5 Agosto, 2014

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Evoluzione dell’ordinamento penale militare della guardia di finanza – 3. Analisi del delitto di collusione – 4. L’interesse giuridico tutelato dal delitto di collusione – 5. Conclusioni.

 

 

1. Premessa

L’attuale momento storico, caratterizzato da una crisi economica tra le più gravi degli ultimi due secoli e da una generale sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni finanziarie, impone agli Organi e alle istituzioni dello Stato, e ancor più agli appartenenti al Corpo della Guardia di finanza, titolare delle attività di tutela dell’area economico finanziaria, comportamenti improntati al massimo rigore. La “questione morale” che ciclicamente pone all’attenzione dell’opinione pubblica l’attività di politici e funzionari dello Stato deve rappresentare per i militari della Guardia di finanza un richiamo al giuramento prestato a cui informare il proprio operato.

Il rigore morale che deve informare il comportamento degli appartenenti al Corpo è lo spunto del presente elaborato, teso ad osservare l’evoluzione del paradigma sanzionatorio a cui sono assoggettati i militari del Corpo e, in particolare, ad esaminare il reato di collusione con estranei per frodare la finanza.

2. Evoluzione dell’ordinamento penale militare della Guardia di finanza

Fino al 1914 (R.D. 24 dicembre 1914, n. 1409) la Guardia di finanza è stato un Corpo di polizia fiscale ordinato civilmente, anche se annoverava tra i suoi compiti istituzionali quello di concorrere, in caso di guerra, alle operazioni militari sotto la direzione e il coordinamento dell’Esercito. Principalmente per questo motivo, ma anche per conferire maggiore coesione al personale, il Corpo fu assoggettato gradualmente, dapprima, ad un regime disciplinare sullo schema di quello militare e, successivamente, alla stessa legge penale militare. I precedenti storici del reato di collusione con estranei per frodare la finanza e del delitto di violazione delle leggi finanziarie, commessi dai militari della Guardia di finanza, vanno ricercati, anzitutto, nell’art. 24 della legge 13 febbraio 1896, n. 40. Ancor prima la legge 13 maggio 1862, n. 616, assoggettò il personale del Corpo delle Guardie doganali alla legge penale militare e alla giurisdizione militare per i reati di diserzione qualificata e insubordinazione (art. 11) e d’uso illegittimo delle armi in servizio (art. 13). In seguito la legge 8 aprile 1881, n. 149, che trasformò il Corpo delle Guardie doganali in Corpo delle Guardie di finanza, sancì espressamente che esso faceva parte delle forze militari di guerra dello Stato, recepì ampiamente il regime disciplinare militare, confermò le precedenti norme sulla tutela penale militare e creò i reati militari propri del finanziere: contrabbando, collusione con estranei per frodare la finanza, trafugamento di valori o generi appartenenti al Corpo o ai suoi componenti, traffico di tali valori o generi, corruzione (art. 17) e ne deferì la cognizione alla giurisdizione militare (art. 18).

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Dopo circa trent’anni una nuova disposizione normativa, il R.D. 26 novembre 1914, n. 1440, si occupava ancora dei reati previsti dall’art. 17 della legge n. 149/1881, lasciando inalterata la struttura dei reati di collusione e contrabbando, e conferendo, invece, un assetto più organico al reato di «trafugamento di valori o generi, e traffico degli stessi». Sin dall’inizio furono avanzate, da parte di autorevole dottrina (1) perplessità circa il reato di collusione. In particolare era osservato come non potesse essere sufficiente all’integrazione del reato il semplice patto collusivo, e si concludeva che si era alla presenza di un’ipotesi particolare di «concorso ed aderenza alla frode, in modo da comprendere tanto la complicità quanto il favoreggiamento». Aderendo a tale orientamento, quindi, la collusione trovava piena realizzazione solo nel caso in cui avesse fatto seguito la frode alla finanza. In ogni caso tale dottrina, ancorché non riuscisse a motivare le proprie affermazioni in modo del tutto soddisfacente, mostrava d’avere bene inteso quale fosse la ragione d’essere della norma: ossia «il militare della Guardia di finanza che si rende colpevole di contrabbando, eseguendolo o partecipandovi, non viola solamente il dovere generico di fedeltà inerente alla qualità di funzionario dello Stato, ma viola altresì il dovere specifico di vigilanza che forma l’essenza intrinseca del proprio ufficio».

Meritano attenzione, poi, altre due disposizioni normative: da una parte la legge 19 luglio 1906, n. 367, che rese i finanzieri soggetti attivi d’altri reati militari; dall’altra la legge 5 giugno 1913, n. 550, che sancì la sottoposizione dei finanzieri, anche in tempo di pace, alla giurisdizione militare «per qualunque reato previsto dal Codice penale militare». La soggezione completa dei finanzieri al regolamento di disciplina militare e ai codici penali militari, anche nei rapporti reciproci con i militari dell’Esercito e della Marina, fu dichiarata con il R.D. n. 1409/1914. L’art. 16 del D.L. delegato 14 giugno 1923, n. 1281, che approvava il nuovo ordinamento della Guardia di finanza, riprodusse le norme sullo speciale regime penale militare del finanziere. Non fu, tuttavia, considerato opportuno riproporre reati militari speciali per i finanzieri (2), quando per questi erano integralmente applicabili i corrispondenti articoli del Codice Penale per l’Esercito del 1869. Nel momento storico in cui furono emanati i nuovi codici penali militari (R.D. 20 febbraio 1941, n. 76) si avvertiva la necessità di adeguare le norme relative ai reati militari speciali del finanziere agli stessi codici. A tale scopo fu emanata la legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (tuttora vigente), il cui art. 3 così dispone: «Il militare della Guardia di finanza che commette una violazione delle leggi finanziarie costituente delitto o collude con estranei per frodare la finanza, oppure si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o d’altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l’amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del Codice Penale Militare di Pace, ferme le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali» (3).

