19 Giugno, 2017

IL RIMBORSO DEL CREDITO ESPOSTO NELLA DICHIARAZIONE FISCALE ANNUALE?
L’UFFICIO FINANZIARIO PUÒ SEMPRE NEGARLO

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dunque statuito che l’Amministrazione finanziaria può contestare la sussistenza del credito esposto nella dichiarazione annuale anche oltre i termini di decadenza stabiliti dagli artt. 57 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per procedere all’accertamento dell’imposta. Ciò in quanto, a loro dire, i termini decadenziali previsti per questo genere di attività accertativa operano limitatamente al riscontro dei crediti e non anche dei debiti facenti capo all’Amministrazione stessa.
Nell’enunciare tale tesi, volta in buona sostanza a consentire all’Amministrazione finanziaria di sottrarsi alla esecuzione dei rimborsi relativi a parecchi anni addietro, la Corte di Cassazione mostra di essere consapevole che questa sua presa di posizione è destinata a creare qualche scompiglio nel mondo del diritto, tant’è vero che lo scrive apertis verbis. Ritiene tuttavia che la disarmonia così procurata possa essere superata riconducendo il caso nell’ambito del principio «quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum», ossia la regola sulla perpetuità dell’eccezione di annullamento di un negozio giuridico dettata dal quarto comma dell’art. 1442 c.c. che così recita: «l’annullabilità può essere opposta dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto, anche se è prescritta l’azione per farla valere». In tali casi, il contraente legittimato all’azione di annullamento del contratto può fare valere la causa di annullabilità a titolo di eccezione, anche quando la relativa azione sia prescritta, per contrastare l’iniziativa della controparte che lo abbia convenuto in giudizio per ottenerne l’adempimento.
Tale soluzione, afferma la Suprema Corte, «non lascia senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio dell’Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale».
Il fatto è che così discorrendo lo sconcerto a cui accenna la stessa Corte di Cassazione è destinato ad aumentare.
Il problema della restituzione del credito d’imposta indicato nella dichiarazione annuale si era già posto in occasione del condono di cui alla legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria per il 2003). L’art. 9 di tale legge disponeva che l’accesso alla procedura premiale rendeva «definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni e agevolazioni indicate dal contribuente o all’applicabilità di esclusioni».
Per evitare che l’Amministrazione finanziaria fosse tenuta a restituire i crediti d’imposta così indicati nella dichiarazione soltanto perché il contribuente interessato aveva aderito al condono, prevalse allora la tesi per cui essa Amministrazione non era tenuta, «per automatico effetto del condono», a procedere al rimborso dell’IVA quando «abbia motivo di ritenerla mai versata, trattandosi di operazioni inesistenti» (1).
Sulla questione era intervenuta anche la Corte Costituzionale. Le era stato chiesto di dire se la mancata previsione di correttivi, atti a neutralizzare le detrazioni d’imposta derivanti da fatture emesse per operazioni inesistenti, collidesse o meno con il principio di ragionevolezza e di eguaglianza. La Corte Costituzionale ebbe allora a ritenere che un tale rilievo fosse destituito di fondamento in quanto, si legge nella ordinanza 27 luglio 2005, n. 340 (2), la norma di cui all’art. 9 sopra menzionata «non influisce di per sé sull’ammontare delle somme chieste a rimborso», che debbono essere pertanto restituite soltanto allorché detta pretesa «sia riscontrata fondata».
In buona sostanza, la preclusione normativa sull’accertamento dell’imposta operava soltanto nei confronti dei debiti tributari dei contribuenti, sui quali il condono era destinato ad incidere, e non anche sui crediti.
Sulla detraibilità dell’IVA addebitata nelle fatture per operazioni inesistenti, la posizione della giurisprudenza è da tempo nota. L’imposta ivi indicata è estranea al meccanismo di applicazione dell’imposta comunitaria. Pur vero che la stessa resta dovuta all’erario, ciò avviene sulla base del settimo comma dell’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972 laddove prevede che nel caso di fatture emesse per operazioni inesistenti, «l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura».
L’obbligazione così descritta ha carattere sanzionatorio ed è pertanto distinta da quella correlata alle operazioni realmente effettuate che partecipano, queste sì, al meccanismo di compensazione fra l’IVA a valle e l’IVA a monte.
Il percorso logico seguito dalla Corte Costituzionale è dunque chiaro. Se l’IVA addebitata nelle fatture emesse per operazioni inesistenti è estranea al meccanismo di detrazione regolato dall’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, tale imposta non può partecipare al calcolo dell’imposta dovuta. E questo non tanto perché lo dice più o meno esplicitamente una singola norma, quanto piuttosto perché lo pretende il principio base che sovrintende al meccanismo di calcolo dell’imposta dovuta.
Se si condivide questo concetto, e cioè che l’IVA addebitata sulle fatture per operazioni inesistenti è estranea al meccanismo di calcolo dell’IVA dovuta, si conviene che l’interpretazione “adeguatrice” della Corte Costituzionale è la logica conseguenza di tale ordito. In questo senso, l’affermazione che riguarda l’accesso alla definizione automatica, che «non impedisce l’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono, che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti», è una affermazione perfettamente coerente con l’impianto logico normativo così ricostruito.
Avanti alle Sezioni Unite, tuttavia, non si discuteva di un credito d’imposta legato a fatture per operazioni inesistenti ma di un normale credito d’imposta legato alla autoliquidazione contenuta nella dichiarazione annuale presentata da una fondazione bancaria. Per consentire di verificare la congruenza di questi calcoli, anche a termini di accertamento scaduti, l’asserto della Consulta era pertanto del tutto irrilevante, avendo quest’ultima semplicemente affermato che nel caso di fatture per operazioni inesistenti l’attività di controllo dei dati esposti in dichiarazione si riduce a semplice attività di correzione materiale, come tale estranea alla determinazione dell’imponibile.
Per riaprire il discorso sul controllo della dichiarazione presentata dalla fondazione occorreva invece entrare nel merito del rapporto d’imposta. Per farlo, occorreva superare il principio sulla definitività del credito esposto in una dichiarazione non rettificata enunciato da un’altra sentenza della Suprema Corte (3), secondo cui l’Amministrazione finanziaria è tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso contenuta nell’ambito della dichiarazione annuale «nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica. Diversamente, decorso il termine predetto, senza che sia stato adottato alcun provvedimento da parte della p.a., il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza nell’an e nel quantum, ed il contribuente potrà agire in giudizio a tutela del proprio credito nell’ordinario termine di prescrizione dei diritti, rimanendo preclusa all’Amministrazione finanziaria ogni contestazione dei fatti che hanno originato la pretesa di rimborso, salve le eccezioni volte a fare valere i fatti sopravvenuti impeditivi, modificativi, od estintivi del credito».
Questo è quanto hanno esattamente fatto le Sezioni Unite quando hanno sostenuto che la definitività della dichiarazione era un dato del tutto irrilevante in quanto gravava sulla fondazione «l’onere di evidenziare, con l’originario ricorso, la sussistenza dei presupposti, soggettivi ed oggettivi, per poter fruire della chiesta agevolazione».
