizzare l’esistenza di proventi non dichiarati sulla base di un mero sospetto, mentre va ritenuta illegittima la ripresa fiscale fondata solo sul sospetto non suffragato da alcun altro elemento concreto. I giudici lombardi hanno poi contraddetto i rilievi di antieconomicità degli accertatori dato che, a differenza di quanto sostenuto secondo cui a fronte di una situazione di perdita protrattasi per soli due esercizi un imprenditore accorto e oculato dovrebbe essere indotto a cessare l’attività e a liquidare la società, non si può ritenere saggio quel contribuente che a fronte di elementi contingenti e concreti di crisi, ma di lievi aumenti dell’indice di produttività, provveda al primo o secondo anno di risultato economico negativo a dismettere l’attività svolta, comportamento questo contrario alla logica e alla esperienza concreta del mondo del lavoro. Per il Collegio giudicante lombardo è al contrario ragionevole che in presenza di confortanti segnali positivi, seppur lievi, l’imprenditore insista nella continuazione della propria attività, confidando nella cessazione degli elementi congiunturali negativi e nella ripresa economica. Anche nel caso specifico l’Ufficio finanziario non era andato quindi oltre il contestare un presunto comportamento antieconomico che non può essere giustificato solo dalla presenza di una o più perdite, perché la determinazione di un risultato negativo reddituale può essere causato non tanto da mere operazioni contrarie alla logica della economicità, ma da tutta una serie di altri fattori non positivi concomitanti e anche esterni alla situazione aziendale.
Secondo i giudici della Commissione tributaria regionale della Lombardia espressisi con la pronuncia n. 12/2013 (8) non è contestabile l’antieconomicità con la semplice comparazione dei dati aziendali, relativi alla media dei ricavi, del reddito d’impresa, del valore della produzione IRAP e del volume d’affari, con quelli delle imprese operative nello stesso settore produttivo, se non consentono di individuare quale sia la difformità della situazione aziendale rispetto a quella del settore, peraltro già quantificata dallo studio di settore medesimo. La citata sentenza n. 12/2013 [conforme a quella della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 46/2013 (9)] ha stabilito anche che il redditometro applicato ad un socio non può andare in soccorso della rettifica alla società basata sugli studi di settore. I ricavi di una società non possono essere influenzati, né tantomeno determinati e presunti in base alla disponibilità di beni e servizi che un suo socio possiede, non solo perché siamo su due fronti diversi e su metodologie non conformi (ricavi e reddito d’impresa di una società da una parte e reddito complessivo di un solo socio dall’altra), ma anche perché il reddito sintetico viene determinato in base a coefficienti e spese per lo più presunte (e irreali nel vecchio redditometro), per cui una presunzione redditometrica di reddito personale non può sorreggere un’altra presunzione settoriale di maggiori ricavi nel reddito d’impresa che ha non analoghi scopi e metodi accertativi, e dato che la seconda presunzione non può essere supportata da un’altra a monte (divieto di praesumptio de praesumpto).
Anche secondo la sentenza n. 125/24/2013 della Commissione tributaria regionale della Lombardia (10) lo studio di settore non può essere applicato sic et simpliciter per l’accertamento, soprattutto nell’ipotesi in cui vi siano perdite, né è possibile presumere una condotta antieconomica se a fronte di una scarsa redditività siano incrementati gli investimenti in beni strumentali. L’aver dichiarato perdite non può essere considerato automaticamente come l’effetto di una supposta evasione di imposte, soprattutto in presenza di una perdurante grave crisi economica e finanziaria come quella generale, attuale e particolare della società accertata.
I giudici lombardi hanno annullato l’avviso di accertamento relativo all’anno 2006 perché le difficoltà economiche riscontrate nel settore (autoricambi), la congiuntura economica negativa, la rilevante esposizione bancaria, le procedure esecutive dell’agente della riscossione e il volontario spossessamento dei beni personali dei soci della società in nome collettivo accertata per far fronte ai debiti societari giustificano e avvalorano le perdite conseguite e lo scostamento rispetto ai ricavi puntuali elaborati dagli studi.
Per la Commissione tributaria regionale della Puglia (11) le difficoltà attraversate dal settore economico di riferimento giustificano il comportamento apparentemente antieconomico in presenza di uno scostamento del 17 per cento tra ricavi accertati e dichiarati che non integra una grave incongruenza.
Anche la Suprema Corte è intervenuta in materia di studi di settore per disconoscere il risultato di Gerico a fronte di una situazione di conosciuta e manifesta crisi. Con diverse sentenze e ordinanze di legittimità (12) i giudici della Suprema Corte hanno chiarito che l’esistenza di una manifesta crisi del settore economico di appartenenza o anche una grave crisi familiare o finanziaria sono in grado di giustificare il semplice scostamento dagli studi di settore.
Altro aspetto estremamente interessante della motivazione della pronuncia in rassegna riguarda la funzione e soprattutto l’effettività del preventivo e obbligatorio contraddittorio.
Secondo i giudici di appello il necessario confronto tra le rispettive posizioni in sede di contraddittorio tra le parti deve essere adeguatamente valorizzato al fine di evitare la semplice e fuorviante trattativa circa l’entità concessa di riduzione della pretesa fiscale iniziale al fine di pervenire all’adesione del contribuente sulla proposta formulata dall’Ufficio fiscale.
Il contraddittorio, nell’ipotesi degli studi di settore, per avere un senso e affinché sia effettivo non deve essere tanto una trattativa per raggiungere patteggiati valori intermedi di maggiori ricavi, ma deve essere il momento in cui le rispettive posizioni sono chiaramente esposte e valorizzate sul piano probatorio con ulteriori indicazioni di fatti e circostanze circa il contesto economico in cui opera in concreto l’impresa e le condizioni in cui versa; tali elementi probatori e indiziari dovranno dare contenuto specifico di attendibilità alle tesi sostenute da entrambe le parti, in particolare dall’Ufficio finanziario che in presenza di una presunzione semplice di partenza deve adeguatamente supportare sia la fondatezza, sia l’entità dei maggiori imponibili richiesti, nonché l’eventuale tesi giustificativa della mera antieconomicità del comportamento del contribuente con l’indicazione dei singoli atti e operazioni economicamente aberranti e, quindi, qualificare il risultato degli studi di settore con altri convergenti, gravi e precisi indizi.
Il contraddittorio deve essere “reale” e non solo “apparente”; non deve quindi atteggiarsi a formale rispetto di una fase procedimentale obbligatoria, ma priva di sostanza argomentativa, perché è solo attraverso il contraddittorio che si opera il passaggio dal piano delle categorie generali e astratte degli studi di settore a quello singolare e concreto dell’accertamento della capacità contributiva effettivamente manifestata dal singolo contribuente e delle peculiari modalità di svolgimento dell’attività.
Nella pratica questo dovuto sforzo non viene spesso compiuto e si assiste per lo più alla redazione di laconici, sbrigativi e non motivati verbali di contraddittorio in cui non si illustrano le reali posizioni e prove delle parti (a meno che la difesa del contribuente non abbia prodotto memorie allegate ai verbali stessi), né i motivi per cui l’Ufficio sia arrivato alla determinazione di una (pre)definita proposta, né le ragioni per le quali tale transazione non sia stata accettata dal contribuente.
In merito al discorso circa la gravità dello scostamento rilevato, l’art. 62-sexies, terzo comma, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), recita testualmente che «gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lett. d) del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente decreto».
