30 Ottobre, 2015

Sommario: 1. Il caso – 2. Il principio di intangibilità dell’IVA 3. Il pagamento parziale dell’IVA nel concordato preventivo: ammissibilità e limiti 4. Conclusioni.

 

1. Il caso

Con la sentenza 25 luglio 2014, n. 225 (1), la Corte Costituzionale si è espressa sulla norma che vieta la falcidia dell’IVA nell’ambito del concordato preventivo, anche in assenza di transazione fiscale. La Corte, non ravvisando in tale norma i profili d’illegittimità lamentati nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Verona, ha respinto tutte le censure sollevate dal giudice a quo (2).

Quest’ultimo si era trovato a dovere valutare l’ammissibilità di una proposta di concordato preventivo, nella quale era previsto il pagamento dell’Erario per crediti IVA nella misura complessiva del 41,12 per cento (3).

La proposta, così formulata, avrebbe consentito una soddisfazione dell’Erario senz’altro maggiore rispetto a quella ottenibile in sede fallimentare. In caso di fallimento, infatti, il pagamento del credito IVA non sarebbe potuto avvenire in misura superiore al 10 per cento (4).

L’ordinanza di rimessione, oltretutto, specificava che il fallimento sarebbe stato l’unico destino plausibile della società qualora la domanda di concordato preventivo fosse stata dichiarata inammissibile.

A fronte della proposta, il giudice a quo aveva preso atto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il divieto di proporre un pagamento parziale dell’IVA, disposto dall’art. 182-ter del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (di seguito legge fallimentare), in relazione alla transazione fiscale, opera anche con riferimento alle proposte di concordato preventivo che non contengono una transazione fiscale (5).

Invece di dichiarare l’inammissibilità della proposta di concordato, come il “diritto vivente” avrebbe imposto, tuttavia, il giudice a quo aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, censurando il combinato disposto degli artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost.

In particolare, secondo il Tribunale di Verona, la norma impugnata si sarebbe posta in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica Amministrazione, perché avrebbe impedito all’Agenzia delle entrate di valutare in concreto se la proposta di concordato preventivo consentisse un grado di soddisfazione del credito maggiore di quello ottenibile in sede fallimentare.

La norma, inoltre, sarebbe stata lesiva dell’art. 3 Cost., perché non avrebbe consentito all’Amministrazione finanziaria – contrariamente a quanto accade per tutti gli altri creditori privilegiati – di accettare un pagamento inferiore al credito, ma superiore a quello ricavabile dalla liquidazione del patrimonio del debitore.

La Corte Costituzionale è però stata di diverso avviso, evidenziando che il divieto di falcidia dell’IVA trova la sua ratio nella natura dell’IVA, tributo armonizzato e risorsa propria dell’Unione europea.

Secondo la Corte il divieto previsto dall’art. 182-ter della legge fallimentare è necessario per non contravvenire alle norme comunitarie, che vietano agli Stati membri di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere all’accertamento e alla verifica dell’IVA (punto 3.1 del “considerato in diritto”).

Il carattere “necessitato” della norma impugnata, dunque, discenderebbe dal principio comunitario di «intangibilità dell’Iva», che la Corte – vista la sua importanza nell’economia della decisione – si premura di ricostruire in dettaglio (punti 4 e 5 del “considerato in diritto”) (6).

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Ciò premesso, la Corte ha analizzato e respinto le censure sollevate dal giudice a quo, sulla base di una lettura dei parametri di legittimità costituzionale “compatibile” con il sopra richiamato principio di intangibilità dell’IVA (7).

In particolare, la sentenza afferma che l’art. 97 Cost. non risulterebbe violato, perché l’art. 182-ter della legge fallimentare, pur prevedendo il divieto di falcidia dell’IVA, ne ammette un pagamento dilazionato: tale previsione «deve essere intesa come il limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il principio di indisponibilità del tributo» (punto 6.2 del “considerato in diritto”).

La Corte ritiene, infine, che la norma impugnata non si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost. La disparità di trattamento fra l’Amministrazione finanziaria e gli altri creditori privilegiati, infatti, non sarebbe irragionevole «in considerazione della più volte sottolineata peculiarità della regolamentazione della transazione fiscale e del credito Iva» (punto 7 del “considerato in diritto”).

Per tali motivi, la pronuncia ha dichiarato la questione di legittimità costituzionale non fondata.

La sentenza, tuttavia, per quanto destinata a costituire un autorevole punto di riferimento per gli interpreti, giunge a conclusioni che non sembrano del tutto condivisibili.

Essa si fonda su di un argomento formalistico, l’intangibilità del credito IVA, che non ha permesso alla Corte di considerare i reali effetti della disposizione sottoposta al suo vaglio.

2. Il principio di intangibilità dell’IVA

Come anticipato, il principio di intangibilità dell’IVA ha un ruolo fondamentale nell’economia della sentenza in commento. I contenuti di tale principio, che trova la sua fonte nell’ordinamento comunitario, sono stati precisati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Particolare importanza riveste la sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06, con cui quest’ultima ha censurato il c.d. “condono tombale” dell’IVA, previsto in Italia dagli artt. 8 e 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (8).

L’art. 8 consentiva ai contribuenti di beneficiare, attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa e il versamento dei maggiori importi dovuti, e con riferimento alle annualità oggetto d’integrazione, di significative preclusioni degli accertamenti, dell’estinzione delle sanzioni amministrative e dell’esclusione della punibilità; il successivo art. 9, invece, a fronte del pagamento di un importo forfettario per ciascuna delle annualità ancora suscettibili di accertamento, prevedeva l’inibizione pressoché assoluta dei poteri impositivo, sanzionatorio e punitivo dello Stato (9).

I giudici comunitari, chiamati a valutare la compatibilità del “condono tombale” con l’ordinamento comunitario (naturalmente, solo con riferimento all’IVA), hanno affermato alcuni principi brevemente richiamati dalla sentenza che si annota (10).

