12 Ottobre, 2012

SOMMARIO: 1. Introduzione al tema – 2. La normativa di riferimento – 3. La posizione della giurisprudenza costituzionale – 4. La gerarchia delle invalidità – 5.Alcuni importanti precedenti

      1.

Introduzione al tema
 

La Suprema Corte non ha messo tempo in mezzo per ribadire che, tanto in primo quanto in secondo grado di giudizio, la notifica alla controparte del ricorso introduttivo, effettuata tramite consegna diretta o inoltro a mezzo servizio postale di una semplice fotocopia e non dell’originale del documento, e seguita dal deposito dell’originale presso la segreteria del giudice adito, non determina l’inammissibilità del gravame [1]. Lo ha fatto collocandosi coscientemente nel solco di un «consolidato orientamento che, ai fini dell’applicazione della sanzione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, di cui agli artt. 18 e 53 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ritiene che l’omessa sottoscrizione dell’atto deve essere intesa in senso restrittivo, ossia come mancanza radicale del requisito imposto dalla legge, la quale non ricorre allorché la copia dell’atto, notificata all’ufficio finanziario, sia una fotocopia dell’originale regolarmente sottoscritto e depositato nella segreteria della commissione tributaria, ben potendo, in tal caso, l’amministrazione finanziaria riscontrare l’esistenza della firma della parte o del suo difensore tramite consultazione di detto originale, cui la fotocopia notificatale implicitamente rinvia» [2].

Scelta senz’altro condivisibile, come apprezzabile è la visione che ad essa ha presieduto. Un taglio mentale che spazia ben al di là della specifica fattispecie trattata e che, per ciò stesso, consente di allargare lo scenario investigato.

 

2.La normativa di riferimento

 

La corretta procedura di introduzione della lite tributaria è enunciata con chiarezza nel relativo codice: dapprima il ricorso deve essere notificato all’ente che ha emesso il provvedimento impugnato (art. 20, primo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) mediante una delle tre prassi alternative indicate dal precedente art. 16 (a mezzo ufficiale giudiziario; consegna personale; trasmissione con raccomandata munita di avviso di ricevimento); quindi, nei trenta giorni successivi all’effettivo compimento dell’incombenza accennata, il contribuente deve «a pena di inammissibilità depositare[re] nella segreteria della commissione tributaria adita, o trasmette[re] a mezzo posta, in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento, l’originale del ricorso notificato a norma degli artt. 137 segg. c.p.c. ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale» (art. 22, comma 1).

Insomma, l’atto introduttivo va, prima di tutto, notificato alla controparte pubblica: se ciò avviene a ministero dell’ufficiale giudiziario, nelle mani del personale della pubblica Amministrazione destinataria resta una copia conforme dell’atto, tale attestata dallo stesso pubblico ufficiale, mentre l’originale è trattenuto da quest’ultimo per essere da lì a breve restituito al mittente, il quale provvederà a depositarlo nel termine decadenziale; l’esatto contrario è sancito qualora la notifica avvenga con una delle altre due modalità ammesse, perché allora l’Ufficio riceve, vuoi a mezzo servizio postale vuoi per consegna diretta, il documento in originale.

Analoga, mutatis mutandis, la situazione nel grado di appello (dove peraltro le posizioni dei litiganti potrebbero risultare di fatto rovesciate, tutto dipende dall’esito maturato in prima battuta) stante il richiamo alle disposizioni appena evocate espressamente operato dall’art. 53, secondo comma, del D.Lgs. n. 546/1992.

Quali le conseguenze giuridiche nel caso in cui la procedura appena descritta non venga osservata?

Nulla quaestio se la notifica sia officiata dall’ufficiale giudiziario: qui l’errore è assai più improbabile e comunque ogni anomalia è coperta – e sanata – dalla dichiarazione di avvenuta comunicazione da parte dell’ufficiale rogante, munita di pubblica fede.

I dubbi si restringono alle altre due ipotesi di notificazione, laddove cioè, sbagliando, il contribuente consegni alla controparte pubblica, o le inoltri per posta, una semplice copia del suo gravame e depositi poi, nei successivi trenta giorni, l’originale presso la segreteria della commissione adita.