L’ultimo comma dell’art. 3 attribuisce, in ossequio all’orientamento dominante circa la definizione di legge penale militare, la cognizione dei reati contemplati dall’art. 3 della legge n. 1383/1941 alla giurisdizione militare. Viene subito all’evidenza, quindi, come alla Guardia di finanza fu applicato un regime penale militare più ampio e severo di quello applicato alle altre Forze armate. Detti reati appartengono a quella categoria indicata dalla dottrina come reati speciali o propri, nel senso che possono essere commessi solo da soggetti investiti dello status giuridico di militare della Guardia di finanza.

3. Analisi del delitto di collusione

L’art. 3 della legge n. 1383/1941 disciplina il reato commesso dal militare della Guardia di finanza che collude con estranei al fine di frodare gli interessi finanziari pubblici. Impropriamente, quando si parla dell’art. 3 della legge n. 1383/1941, si pensa immediatamente al delitto di collusione, probabilmente perché è il reato più peculiare contenuto nell’art. 3, ed è quello che più degli altri fa discutere. In realtà, però, la stessa norma contiene, oltre al delitto di collusione, altri due reati, la violazione finanziaria costituente delitto e il peculato, entrambi accomunati con il primo solo per alcuni aspetti. Per essere più precisi, hanno in comune il soggetto attivo del reato, il trattamento sanzionatorio e l’Autorità giudiziaria competente. L’esegesi della seconda parte della norma evidenzia, infatti, che non si configura un solo reato ma tre distinte fattispecie penali; pertanto, a parere di un autorevole Autore (4), ognuna delle definizioni sintetiche riferite ai reati in esame: «collusione in contrabbando», «peculato del militare della Guardia di finanza» e «contrabbando militare» risultano imprecise.

Per quel che concerne la disposizione che contiene la norma sul delitto di collusione, essa fu emanata durante il periodo bellico e si poneva come fini principali quelli di provvedere alla militarizzazione del residuo personale in servizio presso il Corpo della Guardia di finanza, e di riformulare le fattispecie incriminatrici in materia, inasprendone il carico sanzionatorio. Per meglio definire, e quindi comprendere, in che cosa consista la condotta collusiva, di sicuro può tornare utile una breve analisi etimologica del termine “collusione”.

Il verbo “colludere” deriva dal latino cum ludere, nel suo significato originario, “giocare assieme”, “intendersela con altri”. Indubbiamente, nel corso del tempo, il termine è venuto assumendo un altro e ben diverso significato: con tale verbo si indica, infatti, il comportamento di chi si accorda segretamente con altri allo scopo di compiere un’azione rivolta contro diritti di terzi o comunque illecita (5).

Quello riportato da chi scrive è lo stesso significato che il legislatore ha attribuito al termine collusione nelle uniche due norme di confronto rinvenibili nel codice penale: ossia l’art. 353 c.p. (Turbata libertà degli incanti), dove viene ipotizzata, tra le varie attività delittuose finalizzate ad impedire o a turbare la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche Amministrazioni, quella realizzata mediante «collusioni o altri mezzi fraudolenti»; e l’art. 380 c.p. (Patrocinio o consulenza infedele), dove al secondo comma, punto primo, viene previsto un aumento di pena nel caso in cui il colpevole abbia commesso il fatto «colludendo con la parte avversaria». È stato a ragion veduta osservato che, probabilmente, la causa di un così ridotto ambito di richiamo del concetto di collusione, sia da attribuire alla difficoltà che s’incontra nel tentativo di delinearne con nitidezza gli esatti contenuti (6).

Il delitto di collusione ha determinato numerosi e profondi contrasti tra dottrina e giurisprudenza, dovuti soprattutto allo scarso contenuto informativo che si ricava dalla struttura della norma, e di conseguenza all’impossibilità di delineare con certezza: la natura, il fine ed il campo d’operatività dell’incriminazione in oggetto.

Si affronta in primis l’analisi della condotta tipica del reato, dove con questo termine ci si riferisce al comportamento umano rilevante per l’integrazione della fattispecie incriminatrice.

La condotta tipica del delitto in oggetto consiste nella partecipazione ossia nell’adesione del militare della Guardia di finanza, soggetto attivo del reato proprio, ad un accordo. La norma precisa, altresì, che la persona con la quale il militare stipula l’accordo deve, necessariamente, essere estranea al Corpo; mentre l’intento di frodare la finanza deve essere il movente comune ad entrambi i partecipanti all’accordo e idoneo a soddisfare i requisiti necessari affinché si configuri il dolo specifico.

Appariranno atipiche, rispetto al delitto di collusione, sia quelle intese collusive che vedranno come loro partecipanti esclusivamente militari della Guardia di finanza, ancorché finalizzate al medesimo scopo fraudolento; sia l’adesione di un finanziere a qualsiasi intesa fraudolenta diretta, però, a conseguire finalità diverse da quelle evidenziate.

Per quanto riguarda il soggetto partecipante all’intesa, diverso dal finanziere, questi ben potrà, ad avviso di chi scrive, appartenere ad un’Amministrazione militare dello Stato diversa dalla Guardia di finanza, e in ultima analisi anche a quest’ultima, solo, però, qualora agisca in qualità di semplice cittadino, comunque destinatario dei precetti delle leggi finanziarie (7).

Il fatto che il legislatore non abbia delineato con chiarezza quale sia l’interesse tutelato, consente di affermare che siamo di fronte ad una norma penale in bianco, ossia ad una norma che si lascia colmare da tutte quelle disposizioni dettate a tutela degli stessi interessi. Infine si può costatare che si tratta di una fattispecie plurisoggettiva necessaria, o meglio, ad un reato plurisoggettivo bilaterale, in quanto la norma descriverebbe due condotte non parallele ma dirette l’una verso l’altra.

