20 Gennaio, 2015

 

 

 

1. La Corte di Cassazione interviene nuovamente sul tema della tutela processuale del contribuente avverso il mancato esercizio del potere/dovere di autotutela (1) consolidando alcuni suoi precedenti ma esprimendo, anche, delle nuove prospettive.

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La Suprema Corte ribadisce la giurisdizione tributaria in materia, riconoscendo così che la controversia sul mancato esercizio dell’autotutela abbia natura tributaria.

La Corte di Cassazione, dopo aver esposto tale ormai nota premessa, si preoccupa di ricordare che il sindacato giurisdizionale non può, però, costituire un bis in idem tale da trasformare i termini di impugnazione da perentori in ordinatori; di conseguenza, il giudice adito si dovrebbe limitare a verificare la legittimità del rifiuto «nelle forme ammesse sugli atti discrezionali» senza valutare il merito.

Sotto il profilo, invece, dell’ammissibilità del ricorso e del suo oggetto, la sentenza esprime delle novità.

Si deve menzionare, innanzitutto, l’avvenuto riconoscimento dell’ammissibilità di un ricorso avverso (non solo il diniego espresso di autotutela ma anche) il silenzio formatosi sull’istanza di autotutela: sul punto, infatti, i giudici non si pongono affatto la questione della sussistenza o meno di un “atto” impugnabile, dando così quasi per scontata l’impugnabilità del mero silenzio.

I giudici di legittimità, quindi, sulla scia di un orientamento recente, condizionano l’ammissibilità ad un dato contenutistico dell’istanza e, cioè, che esista «un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto».

2. Affrontando i profili di novità, si deve ricordare che l’impugnabilità del mero silenzio a fronte di una richiesta di annullamento d’ufficio in passato è stata esclusa, assumendosi come eccezionali i casi in cui il contribuente possa agire a seguito di una situazione di inerzia dell’Ufficio pubblico.

A fronte dell’eccezione sollevata dall’Agenzia delle entrate ricorrente che deduceva l’esclusività dell’azione di rimborso nel panorama delle azioni avverso il silenzio, la Corte di Cassazione risolve la questione con la più generale affermazione della natura tributaria della controversia relativa «agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria» senza, però, considerare che la controversia si era incardinata non su di un diniego espresso di autotutela ma sul silenzio dell’Ufficio a fronte dell’istanza.

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L’obiter dictum, se consapevole, è di una certa importanza in quanto si andrebbe a riconoscere l’azionabilità diretta di un interesse privato e/o anche pubblico (quello all’annullamento dell’atto in autotutela) rispetto al quale l’Ufficio finanziario non si è pronunziato coinvolgendo, quindi, per logica, il giudice nell’accertamento dello stesso.

Si potrebbe, infatti, ipotizzare che la Suprema Corte abbia inteso escludere che il procedimento amministrativo di annullamento di un atto impositivo definitivo debba concludersi con un provvedimento espresso.

Egualmente sembra che il Collegio abbia voluto affermare che, scaduto il termine di conclusione previsto dall’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (trenta giorni), il contribuente possa agire in via giurisdizionale, non essendo previsto specificamente un altro e diverso termine; inoltre, è però vero che sul punto l’art. 13 della stessa legge n. 241/1990 esclude l’applicazione delle disposizioni del capo al procedimento tributario, dovendosi, pertanto, ritenere che l’applicazione del termine di trenta giorni non sarebbe conferente (2).

Ad ogni modo, si deve prendere atto che per la Corte di Cassazione il ricorso a fronte del silenzio sarebbe ammissibile, probabilmente per la natura non discrezionale della situazione nella quale si trova l’Ufficio destinatario dell’istanza il quale non potrebbe in alcun caso restare inerte (3).

Ma vi è di più.

Qualora, come sembra, non fosse facilmente configurabile un termine entro il quale l’Ufficio finanziario sia tenuto a rispondere motivatamente all’istanza di autotutela, si dovrebbe escludere qualsiasi natura provvedimentale al silenzio così mantenuto ma non l’interesse del contribuente all’annullamento dell’atto ultroneo a quello di ottenere un provvedimento e un provvedimento motivato (4).

In questi termini, allora, sin dalla presentazione dell’istanza il contribuente avrebbe una situazione giuridica tutelabile, non condizionata dalla fattiva o meno collaborazione dell’Ufficio cui l’istanza sia stata notificata e logico antecedente della riconducibilità del rifiuto tacito ad un atto impugnabile ex art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (5).

3. In ordine, invece, allo spazio di intervento del giudice adito di fronte all’alternativa tra una cognizione limitata alla legittimità del diniego o estesa anche al fondamento del rapporto, la Suprema Corte aderisce alla prima tesi in termini molto rapidi lasciando aperti alcuni dubbi nella parte in cui sembra ammettere una deroga alle conseguenze della definitività e della perentorietà dei termini di impugnazione in presenza di un interesse pubblico.

