11 Settembre, 2018

Interpretazione, nei fatti, in bonam partem per il contribuente. Interpretazione doverosa, perché espressione della regola della formazione progressiva del giudicato (a sua volta corollario di una duplice esigenza, elevata a doppio canone processuale: la certezza del diritto e l’economia processuale) (1); ma ugualmente gradita per colui che, al termine di un primo iter giudiziario piuttosto travagliato (2), pur avendo pieno motivo di pensare che il suo debito verso l’erario (quantificato nell’avviso di rettifica e liquidazione assunto sulla scorta di un atto di liquidazione dell’imposta principale non impugnato) si fosse limato negli anni in sintonia con le tappe processuali man mano raggiunte, se l’era visto risorgere intatto dalle ceneri sotto forma di cartella di pagamento. Come una mostruosa fenice.
La vicenda è per più versi istruttiva.
La vertenza promossa contro l’avviso di rettifica era culminata in una sentenza della Corte di Cassazione che, nel mentre si pronunciava su alcuni punti (3), aveva disposto, in ordine ad altri, la riassunzione della lite avanti la Commissione tributaria regionale; nel termine assegnato ciò non è avvenuto (4), per cui il giudizio – alla stregua dell’art. 393 c.p.c. – si era estinto (5). Dopo un po’ la sorpresa, con l’Ufficio finanziario che torna alla carica notificando una cartella di pagamento a mezzo della quale esige l’intero credito originario recato dall’avviso e non quello, più contenuto nell’importo, andato definendosi via via nel frattempo.
Di qui un secondo processo, promosso dal privato per dimostrare la giustezza di quanto, eccessivamente fiducioso, aveva creduto di concludere al termine del primo round.
Nuovo processo e tre nuovi gradi per addivenire al verdetto odierno, che fa giustizia (in senso tecnico e, non ultimo, in senso umano) richiamando un principio già ampiamente consolidato in giurisprudenza, secondo cui nel caso di estinzione del giudizio di rinvio per la sua mancata o tardiva riassunzione è applicabile anche al rito tributario il combinato disposto degli artt. 310, secondo comma, e 393, ultimo periodo, c.p.c., ai sensi dei quali, se da un lato l’intero processo si estingue, restano d’altro canto intangibili anche in un eventuale nuovo processo instaurato con la riproposizione della domanda i punti fermi espressi da quello precedente e si rendono utilizzabili tutte le statuizioni di merito sulle quali, nel corso di esso, si sia formato il giudicato.
Corretta quindi la lettura fornita dal giudice di legittimità, che ha linearmente sposato il combinato disposto degli artt. 310, secondo comma («L’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e quelle che regolano la competenza») (6) e 393 c.p.c. («Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui all’articolo precedente, o si avvera successivamente a essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l’intero processo si estingue; ma la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda») (7).
Una premessa prima di entrare nel vivo della questione.
Opportunamente la sentenza annota come la Commissione tributaria di provenienza abbia disinvoltamente glissato sul nodo dell’applicabilità in parte qua, al rito tributario, della disciplina processual-civilistica.
Eppure non si tratta(va) di un «dubbio privo di consistenza» (tra l’altro materia di riflessione del giudice a prescindere da una istanza ad hoc) (8), alimentato – prosegue la Suprema Corte – dalla struttura (di merito-impugnazione) del processo tributario, caratterizzato dalla «natura impugnatoria dell’atto impositivo», di talché dall’estinzione germinerebbe (“di regola”) l’intangibilità di quest’ultimo.
Se, infatti, nulla quaestio circa il dettato degli artt. 1, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 («I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile»), e 49 della medesima fonte («Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto»), qualche perplessità poteva ingenerare il successivo art. 63 (9).
Invero quest’ultimo ripercorre sì fedelmente il tenore dell’art. 393 c.p.c. quando, al secondo comma, stabilisce che «Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui al comma precedente o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio l’intero processo si estingue», non ne ripropone però l’ultima parte («ma la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda»). Piombando l’interprete nel rovello: semplice dimenticanza o percezione della non necessità dell’inserimento o – tutto all’opposto – difformità voluta (in ossequio al brocardo ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit)?
Dilemma superato di slancio dalla Sezione Tributaria tramite il richiamo all’art. 2909 c.c. («L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa»), lasciando essa capire di ritenere pleonastica la mancanza edittale di cui sopra, data la pregnanza del comando giuridico munito della forza di giudicato, a cui il rapporto tra le parti coinvolte deve da ora in poi obbligatoriamente conformarsi (l’Ufficio finanziario in primis), persino se maturato attraverso un processo diverso (purché beninteso intervenuto tra le medesime parti). “Regola generale e assorbente”, dunque, a tal punto invasiva da superare qualsiasi diaframma, anche quello di una possibile défaillance del legislatore; in modo – anche – da scongiurare la penosa eventualità di responsi giudiziari contraddittori, eventualità non certo meno deprecabile nel settore fiscale, guidato com’è dai canoni costituzionali della capacità contributiva (art. 53 Cost.) e del buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) (10). Dove a maggior ragione lievita la statura del riscontro giurisdizionale, non limitato alla fase demolitiva (e cioè di atto meramente rescindente) ma assistito da un impatto costruttivo, in gergo tecnico rescissorio (e cioè «prescrittivo-sostitutivo nella rideterminazione del contenuto effettivo della pretesa tributaria contestata») (11).
Ne discende, in buona sostanza, che nessuno, tanto meno l’Amministrazione finanziaria, può far finta di niente, ripartendo daccapo come se tutto quanto accaduto equivalesse a un nonnulla.
Altra breve chiosa a latere.
Come visto, l’art. 310 c.p.c. presenta un primo comma alquanto stringato («L’estinzione del processo non estingue l’azione») (12) benché basilare nell’inquadramento complessivo dell’istituto, dal momento che l’emergenza principale, per cui l’azione non si esaurisce solo perché esercitata in un processo che non ha condotto a un provvedimento sul merito (13), ha significativi risvolti anche sugli effetti prescrittivi, in quanto l’estinzione del processo, «quand’anche non dichiarata dal giudice, elimina l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale ex art. 2945, secondo comma, del codice civile, ma non incide sull’effetto interruttivo istantaneo della medesima, cosicché la prescrizione ricomincia a decorrere dalla data di essa domanda» (14).
Orbene – e così finalmente rientriamo nel vivo del principio affermato – la mancata riassunzione (opzione liberamente apprezzabile dalle parti, ciascuna in ragione degli interessi rispettivamente detenuti, senza che astensione equivalga ad acquiescenza) (15) non impinge sui capitoli di domanda cristallizzati dal passaggio in giudicato (16), cioè sulla sentenza o sulle sentenze «che abbiano definito il giudizio rispetto ad alcune domande proposte o ad alcuni capi della stessa domanda e siano quindi suscettibili di autonoma esecuzione forzata. In tale caso insorge, rispetto alle domande definitivamente decise [e solo per esse] l’actio iudicati, soggetta a prescrizione decennale di cui all’art. 2953 c.c., a nulla rilevando che il giudizio di rinvio relativo alle altre domande si estingua e travolga la restante parte del processo» (17). Guardata la cosa da un’altra visuale, si consuma la caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso del processo, eccettuate quelle coperte dal giudicato in quanto non impugnate (18). O ancora, meglio: «La sentenza di primo grado, qualunque sia il suo contenuto, non deve essere proprio presa in considerazione quando questa è stata travolta da quella in appello, in quanto essa è stata oggetto diretto della decisione della Cassazione e quella di appello neppure vale, in quanto cassata» (19).
Né la soluzione delineata confligge con la preclusione sancita dall’art. 19, terzo comma, secondo e terzo periodo, del già citato D.Lgs. n. 546/1992, in base alla quale gli atti consequenziali (nella specie: il ruolo e la cartella che ne è il riflesso) sono impugnabili solo “per vizi propri”, una volta che sia stato notificato l’atto prodromico (l’avviso di rettifica). Ciò perché la nuova iniziativa giudiziaria, pur introdotta per porre nel nulla l’esazione, non mira a contrastare nel merito l’imposizione quanto all’esatto contrario, ovverosia a riportare la rivendicazione nei binari della legittimità, di sintonia cioè con i postulati del precedente percorso giudiziario o, come si esprime la sentenza in commento, a «far constare la difformità di quest’ultima rispetto all’atto impositivo, così come risultante all’esito del giudicato».
E inoltre, a tutto concedere, non sarebbe così astruso sostenere che l’erronea liquidazione dell’importo, tale perché contrastante con le evidenze del giudicato, costituisce a tutti gli effetti un vizio intrinseco (e originario) della cartella, ciò che la rende autonomamente impugnabile.

