27 Aprile, 2018

Che oggi il giudice tributario annaspi in una sorta di liquido amniotico tardante a deflagrare, con incresciose crisi di identità e di autostima, è dato di fatto (1). Ne ha ben donde: basti pensare che ancora nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, cioè in seno al codice del processo tributario precedente la riforma del 1992, era definito “componente”: quasi che il legislatore ordinario volesse scansare, quanto meno nominalmente, i rischi di una inopinata smentita circa la natura giurisdizionale della figura, un colpo di maglio capace di demolire il castello dalle fondamenta (2). Ora che questo scoglio sembra superato – solo apparentemente, perché il gregge degli eterni scontenti rema diversamente contro, sventolando la bandiera del giudice di carriera (3) – i problemi restano; e pressoché intatti (4).
Problemi – gravi, e gravidi di conseguenze – di organico, di remunerazione, di inquadramento, di organizzazione, di relazioni.
Problemi messi corposamente in risalto dall’ordinanza di rimessione (5). Al cui carro si è lestamente aggregato il dinamico sindacato di categoria, con un tecnicamente improbabile (e infatti subito sconfessato) intervento ad adiuvandum, rispedito al mittente per carenza del requisito – costantemente ritenuto indispensabile in capo al soggetto portatore di interessi collettivi (6) – di potenziale, diretta e personale lesione inferta, secondo prognosi ex ante, dall’esito del giudizio. Condizione che qui non si darebbe.
Problemi che, dal canto suo, il giudice delle leggi si è guardato bene dal dare una mano a risolvere con l’ordinanza in commento, trincerandosi dietro una serie di obiezioni di tipo formale/procedurale talmente scontate in partenza che, se oculatamente meditate, avrebbero scoraggiato chiunque di buon senso dall’intraprendere l’iniziativa.
Meritorio nella circostanza – sia detto subito – l’assolvimento, da parte del giudice a quo, di un altro requisito (il terzo oltre ai due, classici, della rilevanza e della manifesta infondatezza) che la Corte Costituzionale pretende in vista della proposizione dell’eccezione di illegittimità costituzionale: requisito in forza del quale il giudice rimettente non solo è tenuto a tentare preventivamente di imprimere, alla disposizione sospettata di anticostituzionalità, una interpretazione coerente (o se non altro compatibile) con la visione (lettera e spirito) della Carta Suprema (la cosiddetta lettura “adeguata” o “adeguatrice” o anche “costituzionalmente orientata”) (7), ma anche a dimostrare di avere profuso – in funzione conservativa del precetto – ogni ragionevole energia in quel tentativo, eliminando dallo scenario ermeneutico ogni credibile alternativa (8). Tutto lavoro – non poco improbo – che un tempo era deputato alla stessa Corte; e che qui ha svolto la Commissione tributaria: inappuntabilmente, non avendo ricevuto critiche al riguardo (9).
Eppure non è stato nel merito che si è scatenato il fuoco di sbarramento della Corte.
Infatti essa ha rilevato, ancora in fase preliminare:
a) da un lato, la prospettazione del quesito in maniera ambivalente (alias “perplessa”), inficiata da “indeterminatezza e ambiguità”, secondo cioè una formulazione detestata dal giudice delle leggi come il fumo negli occhi perché storpierebbe il suo ruolo e la sua funzione (10);
b) dall’altro, la richiesta di una decisione “manipolativa” (più esattamente “additiva”), cioè trasformativa del quadro esistente, spazio anche questo che la Corte asserisce ad essa precluso ab ovo (11).
Ne è uscita, con l’ordinanza massimata, una reiezione per “manifesta inammissibilità”, contenente per ciò solo una solenne bacchettata al rimettente (12).
Se, quanto ad a), la Corte Costituzionale ha avuto buon gioco nell’appellarsi alla tradizione, quanto a b), nel negarsi apertis verbis all’adozione di una pronuncia che la costringerebbe a «plurimi interventi creativi, caratterizzati da un grado di manipolatività tanto elevato da investire non singole disposizioni o il congiunto operare di alcune di esse, ma un intero sistema di norme», la Corte regolatrice si arrende alla sua impotenza di fronte alla consequenziale, obiettiva necessità di mettere mano a una rivisitazione se non integrale certo assai approfondita del regime ordinamentale afferente i giudici tributari. Una rivisitazione a 360 gradi (dal loro status alle condizioni di lavoro, dalla regolamentazione dei rapporti intersoggettivi e interorganici a, non ultima, la voce corrispettivi) che – questo il tasto più dolente – non potrebbe non transitare attraverso impervie incursioni nei capitoli del bilancio pubblico in ragione dell’art. 81, quarto comma, Cost. (nuove spese = nuovi introiti).
Al massimo, avrebbe potuto rivolgere un monito al legislatore, monito cui però, per le ragioni illustrate, difficilmente avrebbe potuto tener dietro una ritorsione pratica (13). Strada ardua, e imbarazzante anziché no (oltre che altrettanto faticosa) quella del monito perché, dopo la ramanzina inascoltata, occorre arrivi – questione di dignità – il corrispondente buffetto. Strada qui di fatto impercorribile: solo di fatto, peraltro, se è vero che, nella sua storia ultrasessantennale, la Corte Costituzionale non ha disdegnato di arrogarsi poteri che, nel disegno originario, non le spettavano (14).
Insomma, piaccia o non piaccia (soprattutto pensando che l’alternativa residuale è quella legislativa), facciamocene tutti una ragione: da quella parte non si passa, se è vero che il cimento supera forze e possibilità dell’organo adito, destinato com’è a impattare contro i limiti di bilancio perché «esiste il limite delle risorse disponibili [e perché] in sede di manovra finanziaria di fine anno spetta al Governo e al Parlamento introdurre modifiche alla legislazione di spesa, ove ciò sia necessario a salvaguardare l’equilibrio del bilancio dello Stato e a perseguire gli obiettivi della programmazione finanziaria. Spetta al legislatore, nell’equilibrato esercizio della sua discrezionalità e tenendo conto anche delle esigenze fondamentali di politica economica, bilanciare tutti i fattori costituzionalmente rilevanti» (15).
Discorso chiuso?
Tutt’altro, anche se la strada si fa in salita perché – come si diceva – quando c’è di mezzo il legislatore italiano ….
“Tutt’altro” perché i nervi scoperti dall’ordinanza di rimessione restano. In ordine sparso: quello della selezione dei giudici tributari (l’opzione più caldeggiata guarda al concorso pubblico e non per titoli) (16), della loro preparazione e del loro continuo aggiornamento (17); quello del mancato inquadramento in un ruolo autonomo scisso da qualsivoglia collegamento con il potere esecutivo che non sia il Ministero della giustizia (18); quello dei compensi (irrisori e comunque affidati, in fatto di liquidazione, all’iniziativa e alla disponibilità di organi appartenenti all’Amministrazione finanziaria, cioè ad emanazioni del soggetto che, il più delle volte, rappresenta uno dei litiganti nei giudizi trattati) (19).
Il macigno più ingombrante riguarda tuttavia, a mio avviso, la neutralità del giudice tributario, cioè la caratteristica che, per dogma insormontabile (20), deve impregnare l’esercizio del servizio giustizia non solo sul fronte sostanziale-contenutistico ma anche su quello esteriore dell’apparenza, cioè dell’immagine che ne deve ricevere il fruitore nonché, più in generale, quel “popolo italiano” nel cui nome la giustizia è amministrata (art. 101, primo comma, Cost.). Aspetto deducibile avanti il nostro giudice delle leggi in ragione dell’art. 6 della Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, norma interposta – direttamente vincolante ed equiparata alle norme di fonte costituzionale in virtù dell’art. 117 Cost. (21) – che detta la cosiddetta clausola del giusto processo, per cui ogni cittadino ha diritto a vedere la sua causa «esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge» (22).
Apparenza di indipendenza che deve reggere a un duplice vaglio, riguardante sia la percezione soggettiva del singolo giudice (per accertare se egli, direttamente chiamato in causa, avverte un disagio, l’ombra di una intromissione) sia quella oggettiva del quisque de populo (per sincerarsi che l’idea di giustizia data all’esterno non sia di sudditanza) (23). A spartiacque, la giurisprudenza continentale individua, quali connotati salienti, la inamovibilità e l’emancipazione da pressioni esterne (24) nonché la effettiva disponibilità di risorse e strumenti operativi (25).