Tale mancanza di prova circa l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745 (introdotto dall’art. 6 del D.L. 21 febbraio 1967, n. 22, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 aprile 1967, n. 209), e dall’art. 6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, e non tanto il silenzio rifiuto mantenuto dall’Ufficio finanziario in relazione all’invito della fondazione ad effettuare il rimborso della maggiore imposta indicata nella dichiarazione annuale, è così divenuta l’oggetto del contendere.
Il rapporto tributario è stato così riaperto a termini di verifica scaduti. Cosa che i Supremi giudici hanno ritenuto di potere giustificare, come più sopra si accennava, dicendo che «in sostanza, si tratta, per altro, di una applicazione del principio secondo cui “quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum” (art. 1442 c.c.)».
L’invalidità di un negozio giuridico assume due aspetti, la nullità e l’annullabilità. Esso è nullo quando manca di uno degli elementi essenziali, come ad esempio la causa, o è contrario all’ordine pubblico. In questi casi, il contratto non produce effetti e la nullità può essere rilevata in qualsiasi tempo. L’annullabilità è invece una anomalia di minore gravità in quanto deriva dalla inosservanza di regole poste a tutela di uno dei soggetti del rapporto. Il contratto annullabile produce effetti, l’azione di annullamento è una azione costitutiva ed è soggetta a prescrizione quinquennale. Tuttavia, se il contratto non è stato eseguito, chi è stato convenuto in giudizio per ottenerne l’esecuzione può proporre la correlata eccezione, anche se l’azione di annullamento è prescritta, al solo ed esclusivo fine di paralizzare la pretesa di adempimento della controparte.
Trattandosi di eccezione in senso stretto e non di mera difesa, quale è l’allegazione di un vizio del consenso che ben poteva essere utilizzato per proporre l’azione di annullamento, l’onere probatorio delle circostanze a base di tale situazione giuridica ricade su chi l’eccepisce a mente dell’art. 2697, secondo comma, c.c.
Ammesso dunque per amore di tesi che nel rapporto tributario collegato alla dichiarazione dei redditi presentata dalla fondazione si potesse ravvisare un rapporto di natura contrattuale con un vizio di annullabilità, se l’Agenzia delle entrate avesse voluto paralizzare la domanda della ricorrente intesa a vedersi restituire il credito d’imposta in essa dichiarazione contenuto, avrebbe dovuto allegare e debitamente provare questo supposto vizio.
Non pare proprio che le Sezioni Unite siano state consequenziali alla loro premessa circa l’applicazione di tale fattispecie. Dopo avere detto che il credito d’imposta reclamato dalla fondazione traeva «origine da speciali disposizioni, che prevedono l’applicazione di una aliquota agevolata solo in favore di particolari soggetti giuridici», osservano che era onere della medesima dimostrare, nella «domanda di beneficio e, comunque, con l’originario ricorso», che l’attività di essa fondazione poteva sussumersi in tale fattispecie.
In buona sostanza, quando affermano che «era preciso onere del richiedente, allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere e che, in difetto, il reclamato credito d’imposta giammai si è potuto “cristallizzare”, non essendo mai venuto ad esistenza», le Sezioni Unite escono dall’ambito di operatività dell’eccezione di annullabilità di cui al quarto comma dell’art. 1442 c.c. da esse stesse indicato quale referente normativo, per entrare tout court nell’ambito delle nullità del rapporto. Nella specie per la mancanza di un elemento essenziale: l’istanza di rimborso corredata delle prove del credito; così confondendo, nei fatti, l’istanza contenuta nella dichiarazione annuale con quella di cui all’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
Identica posizione circa il fatto che una dichiarazione annuale contenente l’esposizione di un credito di imposta «non determina, per ciò solo, un consolidamento del credito di imposta indicato in dichiarazione e la definitiva costituzione del diritto al rimborso», si rinviene in un recente arresto della Suprema Corte (4) laddove si afferma, espressamente richiamando i principi enunciati dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite qui in commento, che la norma di cui all’art. 38 sopra richiamata «pone a carico del contribuente, che assume di aver versato una somma superiore al dovuto, l’onere di dimostrare l’inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento, e consente all’ amministrazione finanziaria, presunta debitrice, di allegare i fatti impeditivi della richiesta in conformità alla regola di distribuzione dell’onere probatorio desumibile dall’art. 2697 c.c.».
Per conseguenza, e questa è la conclusione che interessa, siccome la decadenza impedisce all’Ufficio finanziario lo «svolgimento di attività di accertamento di un credito fiscale, a proprio favore, [ma] non determina, invece, alcuna preclusione alla facoltà della Amministrazione di contestare la sussistenza di un proprio debito qualora sia destinataria di una richiesta di rimborso di un presunto credito di imposta», l’Ufficio ben può procedere in questo senso. Può cioè eccepire che il credito d’imposta non si è per nulla consolidato a seguito dello spirare del termine per l’accertamento in quanto esso credito non è mai venuto ad esistenza.
In tali termini, la domanda di rimborso non avrebbe alcuna efficacia se non accompagnata dalla prova, per certi versi diabolica, dell’inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
Una sorta di condizione dell’azione per verificare la quale occorre evidentemente controllare il fondamento di quanto si è allegato a prova dei presupposti costitutivi. In questi termini, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria nell’azione di verifica diviene una circostanza del tutto irrilevante in quanto la prova dei presupposti costitutivi è un elemento essenziale per l’esistenza stessa della domanda, senza di che il credito non viene ad esistenza.
Tale il senso delle conclusioni in cui le Sezioni Unite affermano che non sussistono le condizioni per affermare che «il credito d’imposta sia stato chiesto a rimborso con la dichiarazione annuale» e, per conseguenza, che per «evitarne la “cristallizzazione” nell’an e nel quantum», l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto «provvedere al riguardo, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica».
Una vera e propria rivoluzione degli schemi giuridici per nulla attenta, tra l’altro, alle esigenze di certezza dell’azione amministrativa che, come precisa il Consiglio di Stato (5), «mal si conciliano con la possibilità che questa possa restare esposta ad impugnative non assoggettate a termini di decadenza o prescrizione, quale quella di nullità disciplinata dal codice civile, tanto è vero che il codice del processo amministrativo assoggetta la medesima azione ad un preciso termine decadenziale».
Per nulla attenta, ancora, alla salvaguardia del principio sulla parità di trattamento. Quando la Suprema Corte afferma, ad esempio, che l’Ufficio finanziario può rettificare una dichiarazione dei redditi anche a termine scaduto, se intende negare il fondamento di un credito d’imposta ivi indicato, la Corte divide, nei fatti, i contribuenti in due categorie. Da una parte, quelli con dichiarazione annuale a debito, dall’altra quelli con la dichiarazione a credito. Posto che l’utilizzo di una agevolazione fiscale potrebbe avere interessato entrambe le categorie, ne segue che la medesima irregolarità non potrebbe essere rettificata oltre il termine decadenziale in capo al contribuente che ha integralmente compensato il suo credito nell’anno della dichiarazione ovvero l’ha riportato a nuovo in quello successivo.
In conclusione, se dal punto di arrivo di un percorso argomentativo l’osservatore volge indietro lo sguardo, non deve vedere salti nel vuoto o antilogie costituzionali, ma un coerente e lineare tracciato, e questo soprattutto quando vengono coinvolti precedenti di diritto che hanno alle spalle una consolidata esplorazione.
Non pare proprio che questo avvenga nel caso in esame.