In particolare, secondo la Corte di Lussemburgo, dagli artt. 2 e 22 della VI Direttiva (oggi sostituita dalla Direttiva 2006/112/CE) e dall’art. 10 del Trattato CE (oggi art. 4, par. 3, del Trattato UE) «emerge che ogni Stato membro ha l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che l’Iva sia interamente riscossa nel suo territorio» (punto 37).

Ciò premesso, si è affermato che gli Stati membri godono di una «certa libertà» in relazione ai mezzi con i quali assicurare tale risultato. Tale libertà, tuttavia, trova due importanti limiti: il primo consiste nel dovere di «garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità», mentre il secondo si sostanzia nell’obbligo di «non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti», in ossequio al c.d. “principio di neutralità fiscale” (punto 39) (11).

Nella specie, i giudici comunitari hanno ritenuto che la disciplina del “condono tombale”, in ragione dello squilibrio esistente tra le imposte effettivamente dovute e quelle versate dai contribuenti, conducesse a una quasi-esenzione fiscale (12).

Si è affermato, pertanto, che la disciplina censurata, introducendo rilevanti differenze di trattamento tra i soggetti passivi sul territorio italiano, si poneva in contrasto sia con il principio di neutralità fiscale, sia con l’obbligo di garantire una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri (punto 44).

Né valeva osservare, secondo i giudici, che la legge prevedeva dei casi di esclusione dal beneficio in esame: dal momento che tali ipotesi erano molto limitate, non poteva che concludersi che la disciplina in esame costituisse una «rinuncia generale e indiscriminata al potere di verifica e rettifica da parte dell’amministrazione finanziaria» (punto 50).

In conclusione, secondo la Corte di Lussemburgo, una norma può considerarsi compatibile con il principio di intangibilità dell’IVA solo se garantisce l’effettiva riscossione del tributo e assicura la parità di trattamento dei contribuenti.

In dottrina è stato evidenziato che la “filosofia” sottesa a tale decisione consiste soprattutto nell’assicurare il rispetto del principio di neutralità fiscale (13). In una diversa prospettiva, peraltro, è stato anche evidenziato che la decisione si fonda sulla necessità di assicurare un equo concorso alle spese comunitarie (14).

In conclusione, l’intangibilità del credito IVA sembra tutelare sia il principio di neutralità fiscale sia la giustizia distributiva nel concorso alle spese comunitarie (l’IVA, infatti, almeno in parte, costituirebbe “risorsa propria” dell’Unione europea).

Ci sono altri arresti, nella giurisprudenza comunitaria, che contribuiscono a definire i contenuti del principio di intangibilità dell’IVA. Tra di essi sembra importante richiamare la sentenza 29 marzo 2012, causa C-500/10 (15), che ha affermato la compatibilità con il sistema comunitario della c.d. “definizione delle liti fiscali ultradecennali” di cui all’art. 3, comma 2-bis, del D.L. 25 marzo 2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73) (16).

Tale pronuncia riconosce alla disciplina censurata carattere di «disposizione eccezionale», volta ad assicurare il rispetto del principio di ragionevole durata del processo, previsto anch’esso da norme di rilievo comunitario (art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo). Inoltre la sentenza ritiene che tale disciplina non sia in contrasto con il principio di neutralità fiscale, in virtù del fatto che «il suo carattere puntuale e limitato, dovuto ai presupposti della sua applicazione, non crea significative differenze nel modo in cui sono trattati i soggetti d’imposta nel loro insieme» (punto 27).

Quest’ultima parte della motivazione potrebbe indurre a pensare che una disciplina nazionale in materia di IVA, che introduca elementi di discriminazione tra i contribuenti, se delimitata a casi specifici e ben individuati, non si ponga in contrasto con il principio di neutralità fiscale.

Tale impostazione, peraltro, non sarebbe accoglibile. Nella sentenza da ultimo richiamata, infatti, l’argomento centrale è contenuto nella prima parte della motivazione, dove si evidenzia che la disciplina censurata ha carattere eccezionale, e si giustifica in un’ottica di bilanciamento con altri principi, egualmente di rilievo comunitario. L’argomento relativo alla specialità di tale disciplina sembra solo sottendere che il legislatore italiano ha operato un corretto bilanciamento tra i due principi in gioco, con il minor sacrificio possibile degli stessi.

Del resto, qualsiasi deroga al principio di intangibilità dell’IVA, se non giustificata dalla necessità di tutelare altri principi di rilievo comunitario, ne ferirebbe in radice la primaria funzione, che consiste, come si è visto, nella tutela della parità di trattamento tra i contribuenti.

3. Il pagamento parziale dell’IVA nel concordato preventivo: ammissibilità e limiti

Nell’ambito del concordato preventivo, il legislatore nazionale consente di proporre il pagamento parziale dei tributi, avvalendosi della transazione fiscale disciplinata dall’art. 182-ter della legge fallimentare. La norma, infatti, stabilisce che «Con il piano di cui all’articolo 160, il debitore può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori». A tal fine, sembrerebbe necessario attenersi allo specifico procedimento delineato dalla disposizione in esame (17).

Per espressa previsione dell’art. 182-ter, comma 6, della legge fallimentare, la transazione fiscale può essere proposta anche nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis della medesima legge.

Per conformarsi ai vincoli imposti dall’ordinamento comunitario il legislatore ha previsto che la transazione fiscale possa riguardare i tributi amministrati dalle Agenzie fiscali «ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea; con riguardo all’imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento» (18).

Come è noto, la Corte di Cassazione ritiene che il pagamento parziale dei crediti tributari possa essere proposto anche nell’ambito di un concordato preventivo senza transazione fiscale: in tal caso l’Erario è soggetto alla falcidia concordataria alla stregua degli altri creditori, ai sensi dell’art. 184 della legge fallimentare (19).

La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha precisato che il divieto di pagamento parziale dell’IVA, sebbene contenuto nell’art. 182-ter della legge fallimentare, è applicabile anche al concordato preventivo senza transazione fiscale, in quanto norma di carattere non procedimentale, ma sostanziale (20). Il divieto sussiste sia per l’IVA dovuta in base ad atti definitivi, sia per l’IVA dovuta in base ad atti ancora sub judice (21).