Il diritto vive di forma, il giudice tributario non meno degli altri. Lo si diceva di Cesare, dell’immacolatezza della tunica di sua moglie. Noi rischiamo che, a dircelo del giudice tributario, sia la Corte di Strasburgo. E allora sarebbero guai.

Avv. Valdo Azzoni

(1) Di «limbo del “non giuridico”» in cui ricadrebbe «ogni discorso sulla (mancanza di adeguata) “professionalità” del giudice tributario» parla (punto 9 della motivazione) Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053 (in Boll. Trib., 2014, 1647, con nota di A. RUSSO, Filtro al ricorso in cassazione avverso le sentenze del giudice tributario: i principi di diritto), che rileva come la disciplina vigente «semmai pone l’accento sulla irrinunciabile professionalizzazione del giudice quale elemento determinante della tutela giurisdizionale dei diritti».
(2) L’art. 102, secondo comma, Cost. («Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura») e la VI disposizione transitoria della Costituzione (primo comma: «Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari») proibiscono l’istituzione di giudici speciali, dei quali è autorizzata unicamente la permanenza revisionata. Una querelle annosa, che si radica agli albori della Repubblica e che solo da qualche decennio può dirsi forse definitivamente sopita. Querelle dall’andamento quanto mai oscillante, essendosi passati dal primo arresto (Corte Cost. 26 gennaio 1957, n. 12, risolutiva di un conflitto di attribuzioni Stato-Regioni, in Boll. Trib., 1957, 1357) che ebbe a qualificare le Commissioni tributarie come organi giurisdizionali pur in patente carenza dei requisiti di indipendenza dei componenti, scelti come all’epoca erano dall’Amministrazione finanziaria, ai dolori dello scorcio del decennio successivo – stagione, quella, delle cancellazioni a raffica – con Corte Cost. 6 febbraio 1969, n. 6 (in parte di inammissibilità, in parte di infondatezza), ivi, 1969, 429; e Corte Cost. 10 febbraio 1969, n. 10 (di inammissibilità), ibidem, 436, che viceversa ne riconobbero la natura amministrativa. Fino alla sterzata, se non decisiva certo drastica, operata da Corte Cost. 27 dicembre 1974, n. 287 (di infondatezza), ivi, 1975, 252, e più tardi da Corte Cost. 24 novembre 1982, n. 196 (in parte di inammissibilità, in parte di infondatezza), ivi, 1983, 166, la quale ultima, alla stregua della legge-delega in materia di riforma del contenzioso (9 ottobre 1971, n. 825) e del decreto delegato (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636), sottolineò il dato caratterizzante della funzione giudicante, ovverosia l’indipendenza alla luce del dettame portante, l’art. 108, secondo comma, Cost. («La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia»). Indipendenza – vi si legge – che «va cercata piuttosto nei modi con i quali si svolge la funzione che non in quelli concernenti la nomina dei membri… [in quanto] per aversi la indipendenza dell’organo occorre che questo sia immune da vincoli i quali comportino una soggezione formale o sostanziale da altri, che vi sia inamovibilità e possibilità di sottrarsi alle risultanze emergenti dagli atti di ufficio della stessa Amministrazione. Questa disposizione, ad avviso della Corte, non ha soltanto il significato di conferire alle commissioni in parola i poteri di indagine che sono propri degli uffici: essa in sostanza pone gli organi giurisdizionali sullo stesso piano degli uffici finanziari per tutto quanto attiene alle possibilità di esperire mezzi istruttori. E perciò la norma [il riferimento, attualizzato, è all’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546] riguarda non soltanto i tipi di poteri spettanti alle commissioni, ma altresì il loro modo di esercizio, ivi compreso il modo di fronteggiare le spese all’uopo necessarie: a tali spese, di conseguenza, si può sempre fare fronte con gli stessi fondi di bilancio con i quali vi fanno fronte gli uffici dell’Amministrazione finanziaria». Facile a dirsi; e qui, temo, si ricomincia daccapo. Comunque sia, formalmente, la parola ultima l’ha detta Corte Cost. 23 aprile 1998, n. 144 (di manifesta infondatezza; ordinanza), in Boll. Trib., 1998, 1340, che ha escluso, in capo alle Commissioni tributarie, la natura di nuovi giudici speciali.
(3) Cfr., da ultimo, V. AZZONI, Viva il processo tributario, in Boll. Trib., 2017, 95; nonché F. CERIONI, Considerazioni sulla prospettata devoluzione della giurisdizione tributaria alle sezioni specializzate tributarie presso i Tribunali, ivi, 2016, 657.
(4) Il dibattito, un tempo focalizzato sull’esistenza della giurisdizione tributaria, sembra ormai spostato sull’identità e sull’entità (ergo sulla qualità) di essa. Lo sdoganamento sembra infatti cosa fatta: cfr. Corte Cost. 16 luglio 2009, n. 141 [in Boll. Trib., 2009, 987, con nota di E. RIGHI, È (ancora) un tributo il “canone” comunale sulla pubblicità]; e Corte Cost. 24 luglio 2009, n. 238 (ibidem, 1235, con nota di E. RIGHI, Tariffa di igiene ambientale: anche la Corte Costituzionale ne afferma la natura di tributo), entrambe in parte di manifesta inammissibilità, in parte di non fondatezza: «Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la giurisdizione del giudice tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto (ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006), con la conseguenza che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall’art. 102, secondo comma, Cost.».
(5) Cfr. Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. III, 14 ottobre 2014, n. 280, in Boll. Trib. On-line.
(6) Giurisprudenza costante. Cfr. Corte Cost. 13 luglio 2016, n. 173 (in parte di non fondatezza, in parte di inammissibilità), in Boll. Trib. On-line, ma soprattutto l’ordinanza (di inammissibilità) emessa in occasione della coeva deliberazione (del 5 luglio 2016), secondo la quale «possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura». Così anche Corte Cost. 7 aprile 2016, n. 76 (di inammissibilità), ivi: «Nel caso in esame, appare evidente come la posizione giuridica di tale associazione [a tutela dei diritti parentali] non risulti suscettibile di essere pregiudicata in alcun modo dall’esito del giudizio di costituzionalità, in quanto il rapporto sostanziale dedotto in causa concerne solo profili attinenti alla posizione dei soggetti privati parti del giudizio a quo».
(7) Paradigmatica l’affermazione – risalente in dottrina a Vezio Crisafulli (1910-1986), cui dobbiamo la lungimirante riflessione sul distinguo che dà il titolo alla voce Disposizione (e norma) da lui firmata per l’Enciclopedia del Diritto (1964, vol. XIII), capostipite del pensiero (tuttora inespugnato) della formazione giudiziale del diritto – per cui la caducazione di una certa norma avviene non perché è suscettibile di interpretazione anticostituzionale, ma perché non è possibile darle alcuna interpretazione costituzionale. Così Corte Cost. 22 ottobre 1996, n. 356 (di inammissibilità), in Boll. Trib. On-line: «Le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». Così pure Corte Cost. 16 maggio 2008, n. 147 (anch’essa di inammissibilità), ivi: «Una disposizione non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima perché può essere interpretata in un senso che la ponga in contrasto con parametri costituzionali, ma soltanto se ne è impossibile una interpretazione conforme alla Costituzione».
