SOMMARIO: 1. PREMESSA – 2. LA CONTROVERSIA OGGETTO DELLA SENTENZA DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MILANO – 3. CONSIDERAZIONI CIRCA LA CORRETTEZZA DELLA SOLUZIONE RAGGIUNTA DALLA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MILANO ALLA LUCE DELLA PREVIGENTE FORMULAZIONE DELL’ART. 20 DEL TUR; 3.1 L’impossibilità per gli organismi di investimento collettivo del risparmio di detenere un’azienda; 3.2 Considerazioni in materia di IVA – 4. CONSIDERAZIONI CIRCA LA CORRETTEZZA DELLA SOLUZIONE RAGGIUNTA DALLA COMMISSIONE DI MILANO ALLA LUCE DELLA NUOVA FORMULAZIONE DELL’ART. 20 DEL TUR; 4.1 Insussistenza di un indebito vantaggio fiscale; 4.2 Sussistenza di sostanza economica.
1. PREMESSA
La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano n. 3667 del 24 maggio 2017 (1), in materia di imposta di registro, rappresenta un’interessante pronuncia riguardo al regime applicabile ai trasferimenti di asset nei confronti di fondi comuni di investimento immobiliare e, in particolare, per quanto riguarda l’applicazione della disposizione che regola i criteri di interpretazione degli atti, contenuta nell’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (di seguito TUR), nel testo vigente anteriormente alle modifiche di recente apportate allo stesso ad opera della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) (2).
La sentenza che, come si vedrà, ha visto i giudici della Commissione di merito di Milano accogliere il ricorso presentato dai contribuenti avverso un avviso di accertamento mediante cui, ai fini dell’imposta di registro, una serie di trasferimenti operati nei confronti di un organismo collettivo di investimento del risparmio è stata riqualificata in ottica unitaria come una cessione d’azienda (operazione da assoggettare a tassazione ai fini del registro in misura proporzionale sulla base del valore complessivo dei beni che compongono la stessa), costituisce l’occasione per formulare alcune considerazioni anche in merito alla nuova formulazione degli artt. 20 e 53-bis del TUR (3), con riferimento ai quali si rinvengono ulteriori argomenti a supporto della correttezza dell’operato dei contribuenti.
2. LA CONTROVERSIA OGGETTO DELLA SENTENZA DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MILANO
Stando alla descrizione dei fatti riportata nella sentenza, la controversia sembra potersi sintetizzare come segue. Una società (“A”), proprietaria di un consistente patrimonio immobiliare, costituito da un insieme di c.d. gallerie commerciali (4), intendeva trasferire, a favore di un fondo comune di investimento immobiliare speculativo di tipo chiuso riservato ad investitori qualificati (il “Fondo”), detti immobili unitamente alle licenze ed ai rapporti contrattuali relativi allo sfruttamento economico/commerciale dei negozi ivi compresi. L’operazione di trasferimento è stata realizzata attraverso:
1. l’esecuzione da parte di A di un conferimento a favore di una società di nuova costituzione (“Newco”), avente ad oggetto il ramo d’azienda concernente la gestione delle gallerie commerciali;
2. il trasferimento a favore della società di gestione del risparmio, agente in nome e per conto del Fondo acquirente:
a) delle quote rappresentative di detta Newco; nonché
b) degli immobili (i.e., le gallerie commerciali con i relativi negozi).
Gli atti di cui sopra risultano tutti assoggettabili all’imposta di registro in misura fissa. Infatti:
– quanto al conferimento d’azienda, l’operazione risulta come noto fuori campo IVA ex art. 2, terzo comma, lett. b), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, mentre sconta l’imposta di registro in misura fissa, pari ad euro 200, in base all’art. 4, lett. a), n. 3, della Tariffa, parte I, allegata al TUR;
– quanto alla cessione della partecipazione in una società per azioni, trattasi di operazione esente ai fini IVA ex art. 10, primo comma, n. 4, del D.P.R. n. 633/1972, che, ove il relativo atto risulti redatto mediante scrittura privata non autenticata, sconta l’imposta fissa di registro solo in caso d’uso ex art. 2 della Tariffa, parte II, allegata al TUR; infine
– quanto alla cessione di fabbricati strumentali, trattasi di operazione assoggettabile al corrispondente regime IVA di esenzione ovvero di imponibilità (secondo il regime ordinario ovvero in “reverse charge”), in base a quanto previsto dall’art. 10, primo comma, n. 8-ter, del D.P.R. n. 633/1972 (a seconda del fatto che gli immobili risultino o meno essere stati interessati, nel periodo quinquennale di riferimento, da interventi edilizi di tipologia rilevante in base alle fattispecie della normativa edilizia ivi richiamate) (5). In ogni caso, trattasi di atto che, a prescindere dal regime di esenzione ovvero di imponibilità applicato, sconta l’imposta di registro in misura fissa in base al principio di alternatività previsto dall’art. 40 del TUR.
Nel caso in parola, l’Ufficio del registro ha ritenuto applicabile l’art. 20 del TUR (nella sua originaria formulazione vigente all’epoca dei fatti di causa), al fine di riqualificare la combinazione negoziale sopra descritta come una cessione d’azienda comprensiva degli immobili eseguita da parte di A nei confronti della SGR, quest’ultima in veste, appunto, di gestore del Fondo (la sentenza non fornisce al riguardo ulteriori dettagli, ma si suppone che l’Ufficio abbia provveduto a liquidare l’imposta assumendo quale base imponibile, ai sensi dell’art. 51, quarto comma, del TUR, il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda).