È, in tal caso, violato il disposto normativo, statuito, come detto, “a pena di inammissibilità”: una sanzione – lo precisa il secondo comma dell’art. 22 – «rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce a norma dell’articolo seguente». Da un simile errore non sembrerebbe poter discendere altro che l’irreversibile irricevibilità del gravame, pronunciata d’ufficio dal giudice (pur a fronte – come appena visto – della rituale costituzione in giudizio della controparte).

Conclusione – pesantissima – smentita, peraltro, dalla giurisprudenza in nome di una lettura costituzionalmente orientata e di una profonda riflessione sulla portata degli istituti processuali coinvolti.

 

3. La posizione della giurisprudenza costituzionale

 

L’atteggiamento benevolo verso le ragioni della parte incorsa in errore discende prima di tutto dalla visione suggerita dal giudice delle leggi, che non si stanca di ricordare come la funzione del servizio giustizia sia quello di stabilire (o, se del caso, ristabilire) tra i contendenti uno stato di piena correttezza, proponimento che mai come nel nostro settore obbedisce all’intento del suum cuique tribuere. Condizione appunto compromessa dalla sottomissione ad oltranza e preconcetta del momento sostanziale-contenutistico a quello formalistico-processuale. Deve insomma prevalere «il richiamo all’esigenza di non contrastare la realizzazione della giustizia senza ragioni di seria importanza, ed ai criteri di equa razionalità nella valutazione di profili di forma, quando questi non implichino vera e propria violazione delle prescrizioni tassativamente specificate nella legge processuale» [3].

Nella circostanza il giudice ha escluso che ci sia stata una “vera e propria violazione” del precetto. Una simile locuzione rimanda inequivocabilmente, postulandone la necessità, ad una valutazione sostanziale e sistematica, al di là della stretta infrazione (da ritenersi dunque, a quel punto, solo apparente) del dettato normativo. Si tratta di una linea costantemente seguita dalla Corte Costituzionale, andata per di più accentuandosi negli ultimi tempi. Inaugurata con il ripudio delle formule «che frappongono ostacoli non giustificati da un preminente interesse pubblico ad uno svolgimento del processo civile adeguato alla funzione ad esso assegnata, nell’interesse generale, a protezione e attuazione dei diritti dei cittadini» [4], essa ha coerentemente espulso dall’ordinamento, in quanto vessatori, «oneri o modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento di attività processuale» [5]; ma, muovendo dall’assunto che «il principio di eguaglianza non preclude al legislatore di differenziare la tutela giurisdizionale con riguardo alle particolarità dei rapporti da regolare, e ciò con espresso riferimento al rapporto che si stabilisce tra lo Stato creditore e il contribuente» [6], ha anche coerentemente ricordato che «il precetto costituzionale non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti» [7] e «non vieta quindi che la legge possa subordinare l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni» [8].

 

4. La gerarchia delle invalidità

 

Nel rito civile il tormentato nodo della collocazione – all’interno del complesso panorama dei vizi procedurali – della figura dell’inammissibilità risulta definitivamente sbrogliato ormai da tempo, da quando, ai massimi livelli dell’interpretazione del diritto vivente, le tre nozioni riconducibili al genus dell’invalidità – ovverosia l’irregolarità, la nullità e l’inesistenza – sono state inquadrate nella loro esatta dimensione. La pulizia concettuale realizzata in quella branca procedurale non può che riflettersi positivamente su quella di nostro più spiccato interesse.