(8) Per tutte cfr. Corte Cost. 30 dicembre 1998, n. 452 (di infondatezza), in Boll. Trib., 1999, 840. La prima esperienza in questo senso la troviamo in Corte Cost. 22 luglio 1989, n. 456 (di inammissibilità), in Boll. Trib. On-line: «Quando, infatti, il dubbio di compatibilità con i principi costituzionali cada su una norma ricavata per interpretazione da un testo di legge, è indispensabile che il giudice a quo prospetti a questa Corte l’impossibilità di una lettura adeguata ai detti principi; oppure che lamenti l’esistenza di una costante lettura della disposizione denunziata in senso contrario alla Costituzione (cosiddetta “norma vivente”) … Proprio in virtù del principio di esclusiva soggezione del giudice alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), invocato nell’ordinanza, a tutti gli Organi giurisdizionali spetta, in piena indipendenza ed autonomia, una indeclinabile funzione interpretativa. Solo allorquando il giudice ritenga che nella giurisprudenza si sia consolidata una reiterata, prevalente e costante lettura della disposizione, è consentito richiedere l’intervento di questa Corte affinché controlli la compatibilità dell’indirizzo consolidato con i principi costituzionali». È chiaro che, a rischiare di rimanere con il cerino in mano, sono i giudici (di merito, così come quello di legittimità). I quali si trovano schiacciati fra l’impegno di reperire, nella norma, un significato costituzionalmente orientato, da un lato, e, dall’altro, in caso di dubbio permanente, il dovere di adire l’unico organo deputato alla caducazione manu iudicis, senza peritarsi di creare nuovo diritto. Il memento in Corte Cost. 14 giugno 1990, n. 285 (risolutiva di un conflitto fra poteri dello Stato), in Boll. Trib. On-line: «Va riaffermato che uno dei principi basilari del nostro sistema costituzionale è quello per cui i giudici sono tenuti ad applicare le leggi, e, ove dubitino della loro legittimità costituzionale, devono adire questa Corte che sola può esercitare tale sindacato, pronunciandosi, ove la questione sia riconosciuta fondata, con sentenze aventi efficacia erga omnes. Questo principio non può soffrire eccezione alcuna».
(9) Nella contingenza, onorando la sua propensione alle decisioni (ordinanze e sentenze) di inammissibilità e di manifesta inammissibilità, la Corte Costituzionale ha privilegiato detta ultima formula a quella – forse più idonea – interpretativa di rigetto, meno urtante fin dalla definizione.
(10) Cfr. Corte Cost. n. 456/1989, cit., che ebbe a decifrare il difetto dell’ambivalenza nell’essere la questione «meramente ipotetica, e fuori, per di più, di ogni previsione scientifica e giurisprudenziale … Altrimenti tutto si riduce ad una richiesta di parere alla Corte costituzionale, incompatibile con la funzione istituzionale di questo Collegio». Istruttiva pure Corte Cost. 20 novembre 1998, n. 378 (di manifesta inammissibilità; ordinanza), in Boll. Trib. On-line, ove il concetto è precisato, dovendosi lamentare che «Il giudice a quo, pur se attraverso l’enunciazione di un quesito formalmente unitario, cumulativamente attinge un quadro normativo assai variegato e la cui eterogenea struttura agevolmente consente di individuare, all’interno del quesito medesimo, due soluzioni fra loro chiaramente alternative». Conformi Corte Cost. 18 luglio 2014, n. 218 (di inammissibilità), ivi («È da aggiungere che l’ordinanza di rimessione presenta anche un petitum incerto, perché non chiarisce quale dovrebbe essere l’intervento additivo che secondo il giudice rimettente occorrerebbe adottare per eliminare la pretesa illegittimità costituzionale»), e Corte Cost. 17 dicembre 2015, n. 269 (di manifesta inammissibilità; ordinanza), ivi («L’intervento manipolativo invocato si presenta incerto e non identificato [essendo stata omessa] ogni indicazione in ordine alla direzione e ai contenuti dell’intervento correttivo auspicato, tra i molteplici astrattamente ipotizzabili; tale omissione si risolve nella indeterminatezza ed ambiguità del petitum, le quali comportano l’inammissibilità della questione»). «Questione ancipite»: così si è espressa Corte Cost. 31 ottobre 2014, n. 248 (di inammissibilità), ivi, definendo una richiesta di pronuncia che le era stata sottoposta tramite l’enunciazione di «due distinte modalità di intervento sul testo della norma censurata senza optare per l’una ovvero per l’altra, ponendole entrambe sullo stesso piano e indicandole come alternative tra loro». Richiesta definita scorretta perché «proposta in termini di alternatività irrisolta e come tale inammissibile dal momento che non compete a questa Corte di scegliere tra le due distinte soluzioni prospettate dal rimettente».
(11) In realtà non è così. “Manipolative” sono le decisioni attraverso le quali il diritto esistente sottoposto ad esame (un esame che ha superato infruttuosamente il già accennato tentativo, talvolta titanico, di dargli un senso costituzionalmente allineato), in luogo di essere soppresso, è modificato: o con una aggiunta (si parla di sentenze “additive”, con le quali la declaratoria di incostituzionalità tocca la o le norme perché e “nella parte in cui non” prevedono un certo quid in grado, una volta introdotto, di ripristinarle a legalità) oppure con una amputazione (sentenze “sostitutive”, che recidono la norma “nella parte in cui” contempla l’irregolarità). Sentenze in linea di massima malviste dalla Corte perché – come si dirà infra nel testo – implicano per definizione interventi ampi, incisivi e dilatati, quindi a rischio di problematicità nella cura/ricucitura del sistema che complessivamente coinvolgono; e inoltre perché fanno assumere alla Corte stessa una funzione più spiccatamente nomopoietica, dovendo essa penetrare nel terreno istituzionale del legislatore, il soggetto titolare in primis della gestione delle pubbliche risorse. Ciò malgrado, sentenze di questo tipo non sono sconosciute neanche per ciò che riguarda il processo tributario, addirittura il suo cuore stesso. Con maggiore insistenza nei tempi più vicini a noi. Si pensi a Corte Cost. 12 luglio 2005, n. 274 (di illegittimità), in Boll. Trib., 2005, 1157, emessa con riferimento all’art. 46, terzo comma, del D.Lgs. n. 546/1992. Ivi, muovendo dalla «premessa che il processo tributario è in linea generale ispirato – non diversamente da quello civile o amministrativo – al principio di responsabilità per le spese del giudizio, come dimostrano l’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992, secondo cui la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese, salvo il potere di compensazione della commissione tributaria (a norma dell’art. 92, secondo comma, c.p.c.), e l’art. 44 del medesimo D.Lgs., secondo cui, in caso di rinuncia al ricorso, il ricorrente che rinuncia deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro», la Corte Costituzionale ha puntualmente statuito che «la compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante quel principio, si traduce in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione (onerosa) di un professionista abilitato alla difesa in giudizio». Per completezza, è bene dire che nel novero delle sentenze additive rientrano le sentenze “additive di principio” – ad esempio Corte Cost. 7 aprile 2011, n. 113 (di illegittimità), in Boll. Trib. On-line – le quali, anziché integrare d’autorità la legge con il quid che le serve per rendersi inappuntabile agli occhi della Costituzione, si limitano a stilare il principio fondativo della futura azione legislativa per ovviare alla lacuna ravvisata. In questo modo la Corte salva diplomaticamente capra e cavoli: non offende nessuno, non ostenta un braccio troppo lungo, si riconcilia essa stessa con principi e norme già presenti nel tessuto costituzionale. Non a caso si parla di decisioni “a rime obbligate”. Per un quadro completo, in dottrina, vedi G. ZAGREBELSKY, Processo costituzionale, in Enc. Dir., XXXVI, in particolare i parr. 50 (Le decisioni manipolative), 51 (Problemi di ammissibilità delle sentenze manipolative: in generale), 52 [Le decisioni manipolative: tendenze e difficoltà della giurisdizione costituzionale nei confronti: a) del legislatore; b) dell’autorità giudiziaria] e 53 (Problemi particolari: le decisioni manipolative e gli art. 25 e 81 Cost.).
(12) Sul biasimo da riversare sul magistero della Corte allorché si fa arzigogolato e pedantemente didascalico, vedi C. PINELLI, Interpretazione conforme (rispettivamente a Costituzione e al diritto comunitario) e giudizio di equivalenza, in Giur. cost., 2008, 1368, dove si legge: «Più che come un interlocutore con cui collaborare, un giudice redarguito per avere omesso il “doveroso scrutinio” nel delibare la non manifesta infondatezza viene trattato come uno scolaro che non abbia ripassato la lezione, nonostante egli si trovi sprovvisto di una soluzione certa una volta che l’abbia ripassata».