Avv. Bruno Aiudi

(1) Così Cass., sez. trib., 8 marzo 2010, n. 5586, in Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib., 2005, 1339.
(3) Cfr. Cass., sez. trib., 8 giugno 2012, n. 9339, in Boll. Trib. On-line.
(4) Così Cass., sez. trib., 20 maggio 2016, n. 10476, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 16 febbraio 2012, n. 792, in Boll. Trib. On-line.

IL CONSOLIDAMENTO DELLA DICHIARAZIONE “NON” IMPLICA RICONOSCIMENTO DELL’AGEVOLAZIONE

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con l’annotata sentenza si pronunciano su un’interessante questione ribaltando, a sorpresa, l’orientamento prevalente della Quinta Sezione della Suprema Corte sul punto.
Brevemente il fatto.
Nella controversia sottoposta alla loro attenzione, una fondazione bancaria, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 1996/1997, aveva evidenziato un credito d’imposta ex art. 94, primo comma, del TUIR, di cui aveva chiesto il rimborso (1). In seguito, con istanza presentata in data 21 settembre 2004, la fondazione invitava l’Amministrazione finanziaria a procedere al rimborso e, a seguito dell’inerzia della stessa, presentava ricorso che veniva accolto nei gradi di merito. I giudici dei primi due gradi di giudizio hanno ritenuto che la questione del rimborso non potesse più essere posta in contestazione in quanto, a causa dello spirare dei termini decadenziali a sua disposizione, l’Amministrazione finanziaria non avrebbe più potuto contestare il credito della fondazione che si era oramai consolidato a seguito del mancato esercizio del potere di rettifica.
L’argomento usato dalla fondazione nel caso di specie è noto e ha trovato conforto non solo nella giurisprudenza di merito, ma anche e, soprattutto, in autorevoli arresti della Suprema Corte (2): si ritiene che l’Ufficio finanziario, non avendo proceduto alla rettifica della dichiarazione dalla quale emerge il credito ed essendo nel frattempo decaduto dal relativo potere, è come se avesse prestato acquiescenza alla ricostruzione della situazione impositiva proposta dal contribuente e, in conseguenza, sarebbe definitivamente decaduto dal potere di porre in contestazione la titolarità dei benefici di cui aveva fatto applicazione in dichiarazione (3) con il conseguente obbligo di dovere procedere al rimborso del credito emergente dalla dichiarazione.
Come a suo tempo non si omise di sottolineare (4), se è vero che il mancato esercizio dei poteri di controllo da parte dell’Ufficio finanziario impedisce allo stesso di contestare le risultanze della dichiarazione (in termini, cioè, di versamenti operati e di ritenute subite), ben diverso è affermare che dalla mancanza di un provvedimento a rilevanza esterna (come, appunto, una rettifica) possa addirittura derivare una implicita accettazione della dichiarazione e quindi la incontestabilità del rimborso che dalla stessa emerge.
In effetti, nelle fattispecie in cui dalla dichiarazione dei redditi emerge un credito a favore del contribuente se si vuole parlare di adesione dell’Ufficio finanziario bisogna intendersi: essa riguarda non tanto i contenuti della dichiarazione, quanto, più correttamente, la situazione dei versamenti operati e dei prelievi subiti che è risultata satisfattiva dell’interesse pubblico alla percezione delle somme dovute e, visto il trascorrere dei termini di decadenza, non più contestabile. Appare, quindi, evidente che l’Ufficio non possa chiedere nulla di nuovo e di diverso rispetto a ciò che è stato già versato, ma va ben oltre l’affermazione che esso debba procedere alla erogazione delle somme chieste a rimborso senza possibilità di contestarne la spettanza.
La questione, a ben vedere, attiene non tanto agli effetti della dichiarazione, quanto alle modalità e ai tempi delle procedure di rimborso. Infatti i “crediti da dichiarazione” (così comunemente denominati perché nel documento dichiarazione trovano il loro presupposto necessario) hanno ad oggetto le eccedenze attive, rispetto all’imposta dovuta, che possono derivare dalle ritenute d’acconto subite, dagli acconti pagati, dalle eccedenze riportate nel precedente periodo d’imposta, etc. In tali casi la stessa dichiarazione funge da istanza di rimborso e il soddisfacimento di tali crediti non è subordinato ad adempimenti ulteriori (5). L’emersione di un credito dalla dichiarazione, infatti, determina l’avvio di un rimborso, c.d. “d’ufficio”, che rende doveroso per l’Amministrazione medesima provvedere in tal senso. Tuttavia, nella disciplina che, ratione temporis, trovava applicazione alla fattispecie in contestazione, se per l’Ufficio finanziario, in tali casi, sorgeva l’obbligo di procedere doverosamente all’erogazione del credito che emergeva dalla dichiarazione, non sorgeva, invece, l’obbligo di pronunciarsi in ogni caso, e cioè anche quando il rimborso non doveva aver luogo (6). A ben guardare, però, una simile conclusione può ritenersi ancora valida perché in sintonia con il complessivo contesto normativo che all’inerzia dell’Amministrazione finanziaria raramente attribuisce significati positivi e comunque, quando lo fa, lo esprime in maniera espressa e non controvertibile (si pensi, ad esempio, al silenzio-assenso previsto nell’interpello di cui all’art. 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente) (7).
Volendo utilizzare le medesime parole usate dalle Sezioni Unite: «Appare cioè preferibile la soluzione accolta nella pregressa giurisprudenza e secondo cui i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui l’Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorché simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l’accertamento, alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui alla medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione». Si tratterebbe, aggiungono le Sezioni Unite, di un’applicazione del principio secondo cui «quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum (art. 1442 c.c.)» (8).
Una simile soluzione, del resto, non costituisce un vulnus per il contribuente in quanto egli può agire nei confronti dell’inerzia dell’Ufficio finanziario presentando ricorso (9).
Ed è proprio ciò che si è verificato nel caso in esame dove la fondazione, a seguito della mancata erogazione del rimborso emergente dalla dichiarazione, nel termine decennale di prescrizione, che trova applicazione in tali fattispecie in luogo dei più brevi termini decadenziali (10), ha presentato una espressa istanza di rimborso che, in effetti, ha duplicato la precedente “istanza inserita” nella dichiarazione (più un sollecito che una vera e propria istanza), al solo scopo di fare sorgere l’obbligo di pronuncia in capo all’Ufficio (11) e, dopo la formalizzazione del silenzio, ha avviato la fase giudiziale dinanzi al giudice tributario (12). Fase nella quale, però, essendo il contribuente ad avanzare una pretesa (la titolarità del beneficio fiscale), grava su di lui il relativo onere probatorio.
Nelle controversie che hanno ad oggetto un’agevolazione, sia che si tratti di un giudizio di impugnazione di un vero e proprio atto impositivo in cui si manifesta la pretesa dell’Amministrazione finanziaria, motivata con il disconoscimento del beneficio, sia che si tratti di una controversia di rimborso, che nella situazione agevolata trovi il suo fondamento, ovvero dell’impugnativa di un diniego di agevolazione, la giurisprudenza addossa sempre al contribuente il relativo onere probatorio. La Corte di Cassazione afferma costantemente che parte onerata è quella che si afferma titolare di una determinata situazione giuridica, facendo una piana applicazione del principio contenuto nell’art. 2697 c.c. che regola la ripartizione dell’onere della prova e coordinandolo con la normativa riguardante i diritti e i doveri delle parti del rapporto tributario. Se ne fa discendere che «se il privato contribuente ritiene di avere diritto ad esenzioni o agevolazioni deve essere lui a provare che nel suo caso ricorrono le condizioni di legge per ottenerle» (13).
Nella fattispecie in contestazione le Sezioni Unite lamentano “il malgoverno” di simili principi da parte dei giudici di merito. La fondazione, infatti, ha sostenuto la spettanza del rimborso limitandosi a sostenere che lo stesso, essendo scaduti i termini decadenziali per operare la rettifica, si era “consolidato nell’an e nel quantum”, e ha omesso, però, qualsivoglia prova della spettanza delle agevolazioni che erano alla base del rimborso medesimo, in violazione, cioè, di quell’onere probatorio che solo avrebbe consentito ai giudici di accertare l’effettiva ricorrenza dei presupposti di legge per la fruizione del beneficio medesimo.
Correttamente, quindi, le Sezioni Unite rinviano ad altra Sezione della Commissione di seconde cure perché di tali principi venga fatta una corretta applicazione.
La frase conclusiva della pronuncia, però, va correttamente intesa se non si vuole incorrere in equivoci. I giudici, nel sottolineare che «era preciso onere del richiedente allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere», aggiungono che, in difetto, «il reclamato credito d’imposta giammai si è potuto cristallizzare, non essendo mai venuto ad esistenza». È necessario tenere i due piani, quello sostanziale e quello processuale, ben separati.
Sebbene le fattispecie di agevolazione presentino schemi applicativi non omogenei, appare pacifica l’affermazione che sia la norma l’unica vera fonte delle agevolazioni tributarie: anche quando non presenta un carattere di automaticità, l’agevolazione si ricollega direttamente alla previsione normativa. L’istanza del contribuente (ove prevista) o l’atto amministrativo di riconoscimento (se presente) sono tutt’al più elementi costitutivi della fattispecie che si riconnette al trattamento di favore, ma non dell’effetto, che rinviene la sua fonte sempre nella legge (14). A conferma di una simile affermazione, possono citarsi: la decorrenza ex tunc del beneficio in caso di ritardo nella presentazione dell’istanza da parte del contribuente o nella emanazione dell’atto di riconoscimento da parte dell’Ufficio; la incapacità dell’atto amministrativo di riconoscimento del beneficio di riaprire termini o vanificare decadenze che nel frattempo si siano consolidate; gli stessi rapporti delle fattispecie di agevolazione con l’attività di accertamento, soprattutto nelle ipotesi in cui intervenga una determinazione automatica dell’imponibile.
Ciò precisato sul piano sostanziale, sotto un profilo processuale, come si è già segnalato, il mancato corretto assolvimento dell’onere probatorio, impedendo di ritenere provato il beneficio, di certo non consente al giudice di pronunciarsi in senso favorevole al contribuente. Deve, però, aggiungersi che una simile regola di giudizio non deve essere intesa in maniera troppo rigida, soprattutto quando, come nel caso in esame, dovendo il ricorrente agire contro un silenzio, il ricorso assume i caratteri di “un ricorso al buio”. Sarebbe, cioè, impossibile pensare che il contribuente, fin dal momento della proposizione del ricorso, possa essere onerato di tutte le possibili argomentazioni probatorie a fondamento del suo diritto al rimborso dovendosi, più correttamente, ritenere che egli possa introdurre tali argomenti nel corso del giudizio in relazione all’effettivo svolgimento della vicenda processuale (15).