Avv. Valdo Azzoni

(1) Cfr. Cass., sez. III, 15 maggio 2001, n. 6712, in Mass. giur. it., 2001.
(2) Dal lontano ottobre 1997, epoca di innesco della contesa, il contribuente aveva percorso, con ininterrotto successo, tutti e tre i gradi di giudizio.
(3) Cfr. Cass., sez. III, 9 marzo 2006, n. 5104, in Mass. giur. it., 2006, per cui sono fatti salvi tutti i principi di diritto fissati dalla Corte di Cassazione.
(4) Stante la tassatività indistinta del precetto, non ha rilievo che la riassunzione nei termini sia mancata perché tardiva oppure perché deliberatamente omessa oppure perché dichiarata nulla ope iudicis. Né il giudice ha spazio per indagarne le cause. In caso di litisconsorzio, è necessaria la riassunzione nei confronti di tutte le parti; in mancanza, il giudice è tenuto a disporre l’integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c. (cfr. Cass., sez. III, 19 marzo 2012, n. 4370, in CED Cassazione, 2012).
(5) Sull’istituto dell’estinzione cfr. LA ROCCA, La sospensione, l’interruzione e l’estinzione del processo tributario alla luce delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 156/2015, in Boll. Trib., 2016, 1225.
(6) Testo integrale dell’art. 310 c.p.c.: «1. L’estinzione del processo non estingue l’azione. 2. L’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e quelle che regolano la competenza. 3. Le prove raccolte sono valutate dal giudice a norma dell’articolo 116, secondo comma. 4. Le spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate».
(7) Particolare e diverso, per esplicita scelta legislativa, il caso risolto da Cass., sez. trib., 8 luglio 2008, n. 18640 (in Boll. Trib. On-line), concernente una fattispecie normata, oltre che, in via generale, dall’art. 46, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992 (secondo cui «Il giudizio si estingue, in tutto o in parte, nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge»), anche dalla disposizione “specifica e correlativa”, dell’art. 16, ottavo comma, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (secondo cui l’estinzione del giudizio per effetto della definizione della lite fiscale «viene dichiarata a seguito di comunicazione degli uffici competenti attestante la regolarità della domanda di definizione ed il pagamento integrale di quanto dovuto»). Nell’occasione la Suprema Corte ha adottato una pronuncia dichiarativa dell’estinzione del giudizio «siccome accertativa della intervenuta “definizione” di una pendenza tributaria in ipotesi specificamente prevista dalla legge [il che] importa la caducazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali resi nel processo relativo perché travolti dalla accertata “definizione” voluta perché siffatta volontaria definizione per sua natura annulla ab origine la pendenza tributaria sostanziale, di talché il perdurare degli effetti delle sentenze eventualmente emesse nel processo poi definito contrasterebbe con l’accertata, intervenuta definizione del rapporto oggetto della pronuncia”.
(8) È opinione conclamata in dottrina e giurisprudenza che la deduzione dell’esistenza di un giudicato, lungi dall’essere subordinata alla condizione processuale dell’allegazione dei fatti costitutivi dello stesso nel primo atto difensivo, ben può essere introdotta in ogni stato e fase del giudizio di merito ed anzi è rilevabile d’ufficio dal giudice, non escluso quello di legittimità.
(9) Testo integrale dell’art. 63 del D.Lgs. n. 546/1992: «1. Quando la Corte di cassazione rinvia la causa alla commissione tributaria provinciale o regionale la riassunzione deve essere fatta nei confronti di tutte le parti personalmente entro il termine perentorio di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza nelle forme rispettivamente previste per i giudizi di primo e di secondo grado in quanto applicabili. 2. Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui al comma precedente o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio l’intero processo si estingue. 3. In sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti alla commissione tributaria a cui il processo è stato rinviato. In ogni caso, a pena di inammissibilità, deve essere prodotta copia autentica della sentenza di cassazione. 4. Le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza cassata e non possono formulare richieste diverse da quelle prese in tale procedimento, salvi gli adeguamenti imposti dalla sentenza di cassazione. 5. Subito dopo il deposito dell’atto di riassunzione, la segreteria della commissione adita richiede alla cancelleria della Corte di cassazione la trasmissione del fascicolo del processo».
(10) Non del tutto persuasiva, invece, in punto motivazionale, la digressione della Suprema Corte intorno alla natura di «domanda di accertamento negativo della pretesa impositiva» che sarebbe costantemente insita nell’atto introduttivo del giudizio tributario. Se è vero che in discussione finisce per essere sempre un atto (anche nella forma del non-atto, come capita con l’impugnazione, ad opera del contribuente, del rigetto tacito di una istanza di agevolazione o di esonero), è altrettanto indubbio che l’invocazione di giustizia del privato può avere indole pretensiva e non meramente dichiarativo-costitutiva. Fatta questa premessa, si può concordare con la semplificazione corrente in giurisprudenza, alla cui stregua «poiché l’opposizione avverso l’ingiunzione fiscale integra una mera azione di accertamento negativo della legittimità della pretesa tributaria, l’eventuale estinzione di tale processo di opposizione, per mancata riassunzione avanti il giudice di rinvio, non può implicare estinzione dell’obbligazione tributaria, la quale vive di forza propria per effetto dell’ingiunzione stessa, ed [in] essa trova ti¬tolo costitutivo» (così G. CRISTIANI, I giudizi di impugnazione delle sentenze tributarie, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2008, 257). Assunto valido purché, naturalmente, il credito erariale indicato nell’ingiunzione coincida con quello enunciato nel provvedimento originario, come smussato dall’iter giudiziale sopravvenuto di cui altrimenti porrebbe nel nulla i risultati e la stessa ragion d’essere.