(13) La tipologia del monito consiste nell’invito rivolto al legislatore – un legislatore, a quel punto, riconosciuto e rispettato nella titolarità del suo ruolo costituzionale e pertanto nella (esclusiva, perlomeno in prima battuta) disponibilità dell’incombenza in parola – di rimediare a una certa situazione di cui sono evidenziati gli spunti di fragilità; esortazione in genere accompagnata (e qualificata) dall’avvertimento che, ad una prossima occasione, difficilmente la disciplina in discorso la farebbe franca e scamperebbe all’abrogazione. Così è capitato con Corte Cost. 13 giugno 1984, n. 154 (di non fondatezza), in Boll. Trib., 1984, 1084, che, esaminando il rito anteriore (D.P.R. n. 636/1972), mise in rilievo «le molte deficienze del [vigente] contenzioso tributario, ampiamente segnalate in dottrina e dagli operatori del settore, per le quali il Parlamento è ora chiamato a porre rimedio [in vista del] riordino legislativo dell’intera materia». Tipico poi il caso della pubblicità delle udienze delle Commissioni tributarie. Le quali udienze, oggi, devono tenersi in camera di consiglio a meno che (regola, questa, valida solo per la trattazione del merito e non per la trattazione delle misure cautelari ex art. 47, quarto comma, del D.Lgs. n. 546/1992) una delle parti non domandi la trattazione a porte aperte (art. 33, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992). Per arrivare a questo accomodamento è occorsa una lunga, contrastata temperie. A cominciare da Corte Cost. 24 luglio 1986, n. 212 (di non fondatezza), ivi, 1986, 1608, che, nel vigore del D.P.R. n. 636/1972, negò l’esistenza del problema dovendosi riconoscere «al potere del legislatore ordinario di introdurre per singole categorie di procedimenti deroghe determinate da ragioni obbiettive e razionali. Il principio [di pubblicità delle udienze], invero, non può considerarsi assoluto e deve cedere in presenza di particolari circostanze giustificative, ma, ove queste non si verifichino, è indubitabile che la regola della pubblicità delle udienze debba trovare piena attuazione». Poco dopo il revirement, preceduto da un ulteriore invito a provvedere caduto nel nulla [cfr. Corte Cost. 31 marzo 1988, ord. n. 378 (di manifesta infondatezza), in Boll. Trib. 1988, 985] e concretizzatosi con Corte Cost. 16 febbraio 1989, n. 50 (di illegittimità), ivi, 1989, 408, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 39, primo comma, del D.P.R. n. 636/1972 nella parte in cui escludeva l’applicabilità dell’art. 128 c.p.c. (appunto in tema di pubblicità delle udienze) ai giudici tributari, in considerazione del fatto che «per i procedimenti tributari, l’eccezione non può ritenersi sorretta da siffatte giustificazioni: anzi, in base all’art. 53 Cost., l’imposizione tributaria è soggetta al canone della trasparenza, i cui effetti riguardano anche la generalità dei cittadini, nonché ai principi di universalità ed eguaglianza, onde la posizione del contribuente non è esclusivamente personale e non è tutelabile con il segreto [ché anzi] la generale conoscenza delle controversie tributarie può giovare alla concreta attuazione del sistema tributario e concorre a ridurre il numero degli inadempimenti e degli evasori in genere». L’odierno regime è stato infine validato da Corte Cost. 23 aprile 1998, n. 141 (di non fondatezza), ivi, 1998, 1431, essendosi ritenuta sufficiente garanzia di trasparenza la possibilità, offerta a ciascuno dei contendenti, di invertire il rito da a porte chiuse a porte aperte. La vicenda ha toccato non solo il versante processuale, ma anche quello sostanziale. Ad esempio con Corte Cost. 15 luglio 1976, n. 179 (di illegittimità), ivi, 1976, 1160, la quale, in tema di cumulo dei redditi coniugali a fini IRPEF, annota: «Ma, essendosi attraverso la presente disamina constatato che relativamente a taluni punti, non secondari, della disciplina legislativa in oggetto, è mancato il dovuto rispetto della Costituzione, occorre, a conclusione di questa sentenza, ribadire l’esigenza che i principi della personalità e della progressività dell’imposta siano esattamente applicati; che la soggettività passiva dell’imposta sia riconosciuta ad ogni persona fisica con riguardo alla sua capacità contributiva; che al concreto atteggiarsi di questa si ponga mente in sede di accertamento ed in funzione del debito e della responsabilità d’imposta; e che la materia trovi adeguata disciplina in norme per le quali il possesso dei redditi si sostanzi nella libera disponibilità di essi. Nel contempo la Corte esprime l’auspicio che sulla base delle dichiarazioni dei propri redditi fatte dai coniugi, ed in un sistema ordinato sulla tassazione separata dei rispettivi redditi complessivi, possa essere data ai coniugi la facoltà di optare per un differente sistema di tassazione (espresso in un solo senso o articolato in più modi) che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice».
(14) I padri fondatori prima (legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1), il giudice ordinario sul loro solco poi (vedi l’art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87), hanno voluto che – nel quadro di un sistema parlamentare imperniato sulla demarcazione dei poteri in funzione di un ben calibrato equilibrio, quale quello licenziato nel 1948 – il giudice, anche il più celebrato per rango e funzioni, mantenesse una posizione distanziata dal legislatore. È però ovvio che, specie su coordinate istituzionali, le condizioni fluttuino, a seconda della forza che i diversi interpreti acquistano (o, il che è lo stesso, conquistano o si vedono lasciare dagli originari detentori). Si può così dire – e la constatazione non deve sconcertare più di tanto – che «la Corte ha, nel nostro sistema politico, occupato (sia perché lo ha conquistato sia perché le è stato di buon grado rilasciato dal Parlamento e dal Governo) uno spazio che la caratterizza ormai come soggetto politico»; infatti «l’incidenza delle sue inappellabili decisioni, la rilevanza che assumono le motivazioni delle sue sentenze, la diffusa (ma, in certo senso, inevitabile) tendenza a sostituirsi al legislatore inadempiente, hanno fatto assumere alla Corte un ruolo che, almeno secondo l’originario disegno costituzionale, essa non era chiamata a svolgere; per cui alla Corte sono oggi affidati poteri sostanziali di indirizzo politico, pur nel quadro complessivo delle sue funzioni, dirette ad assicurare il pieno rispetto della Costituzione» (così T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 2010, 519).
(15) Cfr. Corte Cost. 31 marzo 1995, n. 99 (di non fondatezza), in Boll. Trib. On-line, dove si osserva che non può mai essere pretermesso «il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel certo diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento».
(16) Ved. U. PERRUCCI, Professionalità dei giudici tributari e concorsi riservati, in Boll. Trib., 2013, 1320. Benché a loro volta criticate, non paiono creare soverchi problemi d’indole costituzionale le modalità di nomina. La quale, ex art. 9, primo comma, primo periodo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 545, avviene – ove riguardi l’immissione «per la prima volta nel ruolo unico di cui all’art. 40, comma 40, della legge 12 novembre 2011, n. 183» – con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministero dell’economia e delle finanze, ma pur sempre previa deliberazione dell’organo di supervisione e disciplina, il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria (art. 9 del D.Lgs. n. 545/1992). Assai più discutibile, peraltro, il tenore del secondo periodo dell’art. 9: «In ogni altro caso alla nomina dei componenti di commissione tributaria si provvede con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze» (periodo aggiunto dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156).
(17) Ved. S. MICALI, Brevi considerazioni su alcune peculiarità nella gestione del processo tributario da parte del giudice “speciale” tributario, in Boll. Trib., 2015, 974. Da segnalare, all’interno del contributo, il passaggio in cui si ricorda che la legge-delega n. 23/2014, prodromica alla novella del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156 [Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23], ibidem, 1406 (su cui si ricorda U. PERRUCCI, Brevi annotazioni sulla nuova versione del processo tributario, ibidem, 1474), «ha riservato una particolare attenzione alla preparazione del giudice tributario prevedendo all’art. 10, comma 1, lettera b), n. 8, il “rafforzamento della qualificazione professionale dei componenti delle commissioni tributarie al fine di assicurare l’adeguata preparazione specialistica”». Vedi anche G. GAFFURI, Qualche erratica considerazione prospettica sul processo tributario, in Boll. Trib., 2016, 645: «La carenza più rimarchevole nell’attuale esercizio della giurisdizione in materia tributaria sembra riguardare la preparazione culturale, che è non raramente inadeguata e che spicca solo nella parte ammirevole del corpo giudiziale; e si può escludere che il concorso pubblico possa garantire, in assoluto, una congrua conoscenza tecnica della disciplina».