Al fine di sostenere la propria ricostruzione avvalendosi del disposto di cui all’art. 20 del TUR, l’Ufficio ha seguito quell’orientamento, formatosi in relazione alla formulazione originaria di tale disposizione, in base al quale alla stessa non deve attribuirsi natura antielusiva, bensì di norma che consente di privilegiare “… il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che è formalmente enunciato, anche in maniera frazionata in uno o più atti”, “senza dovere provare l’intento elusivo”.
Nell’argomentare la propria contestazione, l’organo accertatore ha fra l’altro richiamato della documentazione concernente la valutazione dell’operazione operata da parte dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (“AGCM”), in particolare una comunicazione eseguita dalla SGR per descrivere i contenuti dell’operazione e il conseguente provvedimento autorizzativo dell’AGCM, documenti che, secondo l’Ufficio stesso, avrebbero confermato come l’operazione in parola sarebbe stata in quella sede qualificata – sia da parte della SGR, sia da parte dell’AGCM – in termini di cessione d’azienda eseguita direttamente nei confronti del Fondo.
La SGR ha presentato ricorso avverso l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dall’ufficio in base al disposto di cui all’art. 20 del TUR, lamentando la violazione e falsa applicazione di tale norma in considerazione, in particolare, dell’errata ricostruzione operata dall’Ufficio sul piano economico-sostanziale con riferimento, da un lato, all’inesistenza di un’azienda trasferita al Fondo ed all’intrinseca natura e gli effetti degli atti portati a registrazione, e, da un altro lato, in considerazione della mancata coincidenza tra il soggetto destinatario degli immobili e quello destinatario delle licenze (6).
Il giudice, seppur non motivando espressamente in merito a tutte le doglianze avanzate da parte del contribuente (7), ha accolto il ricorso ritenendo dirimenti, in particolare, le considerazioni ivi evidenziate circa il divieto espresso nella Direttiva 2011/61/UE e nel Provvedimento di Banca di Italia del 19 gennaio 2015 in merito al fatto che il Fondo venga a detenere un’azienda come definita dall’art. 2555 c.c., motivo che ha imposto di strutturare l’operazione prevedendo il conferimento nella Newco del ramo d’azienda contenente le licenze. In quest’ottica, i giudici di primo grado hanno censurato l’apodittico disconoscimento da parte dell’Ufficio delle considerazioni avanzate dal ricorrente in merito alla natura giuridica del fondo ed alle finalità istituzionali del medesimo, nel senso che le stesse non osterebbero alla riqualificazione dell’operazione in termini unitari quale cessione d’azienda. Sempre secondo i giudici della Commissione di merito milanese, sarebbe stato inoltre “… problematico convenire con la ricostruzione unitaria effettuata dall’Ufficio poiché nelle citate operazioni gli atti sono stati stipulati tra più soggetti nell’ambito di una consistente, nuova e diversa organizzazione”.
Sotto un altro profilo, i giudici hanno poi evidenziato la non decisività dei documenti relativi alla procedura presso l’AGCM, da un lato in quanto gli stessi risultano tesi al diverso fine di consentire la valutazione della correttezza della concentrazione dell’attività commerciale e garantire la libera concorrenza nel mercato (non già a definire la corretta tassazione dell’operazione), e da un altro lato in quanto – mentre la descrizione riportata nel provvedimento dell’Autorità Garante avrebbe rappresentato l’operazione in termini di acquisizione del controllo esclusivo del ramo d’azienda immobiliare – nella sezione concernente la valutazione della concentrazione sarebbe stato precisato che l’operazione riguardava il settore immobiliare e, più in particolare, il mercato dell’amministrazione e gestione di beni immobili ad uso commerciale per conto proprio o di terzi e non un’attività commerciale intesa in senso ampio.
3. CONSIDERAZIONI CIRCA LA CORRETTEZZA DELLA SOLUZIONE RAGGIUNTA DALLA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MILANO ALLA LUCE DELLA PREVIGENTE FORMULAZIONE DELL’ART. 20 DEL TUR
Le conclusioni a cui è giunta la Commissione tributaria provinciale di Milano circa l’impossibilità di configurare come cessione d’azienda eseguita nei confronti del Fondo il complesso delle operazioni sopra elencate, appaiono condivisibili già con riferimento al disposto di cui all’art. 20 del TUR, nel testo previgente rispetto alle modifiche operate ad opera della legge di bilancio 2018.
Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità pressoché totalitaria, pronunciandosi in merito alla previgente formulazione dell’art. 20 del TUR, ha sino ad oggi continuato a sostenere che la disposizione in parola – nonostante l’inequivocabile testuale riferimento ivi contenuto agli effetti giuridici degli atti e pur non avendo tale disposizione (quantomeno secondo l’orientamento prevalente) una natura antielusiva – in ogni caso consentirebbe di prendere in considerazione la combinazione negoziale costituita da una pluralità di atti collegati, posti in essere anche fra soggetti diversi, e di perseguire il (presunto) corretto assoggettamento al tributo alla luce degli effetti economici perseguiti mediante tali atti. In tal senso, una combinazione di atti collegati fra loro che, ove presi singolarmente, darebbero luogo all’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa (si pensi al classico caso della sequenza di atti rappresentata dal conferimento d’azienda seguito dalla cessione di partecipazione ottenuta nella conferitaria), potrebbe essere riqualificata in cessione d’azienda, assoggettabile ad imposta di registro in misura proporzionale (8).