Dott. Annalisa Pace
Università di Teramo

(1) Alla base del credito vantato c’erano il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi ex art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745, e la riduzione dell’aliquota IRPEG ex art. 6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, istituti di cui la ricorrente aveva fatto applicazione nella dichiarazione.
(2) Tra le altre si citano Cass., sez. trib., 6 agosto 2002, n. 11830; Cass., sez. trib., 23 febbraio 2005, ord. n. 3718; Cass., sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26318; e Cass., sez. trib., 8 giugno 2012, n. 9339; tutte in Boll. Trib. On-line.
(3) Si veda la nota 1.
(4) Si consenta di rinviare a PACE, Il consolidamento della dichiarazione implica il riconoscimento dell’agevolazione?, in Riv. dir. trib., 2011, II, 105, in nota a Comm. trib. reg. dell’Emilia Romagna, sez. stacc. di Parma, sez. XXI, 22 febbraio 2010, che si era pronunciata su di un’analoga fattispecie. In senso conforme anche CIPOLLA, Crediti d’imposta e tutele processuali: si rafforza la tesi del consolidamento del credito esposto in dichiarazione e non rettificato dal fisco, in Riv. giur. trib., 2011, 505, in nota a Cass., sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26318. Contra BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2013, 265, e nella Postilla in Riv. dir. trib., 2011, II, 115.
(5) Sul punto concordemente BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, cit., 262 ss.; FALSITTA, Manuale di diritto tributario, I, Padova, 1999, 416; FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1991, 412; LA ROSA, Principi di diritto tributario, Torino, 2006, 226; RUSSO, Manuale di diritto tributario, 1996, 377 ss.; e TESAURO, Compendio di diritto tributario, Torino, 2004, 164.
(6) Così TESAURO, Rimborso delle imposte, in Nov. dig. it., pag. 15 dell’estratto. Va rammentato che l’art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella formulazione allora vigente, diversamente da quella odierna, non prevedeva la necessaria comunicazione dell’esito delle procedure di liquidazione che oggi è espressione di quell’esigenza di trasparenza nei rapporti tra contribuente e Ufficio finanziario che negli ultimi anni si è venuta prepotentemente affermando come conferma l’art. 6, quinto comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212.
(7) In senso analogo si esprime anche CIPOLLA, Crediti d’imposta e tutela processuali: si rafforza la tesi del consolidamento del credito esposto in dichiarazione e non rettificato dal fisco, cit., 505, dove osserva che seppure «a partire dal 1° gennaio 1999 la liquidazione delle imposte riguarda tutte le dichiarazioni con la conseguenza che, se dalla liquidazione emerge un credito, il fisco ha l’onere di procedere al rimborso», in mancanza dell’esercizio del potere di rettifica da parte dell’Ufficio fiscale è difficile «qualificare l’inerzia del fisco come riconoscimento implicito del credito: al pari del silenzio tenuto dall’Amministrazione finanziaria in presenza di un’istanza di rimborso, la mancata rettifica per inerzia della dichiarazione è un fatto che dovrebbe restare privo di alcun significato assiologico, e men meno dovrebbe essere interpretato quale riconoscimento (sia pure implicito) del credito esposto in dichiarazione».
(8) Il richiamo al principio civilistico contenuto nell’art. 1442 c.c. in effetti non convince e su questo aspetto si condivide l’acuta critica di DE MITA, Sui termini per i rimborsi eccesso di discrezionalità, in Il Sole 24 Ore del 23 marzo 2016, 1, che bene ne sottolinea l’estraneità al diritto tributario trattandosi di un diritto, a differenza di quello privato, non paritario.
(9) Contra DE MITA, Sui termini per i rimborsi eccesso di discrezionalità, cit., secondo cui «Nel caso in cui l’istanza di rimborso sia stata formulata con la stessa dichiarazione annuale, consentire all’Amministrazione finanziaria di postergare sine die il provvedimento in merito al rimborso determina una ingiustificata perdurante incertezza nella definizione del rapporto tributario». In senso conforme BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, cit., 262 ss. Come si è già osservato, però, l’incontestabilità del dichiarato si sostanzia nella impossibilità per l’Ufficio finanziario di contestare le risultanze della dichiarazione in termini di versamenti operati e di ritenute subite, ma non se ne può far discendere la incontestabilità del rimborso che dalla stessa emerge. In tale senso anche CIPOLLA, Crediti d’imposta e tutela processuali: si rafforza la tesi del consolidamento del credito esposto in dichiarazione e non rettificato dal fisco, cit., 505.
(10) Sul punto giurisprudenza e dottrina sono concordi; dubbi invece riguardano il dies a quo. A rigore, il termine prescrizionale, dovendo iniziare a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, non potrebbe avere avvio prima della decorrenza del novantunesimo giorno successivo alla presentazione della dichiarazione; le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, però, con la sentenza resa da Cass., sez. un., 7 febbraio 2007, n. 2687, in Boll. Trib. On-line, ritengono che il termine decorra immediatamente fin dalla presentazione della dichiarazione. Criticamente su di una simile soluzione cfr. BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, cit., 262 ss.
(11) È sempre TESAURO, Compendio di diritto tributario, cit., 164, che osservava che «Il significato delle norme che prevedono istanze di rimborso sta nel fatto che tali norme obbligano l’amministrazione ad attivarsi, per verificare la fondatezza delle domanda e per pronunciarsi (accogliendola o rigettandola)», concludendo che «Dall’istanza sorge, cioè, l’obbligo di procedere e l’obbligo di pronuncia».