(18) Intuitivamente deleteria sotto il profilo della rappresentazione all’esterno la disposizione per cui «Il Ministro dell’economia e delle finanze presenta entro il 30 ottobre di ciascun anno una relazione al Parlamento sullo stato della giustizia tributaria nell’anno precedente anche sulla base degli elementi predisposti dal Consiglio di presidenza, con particolare riguardo alla durata dei processi e all’efficacia degli istituti deflattivi del contenzioso» (art. 29, secondo comma, del D.Lgs. n. 545/1992, come modificato dal D.Lgs. n. 156/2015).
(19) Senza dire – ma lo dice, ed esemplarmente, l’ordinanza di rimessione – che il personale amministrativo addetto alle Commissioni tributarie, quello «che costituisce il delicato e indefettibile supporto per lo svolgimento dell’attività giurisdizionale appare completamente “nelle mani” del soggetto autore degli atti oggetto di giudizio (o meglio, nelle mani di uffici soggetti al medesimo controllo)». A proposito dei corrispettivi destinati ai giudici tributari. Sul piano storico merita rammentare Corte Cost. n. 196/1982, cit. (in parte di inammissibilità, in parte di non fondatezza), la quale ha valutato la questione (sorta in relazione all’art. 12, primo e secondo comma, del D.P.R. n. 636/1972) come «palesemente irrilevante» stante il fatto che essa «non incide sul rapporto giuridico che le commissioni tributarie sono chiamate a decidere e, di conseguenza, è una disposizione la quale non trova e non può trovare applicazione alcuna da parte delle dette commissioni: essa attiene invece alla regolamentazione del rapporto che si costituisce fra i componenti le commissioni e l’Amministrazione finanziaria competente a liquidare e pagare i corrispettivi in parola e le controversie che possono sorgere al riguardo vanno sottoposte ad altri giudici del nostro ordinamento». Tesi che oggi, specie in base a ciò che insegna la giurisprudenza continentale di cui si dirà infra nel testo, dà l’idea di vacillare assai.
(20) Oltre all’art. 108, secondo comma, Cost., già citato, vedi l’art. 111 Cost., sia il primo comma («La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge») sia il secondo comma, primo periodo («Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»).
(21) Aspetto, infatti, prontamente dedotto dai giudici emiliani, anche quello – come tutti gli altri – con l’ausilio di un mastodontico apparato di citazioni.
(22) È bene ricordare che sul giudice interno grava anche il dovere di interpretare le norme della Costituzione alla luce delle norme interposte, quali appunto quelle della CEDU, avvalendosi altresì della lettura datane dalla Corte EDU. Cfr. Corte Cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349 (entrambe di illegittimità), in Boll. Trib. On-line, nonché Corte Cost. 11 marzo 2011, n. 80 (in parte di inammissibilità, in parte di infondatezza), ivi.
(23) Cfr. Corte EDU 10 gennaio 2012, Pohoska c. Polonia, in Boll. Trib. On-line.
(24) Cfr. Corte EDU 28 giugno 1984, Campbell e Fell c. Regno Unito, serie A n. 80, in Diritti dell’uomo e libertà fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia delle Comunità europee, 1, Milano, 2006, 595; e Corte EDU 27 aprile 2000, Loyen c. Francia, in Boll. Trib. On-line.
(25) Cfr. Corte EDU 27 febbraio 2009, Miroshnik v. Ukraine; Corte EDU 3 ottobre 2012, İbrahim Gürkan v. Turkey; Corte EDU 25 febbraio 1997, Findlay c. United Kingdom; tutte in Boll. Trib. On-line.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Questione di legittimità costituzionale dell’intero assetto giuridico, economico, organizzativo, amministrativo e relazionale delle Commissioni tributarie in riferimento agli artt. 101, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Manifesta inammissibilità.

Sono manifestamente inammissibili, tanto più se formulate con modalità incerte, indefinite e ambigue, le questioni di legittimità costituzionale riguardanti lo status giuridico, economico, organizzativo, amministrativo e relazionale delle Commissioni tributarie, laddove postulino plurimi interventi manipolativi coinvolgenti l’intero assetto della relativa branca di giustizia presa in considerazione, materia riservata alla discrezionalità del legislatore ordinario.

Deve essere dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 13, 15, 29-bis, 31, 32, 33, 34 e 35 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), dell’art. 37 del D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748 (Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo), dell’art. 72, primo comma, lett. b), del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), del D.Lgs. 25 luglio 2006, n. 240 (recante individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari nonché decentramento su base regionale di talune competenze del Ministero della giustizia, a norma degli artt. 1, primo comma, 2, primo comma, e 12, della legge 25 luglio 2005, n. 150), degli artt. 2, comma 10-ter, e 23-quinquies, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), dell’art. 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, legge finanziaria 2007), dell’art. 15, ottavo comma, del D.P.R. 30 gennaio 2008, n. 43 (Regolamento di riorganizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze, a norma dell’articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296), dell’art. 6 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), dell’art. 51 c.p.c., dell’art. 15, primo e terzo comma, del D.P.C.M. 27 febbraio 2013, n. 67 (Regolamento di organizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze, a norma degli articoli 2, comma 10-ter, e 23-quinquies, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), questioni sollevate, con riferimento agli artt. 101, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia con ordinanza del 23 settembre 2014.

[Corte Costituzionale (Pres. Grossi, rel. de Pretis), 20 ottobre 2016, ord. n. 227]

ORDINANZA – (Omissis).
Ritenuto che con ordinanza del 23 settembre 2014 la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 13, 15, 29-bis, 31, 32, 33, 34 e 35 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nonché degli artt. 6 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e 51 del codice di procedura civile;
che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio con il quale un contribuente ha impugnato, nei confronti dell’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Reggio Emilia, una cartella di pagamento avente ad oggetto l’importo dovuto a titolo di tassa di concessione governativa sugli abbonamenti telefonici cellulari e di relative sanzioni;
che il rimettente dubita in sostanza che l’ordinamento e l’organizzazione della giustizia tributaria siano compatibili con la garanzia di indipendenza anche apparente del giudice, richiesta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) in tema di «equo processo», ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;
che, dopo avere illustrato le ragioni per le quali, a suo avviso, l’art. 6, paragrafo 1, si dovrebbe applicare anche ai giudizi tributari, il giudice a quo svolge una rassegna della giurisprudenza della Corte EDU sui test di verifica dei requisiti di indipendenza e imparzialità del giudice e ne saggia l’applicazione alla disciplina interna della materia;
che tale verifica lo porta ad escludere dubbi di contrasto con la Convenzione sotto i profili delle modalità di selezione e di assegnazione agli uffici dei giudici tributari, della garanzia della loro preparazione giuridica, della tutela da pressioni esterne e – con particolare riferimento alla disciplina del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria – della tutela dell’indipendenza interna;
che il rimettente giunge a diversa conclusione per altri profili, riguardanti i rapporti tra i giudici tributari e il personale amministrativo di supporto, l’autonomia gestionale dei mezzi materiali necessari per l’esercizio della giurisdizione e lo status economico dei medesimi giudici, in quanto l’assetto ordinamentale e organizzativo-gestionale della giustizia tributaria relativo ad essi violerebbe, a suo avviso, gli artt. 101, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU;
che la violazione degli stessi parametri deriverebbe anche dall’assenza, nella disciplina della ricusazione e dell’astensione, di un rimedio al difetto di apparente indipendenza del giudice tributario per ragioni di natura ordinamentale;
che, secondo il rimettente, l’inquadramento nel Ministero dell’economia e delle finanze, nell’apposita Direzione della giustizia tributaria, degli uffici di segreteria preposti all’assistenza e alla collaborazione nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, e la conseguente impossibilità per il giudice tributario di disporre autonomamente del personale ausiliario, ledono l’indipendenza apparente del giudice richiesta dall’art. 6, paragrafo 1, nell’interpretazione fornita dalla Corte EDU;
che il personale sarebbe inserito nella stessa amministrazione cui appartengono le autorità che emanano gli atti sottoposti al controllo giurisdizionale, vale a dire le agenzie fiscali, alle quali è preposta una diversa direzione ministeriale, inquadrata tuttavia nello stesso Dipartimento delle finanze;