(11) Il giudizio di rinvio costituisce fase rescissoria, il cui thema decidendum è fissato dalla sentenza rescindente della Corte di Cassazione (cfr. Cass., sez. II, 21 dicembre 2012, n. 23813, in CED Cassazione, 2012).
(12) La scepsi – legislativamente marcata – tra giudizio e azione fa sì che «l’estinzione del processo, di per sé, non incide né sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio, né sulla possibilità di chiederne la tutela giurisdizionale. Pertanto la domanda proposta in un processo dichiarato estinto è riproponibile, senza che a tale riproponibilità osti il precedente episodio giurisdizionale» (così LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2007, 262).
(13) Cfr. Cass., sez. II, 29 aprile 1993, n. 5063, in Mass. giur. it., 1993.
(14) Giurisprudenza costante. Per tutte cfr. Cass., sez. III, 13 aprile 2010, n. 8720, in CED Cassazione, 2010. In dottrina ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 921.
(15) Con riferimento all’opzione, di atto discrezionale che «non è di impugnazione, bensì di mero impulso processuale, spettante, come tale, a tutti i soggetti del giudizio di legittimità», parla – appropriatamente – la sentenza.
(16) È nozione comune che l’autonomia concettuale e operativa tocca i singoli capi della domanda, non le semplici argomentazioni svolte a suffragio dell’esposizione. Per connessione logica, è da ricordare che il giudicato destinato a formarsi tra le parti all’esito del giudizio copre il dedotto e il deducibile in merito all’oggetto della lite, e cioè non solo le ragioni giuridiche e di fatto esplicitamente fatte valere, ma anche tutte quelle proponibili, tanto in via d’azione quanto in via di eccezione.
(17) Ved. STELLA RICHTER, Rassegna di giurisprudenza del codice di procedura civile. Libro II, articolo 393, Milano. In termini cfr. Cass., sez. I, 30 dicembre 1994, n. 11296, in Mass. giust. civ., 1994, 1718.
(18) Cfr. Cass., sez. III, 7 febbraio 2012, n. 1680, in CED Cassazione, 2012; per una fattispecie concreta, dove il giudizio sull’an era scisso dal giudizio sul quantum, cfr. Cass., sez. III, 6 settembre 2012, n. 14927, ivi; contra, Cass., sez. lav., 3 dicembre 2008, n. 28727, in Mass. giur. it., 2008.
(19) Ved. SATTA, Commentario al codice di procedura civile. Libro II, Milano, 1959-1962, 302. Conforme Cass., sez. trib., 6 dicembre 2002, n. 17372, in Boll. Trib. On-line. In giurisprudenza, per l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adeguare la sua richiesta al contenuto della o delle sentenze in luogo di quello dell’originario atto impositivo, cfr. Cass., sez. trib., 12 novembre 2014, n. 24092, in Boll. Trib., 2016, 779, con nota di CARNIMEO, Note a margine dell’accoglimento parziale del ricorso del contribuente avverso un atto impositivo e sulla necessità di una nuova iscrizione a ruolo sulla base della sentenza. Malgrado le apparenze, tutt’altro che di segno contrario è Cass., sez. trib., 8 febbraio 2008, n. 3040, in Boll. Trib. On-line, la quale, nel dichiarare inammissibile il ricorso dell’Agenzia delle entrate per carenza di interesse contro la dichiarazione di estinzione del giudizio, ha motivato che «la pretesa tributaria vive di forza propria in virtù dell’atto impositivo in cui è stata formalizzata e l’estinzione del processo travolge la sentenza di primo grado, ma non l’atto amministrativo che, come noto, non è un atto processuale bensì l’oggetto dell’impugnazione». In realtà, in quel caso la sentenza della Commissione tributaria provinciale era stata di totale reiezione del ricorso; ergo, estintosi il giudizio, non poteva che riacquistare totale e irreversibile efficacia il vigore del provvedimento impugnato.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Estinzione del giudizio di rinvio per mancata o tardiva riassunzione – Art. 310 c.p.c. – Applicabilità – Utilizzabilità in un nuovo processo delle statuizioni di merito su cui si sia formato il giudicato parziale – Consegue.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Applicabilità dell’art. 310 c.p.c. al processo tributario in caso di estinzione del giudizio di rinvio per mancata o tardiva riassunzione – Sussiste – Art. 2909 c.c. sulla vincolatività del giudicato tra le parti – Costituisce un principio generale e insuperabile.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Estinzione del giudizio di rinvio per mancata o tardiva riassunzione – Formazione del giudicato parziale tra le parti sulle statuizioni di merito divenute definitive nel corso del processo estinto – Si verifica.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Estinzione del giudizio di rinvio per mancata o tardiva riassunzione – Adeguamento dell’Ufficio impositore alle risultanze del giudicato parziale determinatosi sulle statuizioni di merito divenute definitive nel corso del processo estinto – Necessità – Iscrizione a ruolo della pretesa contenuta nell’originario atto impositivo – Illegittimità – Consegue.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Impugnazione della cartella di pagamento al fine di opporre il giudicato parziale intervenuto su taluni aspetti della pretesa tributaria in un altro giudizio estinto per mancata o tardiva riassunzione – Ammissibilità.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Estinzione del giudizio di rinvio per mancata o tardiva riassunzione con formazione di un giudicato parziale tra le parti – Acquiescenza rispetto alla pretesa tributaria originaria – Non si verifica – Accettazione e rispetto dell’assetto impositivo risultante dal complesso delle pronunce giurisdizionali – Sussiste.