(12) A rigore, se dalla mancata rettifica della dichiarazione deriva l’incontestabilità del dichiarato e quindi del credito che dalla stessa emerge, più correttamente, forse, la ricorrente avrebbe dovuto mettere in mora l’Ufficio finanziario e rivolgersi all’Autorità Giudiziaria Ordinaria. In linea con quanto ritiene la stessa Corte di Cassazione, infatti, se la controversia riguarda solo un ritardo nella erogazione del rimborso la cui sussistenza è stata riconosciuta dall’Ufficio, non si tratta più di controversia tributaria e quindi esula dalla giurisdizione delle Commissioni. In tale senso cfr. Cass., sez. un., 22 luglio 2002, ord. n. 10725; Cass., sez. un., 8 luglio 2005, ord. n. 14332; e Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18120; tutte in Boll. Trib. On-line; estremamente critico su tale orientamento è BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, cit., 286 ss.; diversamente NUSSI, La dichiarazione tributaria, Trieste, 1999, 174 ss., che ritiene “sistematicamente più coerente” espungere le liti sul rimborso officioso dalla giurisdizione delle Commissioni tributarie: quest’ultimo Autore osserva che decorsi i termini di decadenza ed essendo il credito incontestabile ed esigibile, la strada naturale è quella di esercitare un’azione di condanna dinanzi al giudice ordinario: il credito, infatti, si è enucleato dal rapporto in relazione al quale è sorto e il contribuente gode di un debito che gli deriva da semplici calcoli algebrici, senza che controparte possa opporre diversità di fatti o di norme.
(13) Tra le numerosissime pronunce si citano, tra le altre, Cass., sez. trib., 20 giugno 2007, n. 14381, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. trib., 16 settembre 2005, n. 18424, in Boll. Trib., 2006, 333. Si consenta altresì di rinviare a PACE, Le agevolazioni fiscali. Profili procedimentali e processuali, Torino, 2012, 187.
(14) Sul punto si consenta di rinviare a PACE, Le agevolazioni fiscali. Profili procedimentali e processuali, cit., 67 ss.
(15) In tale senso COVINO, Istanza di rimborso, materia del contendere e decisione a sorpresa, in Dial. dir. trib., 2010, 169, in nota a Cass., sez. trib., 22 gennaio 2010, n. 1157. È BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, cit., 296, ad osservare che nei ricorsi contro il silenzio mancando l’atto da impugnare la difesa del contribuente diventa più articolata nel senso che «il ricorrente può sviluppare le proprie argomentazioni in modo più preciso, dopo aver conosciuto le difese dell’amministrazione (in tutti gli altri casi, invece, anticipate nell’atto impugnato)»; l’Autore prosegue osservando che proprio nel caso in cui non venga erogato un rimborso da dichiarazione non può chiedersi al ricorrente «di farsi carico preventivamente di tutte le possibili obiezioni che l’amministrazione potrà opporre».

Imposte e tasse – Rimborsi – Dichiarazione fiscale annuale esponente un credito di rimborso del contribuente – Obbligo dell’Ufficio finanziario di provvedere al rimborso del credito esposto in dichiarazione entro il termine di decadenza dall’azione di accertamento – Non sussiste – Possibilità per l’Ufficio di contestare l’esistenza del credito anche oltre il termine per l’accertamento – Sussiste.

Imposte e tasse – Agevolazioni tributarie – Fondazioni bancarie – Agevolazioni ex art. 10-bis della legge n. 1745/1962 – Condizioni – Effettivo perseguimento in via esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica – Necessità – Onere della prova – Incombe sulla fondazione.

Imposte e tasse – Agevolazioni tributarie – Fondazioni bancarie – Agevolazioni ex art. 6 del D.P.R. n. 601/1973 – Effettivo raggiungimento di scopi di utilità sociale in via esclusiva con esclusione di ogni carattere d’impresa commerciale – Necessità e criteri di individuazione.

Imposte e tasse – Agevolazioni tributarie – Enti di gestione delle partecipazioni bancarie – Assimilazione alle persone giuridiche di cui all’art. 10-bis della legge n. 1745/1962 che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica, ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d’acconto sugli utili – Esclusione – Assimilazione agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 601/1973, ai fini della riduzione alla metà dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche – Esclusione – Inapplicabilità analogica o estensiva delle suddette agevolazioni – Dimostrazione di avere in concreto svolto un’attività, per l’anno d’imposta rilevante, di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale anziché quella di controllo e governo delle partecipazioni bancarie – Necessità.

Imposte e tasse – Agevolazioni tributarie – Fondazioni bancarie – Assimilazione alle persone giuridiche di cui all’art. 10-bis della legge n. 1745/1962 che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica, ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d’acconto sugli utili – Esclusione – Assimilazione agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 601/1973, ai fini della riduzione alla metà dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche – Esclusione – Inapplicabilità analogica o estensiva delle suddette agevolazioni – Presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo alla fondazione in relazione alla partecipazione bancaria posseduta – Sussiste – Fruizione delle agevolazioni – Condizioni – Svolgimento, nell’anno d’imposta in considerazione, di una attività di esclusiva o prevalente promozione sociale e culturale – Necessità – Onere della prova – Incombe sulla fondazione.

Qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale ai fini di una imposta, esponendo un credito di rimborso, l’Amministrazione finanziaria non è tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica, poiché i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito dell’Amministrazione e non a quelle con cui l’Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito di talché, decorso il termine per l’accertamento, all’Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consenta all’Amministrazione stessa di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe l’affermazione di un credito dell’Amministrazione, in applicazione del principio civilistico di cui all’art. 1442 c.c. secondo cui “quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum”.