che la lesione dell’apparente indipendenza dei giudici troverebbe riscontri nell’analisi dei compiti affidati alla Direzione della giustizia tributaria, tra i quali il rimettente individua – quali indizi del fatto che il personale delle segreterie sarebbe “nelle mani” del soggetto autore degli atti oggetto di giudizio – i compiti di selezione, formazione, assegnazione e vigilanza, di determinazione dello stato giuridico ed economico, di valutazione della produttività e della progressione in carriera, nonché i compiti in materia di giudizio disciplinare e di supervisione degli uffici;
che la lesione dell’apparente indipendenza dei giudici tributari sarebbe dimostrata anche dall’assenza di norme che disciplinino i rapporti tra i giudici e il personale delle segreterie, nonché dalle norme (artt. 2 e 35 del d.lgs. n. 545 del 1992) che regolano le attribuzioni dei presidenti delle commissioni tributari e dei direttori delle relative segreterie;
che a quest’ultimo riguardo il rimettente richiama un orientamento del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, secondo il quale nei rapporti tra il presidente della commissione e il direttore della segreteria, nel caso di impossibilità di collaborazione o di concerto, dovrebbe prevalere in ogni caso il potere del primo di adottare provvedimenti urgenti e immediatamente esecutivi, e osserva che l’art. 15 del d.lgs. n. 545 del 1992 – come novellato dall’art. 39, comma 2, lettera e), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111 – avrebbe tuttavia privato i presidenti delle commissioni di ogni vero e concreto potere di controllo sul personale amministrativo, attribuendo loro solo la facoltà di segnalare alla Direzione della giustizia tributaria del Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze, per i provvedimenti di competenza, la qualità e l’efficienza dei servizi di segreteria della propria commissione;
che un vulnus all’indipendenza dei giudici tributari deriverebbe altresì da ulteriori compiti affidati alla Direzione della giustizia tributaria, quali l’osservazione della giurisprudenza in materia tributaria (con attribuzione di un’impropria funzione nomofilattica e del potere di segnalare i provvedimenti giudiziari al Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, organo titolare del potere disciplinare nei confronti dei giudici), la cura dei provvedimenti sullo status dei giudici e la gestione del contenzioso eventualmente instaurato con essi, nonché il supporto alla loro formazione professionale;
che, nel sollevare la questione appena descritta, il rimettente indica quali norme censurate gli artt. 2, 15, 31, 32, 33, 34 e 35 del d.lgs. n. 545 del 1992, sulle attribuzioni di presidenti, giudici, direttori delle segreterie e segreterie delle commissioni tributarie, nella parte in cui affiderebbero la disponibilità dei mezzi personali per l’esercizio della giurisdizione tributaria alla stessa amministrazione cui appartengono le autorità che emanano gli atti sottoposti al controllo giurisdizionale, anziché al giudice tributario;
che la stessa questione è posta “anche in correlazione” con:
– gli artt. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1972, n. 748 (Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo) e 72, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche);
– il decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, recante «Individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari nonché decentramento su base regionale di talune competenze del Ministero della giustizia, a norma degli articoli 1, comma 1, lettera a), e 2, comma 1, lettere s) e t) e 12, della legge 25 luglio 2005, n. 150»;
– gli artt. 2, comma 10-ter, e 23-quinquies del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135;
– l’art. 15, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 febbraio 2013, n. 67 (Regolamento di organizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze, a norma degli articoli 2, comma 10-ter, e 23-quinquies, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135);
che, sotto un profilo diverso ma connesso al precedente, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale degli artt. 2, 29-bis, 31 e 35 del d.lgs. n. 545 del 1992, nella parte in cui attribuirebbero la gestione dei mezzi materiali necessari per l’esercizio della giurisdizione tributaria alla stessa autorità che emette gli atti da sottoporre al controllo giurisdizionale, anziché prevedere una autonoma gestione finanziaria e contabile delle Commissioni tributarie;
che tale questione è posta “anche in rapporto”:
– all’art. 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)»;
– all’art. 15, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 30 gennaio 2008, n. 43 (Regolamento di riorganizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze, a norma dell’articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296);
– agli artt. 2, comma 10-ter, e 23-quinquies del d.l. n. 95 del 2012 (già evocati nella prima questione);
– all’art. 15, comma 3, del d.P.C.m. n. 67 del 2013;
che, ad avviso del rimettente, l’attribuzione in via esclusiva al Ministero dell’economia e delle finanze, attraverso un apposito ufficio del Dipartimento delle finanze, della gestione amministrativo-contabile degli stanziamenti relativi alla giustizia tributaria e dei capitoli di spesa delle commissioni tributarie, nonché della dotazione di beni e servizi in uso alle stesse, darebbe luogo ad un assetto organizzativo analogo a quello già censurato dalla Corte EDU per violazione dell’art. 6, paragrafo 1, nel quale era l’organizzazione ministeriale, una volta determinata a monte l’entità dello stanziamento annuale, a provvedere alla gestione quotidiana dei mezzi finanziari;
che l’apparente indipendenza dei giudici tributari sarebbe lesa anche dalla disciplina del loro trattamento retributivo;
che, sotto questo profilo, il rimettente censura l’art. 13 del d.lgs. n. 545 del 1992, nella parte in cui prevederebbe che la determinazione, la liquidazione e il pagamento del compenso spettante ai componenti delle commissioni tributarie siano effettuati dalla stessa amministrazione cui appartengono anche gli organi che emettono gli atti sottoposti al controllo giurisdizionale, vale a dire il Ministro dell’economia e delle finanze (quanto alla determinazione dei compensi), la direzione generale delle entrate nella cui circoscrizione ha sede la commissione tributaria di appartenenza (quanto alla liquidazione) e il dirigente responsabile della segreteria della commissione (quanto al pagamento);
che, sotto un diverso aspetto, anche l’inadeguatezza dei compensi spettanti ai giudici tributari pregiudicherebbe la loro immagine di indipendenza e imparzialità, in ulteriore contrasto con l’art. 6, paragrafo 1;
che, ad avviso del giudice a quo, anche gli artt. 6 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 51 cod. proc. civ. contrasterebbero con gli artt. 101, 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, nella parte in cui, accanto alla possibilità di astensione individuale del giudice per motivi “personali”, non prevedono un rimedio processuale che consenta ai giudici tributari di astenersi per difetto di apparenza di indipendenza causato da ragioni ordinamentali, al fine di evitare l’adozione di decisioni nulle per un vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ., o che siano comunque fonte di responsabilità dello Stato per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo;
che sulla rilevanza il rimettente osserva che le norme censurate con le prime tre questioni, pur non disciplinando direttamente lo svolgimento del processo principale o il merito della controversia, attengono a struttura, ordinamento e inquadramento del giudice, e quindi alla sua costituzione, sicché anche da esse dipenderebbe la decisione della causa; mentre le norme censurate con l’ultima questione sarebbero direttamente applicabili nel processo principale, inerendo all’astensione e ricusazione del giudice chiamato alla decisione;
che con atto depositato in cancelleria il 2 maggio 2016 è intervenuto nel giudizio costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate;
che le questioni sarebbero inammissibili, perché l’ordinanza di rimessione non offrirebbe chiare indicazioni sulla violazione delle norme costituzionali e sulla correlazione fra la disciplina ordinamentale delle commissioni tributarie e gli specifici precetti costituzionali dei quali si lamenta la lesione; inoltre, l’ordinanza non chiarirebbe come la violazione dell’apparenza di indipendenza del giudice tributario assuma rilievo ai fini della risoluzione del processo principale;
che, con riguardo al profilo dell’inquadramento ordinamentale del giudice tributario e del personale delle segreterie, l’interveniente osserva che le autorità dalle quali promanano gli atti impositivi – vale a dire le Agenzie delle entrate – sono enti con personalità giuridica di diritto pubblico, del tutto distinti dal Ministero dell’economia e delle finanze, nei cui riguardi è da escludere qualsiasi rapporto organico, come avrebbe ripetutamente riconosciuto la giurisprudenza di legittimità;