Procedendo da forme di gravità minima verso altre di entità progressivamente maggiore, la prima nozione è costituita dall’irregolarità, quella che, nelle sue diverse sfaccettature, integra una «minima difformità rispetto al modello edittale che non pregiudica la validità dell’atto» [9] perché non incide sui requisiti indispensabili al raggiungimento dello scopo tenuto in primaria considerazione dall’art. 156, secondo e terzo comma, c.p.c. [10]. Su uno scalino appena più alto troviamo la nullità, la quale, pur abbracciando infrazioni di più significativo spessore, finisce coperta dal giudicato perché, ai sensi dell’art. 161, primo comma, c.p.c., ogni profilo viziato deve essere dedotto dalla parte interessata come motivo di gravame pena appunto la maturazione del giudicato interno. Alla sommità dell’ideale scaletta si incontra l’inesistenza, caratterizzata dal fatto che gli atti processuali interessati «mancano totalmente dei requisiti essenziali per la qualificazione come atti del tipo o della figura giuridica considerati, ovvero sono inidonei non solo a produrre gli effetti processuali propri degli atti riconducibili a detto tipo o figura, ma persino ad essere presi in considerazione sotto il profilo giuridico» [11], cosicché la sentenza emessa sulla loro scorta non passa in giudicato appunto perché inesistente per il mondo del diritto.

Dati siffatti presupposti, il difetto qui preso in esame non materializza una semplice irregolarità, ma neppure – al polo opposto – un’ipotesi di inesistenza, dato che «l’atto non manca totalmente degli estremi e dei requisiti essenziali per la sua qualificazione come atto del tipo o della figura giuridica considerati»; si deve perciò concludere che «malgrado nella prassi si contrapponga la nullità all’inammissibilità, quasi a indicare diversi vizi dell’atto processuale difforme rispetto al modello che lo prevede, in realtà tali vizi rientrano tutti nel concetto di nullità e la diversità discende esclusivamente dalle conseguenze che dagli stessi l’ordinamento fa derivare» [12].

Assunto da cui, esaminando le implicazioni dell’art. 22 del D.Lgs. n. 546/1992 qui in discussione, la Suprema Corteha avuto modo di trarre il corollario della erroneità dell’equazione inesistenza = inammissibilità, osservando che «con la notifica dell’atto introduttivo il rapporto processuale fra le parti è costituito, come si evince dagli artt. 39, terzo comma, e 166, primo comma, c.p.c., in forza dei quali la notifica della citazione determina la pendenza del processo sia in senso formale (cronologico) che in senso sostanziale (individuazione della domanda) [di talché] il deposito degli atti perfeziona il rapporto nei confronti dell’organo giudicante, il quale, in mancanza di tale adempimento, non può affermare che l’azione non sia stata esercitata [dovendosi in buona sostanza concludere che] la notifica del ricorso o dell’appello produce una serie di effetti che impediscono di ipotizzare la categoria della nullità o, peggio, dell’inesistenza giuridica» [13].

 

5. Alcuni importanti precedenti

 

Già in passato la Sezione tributariadella Corte di Cassazione ha affrontato simili casi di erroneo rovesciamento dell’iter procedurale contemplato dalla novella del processo tributario.

Lo ha fatto, ad esempio, sancendo la salvezza della costituzione in giudizio del ricorrente (nella specie, in grado di appello) realizzata attraverso il deposito, nella segreteria del giudice, di una copia fotostatica integrale (e non dell’originale, dell’esemplare cioè restituito dall’ufficiale notificatore con la relazione di cui all’art. 148 c.p.c.) dell’atto introduttivo notificato alla controparte a norma degli artt. 137 e segg. c.p.c., ove non contestata nella conformità all’originale. Ebbe allora a riconoscere – nel solco dei principi illustrati sopra al paragrafo 3 – «la necessità di dare alle norme processuali in genere, e a quelle sul processo tributario in particolare, una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia istituzionalmente propria del processo e però consenta, per quanto possibile, di limitare al massimo l’operatività di irragionevoli sanzioni di inammissibilità in danno delle parti che di quella garanzia dovrebbero giovarsi» [14].