Prendiamo ora in considerazione il soggetto attivo del reato, dove con questo termine ci si riferisce a colui che la legge penale designa quale possibile autore del reato. Generalmente esso è identificato con una qualsiasi persona fisica (c.d. reati comuni), salvo casi ben precisi in cui, la norma stessa, fa riferimento ad una persona qualificata in rapporto alla sua posizione giuridica, al proprio status o anche alla propria situazione di fatto (c.d. reati propri). Nel caso in argomento, poiché la norma fa espresso riferimento al militare della Guardia di finanza, indipendentemente dal grado ricoperto, quale soggetto attivo del reato, ci si trova di fronte ad un reato proprio.

Essendo poi l’art. 3 della legge n. 1383/1941, nel disciplinare il delitto di collusione, tassativo nel riferimento ai soli militari della Guardia di finanza, è da escludere che un appartenente ad un’altra forza armata possa essere incriminato a tale titolo (8).

Di conseguenza, qualora un militare di un’altra Forza armata dovesse rendersi colpevole di tale delitto, questi risponderà solo del reato speciale eventualmente commesso, e non anche di quello militare in esame.

La giurisprudenza del Tribunale Supremo Militare (9), chiamata a pronunciarsi, ha sancito che possa essere riconosciuto quale soggetto attivo di tale reato, anche il militare che si trovi in licenza illimitata (10). Con tale pronuncia, tali giudici hanno dimostrato di aver recepito e di essersi adeguati al disposto dell’art. 3 del C.P.M.P. (Militari in servizio alle armi), il quale sancisce che «l’assenza del militare dal servizio alle armi per licenza, ancorché illimitata, per infermità, per detenzione preventiva, o per altro analogo motivo, non esclude l’applicazione della legge penale militare».

Con riferimento al soggetto passivo del reato, s’intende il titolare del bene protetto dalla norma. Dal momento che la legge penale si muove in una prospettiva di tutela eminentemente pubblicistica, si è talvolta ritenuto che soggetto passivo costante di qualsiasi reato sia lo Stato, mentre soggetto passivo variabile è la persona cui il bene offeso sia direttamente attribuibile (11).

Dall’analisi del disposto normativo è facile osservare come l’accordo collusivo, affinché sia integrato il reato, debba porsi come obiettivo la frode degli interessi finanziari dello stato. Tale assunto rende, pertanto, pacifico che la fattispecie in esame è un reato a dolo specifico. Il dolo rappresenta la forma tipica della volontà colpevole, poiché esprime il nesso psichico più stretto ed immediato tra il fatto e il suo autore. A causa dell’importanza che il dolo ha assunto, quale criterio d’imputazione psichica, è sorta l’esigenza di creare figure particolari di dolo basate sempre sul suo asse concettuale (12).

Secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario (13), affinché si consumi il delitto di collusione, è sufficiente il semplice accordo tra il militare della Guardia di finanza e l’estraneo, caratterizzato dal comune fine di frodare la finanza.

L’accordo, da solo, sarebbe quindi sufficiente ad integrare la materialità del reato, a nulla rilevando l’ulteriore realizzazione dello scopo fraudolento, circostanza che non sarebbe idonea neanche a rimuovere o diversamente qualificare quanto già definitivamente compiuto. Anzi, un successivo e fruttuoso epilogo dell’accordo determinerebbe un reato che concorrerebbe con quello perfezionatosi in precedenza (14).

Di recente deve evidenziarsi un orientamento giurisprudenziale che sostiene il carattere eccezionale della norma in esame e che afferma che siano idonee ad integrare la fattispecie solo quelle intese che abbiano un contenuto specifico, concreto e determinato o eventualmente determinabile, e non anche quelle intese a contenuto generico o incerto (15).

Alla luce di quanto sopra detto circa il momento in cui si perfeziona l’accordo collusivo, è opportuno domandarsi quale trattamento penale si debba serbare all’ipotesi in cui tale accordo, corredato del necessario elemento soggettivo, sia sfociato in una violazione finanziaria costituente delitto.

Alcuni hanno sostenuto che essendo il delitto finanziario non necessario per il perfezionamento dell’accordo, i due reati sono autonomi perché offendono interessi diversi e di conseguenza concorrono (16). Si ritiene, però, che tale orientamento, oltre a partire da presupposti poco condivisibili, violi il fondamentale principio ne bis in idem, secondo il quale non si può punire più volte la stessa persona per il medesimo fatto.

Si pone altresì in evidenza la problematica suscitata dalla disposizione che prevede, per il finanziere colpevole, l’applicazione anche delle sanzioni pecuniarie previste dalle leggi speciali. Su questo argomento si sono formati, nel corso del tempo, due diversi orientamenti della giurisprudenza (17). Il primo considera il reato unico, a sanzione mista, ossia ritiene che la qualità del soggetto attivo trasformi l’illecito finanziario in un fatto che lede gli interessi relativi alla disciplina del Corpo e del servizio della Guardia di finanza, e di conseguenza si realizza un unico reato militare, autonomo, integrato solo dalle eventuali sanzioni pecuniarie previste dall’illecito finanziario, il cui scopo è solo quello di apprestare maggiore tutela data l’ampiezza degli interessi tutelati. Un altro orientamento giurisprudenziale sostiene invece che, tra il reato di collusione in esame e i reati previsti da singole leggi speciali, vi sia concorso formale. In sostanza tale ultimo orientamento giunge alla conclusione che se un finanziere commette un delitto finanziario, questi, in quanto attenta a due diversi beni giuridici tutelati, rispettivamente dall’ordinamento militare e da quello comune, pone in essere due differenti reati ed è sottoposto ad entrambi i paradigmi sanzionatori.