Imposte e tasse – Riscossione – Art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992, come modificato dall’art. 9 del D.Lgs. n. 156/2015 – Previsione del pagamento dell’intero importo indicato nell’atto impugnato in caso di mancata riassunzione – Non tiene conto dell’ipotesi di un atto parzialmente in contrasto col giudicato parziale formatosi nel giudizio estinto – Contestabilità di tale atto – Consegue.

Imposta di successione – Attivo ereditario – Determinazione del valore venale della quota di partecipazione societaria detenuta dal de cuius – Riferimento ai valori di bilancio o dell’inventario pubblicati – Necessità – Accertamento autonomo da parte dell’Amministrazione finanziaria – Illegittimità.
Nel caso di estinzione del giudizio di rinvio per la sua mancata o tardiva riassunzione, deve ritenersi comunque applicabile anche nel processo tributario il disposto di cui all’art. 310 c.p.c., con la conseguenza che nel nuovo processo eventualmente instaurato attraverso la riproposizione della domanda conservano efficacia e sono pertanto utilizzabili tutte le statuizioni di merito su cui, nel corso del procedimento ormai estinto, si sia formato il giudicato, e cioè le sentenze di merito non definitive che non abbiano formato oggetto di impugnazione o i cui motivi di impugnazione siano stati rigettati, ovvero quelle definitive, ma passate solo parzialmente in giudicato, per essere stati accolti i motivi di ricorso solo relativamente ad alcuni capi della sentenza, in virtù del principio della formazione progressiva del giudicato.

Anche se il processo tributario ha natura impugnatoria dell’atto impositivo, in modo tale che l’estinzione del giudizio sancita, per l’ipotesi di mancata riassunzione del giudizio di rinvio, dall’art. 63, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, determina di regola la definitività ed intangibilità del provvedimento impositivo impugnato, e anche se quest’ultima disposizione, pur riproducendo alla lettera la prima parte dell’art. 393 c.p.c., non ne riproduce altresì la seconda, dedicata appunto alla preservazione dell’effetto vincolante della sentenza della Corte di Cassazione nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda, le predette caratteristiche del processo tributario non appaiono tali da disattendere la regola generale ed insuperabile di vincolatività del giudicato tra le parti ex art. 2909 c.c., dovendosi al giudicato attribuire, quale ne sia l’origine e la modalità di formazione, la valenza di vero e proprio comando giuridico integrante elemento normativa della fattispecie concreta, atto a conformare definitivamente ed irrevocabilmente il rapporto giuridico tra le parti, tanto che, per quanto eventualmente formatosi in un diverso processo tra le stesse parti (giudicato esterno), esso non costituisce oggetto di un’eccezione in senso tecnico dovendo, nei limiti della allegazione e conoscenza, essere rilevato ed applicato anche d’ufficio dal giudice, previa, se del caso, la ricostruzione dei suoi limiti oggettivi e soggettivi di efficacia secondo i canoni dettati per l’interpretazione delle norme giuridiche.

Sebbene nell’ipotesi di estinzione del giudizio la natura impugnatoria del processo tributario comporti di regola la definitività dell’atto impugnato, giacché quest’ultimo non è un atto processuale ma l’oggetto dell’impugnazione, purtuttavia l’impugnazione in sede tributaria sottende una domanda di accertamento negativo della pretesa impositiva, la cui disciplina non si sottrae all’effetto del giudicato formatosi tra le parti, realizzandosi, in tal modo, quel controllo di legalità, non solo formale, ma anche sostanziale, dell’obbligo fiscale che il processo tributario si assume quale tipico strumento di “impugnazione-merito”, col risultato di attribuire alla decisione giurisdizionale un ruolo non meramente rescindente dell’atto di accertamento, ma anche prescrittivo-sostitutivo nella rideterminazione del contenuto effettivo della pretesa tributaria contestata.

Al fine di evitare la formazione del giudicato in proprio danno, tutte le parti del processo tributario, ivi compresa l’Amministrazione finanziaria, possono avere interesse e legittimazione a riassumere il giudizio a seguito della sentenza di rinvio, con un atto che non è di impugnazione, bensì di mero impulso processuale spettante, come tale, a tutti i soggetti del giudizio di legittimità, e ove ciò non si verifichi anche l’Ufficio impositore deve adeguare la propria posizione sostanziale all’esito del giudicato parziale determinatosi nei suoi confronti nel corso del giudizio estinto, senza poter puramente e semplicemente porre in riscossione la propria pretesa sulla base dell’atto impositivo impugnato, come se quest’ultimo non fosse stato ritenuto, per taluni aspetti, illegittimo con sentenza passata in giudicato.

L’impugnazione della cartella di pagamento al fine di opporre il giudicato parziale formatosi sulle statuizioni giudiziali riguardo a taluni aspetti della pretesa impositiva divenute definitive nel corso del processo estinto per la sua mancata o tardiva riassunzione a seguito di rinvio, dedotto in un nuovo processo ex art. 393 c.p.c., ferma restando l’identità del rapporto giuridico originario tra le parti, non contravviene, di per sé, ai limiti di impugnabilità della cartella medesima esclusivamente per vizi suoi propri, essendo tale impugnazione finalizzata non già ad inammissibilmente aprire o riaprire la controversia di merito sui presupposti dell’atto impositivo prodromico all’emanazione della cartella, quanto soltanto a far constare la difformità di quest’ultima rispetto all’atto impositivo così come risultante all’esito del giudicato, o, per meglio dire, a far emergere la realtà di una situazione pretensiva il cui titolo non può più essere rappresentato dall’originario atto di accertamento in quanto tale, perché parzialmente modificato e sostituito dal giudicato.