I principi appena descritti sono stati criticati dalla dottrina che ha provato a evidenziarne le problematiche conseguenze a livello interpretativo e la scarsa tenuta sul piano sistematico (22).

In alcuni contributi, inoltre, si è provato a sostenere che il principio di intangibilità dell’IVA, nella sua reale portata, non sarebbe d’ostacolo al pagamento parziale del tributo sul valore aggiunto nel concordato preventivo senza transazione fiscale (23).

In quest’ottica, si afferma che l’accettazione in via transattiva di importi modesti, a fronte dell’incapienza del patrimonio del debitore, sarebbe conforme al principio di efficienza dell’attività amministrativa, comune a tutti gli ordinamenti nazionali (24).

Anche certe pronunce di legittimità, nel fare applicazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia con la citata sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06, sembrano fornire utili spunti alla tesi in esame (25).

Finora, però, la Corte di Cassazione non è mai tornata sui propri passi. Come si è visto, inoltre, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il pagamento parziale dell’IVA nel concordato preventivo, anche in assenza di transazione fiscale, sia radicalmente incompatibile con il principio di intangibilità del tributo.

Si tratta di una posizione estremamente rigorosa e, sotto certi aspetti, da valorizzare: si è già avuto modo di osservare, ad esempio, che non appare per nulla convincente la possibilità di derogare, seppur entro limiti ben definiti, al principio di intangibilità dell’IVA. Il principio, posto a tutela della parità di trattamento tra i contribuenti, non ammette deroghe. Evidentemente, dunque, non può ritenersi compatibile con tale principio una norma che, sotto qualsiasi forma, autorizzi la disposizione del credito IVA da parte dell’Amministrazione finanziaria.

La sentenza, tuttavia, presenta un punto critico: essa, infatti, sembra fondarsi sull’assunto che l’accettazione del pagamento parziale dell’IVA equivalga a un atto di disposizione del relativo credito. Eppure, vi sono ipotesi in cui l’accettazione di un pagamento parziale non consiste affatto in una rinuncia al credito, ma piuttosto in una sua massimizzazione. La fattispecie al vaglio della Corte era una di queste.

Per chiarire meglio quanto detto, sembra utile richiamare alcuni autorevoli approfondimenti dottrinali in materia di indisponibilità dell’obbligazione tributaria che, sebbene concepiti con specifico riguardo all’ordinamento tributario nazionale, definiscono principi di portata generale, estensibili, pertanto, anche alla “intangibilità” di matrice comunitaria.

Del resto, sebbene i due concetti non giungano a coincidere del tutto, hanno però numerosi tratti in comune.

Come è reso evidente dal parallelismo con la dottrina che individua il fondamento del principio di indisponibilità del tributo in un’equa ripartizione del carico fiscale tra i consociati, e ne afferma come logica conseguenza (a prescindere, quindi, da un esplicito riconoscimento costituzionale) il carattere inderogabile (26).

Soprattutto, però, l’intangibilità dell’IVA consiste – sul piano degli effetti giuridici – proprio nell’indisponibilità del relativo credito da parte dell’Amministrazione finanziaria (27).

Per un primo orientamento, dunque, l’indisponibilità, nell’ambito dell’attività di riscossione dei tributi, si esplica essenzialmente nel carattere vincolato di tale potere, rispetto al fine di una certa e sollecita acquisizione delle imposte (28).

In tale prospettiva, si afferma che l’interesse pubblico all’acquisizione dei tributi «non può dirsi aprioristicamente pregiudicato dall’adesione a soluzioni consensuali che possano eventualmente consentirne un livello di soddisfacimento eguale, o addirittura maggiore, rispetto a quello realizzabile attraverso l’esercizio unilaterale del potere» (29). Nel rispetto di tali principi, si ritengono esplicitamente ammissibili «accordi che attengano all’ammontare degli importi riscuotibili» (30).

Altra dottrina, con diverso e più rigido approccio, evidenzia che l’Amministrazione finanziaria, nell’esercizio del potere di riscossione dei tributi, non può mai disporre dell’an e del quantum dell’imposta, poiché ciò si risolverebbe in una lesione di principi costituzionalmente garantiti (31).

La trattazione di singoli istituti, tuttavia, offre l’occasione di fornire importanti precisazioni di principio. Ad esempio, affrontando l’analisi dell’abrogato art. 3, comma 3, del D.L. 8 luglio 2002, n. 138 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178), a norma del quale l’Amministrazione finanziaria poteva procedere alla “transazione” degli importi iscritti a ruolo in caso di «accertata maggiore economicità e proficuità» rispetto alle ordinarie procedure di riscossione, si affermava che «nella specie non è lecito pensare a transazioni, rinunce, a remissioni, ad atti dispositivi sul credito. Rinunciare a ciò che mai si incasserà è una pseudo-rinuncia. Rinunciare o disporre significa ridurre l’entità dell’incassabile. Ma qui, per contro, la “transazione” ha l’effetto opposto, dà un risultato più soddisfacente e proficuo per le casse erariali rispetto alla normale esecuzione forzata» (32).

Ancora, con riferimento alla transazione fiscale di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare, si osserva che tale istituto non attribuisce una discrezionalità amministrativa in ordine all’an e al quantum debeatur, perché il debitore propone alle Agenzie fiscali la soddisfazione parziale dei loro crediti «sulla base di una stima attendibile di quella che sarebbe la loro soddisfazione sul ricavato in caso di liquidazione e in misura non inferiore a tale soddisfazione» (33).

Dai contributi esaminati emerge, dunque, una considerazione tanto semplice quanto fondamentale: rinunciare a ciò che non è possibile avere non è una vera rinuncia, e non costituisce, pertanto, atto di disposizione del credito.