A parere di chi scrive la seconda delle tesi esposte non appare del tutto condivisibile in quanto si sviluppa su una errata visione del reato militare. Si ritiene che il delitto di collusione, come contemplato dall’art. 3 della legge n. 1383/1941, abbia carattere plurioffensivo, poiché rivolto alla tutela sia dell’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi sia alla fedeltà del finanziere verso i doveri contratti con il giuramento.

Questa pluralità di interessi tutelati spiega perché siano previste delle sanzioni più aspre di quelle sancite dai reati cui si riferiscono, e perché trovino applicazione anche le sanzioni pecuniarie previste dall’illecito fiscale. Sanzioni penali e pecuniarie si saldano quindi tra loro proprio per indicare la più incisiva risposta che si possa dare ad un fatto che, contemporaneamente, lede due distinti interessi.

Per quanto concerne, poi, la possibilità che operino per la collusione le circostanze aggravanti previste per gli illeciti finanziari, ci si trova al cospetto di due possibilità: o si protende per la categorica non operatività di queste circostanze oppure le stesse mutano fisionomia incidendo in diversa misura sul complessivo sistema sanzionatorio.

La prima ipotesi sembra essere più rispettosa del testo letterale del più volte citato art. 3, in quanto lo stesso prevede che trovino applicazione le pene pecuniarie previste dalle leggi speciali, ma nulla dice in merito all’applicazione delle circostanze aggravanti, lasciando intendere che veniva ritenuta congrua l’entità della sanzione detentiva dallo stesso fissata. Oltretutto una scelta di senso contrario determinerebbe un inasprimento di un settore già caratterizzato da notevole severità, con la conseguenza che verrebbe ad essere vanificata quella che è la logica stessa cui sottendono, cioè il tipico effetto ulteriormente sanzionatorio (18).

Qualora, invece, si dovesse prediligere la seconda ipotesi, si verrebbero ad incontrare dei limiti in alcuni reati specifici, ad esempio quello di contrabbando dove la circostanza aggravante comporta non solo una modifica della specie della pena ma prevede persino un minimo edittale (tre anni) superiore a quello previsto per la collusione (due anni).

Proseguendo nell’analisi del delitto di collusione, ci si rende conto che la norma prevede che l’accordo collusivo, tra militare ed estraneo, sia caratterizzato da dolo specifico, espresso in modo ampio, con la locuzione «al fine di frodare la finanza», senza contenere note restrittive o chiarimenti alcuni.

Possiamo quindi affermare che, affinché si abbia collusione, necessita un quid pluris rispetto al mero accordo con l’estraneo e qualcosa di diverso dal semplice accordo al fine di commettere un reato o un illecito finanziario. Ancora, la norma sancisceche il finanziere può commettere il reato in esame solo qualora colluda con estranei, emergendo chiaramente quindi come il soggetto attivo del reato sia il finanziere. Nello stesso tempo si può notare, però, come dalla norma non si evinca alcuna previsione sanzionatoria nei confronti dell’estraneo che si accorda col finanziere: di conseguenza, a rigore di norma, questi andrebbe esente da pena.

Alla luce del quadro delineato, si può affermare dunque che la collusione è un particolare accordo che risente in maniera notevole delle intenzioni delle parti che vi hanno partecipato, la cui struttura risulta influenzata da un insieme di elementi oggettivi e soggettivi. Si rende pertanto necessario definire cosa s’intenda per dolo specifico, predicato dalla locuzione «al fine di frodare la finanza», perché sia chiaro che non esistono reati di frode alla finanza, bensì esistono norme che tutelano l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi e a non subire lesioni nei suoi tipici e diversi attributi di carattere finanziario. La condotta collusiva del finanziere diviene quindi rilevante solo se persegue lo scopo di frodare la finanza, ossia di compiere una serie indeterminata di illeciti, accomunati dal fatto di essere lesivi degli interessi finanziari dello Stato.

Corre l’obbligo di fare un’altra precisazione, cioè che il dolo specifico che sorregge la collusione non necessariamente deve precedere un illecito finanziario o essere preordinato alla sua commissione, bensì può capitare che esso manifesti i suoi effetti nei confronti di illeciti già realizzati e si proponga di garantire l’impunità agli autori (19).

Con riferimento all’uso del sostantivo plurale “estranei”, quando si parla della controparte necessaria all’accordo collusivo, esso non sta ad indicare che per la configurabilità del reato di collusione, il finanziere debba, a tutti i costi, unire le proprie forze a quelle di una pluralità di soggetti estranei al Corpo, ma indica semplicemente l’altro versante del contegno collusivo.

Per meglio comprendere l’entità del patto collusivo si deve fare un confronto tra la disciplina del concorso di persone nel reato e il delitto di collusione: nel primo l’accordo è finalizzato alla commissione di uno o più reati determinati, e si esaurisce al termine della commissione degli stessi; nella collusione l’accordo travalica e prescinde dalla commissione dei singoli illeciti, proiettando la sua efficacia su qualunque attività funzionale rispetto allo scopo di frode. In sostanza c’è un progetto fraudolento delineato solo per obiettivi, pertanto ogni atto che in qualsiasi modo si manifesta in sintonia con gli obiettivi prefissati, costituisce un tassello del più ampio patto collusivo. Si rileva quindi da una parte l’obiettivo, dall’altra la condotta collusiva, che è stata meglio definita come «convergenza di manifestazioni di volontà e di atti preliminari rivolta al fine di ledere gli interessi finanziari in senso ampio dello Stato» (20).

Costituiscono esempi di condotta collusiva, dall’impedire l’accertamento dell’evasione fiscale già consumata, all’occultare la già sequestrata e compromettente documentazione contabile; dal segnalare l’imminente avvio di una verifica fiscale all’eseguirne una con la riserva mentale di un sicuro epilogo positivo.