Soprattutto lo ha fatto con una articolata e perspicua decisione ove la “palese irregolarità” riscontrata (identica, nelle sue componenti fattuali, a quella descritta in esordio di scritto) è stata ciò nonostante ritenuta «inidonea a integrare quella causa di nullità insanabile del ricorso, nella quale consiste l’inammissibilità invocata dall’Amministrazione resistente, peraltro sulla base testuale stabilita dagli artt. 18 e 22 D.Lgs. n. 546/1992» [15]. Nella circostanza i supremi giudici hanno infatti insegnato che è vero, di “inammissibilità” parlano entrambe le norme citate, e indubbiamente tale sanzione «è di quelle forti, cioè caratterizzate dalla insanabilità del vizio»; però, proprio in ragione di siffatto rigore afflittivo, la loro lettura deve essere improntata a un canone restrittivo «e cioè riservando loro un limitato campo di operatività, comprensivo cioè di quei soli casi nei quali il rigore estremo (extrema ratio) è davvero giustificato», in linea così con i parametri introdotti nel pensiero e nella prassi giuridici dal giudice delle leggi. Tanto più quando gli operatori, in primis il giudice, sono in grado di «accertare la sostanziale regolarità dell’atto e l’osservanza delle regole processuali fondamentali» attraverso una conoscenza integrata e per relationem, posto che «ove sorgano contestazioni il giudice tributario ordina l’esibizione degli originali degli atti e dei documenti di cui ai precedenti commi» [16].

Opzione da sposare toto corde perché, se la funzione giurisdizionale è un servizio, concepita e strutturata com’è in direzione della verità e della attribuzione di ogni giusta spettanza a coloro che l’hanno stimolata, allora essa non può venire bloccata da paletti estrinseci a tale scopo istituzionale, dovendosi riconoscere ai titolari di tale funzione il dovere di pronunciarsi solo dopo avere profuso ogni tentativo per una piena conoscenza dei fatti.

Avv. Valdo Azzoni

 

 

 


[1] Cfr. Cass., sez. trib., 22 febbraio 2011, ord. n.4315, in Boll. Trib., 2011, 1710, con nota redazionale favorevole.

[2] Tra i precedenti richiamati cfr. Cass., sez. trib., 31 ottobre 2005, n.21170, in Boll. Trib., 2007, 285; e Cass., sez. trib., 1° marzo 2005, n.4307, in Boll. Trib. On-line.

[3] Corte Cost. 6 dicembre 2002, n.520, in Boll. Trib., 2003, 146, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 22, primo e secondo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui non consentivano l’utilizzo del servizio postale per il deposito degli atti ai fini della costituzione in giudizio.

 

[4] Corte Cost. 3 luglio 1963, n.113, in Boll. Trib. On-line. Valide invece, secondo la decisione appena menzionata, «le misure dirette a garantire lo svolgimento del processo [che] non possono considerarsi in contrasto né con la norma dell’art. 3 della Costituzione, né con quella dell’art. 24, anche se impongano qualche onere a carico di chi domandi un provvedimento giurisdizionale che potrebbe compromettere l’esito finale del processo [essendo] principio fondamentale della retta amministrazione della giustizia che chi promuove un processo (o una fase di questo) o, più ancora, intende provocare un provvedimento atto a modificare la situazione degli interessi coinvolti nel giudizio, debba affrontare una responsabilità, che si chiama appunto responsabilità processuale. Sarebbe in contrasto con la funzione del processo una struttura di questo che fosse regolata in modo da consentire l’eventuale abuso delle misure giudiziarie ai fini dell’utile di una sola parte, mossa da intenti defatigatori o addirittura ricattatori, e pertanto non meritevole di tutela giuridica». Il Lettore noterà come si alluda all’“abuso” degli strumenti processuali, in significativo pendant rispetto all’istituto dell’“abuso del diritto [sostanziale]”, oggetto oggi di tanti contrasti per via della sua conclamata indeterminatezza.

[5] Corte cost. 16 giugno 1964, n.47, in Boll. Trib. On-line.

[6] Corte cost. 7 luglio 1962, n.87, in Boll. Trib., 1962, 1215.

[7] Corte cost. 20 aprile 1977, n.63, in Boll. Trib., 1977, 858.

[8] Corte cost. 9 luglio 1974, n.214, in Boll. Trib., 1974, 1862, la quale ammonisce «non essere certo consentito porre in dubbio, con riguardo alle diverse condizioni economiche dei contribuenti, la validità della presunzione generale di conoscenza della legge».

[9] Cass., sez. I, 26 agosto 1997, n.8000, in Mass. Giust. civ., 1997, 1513.

[10] Cfr. Cass., sez. un., 6 maggio 1996, n.4191, in Mass. Giust. civ., 1996, 673.