Con riferimento ai precedenti giurisprudenziali di legittimità che, a quanto consta, si sono pronunciati in relazione all’art. 20 del TUR (nella sua formulazione originaria), occorre evidenziare come gli stessi non abbiano, quantomeno sino ad oggi, trattato casi analoghi rispetto a quelli oggetto della sentenza in commento, di operazioni eseguite nei confronti di fondi comuni di investimento oggetto di riqualifica in termini di cessioni unitarie di azienda. In questi casi, del resto, la possibilità di ricostruire quale cessione d’azienda la combinazione di atti eseguita – vale a dire, conferimento d’azienda a favore della Newco, seguito dalle cessioni al Fondo degli immobili e della partecipazione conseguita nella Newco – appare impedita alla luce della peculiare natura del presunto soggetto acquirente dell’azienda. Al riguardo, infatti, occorre considerare che, nei confronti di organismi di investimento collettivo del risparmio – quale era il Fondo oggetto della sentenza milanese – il trasferimento diretto di un ramo d’azienda (in alternativa all’eseguito trasferimento di beni immobili, da una parte, e di partecipazioni, dall’altra) non risulta consentito sulla scorta delle considerazioni di natura regolamentare di seguito rappresentate.
3.1 L’impossibilità per gli organismi di investimento collettivo del risparmio di detenere un’azienda
Come evidenziato nel Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, emanato da Banca d’Italia in data 19 gennaio 2015, allorché si delinea l’ambito di applicazione della riserva di attività prevista in materia di gestione collettiva del risparmio, si specifica tra l’altro che (cfr. I.2.3) “Indipendentemente dalla natura giuridica dell’OICR, il patrimonio dell’OICR non può essere utilizzato per perseguire una strategia di tipo imprenditoriale, sia essa commerciale o industriale ovvero una combinazione delle stesse”.
Tale limitazione appare conforme agli orientamenti sugli organismi di investimento collettivo pubblicati dall’European Securities and Markets Authority (“ESMA”) (9), in base ai quali una delle concorrenti caratteristiche che consentono di dimostrare che un organismo è un organismo di investimento collettivo, menzionato all’art. 4, par. 1, lett. a), della Direttiva 2011/61/UE dell’8 giugno 2011 (“Direttiva GEFIA”), è rappresentata dal fatto che l’organismo non abbia uno scopo commerciale o industriale generale.
Nel predetto documento ESMA/2013/611 viene al riguardo specificato che per “scopo commerciale o industriale generale” deve intendersi “il perseguimento di una strategia imprenditoriale caratterizzata da elementi quali lo svolgimento in modo prevalente di: i) un’attività commerciale, che comprenda l’acquisto, la vendita e/o lo scambio di beni e merci e/o la fornitura di servizi non finanziari, o ii) un’attività industriale, che comprenda la produzione di beni o la costruzione di proprietà, oppure iii) una combinazione delle due attività summenzionate”.
Ancora, la Banca d’Italia nel fornire chiarimenti circa la natura “commerciale” o “industriale” dell’attività svolta da un soggetto (che ne escluderebbe la qualificazione come OICR), ha precisato che «… per strategia imprenditoriale si intende una finalità “industriale” – ossia, di produzione professionale di beni e servizi – o “commerciale” – ossia di intermediazione in via professionale nella circolazione di beni e servizi …». Diversa è invece, sempre secondo Banca d’Italia, la finalità degli OICR, essendo essi gestiti con il fine di generare “… un rendimento finanziario per gli investitori derivante dall’attività di acquisto, detenzione, ottimizzazione, vendita degli asset, coerente con una politica di investimento determinata”.
Alla luce di quanto sopra osservato, non pare dunque possibile ipotizzare che un organismo di investimento collettivo del risparmio – quale era il fondo oggetto della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano – si configuri quale diretto titolare di un’azienda costituita, fra l’altro, dagli immobili e dalle licenze trasferite dallo stesso soggetto e, di conseguenza, che detto fondo possa così proseguire in maniera diretta l’attività di gestione delle gallerie commerciali già condotta dal dante causa.
In ambito tributario, d’altro canto, pare opportuno osservare come – seppure con riferimento al settore delle imposte dirette – gli organismi di investimento collettivo del risparmio residenti nel territorio dello Stato risultano, a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), annoverati tra gli enti non commerciali [cfr. art. 73, primo comma, lett. c), del TUIR] (10).
Del resto, anche la prassi di mercato ci risulta orientarsi nel senso di separare l’investimento immobiliare rappresentato dalle gallerie commerciali, mantenute direttamente in capo al patrimonio autonomo dei fondi, rispetto all’attività imprenditoriale connessa alla gestione delle licenze commerciali, che viene invece solitamente attribuita alle relative società veicolo.
Anche a prescindere dalle considerazioni sopra svolte in merito alla particolare natura del soggetto destinatario della presunta cessione di azienda (vale a dire, il Fondo), è importante evidenziare come, in generale, il separato trasferimento a un determinato soggetto acquirente:
1. degli immobili in ultimo concessi in godimento ai terzi esercenti, da una parte, e
2. delle quote della Newco che detiene, fra l’altro, le relative licenze, dall’altra,
non potrebbe essere trattata in ogni caso alla stregua di una cessione d’azienda, ai sensi dell’art. 2555 c.c., quest’ultima da intendersi quale “… complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.