Al riguardo, se la definitività, come è noto, di per sé non costituisce un elemento ostativo ai sensi dell’art. 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656) – diversamente da quanto, invece, accade in presenza di un giudicato sostanziale – e se, sul fronte del contribuente, sono configurabili situazioni di doverosità dell’annullamento qualora, ad esempio, si tratti di garantire parità di trattamento in situazioni di coobbligazioni solidali sia paritetiche che dipendenti oppure la conformità al diritto comunitario, rispetto alla realtà della parte pubblica resta ancora da verificare cosa si intenda per «esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto» richiamata nella sentenza in commento.

Non pare indubbiamente revocabile che sia interesse (anche) pubblico quello relativo al rispetto della capacità contributiva (6) e della legalità dell’azione amministrativa, non potendosi configurare, nel caso di atti definitivi, quello a prevenire i costi di una futura lite.

Inoltre, non si può negare che appaia contraddittorio, nel contenuto motivazionale dell’annotata sentenza, il riconoscimento dell’impugnabilità del silenzio ma la negazione di un esame giudiziale del merito della controversia, riconoscendo solo un controllo della mera legittimità del rifiuto tacito (7).

Prof. Avv. Valerio Ficari

Università di Sassari

(1) Su cui, da ultimo, anche per citazioni cfr. Rossi, L’atto di accertamento, in AA.VV., Diritto tributario, a cura di Fantozzi, Torino, 2012, 760 ss.

(2) Sull’esclusione del capo dedicato alla partecipazione come non idonea ad escludere l’applicazione delle norme ivi contenute alla materia tributaria da ultimo ved., però, La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2012, spec. 274 ss.

(3) Sul dovere di risposta da ultimo La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione finanziaria, cit., 256 ss., anche per approfondimenti sulle forme di vincolo ad attività tradizionalmente ritenute discrezionali.

(4) Sul punto, oltre a quanto già affermato in Ficari, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano, 1999, passim, spec. 52 ss., ved., da ultimo, sempre La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione finanziaria, cit., 262 ss.

(5) Così Rossi, L’atto di accertamento, cit., 768, ma già in precedenza ID, Il riesame degli atti di accertamento, Milano, 2008, 305; sulla più generale tematica dell’impugnabilità di dinieghi non tipizzati sia consentito rinviare anche per citazioni a Ficari, Il processo tributario, in AA.VV., Diritto tributario, cit., 993.

(6) Sotto l’aspetto del dovere di annullamento per esigenze di “giusta imposizione” ved. La Scala, Il silenzio dell’Amministrazione finanziaria, cit., 280, il quale esclude qualsiasi problema derivante da un’asserita indisponibilità dell’obbligazione tributaria in quanto nel caso di un atto illegittimo l’obbligazione non sussisterebbe anche se l’atto fosse diventato definitivo (spec. 283).

(7) Lo rileva anche Rossi, L’atto di accertamento, cit., 769, e nota 234.

Procedimento – Commissioni – Giurisdizione delle Commissioni – Atti relativi all’esercizio del potere di autotutela – Rientrano nella giurisdizione del giudice tributario – Esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria – Non costituisce un mezzo di tutela del contribuente – Diniego o silenzio dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela del contribuente – Sindacabilità della legittimità del rifiuto o del silenzio – Sussiste – Sindacabilità della fondatezza della pretesa – Esclusione.

Procedimento – Ricorsi – Istanza di annullamento in via di autotutela di un atto divenuto definitivo – Indicazione dei relativi vizi invalidanti – Insufficienza – Indicazione dell’interesse dell’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto – Necessità.

Per quanto l’art. 12, secondo comma, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, abbia attribuito al giudice tributario tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie, ivi comprese perciò anche quelle relative agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria, l’esercizio del potere di autotutela non costituisce un mezzo di tutela del contribuente sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti e nel giudizio instaurato contro il rifiuto espresso di esercizio dell’autotutela, o sul silenzio rifiuto formatosi su un’istanza volta a sollecitarlo, il giudice tributario può esercitare un sindacato, nelle forme ammesse sugli atti discrezionali, soltanto sulla legittimità del rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria, poiché diversamente opinando o si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa, o si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo.