Nel caso esaminato dalla Corte Costituzionale, l’Amministrazione finanziaria, aderendo alla proposta concordataria (che prevedeva la soddisfazione del credito IVA nella misura del 41,12%), non avrebbe rinunciato a nulla, anzi avrebbe ottenuto importi maggiori di quelli conseguibili per effetto della liquidazione fallimentare (il 10% del credito, come evidenziato dal giudice a quo sulla base della relazione giurata ex art. 160 della legge fallimentare). Inoltre, come precisato dall’ordinanza di rimessione, l’unica alternativa al concordato preventivo sarebbe stata la dichiarazione di fallimento della società: poteva dunque escludersi che l’Erario trovasse maggior soddisfazione nel patrimonio futuro della debitrice (34).

In ultima analisi, sembra evidente che una proposta di concordato preventivo, che contempli il pagamento parziale dell’IVA, assicurando però un grado di soddisfazione dell’Erario maggiore di quello ottenibile in sede fallimentare, sia del tutto estranea alle ipotesi di disposizione del credito, qualora si accerti che l’unica alternativa concreta al concordato sia la dichiarazione di fallimento (35).

Una simile proposta è dunque perfettamente compatibile sia con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, sia con il principio di intangibilità dell’IVA (36).

Ad analoghe conclusioni dovrebbe giungersi anche con riferimento alla transazione fiscale purché, naturalmente, si ritenga che non inibisca in alcun modo i poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, in relazione ai tributi e ai periodi d’imposta che ne formano oggetto (37). In caso contrario, infatti, il perfezionamento della transazione avrebbe effetti dispositivi con riferimento ai crediti IVA ancora potenzialmente accertabili.

Né sembra potersi distinguere tra la transazione fiscale proposta nell’ambito del concordato preventivo e la transazione fiscale proposta nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis della legge fallimentare.

Una proposta che assicuri le ragioni dell’Erario in misura maggiore di quanto ottenibile attraverso il fallimento, inoltre, è certamente ammissibile anche nel concordato fallimentare (38).

Tornando alla fattispecie esaminata dalla Corte, sembra doveroso segnalare il rischio che l’Amministrazione finanziaria, in virtù del principio maggioritario operante nel concordato preventivo, sia “costretta” a subire la falcidia dell’IVA anche qualora, in concreto, la proposta concordataria non consenta un soddisfacimento maggiore di quello ottenibile in sede fallimentare (39).

Il pericolo, già intuito dal Tribunale di Verona (40), si evita attraverso l’intervento dell’organo giudiziario, che in sede di omologazione del concordato dovrà dichiarare inammissibili le proposte che non garantiscano il rispetto del principio di intangibilità dell’IVA, nei termini sopra esposti.

4. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, il pagamento parziale dell’IVA nel concordato preventivo sembra compatibile con i principi comunitari, a condizione, però, che il grado di soddisfazione dell’Erario risulti maggiore di quello ottenibile in sede fallimentare e che il fallimento sia l’unica alternativa concreta alla soluzione concordata della crisi d’impresa(41).

Resta da chiedersi, allora, se la norma che vieta il pagamento parziale dell’IVA nel concordato preventivo si ponga davvero in conflitto con i parametri di legittimità costituzionale evocati dal giudice rimettente, e in particolare con l’art. 97 Cost.

Invero, non sembra possibile negare l’esistenza di un contrasto con il principio di buon andamento della pubblica Amministrazione, perché la norma censurata preclude all’Amministrazione finanziaria il raggiungimento di soluzioni in concreto più vantaggiose, ostacolando così, in definitiva, il proficuo esercizio della funzione di riscossione dei tributi.

Per le medesime ragioni la norma sembra porsi in contrasto anche con il diritto comunitario, nella misura in cui quest’ultimo impone agli Stati membri un’effettiva riscossione dell’IVA. È chiaro, infatti, che l’effettività della riscossione può essere garantita solo attraverso l’acquisizione di tutte le somme che è concretamente possibile ottenere. I giudici nazionali, allora, come si è già osservato in dottrina, potrebbero (e forse dovrebbero) rimettere la questione all’esame della Corte di Giustizia (42).

In tale sede, forse, la dibattuta questione dell’ammissibilità di un pagamento parziale dell’IVA nel concordato preventivo potrà trovare una soluzione definitiva.

Dott. Marco Fasola

(1) Già annotata da Russo, L’infalcidiabilità del credito IVA, secondo la Consulta, e il rapporto tra la transazione fiscale e il concordato preventivo in Boll. Trib., 2015, 12 ss., e da La Rocca, Il concordato preventivo e la transazione fiscale: la Corte Costituzionale conferma l’inammissibilità della falcidia dell’IVA, ivi, 2014, 1351 ss.

(2) La questione di legittimità costituzionale in commento è stata sollevata dalla sezione fallimentare del Tribunale di Verona con ordinanza del 10 aprile 2013, in G.U. n. 11 del 5 marzo 2014; Miconi, Dubbi sulla costituzionalità della infalcidiabilità dell’Iva nel concordato preventivo, in il fall., 2014, 320.

(3) Nel dettaglio, la proposta prevedeva: (i) il pagamento integrale di tutte le spese di procedura e di tutti i crediti privilegiati, diversi dai crediti IVA, per mezzo di un apporto esterno derivante dalla vendita di un immobile da parte di un socio; (ii) il pagamento dei crediti IVA nella misura complessiva del 41,12%, attraverso la corresponsione all’Erario dell’intero patrimonio residuo della società e di un’ulteriore somma derivante dall’apporto del socio; (iii) il pagamento dei crediti chirografari nella misura del 20,75% (ad eccezione di una banca, soddisfatta nella misura del 99%), sempre a mezzo dell’apporto del socio.

(4) Nella relazione giurata depositata ai sensi dell’art. 160, comma 2, della legge fallimentare, richiamata dall’ordinanza di rimessione, si assumeva che «in caso di fallimento, in ragione della collocazione del privilegio concesso allo Stato per i crediti Iva, non sarebbe possibile alcuna soddisfazione per l’Erario». Il giudice a quo, invece, ritiene che a fronte di un patrimonio della società pari a 106.467 euro, in sede fallimentare troverebbero collocazione prioritaria rispetto ai crediti IVA le spese di procedura (11.000 euro), i crediti dei dipendenti (15.272 euro) e dei professionisti (51.592 euro), «con la conseguenza che all’Erario potrebbe essere attribuito al più l’importo di euro 28.603 (a fronte di un credito di euro 280.000) per un totale di circa il 10%» del valore complessivo del suo credito.