Infatti, anche a prescindere dal fatto che, per le ragioni sopra evidenziate, il Fondo non può assumere la qualifica di imprenditore, occorre evidenziare come la duplice cessione degli immobili corrispondenti alle gallerie commerciali, e della partecipazione della Newco che detiene le relative licenze, altro non configurano se non una duplice cessione di beni.
3.2 Considerazioni in materia di IVA
Ciò posto, ove si intenda analizzare l’operazione sotto il profilo dei rilevanti principi applicabili in materia di IVA, ulteriori argomentazioni conducono ad escludere che, anche in questo ambito, combinazioni negoziali analoghe al tipo esaminato dalla sentenza di Milano – più in particolare, qualora si assuma che, invece che attraverso un conferimento, il trasferimento iniziale dell’azienda a favore della Newco sia avvenuto mediante una cessione a titolo oneroso – possano assimilarsi a una cessione d’azienda nei confronti del fondo, intesa ai sensi dell’art. 2, terzo comma, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972.
In quest’ottica si evidenzia che il concetto di “azienda” rilevante ai fini della citata disposizione trova il suo riferimento comunitario nella nozione di “universalità totale o parziale di beni” attualmente contenuto nell’art. 19 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (già art. 5, par. 8, della VI Direttiva). La Corte di Giustizia UE nella sentenza 30 maggio 2013, causa C-651/11 (11), ha infatti interpretato tale disposizione:
– sotto un primo profilo, affermando che la stessa si rende invocabile solamente nel caso in cui il soggetto che cede l’universalità totale o parziale di beni sia unico e non già allorché il trasferimento dell’universalità avvenga mediante il contestuale trasferimento di beni da parte di più soggetti in capo al medesimo cessionario;
– sotto un secondo profilo, evidenziando che ai fini dell’applicazione di tale disposizione occorre distinguere il caso della cessione degli elementi dell’attivo patrimoniale (che compongono l’universalità totale o parziale di beni/azienda) rispetto al caso della cessione della partecipazione di proprietà di un socio.
Sotto il primo profilo, più in particolare, la Corte di Giustizia nella sentenza citata, pronunciandosi in relazione al caso in cui tutti gli azionisti di una società cedevano simultaneamente la propria partecipazione in detta società ad uno stesso acquirente, con la conseguenza che quest’ultimo era divenuto proprietario del 100% delle azioni della società interessata, ha sottolineato che il predetto art. 5, par. 8, della VI Direttiva, «… utilizza il termine “cedente” al singolare, in tal modo sottintendendo che l’applicazione della suddetta disposizione non è prevista nel caso in cui più cedenti trasferiscano la loro partecipazione a un medesimo cessionario. Ne consegue che ciascuna operazione deve essere valutata in modo individuale ed indipendente» (cfr. §§ 46-47).
Ora, posto che il richiamato art. 19 della Direttiva IVA si riferisce al singolare non solamente con riferimento al caso del soggetto cedente, bensì anche a quello del soggetto cessionario dell’universalità totale o parziale di beni (ivi indicato infatti come “beneficiario”), l’interpretazione dell’art. 5, par. 8, della VI Direttiva, formulata dalla Corte di Giustizia UE – vincolante nei confronti dell’Amministrazione finanziaria e dei giudici italiani con riferimento all’interpretazione del disposto di cui al predetto art. 2, terzo comma, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972, che ne attua il recepimento nell’ordinamento interno in materia di IVA, e conseguentemente, anche ai fini dell’interpretazione della nozione di (ramo di) azienda rilevante ai fini dell’imposta di registro (dato il principio di alternatività previsto dall’art. 40 del TUR) – dovrebbe escludere, in maniera speculare, che una universalità totale o parziale di beni possa configurarsi anche in presenza di un trasferimento posto in essere da parte di un medesimo soggetto dante causa, nei confronti di due cessionari distinti (ciò che avviene nel caso della cessione degli immobili realizzato nei confronti del Fondo, accompagnato dal conferimento/cessione dell’azienda nei confronti della Newco).
Sotto il secondo profilo, vale a dire con riferimento alla distinzione tra detenzione delle azioni di una società e detenzione degli elementi dell’attivo patrimoniale, nella sentenza X BV della Corte di Giustizia è stato osservato che (cfr. §§ 38-39):
– “… il trasferimento di azioni di una società può, a prescindere dall’entità delle quote, essere assimilato al trasferimento di un’universalità totale o parziale di beni … soltanto se la partecipazione fa parte di un’unità indipendente che consente l’esercizio di un’attività economica autonoma e se detta attività è proseguita dall’acquirente. Ebbene, una mera cessione di azioni che non sia accompagnata dal trasferimento di elementi dell’attivo patrimoniale non consente al cessionario di proseguire un’attività economica indipendente in qualità di avente causa del cedente”; infatti
– “… gli azionisti non sono proprietari degli elementi dell’attivo patrimoniale della società di cui detengono le partecipazioni, ma sono proprietari della partecipazione e, a tal titolo, hanno diritto di percepire i dividendi, di ricevere informazioni e sono coinvolti nell’adozione di decisioni importanti per la gestione dell’impresa”.