Una volta affermata in linea di principio l’efficacia conformativa del giudicato parziale progressivamente intervenuto nel giudizio di impugnazione proposto dal contribuente, l’inerzia di questi nella riassunzione del giudizio di rinvio non può ex se implicare manifestazione di acquiescenza rispetto alla pretesa fiscale originaria, quanto, al più, rispetto proprio all’assetto impositivo in quel momento risultante dal complesso delle pronunce giurisdizionali via via emesse, ed il cui definitivo consolidamento, ancorché non interamente satisfattivo, ben può rispondere all’interesse del contribuente medesimo, in maniera tale che non di vera e propria inerzia si dovrebbe parlare, quanto di valutazione discrezionale della più conveniente opzione processuale.

Sebbene la nuova formulazione dell’art. 68, primo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come modificato dall’art. 9, primo comma, lett. ff), n. 1), del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, attuativo della delega di riforma del contenzioso tributario, preveda espressamente che il contribuente debba corrispondere «l’intero importo indicato nell’atto in caso di mancata riassunzione» a seguito di cassazione con rinvio, è indubbio che tale previsione attua l’effetto normalmente conseguente all’estinzione del giudizio e alla correlata definitività dell’atto impugnato, senza però farsi carico della peculiarità costituita dal porsi quest’ultimo parzialmente in contrasto con il giudicato formatosi nel giudizio estinto, e pertanto il principio per cui l’estinzione del giudizio tributario determina generalmente la definitività dell’atto impositivo impugnato non rende incontestabile tale atto allorquando esso risulti illegittimo perché in contrasto con il giudicato progressivamente formatosi, su alcuni aspetti della pretesa tributaria, nel giudizio estinto.

Ai fini della determinazione del valore venale della quota di partecipazione societaria detenuta dal de cuius, in sede di interpretazione dell’art. 16, primo comma, lett. b), del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, in rapporto al previgente art. 22 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, nel caso di società che hanno pubblicato un bilancio o un inventario, sarà alla risultante di tali atti che dovrà farsi riferimento, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti, onde l’Amministrazione finanziaria non può procedere con accertamento autonomo alla determinazione del valore delle quote, ma deve se del caso preventivamente contestare l’inattendibilità o l’infedeltà del bilancio o dell’inventario, tenendo conto anche di accertamenti relativi ad altre imposte, e non è invece possibile, prescindendo dal bilancio o dall’inventario, procedere autonomamente all’accertamento di un maggior valore della quota, essendo invece necessario preventivamente contestare le poste degli atti societari per desumerne l’infedeltà della dichiarazione successoria.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Merone, rel. Stalla), 8 aprile 2016, sent. n. 6858, ric. Agenzia delle entrate]

SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO – Nell’ottobre ‘97 M.T., S.T. ed A.N. impugnavano avanti alla commissione tributaria provinciale di Torino l’avviso di rettifica e liquidazione n. …, loro notificato dall’Ufficio del Registro (a seguito di atto di liquidazione dell’imposta principale, non impugnato) a titolo di maggiore imposta complementare di successione ed Invim. Contestavano la pretesa dell’ufficio sotto i seguenti principali profili: – imputazione per intero, e non pro quota del 50%, della partecipazione detenuta dal de cujus nella Arno srl, in realtà già attratta alla comunione legale tra i coniugi; – erronea rettifica del valore di tale quota, non basata sul bilancio, bensì sul valore patrimoniale corrente; per giunta limitato alle sole poste attive e di avviamento; – erronea determinazione della quota di immobili donati in vita dal de cujus; – illegittima valutazione ai fini Invim.
La commissione tributaria provinciale (sent. 92/6/1998) accoglieva il ricorso sotto tutti i profili dedotti; e tale sentenza veniva confermata dalla commissione tributaria regionale di Torino (sent. 1/31/1999).
Proposto ricorso per cassazione dall’ufficio, interveniva la sentenza n. 14173/03 (1) con la quale la corte di legittimità: – cassava senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto ammissibile la contestazione da parte dei coeredi della quota della società Arno srl imputabile al de cujus, nonostante che essa fosse stata proposta per la prima volta avverso l’avviso di rettifica, non già avverso l’atto di liquidazione dell’imposta principale; – affermava, per la valutazione della quota societaria, il criterio delle risultanze di bilancio ex art. 16 co. 1 lett. b) d.lvo 346/90, in luogo di quello (utilizzato dall’ufficio) dei valori patrimoniali correnti; – cassava con rinvio la sentenza impugnata per difetto di motivazione in ordine alla stima in concreto della quota e, in particolare, alla questione dell’avviamento, suscettibile di essere riesaminata e risolta in sede di rinvio.
A seguito della mancata riassunzione del giudizio di rinvio, l’amministrazione finanziaria provvedeva ad emettere il ruolo n. …, e conseguente cartella n. …, portante l’intero importo (oltre gli interessi ed aggi) già accertato con il suddetto avviso di rettifica e di liquidazione, come sopra impugnato.
I T. ricorrevano contro il ruolo avanti alla commissione tributaria provinciale di Torino la quale, con sentenza n. 110/15/06, l’annullava, sul presupposto che l’amministrazione finanziaria non avesse tenuto conto dell’avvenuta formazione del giudicato, su taluni degli aspetti in contesa, nel precedente giudizio definito con la suddetta sentenza di legittimità n. 14173/03. Questa decisione veniva confermata dalla commissione tributaria regionale di Torino con sentenza n. 32/34/09, qui impugnata, la quale assumeva, per quanto qui ancora rileva, che in base agli articoli 393 cpc (come costantemente interpretato dalla S.C.) e 63 d.lvo 546/92, l’estinzione del giudizio tributario non escludeva gli effetti del giudicato intervenuto nel giudizio estinto su alcuni aspetti controversi; giudicato nella specie formatosi sia sulla quota di donazione immobiliare e sul valore immobiliare a fini Invim (in forza della sentenza CTP 92/6/1998, non impugnata in questi capi), sia sulla stima della quota di partecipazione in Arno srl (in forza di quanto statuito da Cass. 14173/03, la cui cassazione sul punto era stata disposta non per accoglimento della tesi dell’ufficio, ma per carenza di motivazione in punto avviamento).
Avverso la decisione della commissione tributaria regionale, viene dalla agenzia delle entrate proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, entrambi basati – ex art. 63 d.lvo /92 – sulla sopravvenuta definitività dell’atto impositivo per effetto dell’estinzione del giudizio di impugnazione. Resistono con controricorso i T. secondo i quali, come anche desumibile dagli artt. 310 e 393 cpc, l’estinzione del giudizio non porrebbe nel nulla, nel giudizio tributario successivamente proposto, il giudicato formatosi nel giudizio estinto.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1.1 Con il primo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce – ex art. 360, 1° co. n. 3 cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione degli articoli 310, 338 e 393 cpc; per avere il giudice di merito ritenuto l’illegittimità della cartella di pagamento in oggetto in quanto contrastante con il giudicato formatosi nel giudizio estinto, senza con ciò considerare che l’estinzione del giudizio aveva impedito la formazione del giudicato, e che correttamente tale cartella era stata emessa sulla base dell’atto di rettifica ed in ragione dell’intera quota di partecipazione del de cujus alla società Arno srl.