La collusione esprime quindi, oltre agli elementi sopra indicati, una scelta di campo chiara, che non lasci dubbi; ossia la decisione, da parte del finanziere, di violare i doveri istituzionali accettati con il giuramento. Di conseguenza non configurerà il delitto di collusione il mero disinteresse per l’altrui illecito finanziario, ovvero il tollerare che altri evadano o facciano contrabbando, comportamenti configuranti altro reato, ma non quello di collusione.

4. L’interesse giuridico tutelato dal delitto di collusione

La definizione dell’interesse giuridico di un reato o bene giuridico tutelato riveste una rilevante importanza nello studio di una norma penale, perché consente di comprendere quale sia il bene o interesse, individuale o sovraindividuale (collettivo, pubblico-istituzionale), offeso dal reato e tutelato dalla norma (21).

Al fine di evitare l’insorgere di equivoci, appare opportuno rilevare che l’oggettività giuridica della norma è cosa diversa dallo scopo della stessa; dove con tale ultima locuzione si fa riferimento al fine perseguito dal legislatore con l’incriminazione di un determinato fatto ossia il motivo che ha spinto il legislatore a legiferare in una data materia. Il bene giuridico deve presentare un significato autonomo, fine a sé stesso e anteriore alla norma penale, in mancanza del quale non potrebbe assolvere il suo compito sistematico di misura del contenuto e di delimitazione della fattispecie penale.

Il bene giuridico, pertanto, non può che essere un bene reale e concreto sia esso morale o materiale, al quale il diritto accorda protezione per la sua attitudine a soddisfare un bisogno umano. Il legislatore, nel determinare le fattispecie incriminatici, opera quindi una classificazione dei diversi beni giuridici, scegliendo oculatamente quali siano meritevoli di protezione e il modo in cui garantire detta tutela.

Del concetto di bene giuridico non deve aversi, tuttavia, una visione statica, poiché gli interessi meritevoli di tutela, una volta determinati, possono mutare nel corso del tempo. Una simile staticità è contraria alla funzione stessa del diritto e al suo naturale adattamento all’evoluzione sociale; adattamento che l’interprete deve operare attraverso quella particolare forma d’interpretazione detta storico-evolutiva.

Interpretare evolutivamente la legge significa, quindi, verificare se il bene giuridico che la norma intendeva tutelare al momento della sua formazione è ancora operante e, in caso affermativo, accertare gli attuali suoi limiti e la sua posizione nell’ordinamento dei valori dei diversi beni giuridici.

Ciò è necessario perché, oltre alla mutevolezza del contenuto, gli interessi meritevoli di tutela presentano un ulteriore aspetto suscettibile di variazione, che è quello relativo al loro reciproco ordinamento di valori.

Identificare con chiarezza il bene giuridico e comprenderne la funzione è di fondamentale importanza, soprattutto nel momento in cui si affronteranno i principali problemi relativi al delitto di collusione ossia: quello relativo all’ammissibilità della disciplina del concorso di persone nel reato di collusione; quello sul contrasto tra chi sostiene l’applicabilità del principio di specialità e chi, invece, ritiene sussistere il concorso formale tra il reato di collusione, quello di corruzione e quello di concussione. E ancora, quale sia l’Autorità giudiziaria competente in caso di concorso di reati.

Sulla qualificazione dell’interesse giuridico tutelato dal delitto di collusione si sono venuti a formare, sostanzialmente, tre diversi orientamenti, confortati sia da tesi dottrinali che da pronunce giurisprudenziali.

Secondo un primo orientamento, il bene giuridico che si è voluto tutelare con il reato di collusione è l’interesse pubblico alla regolarità del gettito fiscale e finanziario. Detto orientamento trova conferma in alcune pronunce giurisprudenziali già a partire dalla metà del secolo scorso (22) e viene, altresì, sostenuto da parte della dottrina (23). In particolare il Siena dà una definizione di oggetto giuridico tutelato, «il reato di collusione mira alla tutela dell’interesse dello stato alla riscossione dei diritti finanziari», in contrapposizione a quello tutelato dal reato di corruzione, al fine di sostenere il possibile concorso formale fra i due reati. Il Codagnone ritiene che «l’oggetto giuridico tutelato dalla norma incriminatrice in questione è la tutela dell’interesse dello Stato alla riscossione dei diritti finanziari» e aggiunge che «esso non offende direttamente lo Stato nel suo patrimonio bensì nel suo diritto sovrano all’imposizione e riscossione dei tributi».

Secondo un diverso orientamento l’interesse tutelato dalla norma in oggetto è quello proprio dell’organizzazione militare del Corpo della Guardia di finanza alla disciplina dei membri. Tale tesi trova molti riferimenti in alcune pronunce del Tribunale Supremo Militare (ormai abrogato) (24), che hanno rappresentato lo spunto per sostenere la natura obiettivamente militare del delitto di collusione e in altre pronunce della giurisprudenza di legittimità (25). Infine si evidenzia che la medesima tesi è condivisa anche da autorevoli Autori (26). In particolare il Frassini (27) sostiene che «nel caso della collusione il legislatore ha inteso colpire la lesione degli interessi dell’organizzazione militare circa la disciplina ed il servizio delle Guardia di finanza, anche se da ciò consegue il risultato ulteriore di rafforzare la tutela degli interessi finanziari dello Stato».

Esiste poi un terzo orientamento che individua, quale bene giuridico tutelato dal delitto di collusione, il dovere di fedeltà del militare della Guardia di finanza verso il Corpo di appartenenza e verso lo Stato. Anche tale ultima tesi, sostenuta da autorevole dottrina (28), trova fondamento in talune pronunce della giurisprudenza di merito (29) e di legittimità (30).