Una volta che siano state accertate le gravi incongruenze tra i dati dichiarati e quelli che emergono dai calcoli matematico-statistici che si ritengono “fondati” per quel contribuente, vanno individuate le ragioni di tale difformità, che devono essere già motivate in modo chiaro nell’avviso di accertamento e nell’obbligatorio e preventivo invito al contraddittorio; in assenza di incongruenze gravi e di provata e concordante fondatezza del risultato espresso dallo studio di settore vengono a mancare le condizioni di accesso e di legittimità per applicare questo strumento di ricostruzione presuntiva dei ricavi o compensi.
I risultati degli studi devono essere sempre vagliati e adattati alla situazione concreta per fornire fondatezza e attendibilità alle presunzioni che devono confrontarsi e conformarsi alla situazione gestionale e di fatto del contribuente (“fondatamente desumibili”), ma tutto questo risulta difficilmente e non automaticamente realizzabile soprattutto quando si applicano complesse elaborazioni matematiche e statistiche, non conosciute (nemmeno dagli stessi Uffici), valori medi oscuri, parziali, non verificabili ed estrapolati da dichiarazioni precedenti e quindi su situazioni datate, superate e non sempre estendibili al futuro né al singolo caso concreto.
Il mero scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli richiesti da Gerico non risulta di per sé sufficiente a legittimare l’accertamento da studi di settore anche considerato che una lettura non superficiale consente di concludere che la normativa ammette l’accertamento quando emergono gravi e concordanti incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e condizioni di esercizio dell’attività svolta e tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili “dagli” studi presuntivi di settore.
Ai sensi dell’art. 2727 c.c., le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto. La possibilità di individuare negli studi di settore il “fatto noto”, dal quale far discendere la prova presuntiva del “fatto ignoto”, ovverosia il ricavo del soggetto accertato, crea tutta una serie di problemi rilevanti e di incertezze difficilmente superabili con un semplice calcolo matematico. Le statistiche elaborate in base a campioni imperfetti (non si sa quanti siano stati elaborati, né l’attendibilità dei dati di partenza) di contribuenti, estrapolate da dati storici parziali, ormai sorpassati e non conosciuti non possono non portare all’elaborazione di un ricavo o compenso presunto, definito e riconosciuto “medio”, che non è, per le particolari modalità con le quali è stato ricostruito e per le modifiche e gli aggiornamenti continuamente apportati, un fatto certamente “noto” né tantomeno certo. Pretendere che dei calcoli matematici e statistici portino di per sé a fotografare esattamente le gravi incongruenze e la realtà fattuale di una complessa e diversificata realtà aziendale o professionale, rappresenta una mera illusione, un miraggio che non ha ancora trovato un valido fondamento e che ha invece bisogno di ulteriori conferme e prove esterne.
L’esplicito riferimento al primo comma dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993, rappresenta l’elemento centrale su cui focalizzare la valenza giuridica degli studi di settore e il giusto punto di partenza su cui fondare la certezza che ai fini dell’accertamento basato sui detti studi sono necessari ulteriori elementi probatori o indiziari, tali da giustificare sia le presunte gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli stimati, sia la necessaria esistenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, il tutto con onere della prova e coerente motivazione a carico degli Uffici procedenti, che dovranno valutare la sovrapponibilità delle elaborazioni statistiche con l’effettiva condizione reddituale dell’attività verificata e con le controdeduzioni fornite in contraddittorio.
Tale collocazione tra gli accertamenti analitici-induttivi non può non attenuarne la forza presuntiva, visto che la normativa vigente consente l’accertamento al verificarsi di incongruenze che devono essere precise, concordanti e soprattutto “gravi” tra i dati dichiarati e quelli desumibili in modo “fondato” dagli studi di settore, i quali non sono di per sé in grado di supportare da soli accertamenti automatici o autoreferenziali; ne consegue che in assenza di una precisa e predefinita qualificazione giuridica, gli studi di settore non possono che avere natura di presunzione semplice, tenuto anche conto della necessaria loro conferma in sede di contraddittorio preventivo.
La necessità di avvalorare le gravi incongruenze, di qualificare le presunzioni ai sensi del citato art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, la fragilità e la non attendibilità del funzionamento del programma Gerico, continuamente sottoposto a modifiche e revisioni postume e critiche dell’ultima ora (pochi giorni prima dei versamenti dichiarativi!), le ammissioni della stessa Agenzia delle entrate sullo scarso valore probatorio dei soli strumenti accertativi statistici, rappresentano chiari e univoci sintomi circa la necessità di corroborare e motivare i semplici indizi da studi di settore con altre verifiche mirate e quindi ulteriori prove o indizi, purché gravi e precisi. Lo scostamento (incongruità) che il programma degli studi di settore elabora non può avere allo stesso tempo un duplice effetto, ovvero rivestire i requisiti richiesti per la qualificata operatività della presunzione semplice, ovverosia la gravità, precisione e concordanza, e anche le “gravi incongruenze” previste dall’art. 62-sexies, terzo comma, del D.L. n. 331/1993; poiché lo scostamento rappresenta al più una presunzione semplice, il fisco nell’atto di accertamento dovrà provare l’esistenza anche delle incongruenze gravi.
Mere presunzioni semplici come gli studi di settore non sono di per sé sufficienti a fondare un accertamento come ripetutamente asserito in giurisprudenza, dottrina e nella prassi della stessa Agenzia delle entrate. A maggior ragione l’accertamento analitico-contabile non può disattendere le scritture o le dichiarazioni se non in presenza di solidi elementi documentali da cui si desuma una fondata evasione. Non è ammissibile un accertamento analitico-contabile basato solo su strumenti presuntivi in quanto ciò lo porterebbe ad avere meno vincoli rispetto a quello induttivo (art. 39, secondo comma). Una corretta lettura della lett. d) dell’art. 39, primo comma, richiede che l’evasione sia provata attraverso documentazione, le presunzioni possono rilevare come metodo di quantificazione del reddito (non dei ricavi) o rafforzare le prove documentali, ma non possono in alcun modo costituire motivazione autonoma per un accertamento.
Gli studi di settore sono stati attuati come una fonte subordinata alla legge e in particolare agli artt. 2727 c.c. e 39 del D.P.R. n. 600/1993 citati. Non potendo una norma di rango inferiore abrogare una norma di fonte superiore, è evidente che le risultanze degli studi di settore non possono esimere l’Ufficio finanziario dal provare l’infedeltà della dichiarazione contestando al contribuente elementi gravi, precisi e concordanti di tipo documentale, non certo con altre labili e infondate presunzioni.
Né si può dire che le risultanze degli studi siano di per sé precise perché non si sa come siano calcolate, non tengono conto di vari fattori (esatta localizzazione dell’attività, anzianità agli inizi o alla fine della carriera, situazione di mercato, concorrenza, modalità specifiche della singola attività, ecc.) o ne impiegano altri carenti e imperfetti (campione utilizzato non attendibile o non adeguato, medie provenienti da dati non attendibili dichiarati in anni passati, gruppi omogenei di appartenenza di derivazione statistica non perfetti). I risultati degli studi devono avere una fondatezza che deve confrontarsi con la situazione di fatto del contribuente (“fondatamente desumibili”), ma ciò non è possibile quando si applicano proiezioni e valori medi oscuri, non conosciuti e non verificabili.