[11] Cass., sez. un. civili, 10 ottobre 1997, n.9859, in Giust. civ., 1997, I, 3005. La «mancanza di uno degli elementi considerati essenziali dal legislatore» è fenomeno decisivo, affinché alla inammissibilità si possa dare spazio, secondo Corte Cost. 13 giugno 2000, n.189, in Boll. Trib., 2000, 1191, con nota critica di v. azzoni, Ricorso sottoscritto dal contribuente e non dal difensore per liti di valore superiore ai cinque milioni di lire – È sanabile il vizio?, che ha trattato il tema del ricorso privo di assistenza tecnica qualificata laddove doverosa ai sensi dell’art. 12, quinto comma, del D.Lgs. n. 546/1992.

[12] Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n.16, in Giust. civ., 2000, I, 673.

[13] Cass., sez. trib., 2 luglio 2004, n.12154, in Boll. Trib., 2004, 1488, con nota redazionale favorevole. Vi è giudicata una vicenda giunta al grado di appello e vi si legge: «dalla mera notifica dell’appello inizia a decorrere il termine di sessanta giorni entro il quale l’appellato deve costituirsi in giudizio depositando apposito atto di controdeduzioni e, ciò che più conta, inizia il termine perentorio, previsto a pena di inammissibilità, per proporre appello incidentale ex art. 54, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992». Ergo nessuna coincidenza, quanto ad effetti, tra le tre figure dell’inammissibilità, dell’inesistenza e della nullità.

[14] Cass., sez. trib., 8 settembre 2004, n.18088, in Boll. Trib. On-line. La decisione ha risolto il caso del deposito «in sede di costituzione in appello, di copia del ricorso notificato alla resistente, con il ministero dell’ufficiale giudiziario, ai sensi degli artt. 137 segg. c.p.c., priva della relata di notifica, nonché fotocopia della copia notificata alla resistente, ivi compresa relata di notifica pure in fotocopia». Identico trattamento ha ricevuto il caso del ricorso notificato direttamente alla pubblica Amministrazione controparte in fotocopia, ove peraltro era «chiaramente leggibile la firma del difensore», e quindi depositato in segreteria in originale «regolarmente sottoscritto dal difensore stesso». Richiamando due datati precedenti (Cass., sez. II, 3 luglio 1998, n.6480, in Mass. Giust. civ., 1998, 1451; e Cass., sez. III, 7 dicembre 1994, n. 10491, ivi, 1994, fasc. 12),la Sezione tributaria ha ritenuto «non trattarsi nella fattispecie di un atto del tutto privo di sottoscrizione per il quale opera la sanzione della inammissibilità ex art. 18, terzo e quarto comma, D.Lgs. n. 546/1992» (Cass., sez. trib., 15 marzo 2004, n.5257, in Boll. Trib. On-line).

[15] Cass., sez. trib., 31 ottobre 2005, n.21170, in Boll. Trib., 2007, 285, con nota di e. dalla valle, L’inammissibilità del ricorso tra principi tributari e costituzionali.

[16] Miope dunque si rivela – lo si sottolinea qui per inciso – Cass., sez. trib., 21 marzo 2001, n.4051, in Boll. Trib. On-line, nell’argomentare che, nell’ipotesi di notificazione diretta (formalità in cui l’originale rimane al destinatario), la copia depositata in segreteria dal ricorrente al momento della costituzione in giudizio con dichiarazione di conformità all’originale «è l’unico documento sul quale il giudice può effettuare il doveroso controllo sull’esistenza e validità dell’atto di impulso processuale, a differenza di quanto si verifica in caso di notificazione per ufficiale giudiziario, con deposito in sede di costituzione dell’originale ovvero si verificava nel rito anteriore, in cui l’atto doveva essere spedito o consegnato alla segreteria della commissione». Di qui, nella specie, la (non persuasiva) dichiarazione di inammissibilità del gravame depositato in copia priva di sottoscrizione. L’affermazione non appare condivisibile perché, come esposto nel testo, il giudice ha invece ampia possibilità di ricavare un solido convincimento dalla lettura complessiva del fascicolo.