In merito alla dottrina che fa sua quest’ultima tesi, occorre ricordare che l’Antonioni sostiene che «la collusione è punita in quanto attua la violazione di un rapporto fiduciario del quale è destinatario uno dei soggetti che collude» e finalizza questa sua affermazione alla dimostrazione dell’autonomia del reato di collusione, rispetto alle altre due norme contenute nell’art. 3 della legge n. 1383/1941.

Troviamo altri due orientamenti, accanto a questi tre indirizzi principali. Uno, portato avanti dalla Mulliri (31), che sostiene il carattere plurioffensivo del reato di collusione; e un altro che considera, quale bene giuridico tutelato, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica Amministrazione.

Con riferimento all’orientamento che sostiene il carattere plurioffensivo del reato, deve essere precisato che gli interessi giuridici tutelati sono, da una parte, gli interessi finanziari dello Stato e, dall’altra, l’interesse alla disciplina e al prestigio del Corpo, e ciò perché la Guardia di finanza, da un lato, ha un ordinamento militare e come tale è inserita nelle Forze Armate e, dall’altro, è organicamente inserita nell’Amministrazione civile in seno al Ministero delle finanze, dal cui Ministro direttamente dipende.

L’ultimo orientamento indicato, ossia quello che considera bene giuridico tutelato il buon andamento e l’imparzialità dell’agire amministrativo, viene principalmente sostenuto dal Fiorino (32), il quale motiva questa sua teoria, proponendo una rilettura della norma che prevede il delitto di collusione alla luce dei beni costituzionalmente rilevanti. In particolare tale autore, facendo leva sull’inserimento della Guardia di finanza nell’Amministrazione civile, considera applicabili ai militari del Corpo i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione e riferibili ai pubblici impiegati, e in particolare l’art. 97 Cost. che sancisce i principi di buon andamento e imparzialità dalla pubblica Amministrazione. Inoltre, come aggiunge il Melchionda (33), essendo i militari di carriera, ai sensi dell’art. 98 Cost., equiparati ai pubblici impiegati nell’espletamento delle loro funzioni, dovranno sia rispettare i particolari doveri che hanno assunto col giuramento, sia perseguire il buon andamento e l’efficienza della pubblica Amministrazione.

In pratica questa parte della dottrina accomuna il bene giuridico che si vuole tutelare con il delitto di collusione, a quello tutelato da tutti i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione.

Una compiuta attività esegetica delle tesi sopra riportate, in ordine al bene giuridico tutelato dal delitto di collusione, ne esplica i principali limiti, delineando quale tra esse possa essere considerata più condivisibile.

Partendo dall’orientamento che individua, quale bene giuridico tutelato dal delitto di collusione, la tutela dell’organizzazione militare del Corpo della Guardia di finanza alla disciplina dei suoi membri, si può seriamente dubitare della ragionevolezza di questa tesi perché, affinché sia immaginabile un illecito disciplinare, è necessario che sia stato violato precedentemente anche il dovere di fedeltà che lega il militare al corpo d’appartenenza. A sostegno di tale affermazione giova una lettura dell’art. 54 Cost. che sancisce il dovere di fedeltà verso la Repubblica cui sono tenuti tutti i cittadini e, in particolare, il dovere di svolgere le proprie funzioni, con disciplina e onore, per quei soggetti che svolgono pubbliche funzioni. In base a quanto detto, si percepisce chiaramente l’inopinabile rilievo costituzionale che incontra tale tesi. Inoltre deve evidenziarsi che sarebbe troppo riduttivo considerare il reato di collusione sullo stesso piano di un illecito disciplinare, perché il concetto stesso di illecito disciplinare si presenta vago e generico; inoltre nei reati contro la disciplina militare risulta arduo individuare un bene giuridico concreto e degno di tutela.

Per quanto riguarda la tesi che considera, quale bene giuridico tutelato dal delitto di collusione, il dovere di fedeltà del finanziere verso il Corpo d’appartenenza e verso lo Stato, parte delle considerazioni sopra fatte possono considerarsi valide. Tuttavia il riferimento al dovere di fedeltà del finanziere, oltre ad apparire generico, renderebbe oggetto di tutela ciò che in realtà è mezzo di tutela (34) ossia l’imposizione al militare di precisi doveri collegati al suo Ufficio. Si potrebbe, altresì, obiettare che sembra eccessivo il ricorso alla sanzione penale per tutelare detto valore, quando sarebbe sufficiente il ricorso a ben altri mezzi.

Ciò che tuttavia desta maggiori perplessità è che procedendo in tal senso si tende ad accogliere una concezione autoritaria del diritto penale, e a spostare l’analisi del reato dall’elemento oggettivo a quello soggettivo, di talché, estremizzando, si giungerà al rifiuto di vedere nel reato un fatto offensivo di un bene giuridico.

Si concorda nel ritenere paradossale accostarsi all’analisi di un reato, così come sostiene una parte della dottrina (35), considerandolo non più offensivo di un bene ma come violazione del dovere di fedeltà del cittadino verso lo Stato.

Alla luce di quanto sopra, si può affermare che è inaccettabile sostenere che una particolare categoria di reati, tra cui la collusione, tuteli il dovere di fedeltà poiché altrimenti si opterebbe per una visione autoritaria del diritto penale che, a parere di chi scrive, non sembra possa essere accolta. Inoltre pare necessario precisare che il dovere di fedeltà, in quanto tale, non potrà mai costituire un bene giuridico degno di tutela, non presentando un aspetto contenutistico e non essendo un’entità reale. Per di più, essendo la fedeltà correlata ad un dovere che non si pone come fine a sé stesso ma finalizzato alla tutela di beni giuridici, si può concludere che il dovere di fedeltà non può essere considerato oggetto di tutela, bensì mezzo di tutela.