Per essere “gravi” essi dovrebbero indicare scostamenti di entità significativa (almeno del 25-30% come sostenuto anche dall’annotata sentenza) e non differenze non rilevanti. Non essendo quindi una presunzione né precisa né concordante né di per sé grave, essa non può essere ammessa da sola e basta che manchi una delle tre caratteristiche perché l’accertamento decada per illegittimità. Le sole risultanze degli studi di settore, in assenza di altre prove, possono essere contestate come nullità della motivazione dell’accertamento perché non rientrano tra le presunzioni gravi, precise e concordanti, considerato che i predetti studi hanno un elevato grado di imprecisione e che hanno la sola funzione di strumento ausiliario di quantificazione del reddito nel caso in cui manchino elementi contabili o documentali.
Se l’accertamento da studi si riduce ad essere un elemento esclusivamente indiziario (non una prova), non può tramutarsi in una presunzione grave, precisa e concordante e, quindi, deve essere necessariamente corroborato da ulteriori elementi probatori.
Un’attenta lettura del citato art. 62-sexies del D.L. n. 391/1993 consente di concludere che la norma ammette l’accertamento solo quando emergono gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e condizioni di esercizio dell’attività svolta e quelli desumibili “dagli” studi. Se la predetta disposizione sugli studi di settore avesse voluto attribuire il valore di presunzione legale relativa agli accertamenti basati sugli studi di settore, sarebbe bastato affermare che gli accertamenti possono essere fondati “sugli” (e non “dagli”) studi. La norma, invece, richiede il concorso tra le gravi incongruenze e lo scostamento rispetto ai risultati degli studi di settore. In altri termini lo studio di settore risulta legittimo solo quando si basa su gravi, precise e concordanti incongruenze e sul contemporaneo disallineamento dei ricavi dichiarati rispetto alle risultanze di Gerico.
Queste conclusioni sono state fatte proprie da tempo dalla Corte di Cassazione (13) secondo cui l’esistenza di attività non dichiarate può essere ricostruita attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti e «questo valore possono assumere, se confortate da altri indizi, le difformità delle percentuali applicate in concreto rispetto a quelle mediamente riscontrate nel settore di appartenenza, emergenti da studi di settore, quando vi sia uno scostamento che renda del tutto non credibile il risultato della dichiarazione». Secondo la Suprema Corte, quindi, non appare sufficiente la mera applicazione matematica degli studi, ma occorre che tali elementi presuntivi semplici risultino confortati da altri indizi concreti (14).
La flessibilità degli strumenti presuntivi di accertamento delle imposte sui redditi è comunque presidiata dall’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in materia automatica a prescindere da quella che è la realtà specifica e la capacità contributiva del contribuente e quindi va compiuto ogni sforzo per individuare tale capacità, pur tenendo presente l’ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, i quali però non possono avere effetti automatici o assiomatici, che sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma richiedono invece un confronto con la situazione concreta del contribuente.
La presunzione degli studi di settore da semplice non può nemmeno trasformarsi automaticamente in legale-relativa a seguito del contraddittorio, perché la natura della presunzione non può mutare se non diversamente previsto dalla norma (non esistono ancora presunzioni semplici che si trasformino miracolosamente in legali nel nostro ordinamento); dato che nessuna norma è in grado di trasformare la presunzione da semplice a legale, essa rimane tale e l’onere della prova rimane a carico di chi vuol far valere la pretesa che non è certo supportata da scostamenti non significativi o, comunque, non gravi.
La motivazione dell’atto di accertamento nel caso concreto esaminato dai giudici toscani si è esaurita nel rilievo dello scostamento e della presunta ma non dimostrata antieconomicità e non è stata integrata con la prova dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto al caso esaminato né, come sembra di capire dalla motivazione della sentenza, con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni e i rilievi sollevati dal contribuente, per cui l’avviso impugnato appare nullo anche per difetto di motivazione e prova (15).
L’entità in percentuale dello scostamento dei ricavi puntuali da studi di settore rispetto a quelli dichiarati fa emergere la gravità o meno della incongruenza e seppure non vi sia un intervallo di tolleranza predefinito, la giurisprudenza ha già avuto modo di individuare per lo più quelle differenze che non sono state ritenute rilevanti. Tuttavia va segnalato che la lett. d-ter) del secondo comma dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 prevede che in caso di omessa presentazione dei modelli per la comunicazione dei dati degli studi di settore o di indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità non sussistenti, ovvero di infedele compilazione dei modelli stessi che comporti una differenza superiore del 15 per cento o comunque di 50.000 euro tra i ricavi o compensi stimati applicando gli studi sulla base dei dati corretti e quelli presunti con i dati indicati in dichiarazione, sia possibile procedere all’accertamento induttivo puro, ovvero senza che le presunzioni siano assistite dai requisiti di gravità, precisione e concordanza. Seppur siamo in presenza di una differenza riguardante l’infedeltà dichiarativa e non dello scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli puntuali degli studi, non va sottaciuto che se lo stesso legislatore ha fissato due soglie di rilevanza di questo tipo appare poco credibile che scostamenti inferiori alle sopra indicate misure possano apparire come incongruenze di tipo grave.
Numerose sentenze delle Commissioni tributarie e di legittimità sono intervenute ad illustrare e delimitare l’essenziale e necessario requisito delle gravi incongruenze e comunque della gravità dello scostamento.
La Commissione tributaria provinciale di Milano, anzitutto, con la sentenza n. 60/2005 (16) ha stabilito che l’esistenza di gravi incongruenze deve essere espressamente affermata e adeguatamente motivata nell’avviso di accertamento e, ovviamente, non soltanto facendo riferimento all’importo dei ricavi non dichiarati perché l’anzidetto importo, isolatamente considerato, avrebbe scarsa rilevanza. Secondo la medesima Commissione occorre che nell’avviso di accertamento «oltre ai ricavi determinabili sulla base degli studi di settore … venga affermata e motivata l’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli determinabili con gli studi di settore». Affinché sia provata la sussistenza della gravità delle incongruenze, secondo il Collegio lombardo, «l’importo dei ricavi non dichiarati rispetto sia a quelli dichiarati, sia a quelli determinabili in via presuntiva, non dovrebbe essere inferiore al 25/30 per cento».
Per la Commissione tributaria provinciale di Macerata, intervenuta con la sentenza n. 36/2005 (17), il ricorso alla presunzione che nasce dallo studio di settore deve sempre concorrere con la dimostrazione dell’esistenza di gravi incongruenze tra quanto dichiarato e quanto si desume dalla specifica attività. Con la conseguenza che «lo studio di settore costituisce un utile parametro per l’accertamento del maggior reddito ma solo in concorso con la dimostrata grave incongruenza che rappresenta la ragione per cui si ricorre allo studio di settore». Secondo i giudici marchigiani la dimostrazione dello scostamento fra reddito dichiarato e accertato in base agli studi non può trovare la fonte in dati aritmetici astratti o meramente presuntivi, ma deve essere ancorata alla realtà della singola impresa, poiché esso deve trovare la legittimità logico-giuridica in un contesto di ulteriori elementi sintomatici di gravi incongruenze nella dichiarazione del contribuente.
La Commissione tributaria provinciale di Macerata (18) ha esattamente deciso che «uno scostamento di una percentuale pari a circa il 10% di quanto accertato meccanicamente in forza dello studio di settore non integra il requisito delle gravi incongruenze, che legittimano l’accertamento induttivo». Anche in questo caso il ricavo puntuale presunto deve essere significativamente superiore a quello presunto e non soltanto maggiore a quello dichiarato per supportare un accertamento presuntivo basato su uno studio di settore.