che l’Avvocatura evidenzia, inoltre, la diversità degli ambiti di competenza ministeriale dalle attribuzioni dell’organo di autogoverno dei giudici tributari (Consiglio di presidenza della giustizia tributaria), rilevando che i compiti della Direzione della giustizia tributaria, sui quali si concentrano le censure del rimettente, attengono alla predisposizione e al supporto della struttura organizzativa, all’emanazione di atti amministrativi privi di discrezionalità, alla raccolta e all’analisi della giurisprudenza, nonché alla classificazione e allo studio di documenti, al fine di offrire un ausilio a tutti gli operatori del settore;
che sulla lamentata assenza di poteri organizzativi e gestionali del personale amministrativo in capo ai presidenti delle commissioni tributarie – ai quali sarebbero riservati solo poteri di vigilanza – l’interveniente osserva che a seguito della modifica dell’art. 15 del d.lgs. n. 545 del 1992 introdotta dall’art. 11, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23», il presidente di ciascuna commissione ha il potere di esercitare la «vigilanza … sulla qualità e l’efficienza dei servizi di segreteria …, al fine di segnalarne le risultanze al Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze per i provvedimenti competenza»; che tale assetto stabilirebbe sì una netta separazione tra la funzione giurisdizionale (assegnata ai giudici), l’attività di vigilanza (attribuita ai presidenti delle commissioni) e la direzione amministrativa delle segreterie (spettante al solo direttore dell’ufficio), ma non arrecherebbe alcun pregiudizio all’indipendenza dei giudici, essendo coerente, sia con le disposizioni degli articoli da 30 a 35 del d.lgs. n. 545 del 1992 in materia di uffici di segreteria, sia con le disposizioni del d.lgs. n. 165 del 2001 in materia di direzione e responsabilità degli uffici dell’amministrazione pubblica, sia, infine, con la natura onoraria dell’incarico dei giudici tributari; e che nemmeno l’assenza di autonomia nella gestione dei mezzi materiali in capo ai giudici tributari minaccerebbe la loro indipendenza, in quanto tale gestione si risolverebbe in funzioni meramente amministrative, di natura contabile e finanziaria;
che, sui profili inerenti al trattamento retributivo, l’Avvocatura eccepisce in via preliminare l’inammissibilità della questione per irrilevanza, poiché secondo la costante giurisprudenza della Corte le norme che determinano i compensi dei giudici tributari non incidono, né sul rapporto in ordine al quale il rimettente è chiamato a decidere, né sulla composizione dell’organo giudicante, anche sotto l’aspetto dell’asserita esiguità degli stessi compensi;
che nel merito la questione sarebbe comunque infondata, in quanto il decreto ministeriale di determinazione dei compensi dei giudici tributari è assunto sulla base di parametri fissati direttamente dalla legge e il trattamento retributivo sarebbe attualmente caratterizzato – per effetto del d.l. n. 98 del 2011 – da un ragionevole sistema premiale, correlato alla produttività delle commissioni e finanziato con il fondo nel quale confluiscono le entrate del contributo unificato, destinate anche all’aumento dei compensi aggiuntivi di tutte le commissioni tributarie, ai sensi dell’art. 12, comma 3-ter, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44;
che infine la difesa dello Stato eccepisce l’inammissibilità anche della questione avente ad oggetto le norme sull’astensione e la ricusazione dei giudici tributari per mancata indicazione, sia delle ragioni poste a suo fondamento, che dei parametri costituzionali violati, e osserva che in ogni caso la questione sarebbe infondata nel merito, in quanto l’art. 6 del d.lgs. n. 546 del 1992 richiama la disciplina del codice di procedura civile, uscita più volte indenne dallo scrutinio di legittimità costituzionale operato dalla Corte;
che con atto depositato in cancelleria il 29 aprile 2016 è intervenuta nel giudizio costituzionale l’Associazione Magistrati Tributari, aderendo alle censure espresse dal giudice a quo e chiedendo di conseguenza che le questioni siano accolte;
che il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria illustrativa, ribadendo le eccezioni di inammissibilità già sollevate e rilevando che le modifiche degli artt. 2 e 15 del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotte dal d.lgs. n. 156 del 2015 a decorrere dal 1° gennaio 2016, imporrebbero di restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni.
Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia dubita della legittimità costituzionale di varie disposizioni del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nonché dell’art. 6 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e dell’art. 51 del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 101, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;
che il rimettente dubita in sostanza che l’ordinamento e l’organizzazione della giustizia tributaria sia compatibile con la garanzia di indipendenza anche apparente del giudice, richiesta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di «equo processo», ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU;
che sono censurati, in primo luogo, gli artt. 2, 15, 31, 32, 33, 34 e 35 del d.lgs. n. 545 del 1992, nella parte in cui, prevedendo l’inquadramento degli uffici di segreteria delle commissioni tributarie nell’amministrazione finanziaria, affiderebbero la disponibilità dei mezzi personali per l’esercizio della giurisdizione tributaria alla stessa amministrazione cui appartengono le autorità che emanano gli atti sottoposti al controllo giurisdizionale, anziché al giudice tributario;
che il giudice a quo censura altresì gli artt. 2, 29-bis, 31 e 35 del d.lgs. n. 545 del 1992 nella parte in cui attribuirebbero la gestione dei mezzi materiali necessari per l’esercizio della giurisdizione tributaria alla stessa autorità che emette gli atti da sottoporre al controllo giurisdizionale, anziché prevedere un’autonoma gestione finanziaria e contabile delle Commissioni tributarie;
che un ulteriore vulnus all’apparente indipendenza dei giudici tributari deriverebbe, secondo il rimettente, dall’art. 13 del d.lgs. n. 545 del 1992, in tema di trattamento retributivo degli stessi giudici, nella parte in cui la norma stabilirebbe che la determinazione, la liquidazione e il pagamento del compenso spettante ai componenti delle commissioni tributarie siano effettuati dalla stessa amministrazione cui appartengono anche gli organi che emettono gli atti sottoposti al controllo giurisdizionale;
che, sotto un diverso aspetto, anche l’inadeguatezza dei compensi spettanti ai giudici tributari pregiudicherebbe la loro immagine di indipendenza e imparzialità, in contrasto ulteriore con l’art. 6, paragrafo 1;
che, infine, anche gli artt. 6 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 51 cod. proc. civ. contrasterebbero con i parametri evocati, nella parte in cui, accanto alla possibilità di astensione individuale del giudice per motivi “personali”, non prevedono un rimedio processuale che consenta ai giudici tributari di astenersi per difetto di apparenza di indipendenza causato da ragioni ordinamentali, al fine di evitare l’adozione di decisioni nulle per un vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ., o che siano comunque fonte di responsabilità dello Stato per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo;
che, preliminarmente, va esaminata l’ammissibilità dell’intervento nel giudizio costituzionale dell’Associazione Magistrati Tributari, la quale non è parte del giudizio a quo;
che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, sentenze n. 173 del 2016 (1) e allegata ordinanza letta all’udienza del 5 luglio 2016, n. 236 del 2015 (2) e allegata ordinanza letta all’udienza del 20 ottobre 2015, n. 70 del 2015 (3) e n. 223 del 2012 (4));
che questa Corte ha più volte espresso tale orientamento anche in relazione alla richiesta di intervento da parte di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria (ex plurimis, sentenze n. 76 del 2016 (5), n. 178 del 2015 (6) e allegata ordinanza letta all’udienza del 23 giugno 2015, n. 37 del 2015 (7) e allegata ordinanza letta all’udienza del 24 febbraio 2015, n. 162 del 2014 (8) e allegata ordinanza letta all’udienza dell’8 aprile 2014; ordinanze n. 140 del 2014 (9), n. 156 del 2013 (10) e n. 150 del 2012 (11));
che, alla luce di questi principi, l’Associazione Magistrati Tributari non è titolare di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che ne legittimi l’intervento, poiché essa non vanta una posizione giuridica individuale suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall’esito del giudizio incidentale;