(5) Cass., sez. I, 4 novembre 2011, nn. 22931 e 22932, rispettivamente in Boll. Trib., 2012, 618, e in Boll. Trib. On-line, secondo cui la norma che vieta la falcidia dell’IVA non ha carattere procedimentale ma sostanziale; essa, pertanto, sebbene contenuta nell’art. 182-ter della legge fallimentare, non è specificamente connessa alla procedura di transazione fiscale. Nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale di Verona specifica di non condividere il contrario orientamento della giurisprudenza di merito, secondo cui il divieto di falcidia dell’IVA opererebbe solo nella transazione fiscale. Secondo il giudice a quo, infatti, l’equiparazione tra il concordato preventivo e la transazione fiscale «trova fondamento oggettivo ed indiscutibile nel fatto che anche la transazione fiscale persegue il fine di trovare soluzione extra fallimentare alla crisi dell’azienda all’interno della procedura di concordato preventivo».

(6) La pronuncia in commento non contiene un’enunciazione del principio di intangibilità dell’IVA, che deve desumersi, dunque, direttamente dalle fonti comunitarie. Sul punto, si rimanda al par. 2 del presente scritto.

(7) A rigore, la Corte avrebbe potuto rigettare fin da subito la questione di legittimità costituzionale, rilevando che la norma impugnata è “imposta” dall’ordinamento comunitario e che quest’ultimo – a meno di un’aperta violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o di diritti inalienabili della persona umana – prevale in ogni caso sull’ordinamento interno (cfr. Corte Cost. 27 dicembre 1973, n. 183, in Boll. Trib., 1974, 431).

(8) In Boll. Trib., 2008, 1384, con nota di Brighenti, La Corte di Giustizia europea boccia il condono IVA, ma i contribuenti stiano tranquilli; per effetto dell’art. 2, comma 44, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, le disposizioni relative al “condono tombale”, originariamente applicabili ai periodi d’imposta fino al 2001, sono state prorogate al 2002; tale proroga è stata censurata dalla Corte di Giustizia UE, sez. V, 11 dicembre 2008, causa C-174/07, in Boll. Trib. On-line.

(9) L’art. 8 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, rubricato «Integrazione degli imponibili per gli anni pregressi», consentiva ai contribuenti di integrare le dichiarazioni presentate per i periodi d’imposta da 1998 a 2001, ai fini delle imposte sui redditi, dell’IVA e di altre imposte, procedendo di conseguenza al versamento delle maggiori imposte dovute. Per effetto del perfezionamento della procedura, il contribuente, in relazione alle annualità oggetto d’integrazione e nel limite di un importo doppio rispetto a quello esposto nella dichiarazione integrativa, beneficiava della preclusione di ogni accertamento tributario e contributivo, dell’estinzione delle sanzioni amministrative e, infine, dell’esclusione della punibilità. L’art. 9 della medesima legge, rubricato «Definizione automatica per gli anni pregressi», inoltre, consentiva ai contribuenti di beneficiare di effetti analoghi mediante il pagamento di una percentuale (nel caso dell’IVA, il 2%) dell’importo originariamente dichiarato, in relazione a tutti i periodi d’imposta ancora accertabili.

(10) La sentenza che si annota si limita a ricordare che i giudici comunitari hanno «rimarcato l’incompatibilità con la disciplina comunitaria dell’Iva della rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta» (terzo capoverso del punto 4.2 del “considerato in diritto”).

(11) La Corte di Lussemburgo precisa che «la sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA (sentenza 16 settembre 2004, causa C-382/02, Cimber Air, Racc. pag. I-8379, punto 24». Per un approfondimento sulle varie declinazioni del principio di neutralità fiscale si veda

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Comelli, Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2000, 302 ss. Il principio, nell’accezione qui utilizzata dalla sentenza, si riferisce alla tutela della concorrenza a livello comunitario, implicando quindi necessariamente la parità di trattamento tra gli operatori economici coinvolti.

(12) La disciplina in esame, infatti, comporta l’inibizione dei poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria a fronte di uno «squilibrio significativo … tra gli importi effettivamente dovuti e quelli corrisposti dai contribuenti che intendono beneficiare del condono in questione», risolvendosi di fatto in una «quasi-esenzione fiscale» (punto 43). Oltretutto – osserva la Corte di Lussemburgo – il condono favorisce i contribuenti colpevoli di frode, producendo un effetto contrario a quello promosso dall’ordinamento europeo.

(13) De Mita, Incompatibile per la Corte UE il condono Iva con la normativa comunitaria, in Corr. trib., 2008, 2671 ss., il quale osserva che «la filosofia alla base della sentenza è proprio qui, nel ritenere la neutralità fiscale il motore dell’Unione europea».

(14) Toma, La discrezionalità dell’azione amministrativa in ambito tributario, Padova, 2012, 274, pone l’accento su tale aspetto, evidenziando che la sentenza sottende la necessità che «il concorso al finanziamento delle risorse proprie comunitarie avvenga secondo criteri di equità armonicamente attuati dai paesi membri tutti».

(15) In Boll. Trib. On-line.

(16) L’art. 3, comma 2-bis, del D.L. 25 marzo 2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73), prevedeva la definizione delle controversie pendenti da oltre dieci anni dinanzi agli organi di giustizia tributaria, in cui l’Amministrazione finanziaria risultasse soccombente nei primi due gradi di giudizio, con l’espressa finalità di «contenere la durata dei processi tributari nei termini di durata ragionevole dei processi», come richiesto dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). La definizione era automatica per le controversie pendenti dinanzi alla Commissione tributaria centrale, e subordinata al pagamento di un importo forfettario e alla rinuncia ad ogni pretesa di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. “Legge Pinto”) per le controversie pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione.