Secondo la sentenza n. 113/2006 della Commissione tributaria provinciale di Bari (19) i risultati derivanti dall’applicazione degli studi di settore non godono di autoreferenzialità legittimante e, «a parere della Commissione, quelle gravi incongruenze tra ricavi dichiarati e quelli ritenuti congrui dall’applicazione del metodo matematico statistico di Gerico non possono costituire sic et simpliciter base legittimante l’accertamento, sia per la poca affidabilità dello stesso strumento statistico, sia perché dette gravi incongruenze possono rendere la contabilità, formalmente in regola, inattendibile, allorquando, però, confligga con regole fondamentali di ragionevolezza sì da privare la documentazione stessa di ogni credibilità». La Corte territoriale ha quindi annullato l’accertamento basato solamente sullo scostamento presunto dei ricavi senza il supporto di ulteriori elementi di prova, forniti invece dal contribuente che aveva documentato le proprie precarie condizioni di salute.
Con l’inedita sentenza 29 settembre 2006, n. 105, pure la Commissione tributaria provinciale di Rieti si è espressa nel senso che «la disposizione dell’art. 62-sexies … richiede … l’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore e non soltanto che l’ammontare dei ricavi determinabili sulla base degli studi di settore risulti superiore all’ammontare dei ricavi dichiarati. Nel caso di specie non sembra rilevarsi l’esistenza di gravi incongruenze … con uno scostamento … pari al 4,7%, determinando una differenza di lieve entità che non può essere considerata grave incongruenza».
Le sentenze della Commissione tributaria provinciale di Bari nn. 113/2006 (20) e 36/2006 (21) hanno stabilito che gli studi non godono di autoreferenzialità legittimante e che i presunti maggiori ricavi derivanti dal programma Gerico non possono costituire in modo automatico base legittimante per l’accertamento sia per la loro scarsa affidabilità sia perché le gravi incongruenze richieste dalla legge possono rendere la contabilità inattendibile solo quando essa contrasti con regole fondamentali di ragionevolezza. È di conseguenza nullo l’accertamento basato solo sullo scostamento dei ricavi dichiarati da quelli presunti dagli studi senza il supporto di ulteriori elementi di prova, tanto più ove il contribuente fornisca prova delle particolari condizioni di precarietà in cui ha dovuto operare per problemi di salute.
La sentenza n. 500/2007 della Commissione tributaria provinciale di Livorno (22) ha sottolineato il concetto secondo il quale in presenza di cause di non applicazione degli studi di settore, che ricorrono in tutti quei casi in cui viene meno il fondamento logico degli stessi per effetto della dimostrazione di ragioni di fatto (le precarie condizioni di salute con riduzione delle capacità lavorative del 36 per cento, le difficoltà economiche suffragate dai vari finanziamenti ottenuti da banche e organizzazioni di categoria) che pongono l’attività del contribuente (installazione impianti elettrici) in un periodo di non normale svolgimento, si rende necessario avvalorare lo scostamento accertato mediante altri elementi indici di maggiore capacità contributiva, o mediante l’esame della situazione fiscale del contribuente, onde accertare l’esistenza di quelle gravi incongruenze contabili che legittimano la ricostruzione induttiva dei presunti maggiori ricavi. La norma richiede il concorso tra le gravi incongruenze e lo scostamento rispetto ai risultati degli studi di settore. In altri termini lo studio di settore risulta legittimo solo quando si basa su gravi, precise e concordanti incongruenze ed il contemporaneo disallineamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli desumibili da Gerico.
Con la sentenza n. 158/2008 della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia (23) i giudici hanno puntualizzato che il legislatore ha disposto che la tipologia degli accertamenti induttivi possa basarsi anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi o i compensi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore, ma che egli non si è accontentato che le gravi incongruenze siano “tout-court” semplicemente desumibili dagli stessi, ma richiede specificamente che lo siano in modo fondato. In altre parole per i giudici emiliani le gravi incongruenze non sono conseguenti solo allo scostamento tra quanto dichiarato e presunto o desunto dagli studi di settore, ma con quelli fondatamente desumibili dagli studi stessi, quindi con scarsa probabilità di errore, in modo pressoché certo. L’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi desumibili dallo studio di settore non è quindi ritenuto dal legislatore legittimamente comparabile con quello dichiarato dal contribuente onde originare le gravi incongruenze di cui parla la norma: la legittimità esiste solo nel caso in cui gli stessi siano desumibili fondatamente. il legislatore non si fida del semplice risultato “matematico-statistico”, ma vuole qualcosa di più: richiede che i risultati dello stesso siano supportati, avvalorati “aliunde”; richiede che gli stessi non vengano “passivamente” accettati ma “criticamente” valutati, calandoli nella realtà d’impresa specifica esaminata. I risultati desumibili dallo studio sono un semplice elemento indiziario la cui fondatezza deve rimanere verificata indagando la realtà della fattispecie in esame. Va quindi verificato se in questa siano identificabili elementi, sia di natura contabile (ad esempio: resa produttiva), che di tipo extracontabile (ad esempio: appunti, documenti, risultanze bancarie e di controlli incrociati) che consentano una ricostruzione, induttiva, del volume d’affari che concordi sostanzialmente con quello desumibile dallo studio di settore rendendolo così fondatamente desumibile dallo stesso, per poi procedere alla comparazione con quello dichiarato dal contribuente onde verificare se tra i due sussistano le richieste gravi incongruenze, che sono l’ulteriore condizione necessaria per legittimare l’accertamento. Senza tale attività di verifica, che lo confermi e che fondi il risultato dello studio di settore per tramutarlo in quel tipo di presunzione, grave, precisa e concordante, richiesta dal citato art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, il semplice risultato dello studio di settore non rende legittimo questo tipo di accertamento.
Per la Commissione tributaria provinciale di Teramo (24) uno scostamento del 10 per cento non è sufficiente ad integrare le gravi incongruenze previste dalla legge.
La Commissione tributaria provinciale di Bari con la sentenza n. 71/2010 (25) ha confermato che uno scostamento esiguo pari a solo il 5,7 per cento dei ricavi dichiarati rispetto a Gerico non legittima l’emissione di un avviso di accertamento basato sugli studi di settore.
La già citata sentenza della Corte di Cassazione n. 18941/2010 ha stabilito l’inapplicabilità degli studi di settore in presenza di un settore (tessile) segnato da una crisi, evento che giustifica di per sé lo scostamento dei ricavi; analogamente la crisi del comparto dell’edilizia, come nella fattispecie esaminata dall’annotata sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, essendo grave, prolungata e generalmente riconosciuta, non può non comportare l’inapplicabilità degli standard statistici se non supportati da altri gravi e qualificati indizi.
La Commissione tributaria provinciale di Bologna (26) ha stabilito che una differenza del 5,8 per cento «non si può definire grave (concetto che implica una percentuale significativa nell’ordine di almeno il 20%), come non può dirsi grave lo scostamento, in termini assoluti, di euro 14.507,00».
Con l’ordinanza n. 3923/2011 (27) la Corte di Cassazione ha annullato un accertamento da studi di settore con un divario del 7 per cento sottolineando, altresì, che l’Ufficio fiscale, come nel caso di specie esaminato dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, non ha adeguatamente argomentato nell’avviso sui motivi per i quali ha disatteso gli elementi addotti dal contribuente in contraddittorio.