Come emerge dalle considerazioni proposte dalla Corte di Giustizia, dunque, un conto è rivestire la qualità di soci, un altro conto è risultare titolari dell’azienda contenuta nella società partecipata.
Pertanto, alla luce di tutto quanto sopra osservato, per ciò che concerne il ramo d’azienda esercitato in relazione alle gallerie commerciali di proprietà del soggetto cedente (A):
– la cessione da parte di quest’ultimo a favore del Fondo della proprietà degli immobili stessi, da un lato; e
– la cessione/conferimento a favore della Newco delle licenze e degli altri asset relativi all’attività di concessione in godimento degli stessi immobili,
non pare davvero potersi configurare quale universalità totale o parziale di beni trasferita nei confronti del Fondo.
Inoltre, anche venendo a considerare, in aggiunta alla cessione al Fondo degli immobili, il trasferimento delle partecipazioni nella Newco che gestisce lo sfruttamento degli immobili stessi, neppure detta operazione pare potersi qualificare come cessione d’azienda nei confronti del Fondo, posto che l’unica azienda oggetto di circolazione è e resta, pur sempre, quella contenuta all’interno della Newco medesima.
Legittimo appare dunque trattare come operazioni assoggettabili al corrispondente regime IVA la cessione degli immobili, da una parte, e la cessione/conferimento delle partecipazioni nella Newco, dall’altra.
4. CONSIDERAZIONI CIRCA LA CORRETTEZZA DELLA SOLUZIONE RAGGIUNTA DALLA COMMISSIONE DI MILANO ALLA LUCE DELLA NUOVA FORMULAZIONE DELL’ART. 20 DEL TUR
A seguito delle modifiche apportate dalla legge di bilancio 2018 alla disciplina dell’imposta di registro, l’art. 20 del TUR, nella sua nuova formulazione vigente a decorrere dal 1° gennaio 2018, stabilisce che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
La modifica in parola, avendo specificato, da una parte, che l’attività di interpretazione degli atti da sottoporre a registrazione deve avvenire sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo e, dall’altra, senza valorizzare né gli elementi extratestuali, né gli altri eventuali atti collegati, pare aver recepito, in buona sostanza, le critiche avanzate dalla pressoché unanime dottrina nei confronti della giurisprudenza di legittimità pronunciatasi in relazione alla previgente formulazione della norma (12).
Come evidenziato nella Relazione illustrativa, la norma introdotta [i.e., l’art. 1, comma 87, lett. a), della legge di bilancio 2018] è volta infatti «… a definire la portata della previsione di cui all’art. 20 del TUR, al fine di stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all’atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici “collegati” con quello da registrare. Non rilevano, inoltre, per la corretta tassazione dell’atto, gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote)».
Nell’intervenire come sopra cennato al fine di meglio definire l’(effettiva) (13) portata del disposto di cui all’art. 20 del TUR, attraverso l’introduzione di princìpi la cui eventuale applicabilità retroattiva dovrà – a parte le primissime pronunce formulate dalla giurisprudenza e dall’Amministrazione finanziaria (14) – essere verificata nel tempo sulla base del consolidarsi di futuri orientamenti interpretativi, il legislatore è come noto parimenti intervenuto al fine di esplicitare, mediante l’intervento operato sul disposto di cui all’art. 53-bis del TUR, l’applicabilità anche nell’ambito dell’imposta di registro del principio del divieto dell’abuso di diritto (15).
Stando quanto meno a quei primi orientamenti, formatisi in capo alla giurisprudenza di legittimità e all’Amministrazione finanziaria, in base ai quali deve escludersi alla modifica recata dalla legge di bilancio 2018 il riconoscimento della natura di disposizione interpretativa, stante l’asserito carattere innovativo dei criteri di riqualificazione degli atti ivi disposti (16), per quanto riguarda gli accertamenti emanati a decorrere dal 1° gennaio 2018, gli stessi non dovrebbero potersi più fondare sui criteri di interpretazione formatisi alla luce dell’ampia lettura del previgente art. 20 del TUR fornita dalla Suprema Corte (criteri che, a ben vedere, per quanto detto ai precedenti paragrafi 3, 3.1 e 3.2, non avrebbero comunque potuto riverberare effetti negativi sul caso in parola), bensì devono essere effettuati esclusivamente in base ai princìpi e secondo le formalità procedurali previste dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.
Al riguardo pare opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 10-bis, primo comma, dello Statuto del contribuente, “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”. Inoltre, più in particolare, ai sensi del successivo secondo comma:
– costituiscono operazioni prive di sostanza economica “… i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”. In quest’ottica, rileva fra l’altro, quale indice di mancanza di sostanza economica, “la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”;
– si considerano “vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”.
Da ultimo, secondo quanto previsto dal terzo comma dell’art. 10-bis, non possono, in ogni caso, considerarsi abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, volte a rispondere a finalità anche funzionali dell’impresa ovvero dell’attività del contribuente.
Al riguardo, l’Amministrazione finanziaria ha più volte evidenziato che, qualora in relazione al regime tributario applicato dal contribuente si riscontri l’insussistenza di un vantaggio fiscale indebito, nell’accezione sopra riportata, l’esame della fattispecie ai sensi dell’art. 10-bis deve per ciò solo intendersi esaurita, con il riconoscimento dell’insussistenza di una fattispecie di abuso del diritto (17).