Il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie, prevista dall’art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745, è subordinato alla prova, posta a carico del soggetto che invoca l’agevolazione, dell’effettivo perseguimento in via esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche, a nulla rilevando le trasformazioni disposte dalla legge 30 luglio 1990, n. 218, e dal D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, tenuto conto del perdurare nel nuovo regime di un collegamento genetico e funzionale tra fondazioni ed imprese bancarie, e dovendosi invece conferire rilievo, indipendentemente dal possesso di partecipazioni azionarie di controllo, anche per il tramite di società finanziarie, all’eventuale stipulazione di patti parasociali idonei a consentire, anche congiuntamente ad altri soggetti, l’esercizio di un’influenza sulla gestione dell’impresa bancaria, nonché allo svolgimento di attività economica, anche non caratterizzata da scopo di lucro; l’accertamento di tali elementi, che consentono di qualificare l’attività della fondazione come esercizio d’impresa, conformemente alla nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, impone al giudice di disapplicare il citato art. 10-bis della legge n. 1745/1962, ponendosi l’agevolazione da esso prevista come misura fiscale selettiva che, in quanto potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza, viene a configurarsi come un aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune.

Ai fini del riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie del beneficio della riduzione alla metà dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, prevista dall’art. 6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, è necessario che tale agevolazione non venga in concreto ad assumere la valenza di un aiuto di Stato, lesivo del principio comunitario di concorrenza, ed a tal fine occorre accertare che l’attività della fondazione non presenti i connotati dell’azione imprenditoriale, i quali possono sussistere anche in mancanza del fine di lucro e pur nella dimostrata destinazione dei profitti, in parte o nel loro intero ammontare, al raggiungimento di scopi di utilità sociale, restando escluso il carattere d’impresa commerciale solo dalla previsione, statutaria o legale, dell’esclusività dei predetti scopi, e dalla dimostrazione che tali attività siano state effettivamente svolte e che la fondazione non abbia alcuna possibilità d’influire, quale azionista maggioritario o non maggioritario o in virtù di accordi parasociali o di patti di sindacato, sulla gestione della banca conferitaria o di altre imprese da essa partecipate.

Gli enti di gestione delle partecipazioni bancarie, quali risultanti dal conferimento delle aziende di credito in apposite società per azioni e gravati dall’obbligo di detenzione e conservazione della maggioranza del relativo capitale ai sensi della legge 30 luglio 1990, n. 218, ed in base all’art. 12 del D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, a causa del particolare vincolo genetico che le univa alle aziende scorporate, non possono essere assimilati né alle persone giuridiche di cui all’art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745, che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica, ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d’acconto sugli utili, né agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali di cui all’art. 6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, ai fini del riconoscimento della riduzione alla metà dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche; la predetta disciplina agevolativa non trova applicazione quanto agli enti considerati né in via analogica, trattandosi di disposizioni eccezionali, né in via estensiva, poiché la sua “ratio” va ricercata nella esclusività e tipicità del fine sociale previsto per ciascun ente, individuato in maniera tassativa quale già esistente al momento dell’entrata in vigore delle predette norme, mentre la successiva disciplina di riforma del sistema creditizio, nell’attribuire a tali enti, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153, la qualifica di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato, così estendendo ad essi il regime tributario proprio degli enti non commerciali, ex art. 87, primo comma, lett. c), del TUIR, non ha assunto valenza interpretativa, e quindi efficacia retroattiva, avendo essa previsto adempimenti collegati all’attuazione della riforma stessa, senza influenza sui periodi precedenti, di talché ne consegue l’esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo ai soggetti che, in relazione all’entità della partecipazione al capitale sociale, sono in grado di influire sull’attività dell’ente creditizio e, dall’altro, la possibile fruizione dei predetti benefici, per gli enti considerati, solo a seguito della dimostrazione, di cui sono onerati secondo il comune regime della prova a norma dell’art. 2697 c.c., di avere in concreto svolto un’attività, per l’anno d’imposta rilevante, del tutto differente da quella prevista dal legislatore, dunque un’attività di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale anziché quella di controllo e governo delle partecipazioni bancarie, e sempre che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo, non incombendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di sollevare in proposito precise contestazioni.

Le fondazioni bancarie, a causa del vincolo genetico con le aziende scorporate, non risultano assimilabili né alle persone giuridiche di cui all’art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745, né agli enti ed istituti di interesse generale, aventi scopi esclusivamente culturali, di cui all’art. 6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, ed alle stesse non torna applicabile la relativa disciplina agevolativa dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie o della riduzione alla metà dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, trattandosi di disposizioni eccezionali, applicabili pertanto alle fondazioni bancarie solo con i limiti e le rigide prescrizioni disposte dalla legge e puntualizzate dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale; dal precitato vincolo genetico, per un verso, deriva l’esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo alla fondazione, la quale, in relazione alla partecipazione posseduta, è in grado di influire nell’attività bancaria e, sotto altro profilo, discende che la fondazione può godere dell’agevolazione di cui trattasi solo a condizione che abbia svolto nell’anno d’imposta in considerazione una attività di esclusiva o prevalente promozione sociale e culturale, il cui relativo onere probatorio incombe sulla fondazione stessa.

[Corte di Cassazione, sez. un. (Pres. Rovelli, rel. Di Blasi, est. Cicala), 15 marzo 2016, sent. n. 5069, ric. Agenzia delle entrate c. Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – In data 22 dicembre 1997, la Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna presentava al Centro di Servizio delle Imposte di Bologna, la dichiarazione dei redditi, ai fini IRPEG, relativa al periodo d’imposta 1.10.1996 – 30.9.1997, nella quale veniva evidenziato, ex art. 94 c. 1° dpr n. 917/1986, un credito d’imposta, pari ad Euro 1.517,246,56, di cui veniva chiesto il rimborso. Successivamente, con istanza in data 21 settembre 2004, la Fondazione invitava l’Amministrazione Finanziaria ad effettuare il rimborso del credito esposto nella citata dichiarazione.
Formatosi su tale domanda il silenzio-rifiuto, la contribuente lo impugnava in sede giurisdizionale. L’adita CTP di Ravenna accoglieva il ricorso, riconoscendo il diritto al chiesto rimborso ed il successivo appello dell’Agenzia Entrate veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale, con la decisione in epigrafe indicata, confermava la decisione di primo grado.
Con ricorso 20 aprile 2009, affidato a due mezzi, l’Agenzia Entrate ha chiesto la cassazione dell’impugnata sentenza. L’intimata Fondazione, giusto controricorso 3 giugno 2009, ha chiesto che l’impugnazione venga dichiarata inammissibile e, comunque, rigettata.
In vista della pubblica udienza, fissata per il 26.5.2014, innanzi alla Quinta Sezione Civile-Tributaria, l’Agenzia e la Fondazione depositavano memorie con le quali illustravano, ulteriormente, le proprie ragioni.
Con ordinanza interlocutoria n. 23529/2014 (1), resa all’udienza del 28 maggio 2014 e depositata il 5.11.2014, la predetta Sezione Tributaria della Corte ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della causa alle Sezioni Unite Civili, per la risoluzione del consapevole contrasto registrato nell’ambito della Sezione, in ordine alla questione relativa alla perentorietà o meno del termine entro il quale l’Amministrazione Finanziaria deve provvedere alla liquidazione ed agli effetti connessi all’inutile decorso di detto termine, con riferimento ai crediti di imposta, esposti in dichiarazione.
In vista della pubblica udienza, fissata davanti alle Sezioni Unite della Corte, entrambe le parti in causa hanno depositato ulteriori memorie difensive.