La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lecce n. 47/2011 (28) ha dichiarato nullo un accertamento da studi di settore con un ricavo presunto maggiore del 17 per cento, ritenuta una variazione non tale da suffragare una grave incongruità né idonea a giustificare un accertamento presuntivo. Analogamente la Commissione tributaria regionale della Puglia con la citata sentenza n. 247/2013 ha annullato un accertamento da studi di settore con uno scostamento sempre del 17 per cento, perché di lieve entità nel settore turistico in crisi.
L’ordinanza n. 10778/2011 della Corte di Cassazione (29) ha ancora una volta ribadito che di fronte a presunzioni semplici come quelle degli studi di settore è necessario che lo scostamento dei ricavi dichiarati da quelli presunti sia significativo e testimoni una grave incongruenza.
Anche per la Commissione tributaria regionale della Liguria (30), ai fini della gravità delle incongruenze, lo scostamento per essere rilevante deve essere di almeno il 25-30 per cento.
La sentenza n. 67/2013 della Commissione tributaria provinciale di Pavia (31) ha affermato che in presenza di presunzioni semplici devono sempre sussistere gravi incongruenze tra i dati dichiarati e quelli presunti in base agli studi, per cui in mancanza di una simile dimostrazione non si verifica alcuna inversione dell’onere probatorio tanto più in presenza di crisi finanziaria, richiesta di concordato stragiudiziale e cessione in affitto dell’azienda con opzione di acquisto a prezzi minimi.
La Commissione tributaria di II grado di Bolzano n. 28/2013 (32) ha dichiarato inconsistente un presunto maggior ricavo del 2,6 per cento.
In senso analogo la Commissione tributaria regionale della Lombardia (33) ha dichiarato nullo un accertamento da studi di settore basato su uno scostamento non grave pari al 2,59 per cento applicato senza considerare la situazione specifica del contribuente (settore dei pavimenti e rivestimenti); lo studio applicato è stato ritenuto poco affidabile in quanto modificato e aggiornato due volte, come spesso avviene con periodicità ormai costante.
La Commissione tributaria regionale della Toscana nella pronuncia in rassegna ha precisato che «le incongruenze tra le scritture contabili ed i dati desumibili dagli studi di settore per essere considerate gravi devono rappresentare uno scostamento di almeno il 25-30%», mentre essendo stati rilevati uno scarto del 12,62 per cento e lo stato di crisi del settore, nonché altre esimenti (la circostanza che l’impresa operava prevalentemente con istituti di credito, ovvero con soggetti con i quali è molto difficile sottofatturare, e la necessità di affidare i lavori a terzi da remunerare), non sono state riscontrate incongruenze rilevanti e tali da poter giustificare un accertamento presuntivo.
Nel caso esaminato dai giudici di appello toscani non essendoci alcuna dimostrazione delle gravi incongruenze nell’atto impugnato né una chiara esplicitazione e dimostrazione del presunto comportamento anitieconomico dell’azienda, l’accertamento è nullo per carenza di motivazione ed assenza di prova, per cui l’appello dell’Ufficio finanziario è stato respinto. inoltre non essendo stati individuati nell’accertamento neanche quegli ulteriori elementi relativi all’azienda al fine di dimostrare la gravità, precisione e concordanza delle presunzioni semplici richieste dall’art. 2729 c.c. e dalla giurisprudenza, l’accertamento è sempre nullo perché risulta emesso sulla base del mero e labile indizio statistico e di un’inesistente ed effimera antieconomicità, per di più contraddetta da un settore edilizio in crisi e da uno scostamento non grave.
Unica nota dolente della sentenza in esame è la lapidaria compensazione delle spese che non è stata nemmeno motivata, nonostante la soccombenza totale dell’Agenzia delle entrate anche in primo grado, in contrasto con gli artt. 15 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e 92 c.p.c.; i giudici toscani non sono riusciti ad enunciare nemmeno una delle “gravi ed eccezionali ragioni” che avrebbero potuto e dovuto giustificare la compensazione delle spese di lite, motivazione necessaria per evitare una censura anche di legittimità (34); evidentemente non se la sono sentita di infierire ulteriormente sulla parte soccombente per evitare all’erario una “antieconomica” ma giusta penalità. Così facendo si rischia tuttavia di avallare o quantomeno non contrastare adeguatamente un reiterato comportamento, anche in sede di contraddittorio preventivo, troppo frequentemente abusivo, vessatorio, ostinato, sbrigativo ed ingiustificato nei confronti dei contribuenti e dei loro incolpevoli difensori.
Dott. Stefano Fiaccadori
(1) In questo senso cfr. Cass., sez. trib., 27 settembre 2013, n. 22181, in Boll. Trib. On-line.
(2) Cfr. Cass., sez. trib., 23 gennaio 2008, n. 1409, in Boll. Trib. On-line. In senso conforme anche Cass., sez. trib., 29 luglio 2011, n. 16642; Cass., sez. trib., 6 dicembre 2011, n. 26167; Cass., sez. trib., 10 febbraio 2012, ord. n. 1972; Cass., sez. trib., 12 settembre 2012, n. 15250; Cass., sez. trib., 14 giugno 2013, n. 14941; e Cass., sez. trib., 13 dicembre 2013, n. 27912; tutte in Boll. Trib. On-line.
(3) In questo senso cfr. lo studio dell’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione 9 luglio 2009, n. 94, e Cass., sez. un., 18 dicembre 2009, nn. 26635, 26636, 26637 e 26638, in Boll. Trib., 2010, 303, con nota di M. Proietti, Presunzioni semplici quelle di parametri e studi di settore: la lettura costituzionalmente orientata delle Sezioni Unite, che hanno ormai definitivamente sancito che gli studi di settore sono presunzioni semplici non dotate di per sé di gravità, precisione e concordanza, e che spetta all’Ufficio finanziario dimostrarne in sede di contraddittorio preventivo l’applicabilità al caso concreto con il supporto di ulteriori elementi probatori da contestare al contribuente. In seguito si sono ancora espresse in questo senso, tra le tante, Cass., sez. trib., 19 maggio 2010, n. 12258; Cass., sez. trib., 7 settembre 2010, n. 19136; Cass., sez. trib., 8 ottobre 2010, n. 21040; Cass., sez. trib., 9 dicembre 2010, ord. n. 24946; Cass., sez. trib., 24 marzo 2011, ord. n. 6777; Cass., sez. trib., 4 novembre 2011, ord. n. 23015; Cass., sez. VI, 8 febbraio 2012, ord. n. 1864; Cass., sez. trib., 13 giugno 2012, n. 9641; Cass., sez. VI, 25 giugno 2012, ord. n. 10556; Cass., sez. VI, 17 ottobre 2012, ord. n. 17804; tutte in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 20 marzo 2013, n. 6922, in Boll. Trib., 2013, 950; Cass., sez. trib., 20 marzo 2013, n. 6929; Cass., sez. VI, 14 maggio 2013, ord. n. 11506; Cass., sez. VI, 18 giugno 2013, ord. n. 15186; Cass., sez. trib., 21 giugno 2013, n. 15651; e Cass., sez. trib., 4 settembre 2013, n. 20278; tutte in Boll. Trib. On-line.