Il contribuente che richieda all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non può limitarsi ad indicare gli eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione stessa alla rimozione dell’atto.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Merone, rel. Sambito), 24 maggio 2013, sent. n. 12930, ric. Agenzia del territorio c. Polaris Società Cooperativa a r.l.]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – La CTR del Lazio, con sentenza n. 564/39/07 depositata il 22 ottobre 2007, confermando la sentenza di primo grado, ha accolto il ricorso con cui la Polaris Cooperativa Edilizia Srl aveva impugnato il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza volta ad ottenere il riesame, in autotutela, del classamento di immobili di sua proprietà. Dopo aver affermato la propria giurisdizione a conoscere dell’impugnazione di atti tributari meritevoli di tutela, la CTR: a) ha escluso la sussistenza della preclusione da giudicato, in riferimento a decisioni pregresse relative al classamento degli stessi immobili, osservando che rendita e classamento costituiscono valori che dipendono da fatti contingenti, variabili nel tempo; b) ha ritenuto corretto il classamento proposto dalla contribuente con l’istanza dalla stessa avanzata.

Per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso l’Agenzia del Territorio, affidato a tre motivi. La contribuente non ha depositato difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 18, comma 2, e 15, comma 3, D.Lgs. n. 546 del 1992, la ricorrente afferma che la sentenza è nulla per l’assenza di un atto impugnabile, evidenziando che, in materia tributaria, la valorizzazione dell’inerzia dell’Amministrazione finanziaria, ai fini della relativa impugnazione in sede giurisdizionale, deve intendersi limitata, in base all’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, al caso del silenzio rifiuto sull’istanza di restituzione di un tributo, sicché il ricorso avrebbe dovuto esser dichiarato improcedibile.

2. Col secondo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 L. n. 2248 del 1865, e si evidenzia che la cognizione del giudice adito avrebbe, comunque, dovuto limitarsi al diniego di autotutela, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, e non estendersi al rapporto tributario sottostante, di tal che la rettifica del classamento era, ad ogni modo, illegittima.

3. Le doglianze, che, per la loro connessione, vanno congiuntamente esaminate, vanno accolte in base alle seguenti considerazioni.

4. Le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 16778 del 2005 (1); n. 7388 del 2007 (2); n. 9669 del 2009 (3), dopo aver affermato che l’attribuzione al giudice tributario, da parte dell’art. 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001, di tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie comporta che devono ritenersi devolute alle Commissioni tributarie anche quelle relative agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria, hanno chiarito che l’esercizio del potere di autotutela “non costituisce un mezzo di tutela del contribuente” e che nel giudizio instaurato contro il rifiuto espresso di esercizio dell’autotutela (o sul silenzio rifiuto formatosi su un’istanza volta a sollecitarlo) “può esercitarsi un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria”.

5. Diversamente opinando, infatti, o si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa, o si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (da ultimo Cass. n. 15220 del 2012 (4); e cfr. Cass. SU n. 16097 del 2009 (5), nella quale si è anche ribadito, più in generale, che il concreto ed effettivo esercizio, da parte dell’Amministrazione, del potere di annullamento d’ufficio e/o di revoca dell’atto contestato non costituisce un mezzo di tutela del contribuente sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti).

6. È stato, ulteriormente, precisato, che il contribuente che richieda all’Amministrazione di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non può limitarsi ad indicare gli eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto (cfr. Cass. n. 11457 del 2010 (6), argomentando da Cass. SU n. 9669 del 2009 in motivazione).

7. L’impugnata sentenza, che non si è attenuta ai suddetti principi, avendo provveduto a valutare la fondatezza della pretesa avanzata dalla contribuente, va, in conseguenza cassata, restando assorbito il terzo motivo, con cui si deduce vizio di motivazione.

8. Non ravvisandosi la necessità di accertamenti in fatto – l’istanza del 6.8.2004, senza prospettare alcun interesse pubblico all’annullamento, era volta a sollecitare il riesame del classamento attribuito con un atto del 2002 già impugnato dalla contribuente e definito con sentenza a lei sfavorevole passata in giudicato il 23.6.2004 –, la causa può essere decisa nel merito, col rigetto del ricorso introduttivo.

9. Le spese del giudizio di merito vanno compensate tra le parti, mentre quelle del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M. – La Corte accoglie il ricorso, cassa e decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo. Compensa le spese del giudizio di merito e condanna l’intimata a pagare alla ricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 3.000,00, oltre a spese prenotate a debito.

(1) Cass. 10 agosto 2005, n. 16778, in Boll. Trib. On-line.

(2) Cass. 27 marzo 2007, n. 7388, in Boll. Trib., 2007, 1223.

(3) Cass. 23 aprile 2009, n. 9669, in Boll. Trib., 2009, 881.

(4) Cass. 12 settembre 2012, n. 15220, in Boll. Trib. On-line.

(5) Cass. 9 luglio 2009, n. 16097, in Boll. Trib. On-line.

(6) Cass. 12 maggio 2010, n. 11457, in Boll. Trib. On-line.