Tutto quanto sopra premesso in linea teorica, si evidenziano nel seguito le considerazioni in base alle quali, alla luce dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, si ritiene che una combinazione negoziale analoga a quella oggetto del caso trattato dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano non configuri una fattispecie abusiva del regime fiscale previsto per gli atti in parola, tanto ai fini dell’imposta di registro, tanto ai fini dell’IVA. Al riguardo preme innanzitutto evidenziare come dette operazioni non risultino suscettibili di essere assoggettate ad un regime tributario difforme da quello ad esse applicato, in considerazione del fatto che:
(i) il regime tributario che trova applicazione sui singoli atti è conforme ai principi del sistema fiscale di riferimento, non potendo pertanto in alcun modo ritenersi indebito; e inoltre
(ii) gli atti eseguiti risultano forniti di sostanza economica, essendo la struttura contrattuale posta in essere coerente con le norme civilistiche/regolamentari di riferimento, nonché con l’ordinaria prassi di mercato.
4.1 Insussistenza di un indebito vantaggio fiscale
Esaminando i singoli trasferimenti posti in essere nel caso oggetto della controversia in esame, alla luce dei criteri sicuramente applicabili (quantomeno) agli accertamenti posti in essere a decorrere dal 1° gennaio 2018, il regime applicato agli stessi risulta conforme ai principi tributari valevoli tanto in materia di imposta di registro, quanto in materia di IVA.
Per quanto riguarda l’imposta di registro, innanzitutto, alla luce del nuovo disposto dell’art. 20 del TUR, il tributo dovuto viene ad individuarsi, per chiara scelta del legislatore, in base ai singoli atti portati alla registrazione, senza più assumere alcun rilievo il contenuto di eventuali ulteriori atti collegati. Ne consegue che, nel caso esaminato dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, ai fini del registro si avrebbe avuto un conferimento d’azienda a favore della Newco, seguito da due ulteriori atti di trasferimento, eseguiti nei confronti del Fondo – vale a dire, il trasferimento degli immobili e quello delle quote di partecipazione della Newco – ciascuno soggetto al corrispondente regime previsto ai fini IVA e all’imposta di registro in misura fissa.
Sotto un diverso profilo, inoltre, il trattamento applicato dai contribuenti nel caso trattato dalla Commissione tributaria provinciale di Milano risulterebbe coerente, per quanto evidenziato al precedente paragrafo 3.2, anche con i principi IVA di riferimento, per come gli stessi sono stati codificati dalla Corte di Giustizia europea, che impediscono di considerare trasferimento di azienda (fuori dal campo di applicazione del tributo) il trasferimento di singoli beni avvenuti tra controparti differenti (diversi cedenti, ovvero anche diversi cessionari); nonché impedisce di considerare azienda il semplice trasferimento di quote societarie anche se totalitarie.
Infine, il risultato ottenuto risulta altresì coerente rispetto al principio comunitario della raccolta dei capitali (codificato nella Direttiva 2008/7/CE del Consiglio, del 12 febbraio 2008), secondo cui sia il conferimento d’azienda sia la cessione di quote di società non può essere assoggettata all’imposizione proporzionale di registro (18).
4.2 Sussistenza di sostanza economica
In aggiunta a quanto sopra evidenziato circa l’insussistenza di un indebito vantaggio fiscale, si ritiene che, in casi analoghi a quello trattato dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, gli strumenti negoziali posti in essere non paiono potersi neppure catalogare come privi di sostanza economica.
La costituzione infatti della Newco e l’attribuzione alla stessa del ramo d’azienda concernente la concessione in godimento delle gallerie commerciali (vuoi che ciò avvenga mediante conferimento, vuoi che avvenga mediante cessione a titolo oneroso), infatti, oltre che a rispondere alle “normali logiche di mercato” (il che contribuisce ad escludere la carenza di sostanza economica), rispondono anche alle esigenze di quegli organismi collettivi del risparmio che intendono realizzare una strategia di investimento in attivi (gallerie commerciali) analoga a quella che il Fondo intendeva perseguire. Detti fondi di investimento, infatti, in veste di proprietari degli immobili, non potrebbero diversamente occuparsi, in maniera diretta, e per i motivi regolamentari prima descritti al paragrafo 3.1, dell’attività di gestione e sfruttamento economico degli stessi.
Da tale ultima considerazione discende che tutte le operazioni poste in essere da parte della società cedente A sono giustificate da valide ragioni extra-fiscali; e ciò per il semplice motivo rappresentato dal fatto che l’operazione immobiliare sottostante il caso della Commissione tributaria provinciale di Milano analizzata non avrebbe potuto essere eseguita, se non, per i motivi regolamentari rappresentati, tramite la meccanica contrattuale concretamente impiegata dalle controparti oggetto dell’atto interessato dalla controversia in esame (anche in coerenza con la migliore prassi del mercato di riferimento).
Dott. Luca Rossi – Dott. Andrea Porro
(1) Cfr. Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXII, 24 maggio 2017, n. 3667, in Boll. Trib. On-line.