(4) Cfr. Comm. trib. prov. di Bari, sez. XV, 8 ottobre 2010, n. 197, in Boll. Trib., 2011, 551, con nota di D. Carnimeo, Il contraddittorio endoprocedimentale è obbligatorio per tutti gli accertamenti standardizzati.
(5) Cfr. Comm. trib. prov. di Treviso, sez. V, 31 gennaio 2012, n. 12, in Boll. Trib. On-line; in merito alla citata sentenza ved. A. Iorio, Essere in perdita non è evasione, in Il sole 24 Ore del 6 marzo 2012, 20.
(6) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. XLIV, 29 giugno 2012, n. 96, in Boll. Trib. On-line; sulla citata sentenza cfr. L. Ambrosi, Il «rosso» non basta alla rettifica, in Il Sole 24 Ore, Norme e tributi del 1° ottobre 2012, 5.
(7) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. VIII, 10 gennaio 2013, n. 1, in Boll. Trib. On-line; in merito alla citata sentenza ved. G. Boccalatte, L’andamento negativo non basta all’accertamento, in Il sole 24 Ore, Norme e tributi dell’11 marzo 2013, 4.
(8) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. XLV, 2 gennaio 2013, n. 12, in Boll. Trib. On-line; sulla citata sentenza ved. L. Ambrosi, Il redditometro non aiuta Gerico, in Il sole 24 Ore, Norme e tributi del 25 febbraio 2013, 4.
(9) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. XLV, 25 marzo 2013, n. 46, in Boll. Trib. On-line, e la relazione Fiscal Focus, Accertamento. Motivazione omogenea, in [email protected], 11 giugno 2013.
(10) Sul punto cfr. R. Acierno, La crisi può bloccare Gerico, in Il Sole 24 Ore, Norme e tributi del 6 gennaio 2014, 4.
(11) Cfr. Comm. trib. reg. della Puglia, sez. staccata di Lecce, sez. XXIII, 11 ottobre 2013, n. 247, in Boll. Trib. On-line, e il commento di A. Sacrestano, L’antieconomicità segna il passo, in Il sole 24 Ore, Norme e tributi dell’11 novembre 2013, 4.
(12) Cfr. Cass., sez. trib., 31 agosto 2010, ord. n. 18941; Cass., sez. trib., 7 settembre 2010, n. 19136; Cass., sez. trib., 29 agosto 2013, n. 19767; e Cass., sez. trib., 4 settembre 2013, n. 20278; tutte in Boll. Trib. On-line.
(13) Cfr. Cass., sez. trib., 27 febbraio 2002, n. 2891, in Boll. Trib., 2002, 1729.
(14) Cfr. Cass., sez. trib., 21 settembre 2007, n. 19556; Cass., sez. trib., 24 aprile 2008, n. 10277; Cass., sez. trib., 11 giugno 2008, n. 15416; Cass., sez. trib., 30 aprile 2009, n. 10077; Cass., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12032; Cass., sez. trib., 6 agosto 2009, n. 18020; Cass., sez. trib., 11 settembre 2009, n. 19632; Cass., sez. trib., 24 settembre 2010, n. 20210; Cass., sez. VI, 8 febbraio 2012, ord. n. 1864; Cass., sez. VI, 25 giugno 2012, ord. n. 10556; Cass., sez. VI, 17 ottobre 2012, ord. n. 17804; tutte in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 12 febbraio 2013, n. 3355, in Boll. Trib., 2013, 789; Cass., sez. trib., 20 febbraio 2013, n. 4166, ibidem, 948; e Cass., sez. trib., 21 giugno 2013, n. 15651; in Boll. Trib. On-line.
(15) In questo senso cfr. Cass., sez. trib., 20 ottobre 2011, ord. n. 21856, in Boll. Trib., 2012, 551, con nota di F. Brighenti, Miniguida agli studi di settore; Cass., sez. trib., 20 febbraio 2013, n. 4166, ivi, 2013, 948; e Cass., sez. VI, 18 giugno 2013, ord. n. 15186, in Boll. Trib. On-line.
(16) Cfr. Comm. trib. prov. di Milano, sez. VIII, 18 aprile 2005, n. 60, in Boll. Trib. On-line.
(17) Cfr. Comm. trib. prov. di Macerata, sez. III, 17 maggio 2005, n. 36, in Boll. Trib., 2006, 1149.
(18) Cfr. Comm. trib. prov. di Macerata, sez. III, 8 febbraio 2006, n. 9, in Boll. Trib. On-line.
(19) Cfr. Comm. trib. prov. di Bari, sez. VIII, 11 settembre 2006, n. 113, in Boll. Trib., 2006, 1900.
(20) Cfr. Comm. trib. prov. di Bari n. 113/2006, cit.
(21) Cfr. Comm. trib. prov. di Bari, sez. XIV, 22 marzo 2006, n. 36, in Boll. Trib., 2006, 1902.
(22) Cfr. Comm. trib. prov. di Livorno, sez. I, 16 marzo 2007, n. 500, in Boll. Trib., 2007, 1487, con nota di P. Biondo, Incertezze interpretative sul valore probatorio degli studi di settore.
(23) Cfr. Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. I, 3 ottobre 2008, n. 158, in Boll. Trib. On-line.
(24) Cfr. Comm. trib. prov. di Teramo 2 ottobre 2009, n. 175, in Boll. Trib. On-line.
(25) Cfr. Comm. trib. prov. di Bari, sez. I, 7 aprile 2010, n. 71, in Boll. Trib. On-line.
(26) Cfr. Comm. trib. prov. di Bologna 27 dicembre 2010, n. 210, in Boll. Trib. On-line.
(27) Cfr. Cass., sez. trib., 17 febbraio 2011, ord. n. 3923, in Boll. Trib. On-line.
(28) Cfr. Comm. trib. prov. di Lecce, sez. II, 1° febbraio 2011, n. 47, in Boll. Trib. On-line.
(29) Cfr. Cass., sez. trib., 16 maggio 2011, ord. n. 10778, in Boll. Trib. On-line.
(30) Cfr. Comm. trib. reg. della Liguria, sez. XII, 11 maggio 2012, n. 17, in Boll. Trib. On-line.
(31) Cfr. Comm. trib. prov. di Pavia, sez. I, 28 febbraio 2013, n. 67, in Boll. Trib., 2013, 1677.
(32) Cfr. Comm. trib. II grado di Bolzano, sez. I, 28 giugno 2013, n. 28, in Boll. Trib. On-line.
(33) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. staccata di Brescia, sez. LXIII, 11 giugno 2013, n. 163; in merito alla citata sentenza ved. R. Acierno, La rettifica da studi di settore richiede gravi incongruenze, in Il sole 24 Ore, Norme e tributi del 22 luglio 2013, 4.