MOTIVI DELLA DECISIONE – I Giudici di appello, dopo avere, nella narrativa in fatto, esposto che la questione afferiva all’impugnazione di un silenzio-rifiuto, opposto dall’Amministrazione Finanziaria, alla domanda di rimborso di credito d’imposta IRPEG, asseritamente vantato dalla contribuente ed evidenziato nella dichiarazione presentata per l’anno 1997, di poi, nella parte motiva, così argomentavano: “La Commissione rigetta l’appello dell’Ufficio. Infatti l’Agenzia delle Entrate in sede di appello cerca di contestare un credito, ormai ampiamente consolidato, riproponendo questioni di merito. Infatti si tratta semplicemente di un credito derivante da una dichiarazione dei redditi MOD. 760-bis periodo 1/10/96 – 30/9/1997 presentata nel dicembre 1997. Pertanto bene ha fatto la CTP ad accogliere il ricorso del contribuente relativamente alla spettanza di capitale ed interessi”.
Deve essere esaminata per prima la questione che emerge dalla ordinanza 23529 del 2014, in cui viene posta in discussione la tesi secondo cui, anche nel caso in cui il contribuente esponga nella denuncia dei redditi un credito fiscale, l’Amministrazione deve attivarsi a contestare i dati della denuncia entro i termini previsti dalla legge per l’esercizio del potere di accertamento; ed ove ciò non faccia il credito stesso si consolida e non può più essere disatteso. Infatti l’accoglimento di tale tesi comporterebbe la conferma della sentenza di merito, senza che sia necessario affrontare la tesi di diritto sostanziale proposta dalla contribuente.
Il Collegio ritiene di non condividere la interpretazione recepita nella sentenza della quinta sezione n. 9339 del giorno 8 giugno 2012 (2) (e di recente implicitamente condivisa dalla sentenza 2277/2016 (3)) secondo cui “qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale, ai fini di una imposta, esponendo un credito di rimborso, la Amministrazione finanziaria è tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso, salvo diversa espressa previsione normativa, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica. Diversamente, decorso il termine predetto, senza che sia stato adottato alcun provvedimento da parte della P.A., il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza nell’an e nel quantum, ed il contribuente potrà agire in giudizio a tutela del proprio credito nell’ordinario termine di prescrizione dei diritti, rimanendo preclusa all’Amministrazione finanziaria ogni contestazione dei fatti che hanno originato la pretesa di rimborso, salve le eccezioni volte a fare valere i fatti sopravvenuti impeditivi, modificativi, od estintivi del credito”.
Appare cioè preferibile la soluzione accolta nella pregressa giurisprudenza e secondo cui i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorché simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l’accertamento, alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione.
In sostanza, si tratta, per altro, di una applicazione del principio secondo cui “quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum” (art. 1442 del codice civile).
D’altronde la soluzione che il Collegio ritiene preferibile non lascia senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio della Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale.
Si deve quindi passare all’esame della tesi della Amministrazione secondo cui i benefici fiscali invocati dalla contribuente richiederebbero situazioni di fatto in concreto non accertate dai giudici di merito.
Trattasi di doglianze fondate sulla base di un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale e di condivisi principi giurisprudenziali, affermati proprio con riferimento alla questione di che trattasi, concernente il credito d’imposta chiesto a rimborso, con la dichiarazione annuale, da una Fondazione bancaria, quale derivante dall’invocata applicazione delle agevolazioni previste dagli artt. 10-bis della Legge n. 1745/1962 e 6 del dpr n. 601/1973.
È stato, infatti, affermato che “In tema di IRPEG, il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie, prevista dall’art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745 (introdotto dall’art. 6 del decreto-legge 21 febbraio 1967, n. 22, convertito in legge 21 aprile 1967, n. 209), è subordinato alla prova, posta a carico del soggetto che invoca l’agevolazione, dell’effettivo perseguimento in via esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche. In tale prospettiva, non può attribuirsi portata determinante alle trasformazioni disposte dalla legge 30 luglio 1990, n. 218 e dal d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356, tenuto conto del perdurare nel nuovo regime di un collegamento genetico e funzionale tra fondazioni ed imprese bancarie, dovendosi invece conferire rilievo, indipendentemente dal possesso di partecipazioni azionarie di controllo (anche per il tramite di società finanziarie), all’eventuale stipulazione di patti parasociali idonei a consentire, anche congiuntamente ad altri soggetti, l’esercizio di un’influenza sulla gestione dell’impresa bancaria, nonché allo svolgimento di attività economica, anche non caratterizzata da scopo di lucro. L’accertamento di tali elementi, che consentono di qualificare l’attività della fondazione come esercizio d’impresa, conformemente alla nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, impone al giudice di disapplicare l’art. 10-bis cit., ponendosi l’agevolazione da esso prevista come misura fiscale selettiva che, in quanto potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza, viene a configurarsi come aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune (Cass. SS.UU. n. 27619/2006 (4)).
È stato, pure, precisato che “In tema di IRPEG, ai fini del riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie del beneficio della riduzione a metà dell’aliquota, prevista dall’art. 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, è necessario che tale agevolazione non venga in concreto ad assumere la valenza di un aiuto di Stato, lesivo del principio comunitario di concorrenza: a tal fine, occorre accertare che l’attività della fondazione non presenti i connotati dell’azione imprenditoriale, [i] quali possono sussistere anche in mancanza del fine di lucro e pur nella dimostrata destinazione dei profitti, in parte o nel loro intero ammontare, al raggiungimento di scopi di utilità sociale, restando escluso il carattere d’impresa commerciale solo dalla previsione, statutaria o legale, dell’esclusività dei predetti scopi, e dalla dimostrazione che tali attività siano state effettivamente svolte e che la fondazione non abbia alcuna possibilità d’influire, quale azionista maggioritario o non maggioritario o in virtù di accordi parasociali o di patti di sindacato, sulla gestione della banca conferitaria o di altre imprese da essa partecipate. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva rigettato il ricorso del contribuente, non essendo stato dedotto il possesso dei requisiti che, escludendo in radice la natura commerciale dell’iniziativa, consentono di fruire dell’agevolazione in esame senza incorrere nel divieto degli aiuti di Stato) (Cass. n. 5740/2007 (5)).