Neppure l’orientamento che considera il delitto di collusione quale tipico reato finanziario, caratterizzato dal dolo specifico di frodare gli interessi finanziari dello Stato, appare particolarmente convincente. Le critiche che si possono rivolgere a questa impostazione partono anzitutto dalla correlazione ai reati di pericolo di talché l’elevato interesse dello Stato a riscuotere i tributi giustificherebbe l’arretramento della punibilità al solo accordo criminoso, anche in considerazione che fautore dell’accordo sia proprio chi è istituzionalmente deputato alla tutela degli interessi erariali.

È stato obiettato, però, che la scelta di prevedere un reato di pericolo si pone in contrasto con il contesto normativo in cui è inserita, in quanto lo stesso articolo prevede anche due reati di danno. Accogliendo tale tesi, inoltre, si condividerebbe l’applicazione di una pena veramente eccessiva, addirittura superiore a quella applicabile agli stessi reati in forma consumata.

Le pene previste per i reati di danno in frode alla finanza sono, infatti, pene pecuniarie. Se si considera, quindi, la collusione come un’anticipazione della tutela ai pubblici interessi finanziari e la si prospetta come un reato di pericolo, verrebbe a crearsi una grave disfunzione e cioè che la semplice intesa collusiva per frodare la finanza sarebbe punita in misura maggiore rispetto alla frode consumata.

5. Conclusioni

Per concludere appare doveroso fare riferimento ad un’ulteriore situazione che desta perplessità: l’attività istituzionale della Guardia di finanza, come quella svolta dagli appartenenti all’Arma dei Carabinieri, al Corpo della Polizia Penitenziaria, alla Polizia di Stato, e al Corpo delle Guardie Forestali, è qualificata come attività di polizia giudiziaria e amministrativa. Di conseguenza tutto il personale sopra detto versa nella medesima condizione, speciale rispetto agli altri appartenenti alle Forze Armate, di perseguire finalità non rilevanti per l’ordinamento giuridico militare. A tale proposito ci si chiede quale sia la ragione che sottende alla logica di punibilità del medesimo comportamento (collusione per frodare la finanza), quando è commesso da un militare della Guardia di finanza, e vada invece esente da pena quando è commesso da alcune delle figure sopra indicate, o addirittura dal personale civile appartenente all’Amministrazione finanziaria, titolare di identiche potestà, nella materia istituzionale in argomento.

A tale interrogativo è stato risposto dalla giurisprudenza, compresa la Consulta, che l’applicazione di un diverso e più rigido trattamento sanzionatorio previsto nei confronti dei militari della Guardia di finanza, rispetto agli altri soggetti appartenenti alle Forze Armate, sia da attribuire al fatto che, nel momento in cui il finanziere collude, «viene meno non solo al vincolo di fedeltà che incombe su tutti coloro i quali esercitano pubbliche funzioni (ex articolo 54 Costituzione), ma anche a quei particolari doveri inerenti la tutela degli interessi finanziari dello Stato, la cui cura è affidata al Corpo della Guardia di finanza» (36).

Per conferire maggiore credito alla sua tesi, la Corte fece anche riferimento all’art. 1 del Regolamento di Servizio della Guardia di finanza, Bozza di Stampa del 1959, il quale tra i compiti istituzionali del Corpo indica al primo posto quello della prevenzione, ricerca e denuncia delle evasioni e violazioni finanziarie.

Tale orientamento è avallato soprattutto da quella parte della dottrina che ritiene che il bene giuridico tutelato dal reato di collusione sia rappresentato dalla salvaguardia dell’interesse dello Stato alla riscossione dei diritti finanziari ovvero, in altre parole, che consista nella tutela degli interessi finanziari dello Stato.

A parere di chi scrive, la tesi che si dovrebbe preferire, perché maggiormente fedele al dettato normativo, è quella che opta per la natura plurioffensiva del reato in esame poiché appare evidente, già dal dettato normativo dell’art. 3 della legge n. 1383/1941, come esso sia proteso alla tutela sia dell’interesse dello stato alla riscossione dei tributi sia del distinto interesse alla fedeltà del finanziere ai suoi doveri di prevenire, ricercare e denunziare le violazioni finanziarie. Questa plurima dimensione lesiva, fondata sulla circostanza che a commettere il delitto sia proprio colui il quale aveva il compito d’impedirlo, spiegherebbe il perché siano state previste delle sanzioni più aspre e severe di quelle contenute nei delitti di riferimento e spiegherebbe altresì perché debbano trovare contestuale applicazione le sanzioni pecuniarie previste dall’illecito fiscale che costituiscono lo specifico presidio di tutela degli interessi finanziari dello Stato.

Emerge quindi, da quanto esposto, che la figura criminosa delineata dall’art. 3 della legge n. 1383/1941 contiene un precetto definito in modo chiaro e una sanzione, descritta con una tecnica che combina le pene previste dai reati di peculato militare e le sanzioni pecuniarie comminate, ad esclusiva tutela dell’interesse finanziario leso e in una prospettiva risarcitoria dalle norme che configurano i delitti finanziari. Pene criminali e sanzioni pecuniarie si fondono tra loro per costituire l’adeguata risposta ad un fatto che, avendo leso due distinti interessi, ha quindi espresso una duplice ragione di pena.

 

Dott. Gianluca Ferraro

 

(1) Cfr. P. Di Vico, Diritto penale militare, Milano, 1917, 371.

(2) Sull’argomento si veda G. Ciardi, La legge penale militare in rapporto alla Guardia di finanza, in Rass. giust. mil., 1914.

(3) A tale disposizione l’art. 5, terzo comma, della legge 27 marzo 2001, n. 97, ha aggiunto un secondo comma in virtù del quale «nel caso di condanna alla reclusione non inferiore a tre anni si applica il disposto dell’articolo 32-quinquies del codice penale relativo alla pena accessoria dell’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego».