(2) Nella sua formulazione originaria, anteriormente alle modifiche allo stesso apportate dalla legge di bilancio 2018 (con decorrenza 1° gennaio 2018), l’art. 20 del TUR prevedeva che “L’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
(3) L’art. 1, comma 87, lett. a), della legge di bilancio 2018, è intervenuto sull’originario testo dell’art. 20 del TUR come segue: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”. In correlazione con tale intervento, l’art. 1, comma 87, lett. b), della legge di bilancio 2018, è intervenuto altresì sul disposto di cui all’art. 53-bis, primo comma, del TUR, in materia di attribuzioni e poteri degli uffici, premettendo al previgente testo di tale disposizione un inciso volto a far salvo in maniera esplicita il rinvio alla clausola antiabuso generale inserita all’interno della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). Come segue: “Fermo restando quanto previsto dall’art. 10 bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347”. Per un commento al contenuto delle modifiche apportate dalla legge di bilancio 2018 alla disciplina della riqualificazione degli atti nell’imposta di registro, si segnala, ex multis, la recente circ. Assonime 6 febbraio 2018, n. 3.
(4) La sentenza milanese non si sofferma nel descrivere puntualmente le caratteristiche di tali gallerie commerciali ma, sulla scorta di quanto solitamente accade nella prassi di mercato, si suppone che, anche nella controversia in esame, le stesse – presumibilmente inserite all’interno di più ampi centri commerciali, accanto ad aree destinate alle attività commerciali di supermercati o ipermercati – risultassero costituite da un insieme di spazi comuni e locali (negozi), questi ultimi messi a disposizione di terzi imprenditori (i c.d. “tenants”), mediante appositi contratti d’affitto di rami d’azienda, insieme alle licenze commerciali necessarie per l’esercizio all’interno degli stessi delle rispettive attività commerciali.
(5) Cfr. art. 3, primo comma, lett. c), d) e f), del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
(6) Ulteriori questioni di diritto, oggetto di altri motivi di impugnazione presenti nel ricorso, vertevano sull’illegittimità dell’atto impositivo per violazione dell’art. 20 del TUR, per avere l’Ufficio errato nel ritenere che tale disposizione facesse riferimento agli effetti economici degli atti piuttosto che a quelli giuridici; per mancato coordinamento con quanto disposto dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente e per violazione della Direttiva comunitaria in materia di raccolta di capitali (Direttiva n. 2008/7/CE).
(7) Cfr. anche la precedente nota 6.
(8) Per una puntuale critica all’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di attività di riqualificazione degli atti ai sensi dell’art. 20 del TUR si vedano, ex multis, le circ. Assonime n. 21/2016 e n. 20/2017.
(9) Cfr. documento ESMA/2013/611 del 13 agosto 2013.
(10) Cfr. art. 96, primo comma, lett. a), del D.L. n. 1/2012.
(11) Cfr. Corte Giust. UE, sez. IX, 30 maggio 2013, causa C-651/11, X BV, in Boll. Trib. On-line.
(12) Cfr. nota 8.
(13) Quanto meno secondo la dottrina e gli altri interpreti critici nei confronti dell’orientamento giurisprudenziale di legittimità formatosi in relazione al previgente art. 20 del TUR.
(14) Cfr. al riguardo la recente Cass., sez. trib., 26 gennaio 2018, n. 2007 (in Boll. Trib. On-line), ove è stata affermata la natura innovativa del novellato art. 20 e, viceversa, non interpretativa della previgente formulazione della norma, negando efficacia retroattiva ai criteri di interpretazione degli atti ivi previsti. Sulla scorta di tale prima sentenza, si consideri anche la risposta fornita dall’Agenzia delle entrate al quesito n. 38 formulato nell’ambito dell’evento Telefisco del 1° febbraio 2018 (cfr. risposta pubblicata su Il Sole 24 Ore del 2 febbraio 2018). Una successiva sentenza della giurisprudenza di merito di cui parimenti si è fatta menzione sulla stampa (cfr. Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. II, 31 gennaio 2018, n. 4, inedita, e menzionata da D. DEOTTO, Registro, Ctp contro Cassazione, in Il Sole 24 Ore del 1° febbraio 2018, 25), avrebbe invece affermato la natura interpretativa e, pertanto, retroattiva, ai criteri di riqualificazione degli atti esplicitati dalla legge di bilancio 2018. Cfr. altresì Comm. trib. prov. di Milano, sez. XV, 12 febbraio 2018, n. 571, in Boll. Trib. On-line, e citata da V. BUSATTA – L. MIELE, Registro, la Ctp dribbla la Cassazione, in Il Sole 24 Ore del 14 febbraio 2018, 19.
(15) Cfr. nota 2.