1.2 Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata ha ritenuto (pag. 5) che l’estinzione del giudizio, nella specie conseguita alla mancata riassunzione dopo la cassazione con rinvio, non privasse di rilevanza il giudicato progressivamente formatosi (sia per effetto della mancata impugnazione di taluni capi della sentenza di primo grado, sia per effetto della solo parziale cassazione) nel corso del giudizio estinto; sicché di tale giudicato illegittimamente l’ufficio non avrebbe tenuto conto nell’emettere (richiamando in toto la pretesa di cui all’avviso di rettifica e liquidazione) la cartella di pagamento oggetto del presente giudizio.
Questa soluzione, basata sul principio generale di cui agli articoli 310, 2° co. (permanente efficacia delle sentenze di merito) e 393 u.p. cpc (permanenza nel nuovo giudizio dell’effetto vincolante della sentenza di cassazione) attua un costante orientamento di legittimità, secondo cui “nel caso di estinzione del giudizio di rinvio per sua mancata (o tardiva) riassunzione, deve ritenersi, comunque, applicabile il disposto di cui all’art. 310 cod. proc. civ., con la conseguenza che, nel nuovo processo eventualmente instaurato attraverso la riproposizione della domanda, conservano efficacia, e sono pertanto utilizzabili, tutte le statuizioni di merito su cui, nel corso del procedimento ormai estinto, si sia formato il giudicato; e cioè le sentenze di merito non definitive che non abbiano formato oggetto di impugnazione (o i cui motivi di impugnazione siano stati rigettati), ovvero quelle definitive, ma passate solo parzialmente in giudicato, per essere stati accolti i motivi di ricorso solo relativamente ad alcuni capi della sentenza, in virtù del principio della formazione progressiva del giudicato” (Cass. Sez. 3, n. 6712 del 15/5/2001; in termini: Cass. Sez. 2, n. 20311 del 15/10/2004, ed altre).
La commissione tributaria regionale non si fa carico, per la verità, del problema della estendibilità di questo (pacifico) principio generale al processo tributario, il cui assoggettamento alle disposizioni del codice di procedura civile è espressamente condizionato – ex artt. 1 e 49 d.lvo 546/92, – da vincolo di compatibilità e specialità.
D’altra parte, che non si trattasse affatto di dubbio privo di consistenza doveva desumersi dal fatto che il processo tributario ha natura impugnatoria dell’atto impositivo, in modo tale che l’estinzione del giudizio (sancita, per l’ipotesi di mancata riassunzione del giudizio di rinvio, dall’articolo 63, 2° comma d.lvo cit.) determina di regola la definitività ed intangibilità del provvedimento impositivo impugnato; e, inoltre, dalla circostanza testuale per cui quest’ultima disposizione, pur riproducendo alla lettera la prima parte dell’articolo 393 cod. proc. civ., non ne riproduce altresì la seconda, quella appunto dedicata alla preservazione dell’effetto vincolante della sentenza della corte di cassazione nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda.
Ferma restando la obiettiva lacuna motivazionale, la decisione della commissione tributaria regionale – di conservare nella specie gli effetti del giudicato, intervenuto nel corso del giudizio estinto, sulla pretesa impositiva – deve purtuttavia ritenersi giuridicamente corretta; non reputandosi dirimenti, in senso opposto, i dubbi testé rassegnati.
Le suddette caratteristiche del processo tributario non paiono infatti tali da disattendere una regola generale ed insuperabile di vincolatività del giudicato tra le parti ex articolo 2909 cod. civ.; dovendosi al giudicato attribuire – quale ne sia l’origine e la modalità di formazione – la valenza di vero e proprio comando giuridico integrante elemento normativo della fattispecie concreta, atto a conformare definitivamente ed irrevocabilmente il rapporto giuridico tra le parti. Tanto che, per quanto eventualmente formatosi in un diverso processo tra le stesse parti (giudicato esterno), esso non costituisce oggetto di un’eccezione in senso tecnico dovendo, nei limiti della allegazione e conoscenza, essere rilevato ed applicato anche d’ufficio dal giudice (Cass. 12159/11, ord. 28247/13 (2); 11365/2015 (3)); previa, se del caso, la ricostruzione dei suoi limiti oggettivi e soggettivi di efficacia secondo i canoni dettati per l’interpretazione delle norme giuridiche (Cass. 22883/08; 21200/09).
Il che appare del resto connaturato alle imprescindibili finalità ordinamentali volte a perseguire e valorizzare la definitività dell’assetto giuridico sostanziale (oltre che processuale) del rapporto controverso; evitando al contempo che quest’ultimo possa trovare regolazioni tra esse confliggenti. Finalità certo tutt’altro che estranee all’ordinamento tributario, il quale si attua mediante l’emanazione di atti amministrativi che – a fortiori per tale loro natura – non possono mai porsi contra jus. Quanto alla specificità della pretesa impositiva, poi, non possono non rilevare quei cardini costituzionali preoccupati tanto di attuare il principio generale della capacità contributiva, quanto di assicurare coerenza ed effettività al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione amministrativa tributaria.
Orbene, nell’ipotesi di estinzione del giudizio la natura impugnatoria del processo tributario comporta di regola – in effetti – la definitività dell’atto impugnato, “giacché quest’ultimo non è un atto processuale, ma l’oggetto dell’impugnazione” (Cass. n. 16689/13 (4); 5044/12 (5); ord. 3040/08 (6)).