(34) In senso conforme da ultimo cfr. Cass., sez. II, 26 novembre 2013, n. 26438, in Boll. Trib. On-line.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento basato sugli studi di settore – Natura di presunzione semplice degli studi di settore – Scostamento del reddito dichiarato dagli standards – Non determina ex lege la gravità, precisione e concordanza della presunzione occorrente per l’accertamento – Mancanza di contraddittorio preventivo con il contribuente – Conseguente inidoneità dei soli studi di settore a legittimare l’accertamento – Invalidità dell’accertamento – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento basato sugli studi di settore – Presupposti per l’effettuazione di un accertamento induttivo – Falsità e infedeltà delle scritture contabili – Prova – Insufficienza della semplice difformità dei ricavi dichiarati rispetto a quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore – I valori percentuali medi del settore non costituiscono un fatto storicamente provato ma solo una regola di esperienza – Necessità di altre convergenti indicazioni presuntive o incoerenze documentali – Sussiste – Mancanza – Invalidità dell’accertamento – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento basato sugli studi di settore – Scostamento del reddito dichiarato dagli standards – Gravità – Nozione.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento basato sugli studi di settore – Natura di presunzione semplice degli studi di settore – Grave incongruenza – Espresso richiamo da parte dell’art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993 alle presunzioni di cui all’art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973 – Mancanza di ulteriori elementi probatori documentali o presuntivi – Conseguente inidoneità del solo studio di settore a legittimare l’accertamento – Invalidità dell’accertamento – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento basato sugli studi di settore – Natura di presunzione semplice degli studi di settore – Elementi probatori portati dal contribuente a giustificazione dello scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli puntuali indicati dallo studio di settore – Mancanza di ulteriori elementi probatori documentali o presuntivi – Inidoneità del solo studio di settore a legittimare l’accertamento – Consegue – Invalidità dell’accertamento – Sussiste.
La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards, in sé considerati quali meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento.
La prova della falsità delle scritture contabili e della loro infedeltà, quale presupposto dell’esercizio del potere di accertamento induttivo, non può essere tratta dall’unico elemento della difformità della percentuale dei ricavi dichiarati rispetto a quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore, in quanto i valori percentuali medi del settore sono, anche a voler ritenere che siano stati desunti in modo scientificamente corretto, non tanto il “fatto noto” storicamente verificato, quanto il risultato dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati, che fissa una regola di esperienza e, pertanto, non costituiscono un fatto storicamente provato, dal quale argomentare con giudizio critico quello ignoto, che costituisce l’oggetto della dimostrazione da fornire, ma al più una regola di esperienza, in base alla quale poter ritenere statisticamente meno frequenti i casi che si allontanano dai valori medi rispetto a quelli che si avvicinano, ancorché la media sia la risultante di valori disomogenei, di talché la diversità di valore fra l’importo dichiarato e quello riscontrato nello specifico settore di appartenenza può assumere concreta rilevanza solo quando si inserisce in una valutazione complessiva e globale di tutti gli elementi noti o storicamente verificabili, e viene in tal modo ad essere supportata da altre indicazioni presuntive o da incoerenze documentali.
Le incongruenze tra le scritture contabili ed i dati desumibili dagli studi di settore per essere considerate gravi e giustificare la rettifica della dichiarazione fiscale devono rappresentare uno scostamento di almeno il 25/30 per cento tra il ricavo dichiarato dal contribuente e il ricavo puntuale indicato dallo studio di settore.
L’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), allorquando fa riferimento ai fini dell’accertamento alla grave incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche dell’attività svolta ovvero dagli studi di settore, richiama espressamente le presunzioni dell’art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che devono essere gravi, precise e concordanti, di talché ne consegue che una volta individuato il grave scostamento, anche attraverso gli studi di settore o comunque sempre attraverso altri metodi che diano un risultato quantitativo dello stesso, tra quanto dichiarato e quanto presunto, campanello d’allarme per procedere alla valutazione della situazione del contribuente, l’Agenzia delle entrate deve dimostrare mediante prove documentali o presunzioni qualificate la fondatezza del proprio assunto, con la conseguenza che se non vi sono quegli elementi richiesti dall’art. 39, ossia anche presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, viene meno anche l’applicabilità del citato art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993, con conseguente invalidità dell’avviso di accertamento.
La situazione di crisi generalizzata in cui versa il settore dell’edilizia privata, la diminuzione del fatturato, la circostanza che l’impresa opera prevalentemente con istituti di credito ovvero con soggetti con i quali è molto difficile sottofatturare, la necessità di presentare offerte molto vantaggiose per le committenze e di affidare i lavori a terzi, nonché uno scostamento del 12,62 per cento che non integra una grave incongruenza ex art. 62-sexies, terzo comma, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), rappresentano circostanze tali da giustificare l’incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche dell’attività svolta ovvero dagli studi di settore, che hanno natura di presunzione semplice, di talché in assenza di ulteriori prove documentali ovvero di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, l’accertamento tributario basato solo sulle risultanze degli studi di settore risulta infondato e comunque illegittimo.
[Commissione trib. regionale della Toscana, sez. XXXV (Pres. e rel. Mangano), 4 marzo 2013, sent. n. 26, ric. Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Firenze c. Impresa Edile G.M. s.r.l.]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con ricorso depositato in data 19/2/2010, la Società Impresa edile G.M. S.r.l. … ricorreva contro l’avviso di accertamento anno d’imposta 2006 emesso dall’Agenzia delle entrate, Direzione Provinciale di Firenze, Ufficio territoriale 2, con il quale, sulla base dell’applicazione degli studi di settore ex art. 62-sexies D.L. n. 331 del 1993 venivano accertati ai sensi degli art. 39 comma 1, lett. d) D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 D.P.R. n. 633 del 1972 maggiori ricavi per Euro 143.286,00 sia ai fini IVA sia IRES e IRAP oltre a interessi e sanzioni.
L’Ufficio ha ritenuto i ricavi dichiarati dalla società del tutto inidonei a rappresentarne la realtà economica ed ha pertanto emesso avviso di accertamento per maggiori ricavi in applicazione degli studi di settore, ricavi inferiori a quelli determinabili sulla base degli studi di settore di cui all’art. 62-sexies del D.L. n. 331 del 1993 e successive modificazioni; ritiene l’Ufficio che l’applicazione degli studi di settore sia di per sé elemento sufficiente per giustificare l’avviso di accertamento essendo lo stesso un metodo analitico presuntivo che travalica la stessa regolarità della tenuta delle scritture contabili del Contribuente.
La Contribuente eccepisce l’illegittimità del solo metodo induttivo dell’applicabilità degli studi di settore e lamenta che l’Ufficio non ha tenuto conto dell’effettiva situazione in cui versava la società in epigrafe.
Con sentenza n. 177/1/10 del 19/10/10 la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, accoglie il ricorso, compensa le spese.
Avverso tale sentenza propone appello l’Agenzia delle Entrate, insistendo negli assunti proposti in prime cure e chiede la riforma della sentenza impugnata.
Controdeduce il Contribuente chiedendo la conferma della la sentenza dei primi giudici.
MOTIVI DELLA DECISIONE – La Commissione, letti gli atti di causa, ritiene privo di fondamento l’appello dell’Ufficio e come tale da respingere, osservando che la tesi dell’Ufficio è basata unicamente sull’equazione che l’asserito comportamento antieconomico del contribuente diviene elemento decisivo da cui dedurre l’inattendibilità della contabilità, integrante per sé stesso la grave incongruenza legittimante la rettifica induttiva, con conseguente inversione dell’onere probatorio in capo al contribuente stesso, affermando che l’aspetto sostanziale della questione finisce per coincidere con l’individuazione della nozione di antieconomicità e/o irragionevolezza.
Con sentenza n. 26635/2009 (1), la Corte di Cassazione ha ritenuto che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards”, in sé considerati quali meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.