(4) D. Brunelli – G. Mazzi, Diritto penale militare, Milano, 2007, 383.

(5) Sul significato moderno del termine, che è stato sopra riportato, c’è accordo quasi totale: ved. A. Melchionda, Interesse protetto e ratio di tutela nella collusione del finanziere, in Giust. pen., 1985, II; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino, V, 1982; G. Mulliri, Ammissibilità del concorso formale tra la corruzione e la collusione, in Cass. pen. Mass. ann., 1975, 1313; L. Sechi, Diritto penale e processuale finanziario, Milano, 1966, 92; F. Antonioni, voce Collusione, in Enc. dir., Milano, 1961, IX, 453; e G. Ciardi, I reati speciali per i militari della Guardia di finanza, in Riv. GdF, 1958, 71. In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza: ved. Cass., sez. un., 12 aprile 1980, in Giust. pen., 1980, III, 451. In senso contrario all’orientamento sopra visto ved. M. Zanotti, Profili problematici dell’illecito plurisoggettivo, Milano, 1985, 103; questi sostiene che la norma in oggetto non descriverebbe un accordo, bensì la sola manifestazione di disponibilità del militare a venir meno ai propri doveri.

(6) In merito alle considerazioni sopra enunciate, si veda A. Melchionda, op. cit., 236.

(7) In senso contrario a tale possibilità cfr. M. Zanotti, op. cit., 100.

(8) Sull’argomento ved. A. Melchionda, op. cit., passim.

(9) Soppresso a seguito della riforma della giustizia militare operata con legge 7 maggio 1981, n. 180.

(10) Ved. Trib. sup. milit. 18 gennaio 1952, in Arch. pen., 1953, 120, e in Giust. pen., 1952, II, c. 641.

(11) Cfr. T. Padovani, Diritto penale, Milano, 1998, 121 ss.

(12) Sull’argomento ved. T. Padovani, op. cit., 261 ss.

(13) Cfr. Cass. 25 marzo 1978, in Cass. pen., 1978, c. 320.

(14) Sull’argomento ved. A. Melchionda, op. cit., 230.

(15) Cfr. Cass., sez. VI, 5 maggio 1992, n. 5307, in G. Lattanzi (a cura di), Codice Penale, Milano, 1993.

(16) Cfr. Cass., sez. VI, 29 ottobre 1992, n. 10350, in La settimana giuridica, III, Roma, 1993, 147.

(17) Ved. al riguardo Trib. sup. militare 17 febbraio 1959, in Mass. giur. Trib. sup. milit., 1962; e Trib. sup. militare 25 novembre 1969, ivi, 1977; in senso contrario Trib. sup. militare 16 dicembre 1988, n. 147, inedita.

(18) In terminis ved. V. Santoro, Il reato di collusione, in Riv. GdF, n. 3, 1998.

(19) In tal senso ved. Cass., sez. VI, 24 maggio 1988, s.n., in Giust. pen., 1989, II, 602.

(20) Sull’argomento ved. V. Santoro, op. cit., passim.

(21) Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, Padova, 1992.

(22) Cfr. Cass., sez. un., 1° luglio 1950, s.n., in Giust. pen., 1951, III.

(23) In dottrina sostengono questa tesi M. Codagnone, I delitti di corruzione e di collusione in contrabbando e ancora sul delitto di collusione in contrabbando, in Giust. pen., 1965, II, 317; e ancora F. Siena, Collusione in contrabbando, in Monit. trib., 1962, 1298.

(24) Ved. Trib. sup. militare 18 giugno 1954, inedita; e Trib. sup. militare 20 febbraio 1973, in Mass. giur. Trib. sup. milit., 1978.

(25) Cfr. Cass. 17 maggio 1971, s.n., in Giust. pen., 1972, II, 872; e Cass., sez. un., 17 gennaio 1953, s.n., ivi, 1953.

(26) Ved. L. Sechi, op. cit.

(27) Frassini, Osservazioni sulla collusione del finanziere col contribuente: legittimità costituzionale e concorso dell’estraneo, in Dir. prat. trib., 1976, II, 1138.

(28) Ved. F. Antonioni, op. cit.;M. Zanotti, Dubbi interpretativi in tema di collusione del militare della Guardia di finanza con estranei al fine di frodare la legge, in Riv. ital. dir. proc. pen., 1972; e infine M. Di Lorenzo, Il contrabbando e gli altri reati doganali, Padova, 1956, 65.

(29) Ved. Trib. sup. militare 9 aprile 1974, s.n., in Giust. pen., 1975, II, 556.

(30) Cfr. Cass. 28 giugno 1972, n. 1007, in Mass. cass. pen., 1973, 1421; e Cass. 14 gennaio 1970, s.n., in Riv. it. dir. proc. pen., 1972, 805.

(31) G. Mulliri, op. cit., 1309.

(32) E. Fiorino, Osservazioni sul contenuto offensivo del delitto di collusione del finanziere e sui suoi rapporti con il delitto di corruzione, in rass. giust. mil., 1993, 291 ss. Cfr. altresì Cass., sez. I pen., 2 marzo 1999, n. 1763, in Dir. pen. e proc., 1999, 1277.

(33) Cfr. A. Melchionda, op. cit.

(34) Sull’argomento A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte speciale, Milano, 1986, 124, in cui l’Autore, trattando del dovere d’ufficio, come del dovere di fedeltà, afferma che questi, «proprio in quanto doveri non sono beni; essi sono piuttosto doveri posti a tutela di taluni beni».

(35) Ci si riferisce ai seguaci della c.d. “scuola di Kiel”.

(36) L’art. 30 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, sancisce infatti che l’accertamento delle violazioni finanziarie costituenti reato spetti, in via primaria, ad ufficiali e agenti di polizia tributaria, e, in via secondaria, ad ufficiali e agenti di polizia giudiziaria.