Purtuttavia, l’impugnazione in sede tributaria sottende una domanda di accertamento negativo della pretesa impositiva, la cui disciplina non si sottrae all’effetto del giudicato formatosi tra le parti; soluzione, quest’ultima, idonea a realizzare quel controllo di legalità, non solo formale, ma anche sostanziale dell’obbligo fiscale che il processo tributario si assume quale tipico strumento, per usare un’espressione ormai generalmente invalsa in dottrina e giurisprudenza, di ‘impugnazione-merito’. Con il risultato di attribuire alla decisione giurisdizionale un ruolo non meramente rescindente dell’atto di accertamento, ma anche prescrittivo-sostitutivo nella rideterminazione del contenuto effettivo della pretesa tributaria contestata (tra le altre, Cass. 11935/12 (7)).
Ciò detto, va consequenzialmente affermato che, al fine di evitare la formazione del giudicato in proprio danno, tutte le parti del processo tributario – dunque anche l’amministrazione finanziaria e non solo il contribuente – possono avere interesse e legittimazione a riassumere il giudizio a seguito della sentenza di rinvio; con un atto che non è di impugnazione, bensì di mero impulso processuale spettante, come tale, a tutti i soggetti del giudizio di legittimità.
E con l’effetto ulteriore che, ove l’ufficio impositore deve adeguare la propria posizione sostanziale all’esito del giudicato parziale determinatosi nei suoi confronti nel corso del giudizio estinto; senza poter puramente e semplicemente porre in riscossione la propria pretesa sulla base dell’atto impositivo impugnato, ‘come se’ quest’ultimo non fosse stato ritenuto, per taluni aspetti, illegittimo con sentenza passata in giudicato.
Ciò è esattamente quanto accaduto nella presente fattispecie, nella quale il ruolo e la cartella di pagamento sono stati emessi mediante la pura e semplice riproduzione (salvo l’addebito di accessori ulteriori) dell’atto di rettifica e liquidazione di imposta già fatto oggetto del giudizio definitosi con la sentenza di legittimità n. 14173/03 più volte citata.
Sicché non può dirsi che l’impugnazione della cartella di pagamento al fine di opporre il giudicato così intervenuto su taluni aspetti della pretesa – dedotti in un ‘nuovo processo’ ex art. 393 cit., ferma restando l’identità del rapporto giuridico originario tra le parti – contravvenga, di per sé, ai limiti di impugnabilità della cartella medesima esclusivamente per vizi suoi propri. Essendo tale impugnazione finalizzata non già ad inammissibilmente aprire – o riaprire – la controversia di merito sui presupposti dell’atto impositivo prodromico all’emanazione della cartella, quanto soltanto a far constare la difformità di quest’ultima rispetto all’atto impositivo così come risultante all’esito del giudicato; o, per meglio dire, a far emergere la realtà di una situazione pretensiva il cui ‘titolo’ non può più essere rappresentato dall’originario atto di accertamento in quanto tale, perché (parzialmente) modificato e sostituito dal giudicato.
Obiettivi pratici che, in una fattispecie segnata invece dalla integrale insistenza dell’originario atto di accertamento (qui ritenuto illegittimo fin dalla sentenza CTP n. 92/6/98), non potrebbero essere perseguiti che in sede di contrasto della cartella su di esso basata.
Né potrebbe sostenersi – nell’attribuire irremovibile vigore al principio di definitività dell’atto impositivo a seguito dell’estinzione del giudizio di impugnazione – che la preclusione alla contestazione della cartella discenderebbe qui dall’acquiescenza mostrata dal contribuente. Va infatti osservato che – una volta affermata in linea di principio l’efficacia conformativa del giudicato parziale progressivamente intervenuto nel giudizio di impugnazione proposto dal contribuente – l’inerzia di questi nella riassunzione del giudizio di rinvio non può ex se implicare manifestazione di acquiescenza rispetto alla pretesa fiscale originaria; quanto, al più, rispetto proprio all’assetto impositivo in quel momento risultante dal complesso delle pronunce giurisdizionali via via emesse, ed il cui definitivo consolidamento, ancorché non interamente satisfattivo, ben può rispondere all’interesse del contribuente medesimo. In maniera tale che non di vera e propria inerzia si dovrebbe parlare, quanto di valutazione discrezionale della più conveniente opzione processuale.
Si osserva poi che la conclusione fin qui sostenuta non potrebbe ritenersi inficiata dalla disciplina generale – come oggi vigente – della riscossione frazionata del tributo in pendenza di giudizio; disciplina generale che presuppone anch’essa, a monte, l’esatta individuazione dell’importo dovuto dal contribuente sulla scorta dell’esito dei vari gradi di giudizio.
Vale, in proposito, ancora la pena di rilevare come una diversa conclusione non potrebbe sostenersi nemmeno argomentando dalla nuova formulazione (qui considerata, per quanto pacificamente inapplicabile ratione temporis alla vicenda, al solo fine di vagliarne un’eventuale utilità interpretativa di sistema) dell’art. 68 1° co. del recente decreto legislativo n. 156/15 attuativo della delega di riforma del contenzioso tributario.
Se è infatti vero che tale nuova formulazione prevede espressamente che il contribuente debba corrispondere “… l’intero importo indicato nell’atto in caso di mancata riassunzione” a seguito di cassazione con rinvio, altrettanto indubbio è che tale previsione attua l’effetto normalmente conseguente all’estinzione del giudizio ed alla correlata definitività dell’atto impugnato; senza però farsi carico della peculiarità costituita dal porsi quest’ultimo parzialmente in contrasto con il giudicato formatosi nel giudizio estinto. Sicché non può dirsi che la sopravvenuta esplicitazione normativa apporti un decisivo mutamento dei termini del problema, come fin qui vagliati.
Va in definitiva concluso nel senso che il principio per cui l’estinzione del giudizio tributario determina la definitività dell’atto impositivo impugnato non rende incontestabile tale atto allorquando esso risulti illegittimo perché in contrasto con il giudicato progressivamente formatosi, su alcuni aspetti della pretesa tributaria, nel giudizio estinto.