In tale sede, come risulta dal verbale di contraddittorio agli atti di causa, emerge che l’ufficio ricevuta la dichiarazione dell’Impresa edile M. che motiva la non congruità allo studio di settore con una situazione di crisi che hanno portato a una progressiva diminuzione del fatturato e nel 2006 non è risultata congrua, la società opera quasi esclusivamente nel settore privato e prevalentemente con istituti bancari per cui è molto difficile sottofatturare e inoltre questi istituti danno un limitatissimo potere contrattuale e per ottenere le varie committenze la società deve presentare offerte molto vantaggiose, non è stato raggiunto un accordo, di conseguenza le eccezioni sollevate verranno discusse nelle ulteriori sedi competenti.
Sono stati quindi rielaborati gli studi di settore, determinati nuovi scostamenti, con proposta dell’Ufficio, non accolta dal contribuente, di definizione dei redditi su tali nuovi valori.
Il Collegio osserva che il confronto delle rispettive posizioni in sede di contraddittorio tra le parti non è stato adeguatamente valorizzato e che la controversia si è semplicemente spostata su valori minori di quantificazione di redditi da studi di settore, ma senza alcun miglioramento sul piano probatorio in ordine ad indicazioni di circostanze del contesto, tali da dare contenuto specifico di attendibilità alla tesi dell’Ufficio, oltre la teorica tesi giustificativa della mera antieconomicità del comportamento del contribuente.
L’Ufficio ha ritenuto di fornire la prova della falsità delle scritture contabili, e della loro infedeltà (presupposto dell’esercizio del potere di accertamento induttivo) dall’unico presupposto della difformità della percentuale di scostamento dei ricavi dichiarati dalla società e quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore (12,62%).
Ma i valori percentuali medi del settore, sono, a voler ritenere che siano stati desunti in modo scientificamente corretto, non tanto il “fatto noto” storicamente verificato, quanto il risultato dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati, che fissa una regola di esperienza. Non, dunque, un fatto storicamente provato, dal quale argomentare con giudizio critico, quello ignoto, che costituisce l’oggetto della dimostrazione da fornire, ma al più, una regola di esperienza, in base alla quale poter ritenere statisticamente meno frequenti i casi che si allontanano dai valori medi, rispetto a quelli che si avvicinano (ancorché la media sia la risultante di valori disomogenei).
La diversità di valore fra l’importo dichiarato e quello riscontrato nello specifico settore di appartenenza, può assumere concreta rilevanza, quando si inserisce in una valutazione complessiva e globale di tutti gli elementi noti (o storicamente verificabili), e viene in tal modo ad essere supportata da altre indicazioni presuntive o da incoerenze documentali.
Non vale rilevare che ogni dimostrazione di carattere presuntivo, in quanto fondata sulla considerazione dell’id quod plerumque accidit, si risolve nell’applicazione di regole probabilistiche, perché la regola probabilistica, in cui si sostanzia il giudizio critico (che fa compiere il passaggio dal fatto noto a quello ignoto) deve essere applicata a fatti storicamente provati, e consentire la valutazione complessiva degli elementi concretamente verificabili, e non esaurirsi nell’enunciazione astratta della regola di esperienza che se ne trae.
Il Collegio osserva che le critiche sostanziali del Contribuente alle considerazioni dell’Ufficio, sia sul calcolo della percentuale di scostamento sia sulla valutazione parziale delle circostanze addotte (tipologia di clientela, necessità di affidare i lavori a terzi, stato di crisi economica generalizzata, lavori svolti in rimessa), siano idonee a definire un quadro concreto della condizione specifica del contribuente che possa giustificare la sua marginalità rispetto al quadro teorico-statistico standardizzato dallo studio di settore, anche alla luce del fatto che la prova della pretesa tributaria si fonda esclusivamente sullo scostamento, non avendo l’Ufficio integrato questo sospetto con altri convergenti e precisi indizi.
Le contrarie argomentazioni dell’Ufficio non hanno, infatti, evidenziato alcuno specifico atto, fatto o negozio costituente comportamento antieconomico del contribuente, tale da poter integrare e definire un contesto significativo di indizi gravi, precisi e concordanti, idoneo e sufficiente a dare corpo alla sola presunzione semplice data dal mero scostamento dei valori dichiarati rispetto alle determinazioni teorico-statistiche degli studi di settore.
Precisato quanto sopra, la Commissione deve rilevare che nella fattispecie l’Ufficio si à limitato a rilevare lo scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi derivanti dall’applicazione degli studi di settore omettendo di addurre, oltre un’asserita ma ingiustificata antieconomicità dell’attività espletata dalla società ricorrente, ogni ulteriore motivazione ed elemento a supporto del rilevato scostamento ed idoneo a giustificare le ulteriori imposte applicate sul maggior reddito presunto; tale omissione è ancor più rilevante atteso che da una parte non sono state sollevate obiezioni sulla tenuta della contabilità del contribuente e che l’Ufficio ha ovviamente gli strumenti ed i mezzi per confortare la presunzione semplice data dallo scostamento rilevato e che dall’altra parte il contribuente difficilmente può essere in grado di giustificare il rilevato scostamento soprattutto quando lo stesso, tenuto conto del tipo dei soggetti con i quali si relaziona, può trovare nei fatti giustificazione.
Come è noto, le incongruenze tra le scritture contabili ed i dati desumibili dagli studi di settore per essere considerate gravi devono rappresentare uno scostamento di almeno il 25/30% (in questo senso C.T.P. di Vicenza sent. 159/06/05; C.T.P. di Milano sent. 13/04/2005; C.T.P. di Vicenza del 17.08.2006 n. 282).
Nel caso di specie, tra il ricavo dichiarato dal contribuente (Euro 1.134.774,00) e il ricavo puntuale dello studio di settore (Euro 1.278.060,00) vi è uno scarto dello 12,62%.
Pertanto, neppure applicando il ricavo puntuale (ma nel caso di specie ritiene il Collegio che il confronto vada fatto, per le ragioni sopra esposte, con il ricavo minimo dello studio di settore) si raggiunge lo scostamento del 25/30%.
La discrasia sopra calcolata non può essere ritenuta significativa ancor più se si considera che mancano altri indizi che possano essere ritenuti gravi, precisi e concordanti.
Detto ciò, poi, sorge un’altra considerazione: la grave incongruenza dell’art. 62-sexies del D.L. n. 331 del 1993, richiama le presunzioni dell’art. 39, comma 1, lettera d) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che devono essere gravi, precise e concordanti. Allora una volta individuato il grave scostamento (anche attraverso gli studi di settore o comunque sempre attraverso altri metodi che diano un risultato quantitativo dello stesso) tra il dichiarato e il presunto, campanello d’allarme per procedere alla valutazione della situazione del contribuente, l’Agenzia delle Entrate deve dimostrare mediante prove documentali o presunzioni qualificate, la fondatezza del proprio assunto.
E quindi, se non vi sono quegli elementi richiesti dall’art. 39, ossia anche presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, viene meno anche l’applicabilità dell’art. 62-sexies.
È lecito in definitiva chiedersi se sia così facile riuscire a individuare prove che portino a un risultato quantitativo dello stesso rigore statistico di uno studio di settore.
L’Agenzia delle Entrate non ha alcuna necessità di inventarsi accertamenti non previsti (come ad esempio uno studio di settore artigianale). Infatti, sono numerosi gli strumenti messi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per svolgere correttamente il proprio operato: si pensi a strumenti quali il redditometro, le indagini bancarie, ecc.
P.Q.M. – Questa Commissione Regionale respinge l’appello dell’Ufficio. Spese compensate.
(1) Cass. 18 dicembre 2009, n. 26635, in Boll. Trib., 2010, 303.
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