(17) Parte della dottrina, considerando che il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria è dotato di copertura costituzionale, ritiene che l’art. 182-ter della legge fallimentare sia costituzionalmente illegittimo, in quanto attribuisce all’Amministrazione finanziaria poteri dispositivi in ordine alla pretesa fiscale (Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, in Riv. dir. trib., 2007, XII,1069); altri, invece, ritengono che con la transazione fiscale il legislatore abbia realizzato un ragionevole contemperamento tra il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria e altri valori costituzionalmente tutelati, come l’efficienza e la speditezza della riscossione, nonché la tutela del lavoro e dell’impresa [De Mita, Transazione con il fisco per tutte le crisi, in Il Sole 24 Ore del 28 giugno 2009, pag. 19; Mauro, La transazione fiscale nel labirinto delle norme e dei principi, in Basilavecchia-Cannizzaro-Carinci (a cura di), La riscossione dei tributi, Milano, 2011, 331; Tosi, La transazione fiscale: profili sostanziali, in Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 649]. In un’altra prospettiva, infine, il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria troverebbe fondamento nell’art. 49 del regolamento di contabilità erariale, contenuto nel Regio Decreto 23 maggio 1924, n. 827, e l’art. 182-ter della legge fallimentare ne costituirebbe una deroga di carattere tassativo (Gaffuri, Aspetti problematici della transazione fiscale, in Rass. trib., 2011, 1115 ss.).

(18) Inizialmente, il divieto di falcidia era esplicitamente previsto solo per i «tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea». Per lungo tempo si era discusso se l’IVA rientrasse in tale categoria: in senso positivo si era espressa l’Agenzia delle entrate con la circolare 18 aprile 2008, n. 40/E (in Boll. Trib., 2008, 748), ricevendo in seguito l’avallo della giurisprudenza di legittimità (Cass. nn. 22931 e 22932/2011, cit.). La questione è stata infine risolta dal legislatore, che con l’art. 32, comma 5, lett. a), del D.L. 29 novembre 2008, n. 185 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2), ha espressamente escluso che l’IVA possa essere oggetto di falcidia. La Relazione illustrativa del citato decreto chiarisce la ratio dell’intervento legislativo, osservando che «La Direttiva Comunitaria vieta allo Stato membro di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica. Pertanto, ai fini Iva, la presente proposta non comporta effetti». In proposito si veda Amatucci, La transazione fiscale tra disciplina comunitaria dell’Iva e divieto di aiuti di Stato, in Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, cit., 690 ss., il quale ritiene che l’istituto della transazione fiscale non sia idoneo a creare disparità di trattamento tra i contribuenti, perché la procedura si applica esclusivamente a situazioni di crisi aziendale e si svolge sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria. Il divieto di pagamento parziale dell’IVA di cui all’art. 182-ter della legge fallimentare, dunque, si fonderebbe unicamente sulla configurazione parziale dell’imposta come risorsa propria dell’Unione europea e non sul principio di neutralità fiscale.

(19) Cass. nn. 22931 e 22932/2011, cit.

(20) Secondo Cass. nn. 22931 e 22932/2011, cit., il divieto di falcidia si applica anche al concordato preventivo senza transazione fiscale, perché: (i) non è credibile che il legislatore abbia lasciato al debitore la scelta discrezionale di assoggettarsi all’obbligo di pagamento dell’IVA, adottando la transazione fiscale o avvalendosi invece del concordato preventivo; (ii) il divieto di falcidia dell’IVA, sebbene contenuto nell’art. 182-ter della legge fallimentare, non è specificamente connesso al procedimento di transazione fiscale, ma è norma di carattere sostanziale «in quanto attiene al trattamento dei crediti nell’ambito dell’esecuzione concorsuale dettata da motivazioni che attengono alla peculiarità del credito e prescindono dalle particolari modalità con cui si svolge la procedura di crisi»; (iii) infine, è stato precisato che l’obbligo di integrale pagamento dell’IVA non comporta anche la necessità di soddisfare integralmente tutti i crediti privilegiati con grado anteriore, dal momento che il legislatore non è vincolato al rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione, e «può attribuire un trattamento particolare a determinati crediti come avviene per la prededuzione, senza che ciò incida automaticamente sul trattamento degli altri». Tale orientamento trova conferma anche in Cass., sez. trib., 16 maggio 2012, n. 7667, e in Cass., sez. III pen., 31 ottobre 2013, n. 44283, entrambe in Boll. Trib. On-line.

(21) Non può condividersi la contraria opinione di Santacroce-Fauda-Pezzella, Concordato preventivo e pretesa del Fisco al pagamento della maggiore Iva accertata, in il fisco, 2014, 3926 ss. Né può giungersi a diversa soluzione sulla base dell’inciso della sentenza in esame secondo cui «È appena il caso di ribadire, infine, che l’obbligo dell’integrale (anche se dilazionato) pagamento dell’IVA non comporta l’inderogabile accoglimento della pretesa fiscale in quanto nell’ambito del concordato senza transazione fiscale resta ferma la facoltà del contribuente di opporsi alla stessa, così che è solo l’imposta definitivamente accertata che è soggetta al vincolo richiamato». Con l’inciso in parola, infatti, si vuole semplicemente dire che il concordato non pregiudica la contestazione dell’an della pretesa, incidendo unicamente sul quantum debeatur.

(22) Per ragioni di brevità, in questa sede non è possibile ripercorrere le critiche mosse dalla dottrina all’orientamento giurisprudenziale in esame. Per un approfondimento, si rimanda ai commenti critici di Cardillo, La transazione fiscale: problemi e possibili soluzioni, in Dir. prat. trib., 2012, 1155 ss.; Andreani-Tubelli, Nel concordato preventivo crediti per Iva e ritenute alla fonte vanno soddisfatti integralmente, cit., 93 ss.; Ambrosini-Aiello, La transazione fiscale ex art. 182-ter l. fall. in una recente pronuncia della Cassazione: contribuenti allegri… ma non troppo, in il fallimentarista, 2012, 6 ss.; Martis, La transazione fiscale e la falcidia dell’Iva, in Dir. prat. trib., 2013, 1043 ss.; Fabiani, La falcidiabilità di tutti i crediti tributari e l’equivoco della lettura della Cassazione, in Il fall., 2014, 262 ss.; per un commento adesivo si veda invece Zanichelli, La transazione fiscale, in Dir. fall., 2012, 143 ss.