2.1 Con il secondo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce violazione di legge, per avere la corte di appello individuato il giudicato anche in ordine alla rilevanza dell’avviamento ed al criterio della stima della quota sociale, nonostante che tale giudicato fosse nella specie precluso dall’avvenuta cassazione del capo di sentenza relativo, a nulla rilevando che l’annullamento fosse dipeso da carenza di motivazione (sent. 14173/03, par. 12).

2.2 Altro problema concerne l’individuazione, nel caso concreto, dei capi decisionali effettivamente coperti da giudicato.
La sentenza qui impugnata enuclea puntualmente (pagg. 6, 7) le questioni ormai definitivamente acclarate, correttamente individuate in base al criterio –nemmeno questo esplicitato, ma non per questo non univocamente identificabile – per cui deve reputarsi capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato, quello che risolva una questione controversa dotata di autonomia ed individualità; così da poter astrattamente integrare il contenuto di una decisione del tutto indipendente (Cass. 10043/06; 4732/12).
Per quanto concerne, segnatamente, le questioni devolute alla decisione di legittimità n. 14173/03, il principio di conservazione della sentenza di cassazione ex art. 393 cpc va in primo luogo riferito all’accoglimento del primo motivo di ricorso formulato dall’amministrazione finanziaria, ed avente ad oggetto la preclusione per i T. di porre in discussione – per la prima volta con l’impugnazione dell’avviso di rettifica e liquidazione di maggiore imposta – la misura (50%) della quota di partecipazione societaria del de cujus, in quanto già posta a base dell’atto di liquidazione dell’imposta principale, e divenuta definitiva per effetto della mancata impugnazione di quest’ultimo. Non senza osservare, peraltro, come si verta di profilo favorevole all’amministrazione, della cui ritenuta vincolatività quest’ultima in sostanza si giova (dal che consegue finanche l’inammissibilità per carenza d’interesse, in parte qua, del motivo di ricorso qui in esame).
Ulteriore aspetto coperto dal giudicato è rappresentato dalla soluzione apprestata dalla corte di legittimità (sul secondo motivo del ricorso colà presentato dall’amministrazione finanziaria) al punto controverso costituito non già dalla ‘misura’ della quota ma dal ‘valore venale’ della partecipazione societaria detenuta dal de cujus; ciò in sede di interpretazione dell’articolo 16, 1° comma, lettera b) d.lvo 346/90, in rapporto al previgente articolo 22 dpr 637/72. Su questo punto, deve ritenersi intangibile, nella disciplina della fattispecie concreta, il principio secondo cui: “nel caso di società che hanno pubblicato un bilancio o un inventario, sarà alla risultante di tali atti che dovrà farsi riferimento, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti; onde l’amministrazione non può procedere con accertamento autonomo alla determinazione del valore delle quote, ma dovrà se del caso preventivamente contestare l’inattendibilità o l’infedeltà del bilancio o dell’inventario, tenendo conto anche di accertamenti relativi ad altre imposte. Non è invece possibile, prescindendo dal bilancio o dall’inventario, procedere autonomamente all’accertamento di un maggior valore della quota, essendo invece necessario preventivamente contestare le poste degli atti societari per desumerne l’infedeltà della dichiarazione successoria” (sent. 14173/03 par. 11).
L’affermazione di questo principio da parte della sentenza di legittimità in esame non ha tuttavia comportato il rigetto integrale del motivo di ricorso proposto dall’amministrazione finanziaria, posto che la S.C. ha sul punto parzialmente accolto tale motivo. Là dove, con esso, si lamentava che la sentenza di appello nulla avesse detto a proposito della questione del valore della quota e, in particolare, dell’avviamento aziendale; questione che, secondo quanto stabilito dalla sentenza di cassazione, doveva per tale ragione “essere riesaminata e risolta in sede di rinvio”.
Orbene, come rilevato dall’agenzia delle entrate nel motivo del presente ricorso per cassazione, la commissione tributaria regionale ha erroneamente affermato che il giudicato si fosse formato anche in punto avviamento e, più in generale, determinazione del valore della quota di partecipazione del de cujus in Arno srl, posto che la S.C. “aveva cassato la sentenza di appello e rinviato alla CTR in diversa composizione, ma solo per la carenza di motivazione sul punto e non per aver accolto il secondo motivo del ricorso dell’ufficio che, invece, era stato espressamente respinto” (sent. qui impugnata, pag. 7). Senonché, il passaggio in giudicato della pronuncia su capo autonomo è evidentemente precluso dalla cassazione in quanto tale, indipendentemente dal fatto che quest’ultima venga disposta per vizio di motivazione invece che per violazione o falsa applicazione di legge.
In definitiva, l’individuazione da parte della corte di legittimità del criterio normativo qui applicabile alla stima del valore venale della quota (valore di bilancio, salvi mutamenti sopravvenuti o contestazione delle poste degli atti societari) lasciava impregiudicato l’esito valutativo dell’applicazione al caso concreto del criterio così designato; sicché l’avvenuta cassazione per omessa motivazione determinava, contrariamente a quanto esplicitato dalla sentenza qui impugnata, non già una preclusione corrispondente a quella che si sarebbe verificata se il secondo motivo di ricorso fosse stato rigettato in toto, bensì la necessità di ‘riesame e risoluzione in sede di rinvio’.
Nel presente motivo di ricorso l’amministrazione ha espressamente richiesto a questa corte di rilevare l’errore di giudizio nel quale è incorsa la commissione tributaria regionale nella parte in cui ha ritenuto “che nel giudizio sull’avviso di rettifica si sia formato il giudicato anche sulla questione della rettifica del valore della quota societaria, sull’erroneo assunto che la statuizione della CTR al riguardo era stata cassata solo per vizi di motivazione” (ric. pag. 35). E tale errore deve in effetti essere qui riscontrato.

3. Sotto questo profilo, in ultima analisi, il ricorso merita parziale accoglimento, con rinvio ad altra sezione della commissione tributaria regionale di Torino la quale – applicato il principio di vincolatività del giudicato progressivamente formatosi nel giudizio estinto (par. 1.2), ed escluso che tale giudicato investa nel caso di specie la determinazione del valore venale della quota societaria in oggetto (par. 2.2) – riesaminerà e risolverà questo aspetto in applicazione del criterio normativo individuato dalla sentenza di cassazione con rinvio; provvedendo anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M. – La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese, a diversa sezione della commissione tributaria regionale di Torino.

(1) Cass. 24 settembre 2003, n. 14173, in Boll. Trib. On-line.
(2) Cass. 18 dicembre 2013, n. 28247, in Boll. Trib. On-line.
(3) Cass. 1° giugno 2015, n. 11365, in Boll. Trib. On-line.
(4) Cass. 3 luglio 2013, n. 16689, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cass. 28 marzo 2012, n. 5044, in Boll. Trib. On-line.
(6) Cass. 8 febbraio 2008, n. 3040, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cass. 13 luglio 2012, n. 11935, in Boll. Trib. On-line.

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