che non è sufficiente sostenere, in senso contrario, che l’oggetto delle questioni sollevate rientra nell’ambito degli scopi statutari perseguiti dall’interveniente, e in particolare nell’àmbito della tutela dell’indipendenza dei giudici tributari, in quanto l’interesse collettivo prospettato non è correlato con le specifiche e peculiari posizioni soggettive dedotte dalle parti nel giudizio a quo;
che pertanto l’intervento dell’Associazione Magistrati Tributari deve essere dichiarato inammissibile;
che le questioni sollevate dal giudice a quo presentano, a loro volta, preliminari e assorbenti profili di inammissibilità;
che il rimettente invoca plurimi interventi additivi, diretti da un lato a delineare un nuovo assetto dell’ordinamento e dell’organizzazione della giustizia tributaria, e dall’altro lato ad aggiungere una nuova causa di astensione del giudice tributario, fondata sul difetto della sua apparente indipendenza per ragioni ordinamentali, o comunque a prefigurare un analogo rimedio processuale;
che, in relazione al censurato inquadramento del personale delle segreterie nell’amministrazione finanziaria, il giudice a quo omette del tutto di indicare la direzione e i contenuti dell’intervento correttivo richiesto, tra i molteplici astrattamente ipotizzabili;
che nemmeno la censura relativa all’assenza, in capo ai presidenti delle commissioni, di diretti poteri di vigilanza e controllo del personale delle segreterie chiarisce i contorni e gli eventuali limiti dell’auspicato ampliamento delle attribuzioni presidenziali, i quali possono atteggiarsi in molti modi, tutti coerenti con l’assegnazione ai presidenti di un ruolo più incisivo nella gestione del personale;
che analoghe considerazioni valgono per la censurata mancanza di autonomia di gestione finanziaria e contabile delle Commissioni tributarie, essendo anche in questo caso del tutto evidente l’incertezza dell’intervento additivo richiesto, a fronte delle molteplici forme e graduazioni che potrebbe assumere l’auspicata autonomia della giurisdizione tributaria;
che mancano poi del tutto, nell’ordinanza, indicazioni sul diverso assetto che dovrebbe caratterizzare il regime della determinazione, della liquidazione e del pagamento delle retribuzioni dei giudici, in luogo di quello censurato, ovvero sul diverso sistema retributivo che sarebbe idoneo a superare, secondo il giudice a quo, l’attuale inadeguatezza dei compensi;
che neppure è chiarito il contenuto dell’intervento richiesto in tema di astensione del giudice tributario, in quanto il generico richiamo alla sussistenza di ragioni di natura ordinamentale che violerebbero l’indipendenza apparente del giudice non è sufficiente a tale fine, né il rimedio processuale auspicato è ben individuato;
che queste omissioni comportano l’indeterminatezza e l’ambiguità dei petita, e di conseguenza, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’inammissibilità delle questioni (ex plurimis, sentenze n. 220 e n. 218 del 2014 (12), n. 220 del 2012 (13), n. 186 (14) e n. 117 (15) del 2011; ordinanze n. 269 del 2015 (16), n. 266 del 2014 (17), n. 335 (18), n. 260 (19) e n. 21 (20) del 2011);
che un’altra ragione di inammissibilità deriva dal fatto che il giudice a quo ha richiesto a questa Corte plurimi interventi creativi, caratterizzati da un grado di manipolatività tanto elevato da investire, non singole disposizioni o il congiunto operare di alcune di esse, ma un intero sistema di norme, come quello che disciplina le attribuzioni dei giudici tributari e del personale delle segreterie, nonché, in generale, il sistema organizzativo delle risorse umane e materiali della giustizia tributaria ovvero il sistema che regola il trattamento retributivo dei giudici;
che interventi di questo tipo – manipolativi di sistema – sono in linea di principio estranei alla giustizia costituzionale, poiché eccedono i poteri di intervento della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore (ex plurimis, sentenze n. 248 del 2014 (21) e n. 252 (22) del 2012; ordinanze n. 269 del 2015, n. 156 del 2013, n. 182 del 2009 (23), n. 35 del 2001 (24) e n. 117 del 1989 (25));
che, sotto un diverso profilo, le censure investono in modo indifferenziato, sia le disposizioni che prevedono la composizione degli organi giurisdizionali del contenzioso tributario, la vigilanza sui giudici e le relative sanzioni disciplinari, sia tutte le disposizioni che regolano gli uffici di segreteria delle commissioni tributarie, nonché l’autonomia contabile del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, senza specificare i termini nei quali ciascuna di esse violerebbe singolarmente i parametri invocati;
che l’eterogeneità delle disposizioni contestate non è superata – e anzi è accentuata – dal fatto che le questioni sono genericamente poste “anche in correlazione” o “in rapporto” con altre norme di variegato contenuto, talune di natura regolamentare, o con interi testi legislativi, in difetto di qualsiasi argomento che consenta di collegare le singole norme evocate ai predetti parametri;
che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’eterogeneità degli oggetti delle norme censurate e la carenza di una reciproca e intima connessione tra essi non consente di introdurre validamente un giudizio di legittimità costituzionale e determina l’inammissibilità della questione (ex plurimis, sentenze n. 39 del 2014 (26), n. 249 del 2009 (27) e n. 263 del 1994 (28); ordinanza n. 81 del 2001 (29));
che, pertanto, le questioni devono essere dichiarate manifestamente inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE – dichiara inammissibile l’intervento dell’Associazione Magistrati Tributari; dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 13, 15, 29-bis, 31, 32, 33, 34 e 35 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413); dell’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1972, n. 748 (Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo); dell’art. 72, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche); del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, recante «Individuazione delle competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari nonché decentramento su base regionale di talune competenze del Ministero della giustizia, a norma degli articoli 1, comma 1, lettera a), e 2, comma 1, lettere s) e t) e 12, della legge 25 luglio 2005, n. 150»; degli artt. 2, comma 10-ter, e 23-quinquies, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135; dell’art. 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007); dell’art. 15, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 30 gennaio 2008, n. 43 (Regolamento di riorganizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze, a norma dell’articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296); dell’art. 6 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413); dell’art. 51 del codice di procedura civile; dell’art. 15, commi 1 e 3, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 febbraio 2013, n. 67 (Regolamento di organizzazione del Ministero dell’economia e delle finanze, a norma degli articoli 2, comma 10-ter, e 23-quinquies, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), sollevate, con riferimento agli artt. 101, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

(1) Corte Cost. 13 luglio 2016, n. 173, in Boll. Trib. On-line.
(2) Corte Cost. 19 novembre 2015, n. 236, in Boll. Trib. On-line.
(3) Corte Cost. 30 aprile 2015, n. 70, in Boll. Trib. On-line.
(4) Corte Cost. 11 ottobre 2012, n. 223, in Boll. Trib. On-line.
(5) Corte Cost. 7 aprile 2016, n. 76, in Boll. Trib. On-line.
(6) Corte Cost. 23 luglio 2015, n. 178, in Boll. Trib. On-line.
(7) Corte Cost. 17 marzo 2015, n. 37, in Boll. Trib. On-line.
(8) Corte Cost. 10 giugno 2014, n. 162, in Boll. Trib. On-line.
(9) Corte Cost. 21 maggio 2014, n. 140, in Boll. Trib. On-line.
(10) Corte Cost. 21 giugno 2013, n. 156, in Boll. Trib. On-line.
(11) Corte Cost. 7 giugno 2012, n. 150, in Boll. Trib. On-line.
(12) Corte Cost. 18 luglio 2014, nn. 218 e 220, in Boll. Trib. On-line.
(13) Corte Cost. 21 settembre 2012, n. 220, in Boll. Trib. On-line.
(14) Corte Cost. 10 giugno 2011, n. 186, in Boll. Trib. On-line.
(15) Corte Cost. 7 aprile 2011, n. 117, in Boll. Trib. On-line.
(16) Corte Cost. 17 dicembre 2015, n. 269, in Boll. Trib. On-line.
(17) Corte Cost. 26 novembre 2014, n. 266, in Boll. Trib. On-line.
(18) Corte Cost. 16 dicembre 2011, n. 335, in Boll. Trib. On-line.
(19) Corte Cost. 30 settembre 2011, n. 260, in Boll. Trib. On-line.
(20) Corte Cost. 20 gennaio 2011, n. 21, in Boll. Trib. On-line.
(21) Corte Cost. 31 ottobre 2014, n. 248, in Boll. Trib. On-line.
(22) Corte Cost. 15 novembre 2012, n. 252, in Boll. Trib. On-line.
(23) Corte Cost. 19 giugno 2009, n. 182, in Boll. Trib. On-line.
(24) Corte Cost. 9 febbraio 2001, n. 35, in Boll. Trib. On-line.
(25) Corte Cost. 16 marzo 1989, n. 117, in Boll. Trib. On-line.
(26) Corte Cost. 6 marzo 2014, n. 39, in Boll. Trib. On-line.
(27) Corte Cost. 24 luglio 2009, n. 249, in Boll. Trib. On-line.
(28) Corte Cost. 24 giugno 1994, n. 263, in Boll. Trib., 1994, 1131.
(29) Corte Cost. 23 marzo 2001, n. 81, in Boll. Trib. On-line.

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