(23) La tesi è sostenuta da La Croce, Il credito erariale Iva tra orientamenti U.E. e arresti della Cassazione, in Il fall., 2012, 153 ss.; Bezzi, La falcidiabilità dell’Iva nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, in il fisco, 2014, 1865 ss. Tra gli argomenti centrali di detta tesi, si richiamano le conclusioni della Commissione europea nella causa C-500/10 (poi decisa con la sentenza 29 marzo 2012, esaminata nel paragrafo precedente), secondo cui non contrasterebbero con l’ordinamento comunitario normative speciali che consentano, caso per caso, la definizione e riscossione del tributo. Nel concordato preventivo senza transazione fiscale, inoltre, difetterebbe qualsiasi attività ad iniziativa statale. Lo Stato, dunque, non attuerebbe una rinuncia generalizzata al recupero dell’IVA, ma si limiterebbe a subire gli effetti delle norme sull’ordine dei privilegi.

(24) La Croce, Il credito erariale Iva tra orientamenti U.E. e arresti della Cassazione, cit., 157, evidenzia che, altrimenti, in forza di un principio astratto, lo Stato dovrebbe rinunciare a un recupero parziale dell’imposta altrimenti non ottenibile.

(25) In particolare, è stato affermato che «deve ritenersi legittimo il ricorso del legislatore a meccanismi agevolativi che garantiscano effettivamente un maggior gettito finale senza peraltro indurre in alcun modo i contribuenti a dichiarare una parte del dovuto e senza attribuire loro la possibilità di sottrarsi al pagamento del dovuto con il versamento di importi forfettari non correlati all’imposta dovuta e produttivi di una quasi-esenzione fiscale»; su tali premesse, la Corte ha ritenuto che le ipotesi di “chiusura delle liti fiscali pendenti” disciplinate dall’art. 44 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 fossero incompatibili con l’ordinamento comunitario, poiché «non si tratta di introdurre criteri che consentano una definizione transattiva di liti pendenti con specifici riferimenti alle particolarità del caso, ma di una rinuncia dell’amministrazione finanziaria, attraverso una misura generale limitata nel tempo, all’accertamento, rimesso al giudice tributario, sulla pretesa fiscale e alla conseguente riscossione dell’imposta» (Cass., sez. trib., 18 settembre 2009, nn. 20068 e 20069, in Boll. Trib. On-line); la Suprema Corte ha invece ritenuto che l’analoga fattispecie prevista dall’art. 16 della legge n. 289/2002 “sfugga” all’illegittimità comunitaria, perché la norma «autorizza l’amministrazione finanziaria a “transigere” l’esito (sempre incerto) della lite a determinate condizioni, che rappresentano i limiti di “disponibilità” alla transazione» (Cass., sez. un., 17 febbraio 2010, nn. 3674, 3675, 3676 e 3677, tutte in Boll. Trib. On-line).

(26) Il richiamo è principalmente all’insegnamento di Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, cit., 1057, secondo cui «L’imposta è credito con funzione di ripartizione. L’indisponibilità di tale credito è corollario che deriva, per consecuzione logica, dal teorema suddetto. La rinuncia, totale o parziale, all’incasso dell’imposta “dovuta” e da riscuotere ferirebbe ab imis il principio fondamentale di perequata ripartizione della spesa tra i consociati in ragione della capacità contributiva che sta alla base della vigente costituzione fiscale. Perciò rinunce che tocchino l’an e il quantum non sono legittime»; si veda anche Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 133, secondo cui, dato il carattere “comunitario” della fiscalità, «l’indisponibilità è allora attributo del credito tributario per la particolare natura della pretesa del fisco, poiché espressione della funzione impositiva in quanto volta all’equo riparto tra consociati del carico fiscale».

(27) Marello, La Corte di giustizia censura il condono Iva: le ricadute di un’importante decisione, in Giur. it., 2009, 1, osserva che l’importanza della sentenza della Corte di Giustizia causa C-132/06 del 2008, con cui si è chiarito il fondamento e la portata del principio di intangibilità dell’IVA, risiede proprio nella «sistemazione di un concetto rilevante nella teoria tributaria (l’indisponibilità della pretesa)», che si esplica, nel caso in esame, sia in una «indisponibilità soggettiva» (nel senso che un singolo Stato membro non può disporre di un credito della Comunità), sia in una «indisponibilità oggettiva» (derivante dalla necessità di assicurare il rispetto della parità di trattamento tra i contribuenti).

(28) La Rosa, Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi, in Riv. dir. trib., 2008, IV, 318.

(29) La Rosa, Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi, cit., 319 ss., ove si aggiunge che «si resta nella fisiologia dell’esercizio delle funzioni pubbliche quando si ricorre alla soluzione consensuale nel presuppostodella suamaggiore idoneità al soddisfacimento dell’interesse pubblico che deve essere perseguito».

(30) La Rosa, Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi, cit., 322.

(31) Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, cit., 1057, ritiene che il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, insito nella funzione stessa del tributo, trovi copertura costituzionale nei principi di riserva di legge (art. 23 Cost.) e di uguaglianza o perequazione tributaria (artt. 2, 3, 53 Cost.); Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2010, 161 ss., individua invece il fondamento costituzionale del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria (che nella visione dell’Autore coincide con il carattere vincolato dei poteri amministrativi di accertamento e riscossione in ordine ad an e quantum debeatur) nell’art. 23 Cost.