È stato, altresì, puntualizzato che “Gli enti di gestione delle partecipazioni bancarie, quali risultanti dal conferimento delle aziende di credito in apposite società per azioni e gravati dall’obbligo di detenzione e conservazione della maggioranza del relativo capitale ai sensi della legge n. 218 del 1990 ed in base all’art. 12 del d.lgs. n. 356 del 1990, a causa del particolare vincolo genetico che le univa alle aziende scorporate, non possono essere assimilati nè alle persone giuridiche di cui all’art. 10-“bis” della legge n. 1745 del 1962 (che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica), ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d’acconto sugli utili, né agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali, di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 601 del 1973, ai fini dei riconoscimento della riduzione a metà dell’aliquota sull’IRPEG; la predetta disciplina agevolativa non trova applicazione quanto agli enti considerati né in via analogica, trattandosi di disposizioni eccezionali, né in via estensiva, poiché la sua “ratio” va ricercata nella esclusività e tipicità del fine sociale previsto per ciascun ente, individuato in maniera tassativa quale già esistente al momento dell’entrata in vigore delle predette norme. La successiva disciplina di riforma del sistema creditizio, nell’attribuire a tali enti, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 153 del 1999, ed ove si siano adeguati alle nuove prescrizioni, la qualifica di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato, così estendendo ad essi il regime tributario proprio degli enti non commerciali, “ex” art. 87, comma 1, lett. c) del T.U.I.R., non ha assunto valenza interpretativa, e quindi efficacia retroattiva, avendo essa previsto adempimenti collegati all’attuazione della riforma stessa, senza influenza sui periodi precedenti. Ne consegue l’esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo ai soggetti che, in relazione all’entità della partecipazione al capitale sociale, sono in grado di influire sull’attività dell’ente creditizio e, dall’altro, la possibile fruizione dei predetti benefici, per gli enti considerati, solo a seguito della dimostrazione, di cui sono onerati secondo il comune regime della prova ex art. 2697 cod. civ., di aver in concreto svolto un’attività, per l’anno d’imposta rilevante, del tutto differente da quella prevista dal legislatore, dunque un’attività di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale anzichè quella di controllo e governo delle partecipazioni bancarie e sempre che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo, non incombendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di sollevare in proposito precise contestazioni. (Cass. SS.UU. n. 1576/2009 (6), cfr. n. 26683/2009 (7), n. 16842/2013 (8)).
Alla stregua di tali principi, che questa Corte ha contribuito ad affermare e che il Collegio, condividendoli, riafferma, le doglianze dell’Agenzia risultano fondate, stante che la decisione di appello risulta averne fatto malgoverno.
I Giudici di appello, infatti, non hanno considerato che sulla base dei trascritti principi:
– gravava sulla Fondazione, che reclamava il mancato riconoscimento dell’agevolazione, l’onere di evidenziare, con l’originario ricorso, la sussistenza dei presupposti, soggettivi ed oggettivi, per poter fruire della chiesta agevolazione e, quindi, di provare, per un verso, la propria coerenza statutaria e, sotto altro profilo, il concreto espletamento, nell’anno in questione, di attività, finalizzata al raggiungimento, in via esclusiva, di scopi di beneficienza, educazione, studio e ricerca scientifica;
– l’accertamento in ordine alla attività, concretamente svolta dalla Fondazione, era indispensabile per verificare la compatibilità del beneficio con la disciplina comunitaria, trattandosi di agevolazione potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza e quindi a farlo configurarlo come un aiuto di stato;
– in tale ottica, occorreva verificare le previsioni Statutarie dell’ente ed accertare che la concreta attività svolta non presentasse i caratteri propri dell’azione imprenditoriale, caratterizzandosi, invece, per gli scopi di utilità sociale, sia pure che la Fondazione, quale azionista, non era in grado di influire sulla gestione della Banca conferitaria o di altre imprese partecipate;
– la questione relativa al possesso, da parte della Fondazione, dei requisiti per poter escludere la configurazione dell’aiuto di stato, onde poter fruire dell’agevolazione, per come risulta dalla narrativa in fatto e dalla parte motiva dell’impugnata sentenza, è tema rimasto, assolutamente, estraneo alla decisione, non risultando essere stato, né dedotto, né trattato dalla decisione di appello;
– le Fondazioni bancarie, a causa del vincolo genetico con le aziende scorporate, non risultano assimilabili, nè alle persone giuridiche di cui all’art. 10-bis della Legge n. 1745/1962, né agli enti ed istituti di interesse generale, aventi scopi esclusivamente culturali, di cui all’art. 6 del dpr n. 601/1973 ed alle stesse non torna applicabile la citata disciplina agevolativa, trattandosi di disposizioni eccezionali, applicabili, pertanto, alle Fondazioni bancarie, solo con i limiti e le rigide prescrizioni, disposte dalla legge e puntualizzate dalla giurisprudenza Comunitaria e Nazionale;
– dal precitato vincolo, per un verso, deriva l’esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo alla Fondazione, la quale, in relazione alla partecipazione posseduta, è in grado di influire nell’attività bancaria e, sotto altro profilo, discende che le fondazioni possono godere dell’agevolazione di che trattasi, solo a condizione che abbiano svolto nell’anno di imposta in considerazione, una attività di esclusiva o prevalente promozione sociale e culturale.
Né a diverso opinamento inducono le considerazioni svolte dalla difesa della Fondazione, secondo la quale l’Amministrazione sarebbe, sempre, tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica, con la conseguenza che, ove ometta tale adempimento nel termine di legge, “il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza nell’an e nel quantum”, restando, per l’effetto, preclusa all’Amministrazione Finanziaria ogni contestazione in merito.
In vero, le argomentazioni svolte nelle decisioni richiamate a sostegno di tale tesi, per un verso, non risultano utili e conducenti per dare soluzione alla concreta fattispecie e, sotto altro profilo, non offrono elementi idonei ad incrinare la logicità dell’iter argomentativo posto a base dei condivisi principi, affermati dalle richiamate pronunce delle Sezioni Unite di questa Corte e della Giurisprudenza Comunitaria, cui il Collegio, intende dare continuità. Nel caso, in vero, il preteso credito d’imposta, trae origine da speciali disposizioni, che prevedono l’applicazione di una aliquota agevolata, solo in favore di particolari soggetti giuridici e sempre che la relativa attività, non solo trovi riscontro negli scopi statutari e nella documentazione fiscale, ma venga opportunamente evidenziata con la domanda di beneficio e, comunque, con l’originario ricorso e, quindi, se ne dia prova in giudizio.
Ne deriva che, in difetto di tali presupposti, non sussistono le condizioni per ritenere che sulla domanda di rimborso del credito d’imposta si sia formato il silenzio rifiuto e, tanto meno, per affermare che, nel caso, il credito d’imposta sia stato chiesto a rimborso con la dichiarazione annuale, l’Amministrazione, onde evitarne la “cristallizzazione” nell’an e nel quantum, debba provvedere al riguardo, nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica.
Ne discende, coerentemente, che trattandosi di agevolazione fiscale, alla stregua di consolidato orientamento giurisprudenziale, cui le anzi trascritte sentenze delle Sezioni Unite della Corte hanno dato continuità, non è revocabile in dubbio il fatto che era preciso onere del richiedente, allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere e che, in difetto, il reclamato credito d’imposta giammai si è potuto “cristallizzare”, non essendo mai venuto ad esistenza.
Il ricorso va, quindi, accolto e, per l’effetto, va cassata l’impugnata decisione, con rinvio ad altra sezione della CTR dell’Emilia Romagna, la quale, in altra composizione, procederà al riesame e, quindi, deciderà, in applicazione dei trascritti e riaffermati principi, motivando adeguatamente e pronunciando anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M. – Accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia ad altra sezione della CTR dell’Emilia Romagna.

(1) Cass. 5 novembre 2014, n. 23529, in Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) Cass. 5 febbraio 2016, n. 2277, in Boll. Trib. On-line.
(4) Cass. 29 dicembre 2006, n. 27619, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cass. 12 marzo 2007, n. 5740, in Boll. Trib. On-line.
(6) Cass. 22 gennaio 2009, n. 1576, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cass. 18 dicembre 2009, n. 26683, in Boll. Trib. On-line.
(8) Cass. 5 luglio 2013, n. 16842, in Boll. Trib. On-line.

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