(16) Nella menzionata Cass. n. 2007/2018 è stata, più in particolare, affermata la natura innovativa e non interpretativa del novellato art. 20, argomentando in base alla considerazione per cui «… essa introduce dei limiti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie che prima non erano previsti, fermo restando che l’amministrazione finanziaria può dimostrare la sussistenza dell’abuso del diritto previsto dall’art. 10 bis della legge 212/2000 (introdotto dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128), il quale, alla lettera a), attribuisce espressamente rilevanza al collegamento negoziale, ma nel solo ambito, appunto, dell’abuso del diritto e non più in quello della mera riqualificazione giuridica. E mette conto considerare che l’orientamento giurisprudenziale prevalente ha escluso la natura antielusiva dell’art. 20 a beneficio di quella della qualificazione giuridica della fattispecie …, per il che non si può affermare che la modifica introdotta all’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986 dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205 abbia natura interpretativa alla luce dell’art. 10 bis della L. n. 212 del 2000, poiché tale ultima norma disciplina il diverso ambito dell’abuso del diritto. Non varrebbe obiettare che la relazione illustrativa alla L. n. 205 del 2017 assegna alla disposizione concernente l’imposta di registro il compito di “chiarire” il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione. Tale elemento può, infatti, agevolmente superarsi sulla base del tenore testuale infine adottato dallo stesso art. 1, comma 87 in esame, il quale dichiara espressamente di apportare talune “modificazioni” all’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, palesandosi così quale disposizione prettamente innovativa del precedente assetto normativo. E ciò trova conferma, in accordo con il dato letterale del nuovo disposto, anche in ragione del fatto che tale modificazione ha determinato una rivisitazione strutturale profonda ed antitetica della fattispecie impositiva pregressa; là dove l’art. 20 previgente (secondo l’indirizzo di legittimità) imponeva la tassazione sulla base di elementi (il dato extratestuale ed il collegamento negoziale) che vengono invece oggi espressamente esclusi; fatto salvo il loro recupero, come detto, nel diverso ambito della sopravvenuta disciplina dell’abuso del diritto di cui al citato art. 10 bis della L. n. 212 del 2000. In definitiva, va dunque affermato che l’art. 1, comma 87, lett. a), della L. 27 dicembre 2017, n. 205, non avendo natura interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo; conseguentemente, gli atti antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1° gennaio 2018) continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986». L’Agenzia delle entrate, nell’ambito del sopra menzionato evento “Telefisco”, ha parimenti negato effetto retroattivo alla nuova formulazione dell’art. 20 del TUR, affermando che le modifiche allo stesso apportate “… trovano, quindi, applicazione con riferimento all’attività di liquidazione dell’imposta effettuata dagli uffici dell’Agenzia a decorrere dal 1° gennaio 2018”. Sempre secondo quanto precisato dall’Agenzia delle entrate, le nuove disposizioni non esplicano invece effetti con riferimento agli avvisi di accertamento notificati in data anteriore al 1° gennaio 2018, ancorché non definitivi.
(17) Cfr., ad esempio, ris. 17 ottobre 2016, n. 93/E, in Boll. Trib., 2016, 1501, nonché ris. 3 novembre 2016, n. 101/E, ibidem, 1561, ove è stato affermato il principio secondo cui, in mancanza di un risparmio di imposta indebito, non può configurarsi in radice una situazione di abuso del diritto.
(18) Per quanto riguarda il conferimento d’azienda, il legislatore italiano (cfr. art. 10 del D.L. 20 giugno 1996, n. 323, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1996, n. 425) ha dato attuazione alla previgente Direttiva n. 69/335 CE del 17 luglio 1969 sulla raccolta di capitali (poi sostituita dalla sopra citata Direttiva n. 2008/7/CE) giungendo ad esentare completamente dall’imposta proporzionale di registro l’operazione di conferimento d’azienda (rimasta assoggettata alla sola tassa fissa), non essendosi peraltro avvalso della facoltà (attualmente prevista dall’art. 6, lett. b), della Direttiva n. 2008/7/CE) che consente agli Stati membri (in deroga al divieto di cui all’art. 5) di applicare imposte di trasferimento sul conferimento a società di capitali di aziende (sul punto cfr. A. CARINCI, Dubbi di compatibilità comunitaria sulla riqualificazione del conferimento d’azienda con cessione di partecipazioni, in il fisco, 2017, 1943 ss.). Quanto alla cessione di quote, si osserva che l’art. 5, par. 2, lett. a), della sopra citata Direttiva n. 2008/7/CE (già art. 11, par. a), della Direttiva n. 69/335 CE), stabilisce infatti che “Gli Stati membri non assoggettano ad alcuna imposizione indiretta, sotto qualsiasi forma, le seguenti operazioni: a) la creazione, l’emissione, l’ammissione in borsa, la messa in circolazione o la negoziazione di azioni, di quote sociali o titoli della stessa natura, nonché di certificati di tali titoli, quale che sia il loro emittente”. Al riguardo, in senso contrario non vale evidenziare che, secondo quanto previsto dal successivo art. 6, par. 1, lett. a), della stessa Direttiva n. 2008/7/CE [già art. 12, par. a), della Direttiva n. 69/335 CE], risulta consentito agli Stati membri, in deroga alle disposizioni del predetto art. 5, introdurre “imposte sui trasferimenti di valori mobiliari, riscosse forfettariamente o no”. In materia di imposta di registro, infatti, il legislatore italiano ha optato di non avvalersi di tale facoltà, avendo piuttosto scelto di assoggettare la vendita di quote sociali alla sola imposta fissa di registro (cfr. art. 11 della Tariffa, parte I, allegata al TUR); sul punto, nella circ. 10 giugno 1986, n. 37 (in Boll. Trib., 1986, 969), è stato infatti rilevato che l’art. 11 della Tariffa “… conferma … che gli atti di negoziazione di quote di partecipazione in società o enti di cui al precedente art. 4 o di titoli di cui all’art. 8 della tabella, sono soggetti all’imposta fissa anche se redatti per scrittura privata autenticata o per atto pubblico, e ciò in ossequio ai principi stabiliti dalla Direttiva della Comunità Economica Europea del 17 luglio 1969, n. 335”.