(32) Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, cit., 1067. Similmente Zanichelli, La transazione fiscale, cit., 143, il quale osserva che l’istituto in esame «metteva in discussione il principio dell’indisponibilità del credito tributario, anche se solo formalmente in quanto, in realtà, nessuna rinuncia veniva fatta della pretesa ma si trattava solo di prendere realisticamente atto che il perseguimento della stessa non avrebbe comunque comportato un risultato utile superiore così che la rinuncia alla differenza non modificava concretamente le entrate erariali». L’art. 3, comma 3, del D.L. 8 luglio 2002, n. 138 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178), consentiva all’Agenzia delle entrate, dopo l’inizio dell’esecuzione coattiva, di procedere alla “transazione” dei tributi iscritti a ruolo, il cui gettito fosse di esclusiva spettanza dello Stato. Presupposti della “transazione” in esame erano, da un lato, l’emersione dell’insolvenza del contribuente o l’assoggettamento dello stesso a procedure concorsuali e, dall’altro, la «accertata maggiore economicità e proficuità» dell’accordo rispetto all’ordinario procedimento di riscossione coattiva. La norma è stata abrogata dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che ha contestualmente introdotto l’art. 182-ter della legge fallimentare.

(33) Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, cit., 341. In seguito, l’Autore aggiunge che «È naturalmente possibile che l’agenzia addivenga ad una stima diversa da quella propostale, nel qual caso contrasterà l’offerta. In altre parole l’agenzia è chiamata a verificare l’attendibilità della stima e all’esito di tale verifica la sua volontà deve ritenersi vincolata». In tale prospettiva, evidentemente, la transazione fiscale non si porrebbe mai in contrasto con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

(34) Alla luce di questa precisazione contenuta nell’ordinanza del giudice a quo, risulta davvero difficile comprendere l’affermazione della Corte secondo cui il divieto di falcidia dell’IVA «si giustifica – sul piano prognostico – proprio per il persistere, in capo all’amministrazione finanziaria, della possibilità di riscuotere il tributo in futuro, con la contestuale approvazione di un piano concordatario idoneo a consentire il graduale superamento dello stato di crisi dell’impresa» (punto 6.2 del “considerato in diritto”).

(35) Non sembra necessario, invece, che il pagamento parziale del credito IVA avvenga in misura almeno pari al patrimonio del debitore, come previsto nella proposta di concordato preventivo al vaglio del giudice a quo. Si tratta senz’altro di un indice di serietà della proposta, ma non di un requisito per la sua ammissibilità. Per completezza si segnala che, secondo un interessante orientamento dottrinale, il divieto di pagamento parziale dell’IVA non potrebbe operare qualora il patrimonio del contribuente sia inferiore al debito per IVA, e il pagamento dei creditori diversi dall’Erario sia reso possibile dalla c.d. “finanza esterna”; lo impedirebbe l’art. 160, comma 2, della legge fallimentare, che in caso di incapienza dell’attivo consente di pagare parzialmente anche i creditori privilegiati, con una disposizione che non potrebbe in alcun modo ritenersi derogata dall’art. 182-ter della legge fallimentare (Cardillo, La transazione fiscale: problemi e possibili soluzioni, cit., 1154; Andreani-Tubelli, Nel concordato preventivo crediti per Iva e ritenute alla fonte vanno soddisfatti integralmente, cit., 99).

(36) Quanto detto presuppone, naturalmente, che in sede fallimentare cessi l’operatività dell’art. 182-ter, comma 1, della legge fallimentare, e riacquistino efficacia le normali regole sull’ordine dei privilegi, in particolare l’art. 2778 c.c., che colloca l’IVA al diciannovesimo grado. Un dubbio potrebbe nascere dal fatto che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il divieto di pagamento parziale dell’IVA è la regola generale «nell’ambito dell’esecuzione concorsuale» (Cass. nn. 22931 e 22932/2011, cit.). Tuttavia, la dottrina ritiene che la predetta regola non possa essere estesa anche al fallimento (in tal senso, Cardillo, La transazione fiscale: problemi e possibili soluzioni, cit., 1155; Carinci, Migrazione fra procedure concorsuali e neutralità del fattore fiscale nelle soluzioni alla crisi d’impresa, in il fisco, 2014, 4122 ss.; Fabiani, La falcidiabilità di tutti i crediti tributari e l’equivoco della lettura della Cassazione, cit., 262). Del resto, si consideri che nell’ambito della procedura di concordato preventivo il divieto di pagamento parziale dell’IVA ha la primaria funzione di impedire che la falcidia dei crediti aventi un grado di privilegio superiore comporti anche l’abbattimento dell’IVA, per effetto della regola contenuta (nell’art. 160, comma 2, della legge fallimentare). È chiaro che tale esigenza viene meno nell’ambito del fallimento, dove l’eventuale “falcidia” del tributo non è mai determinata dal consenso del creditore, ma dall’incapienza del patrimonio del debitore. Oltretutto, in linea di principio, il fallimento non ha i medesimi effetti liberatori del concordato, poiché con la chiusura della procedura i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti, salvo che intervenga l’esdebitazione ai sensi dell’art. 142 della legge fallimentare. Per una riflessione sulla (non) operatività del divieto di falcidia dell’IVA in quest’ultimo istituto si veda Mauro, La transazione fiscale nel labirinto delle norme e dei principi, cit., 335.

(37) Come è noto, Cass. n. 22931/2011, cit. non ha preso posizione sul punto, limitandosi a registrare le diverse opinioni sviluppatesi in dottrina. Per un’attenta disamina del tema si veda Santoro Cayro, Sugli effetti “tipici” della transazione fiscale alla luce di due recenti pronunce della Suprema Corte, in Rass. trib., 2012, 139. Si richiama inoltre l’autorevole posizione di Gaffuri, Aspetti problematici della transazione fiscale, cit., 1115, per il quale non v’è differenza tra il c.d. “consolidamento”, proprio della transazione fiscale, e il normale effetto liberatorio del concordato.

(38) La dottrina, oltretutto, ritiene che il divieto di pagamento parziale dell’IVA non operi nel concordato fallimentare. Si vedano La Malfa, La transazione fiscale e il concordato fallimentare, in La Malfa-Marengo (a cura di), Transazione fiscale e previdenziale, San Marino, 2010, 262 ss.; Stasi, Profili istituzionali della transazione fiscale, in Jorio (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, Bologna, 2010, 1199; Andreani-Tubelli, Nel concordato preventivo crediti per Iva e ritenute alla fonte vanno soddisfatti integralmente, cit., 98; Cardillo, La transazione fiscale: problemi e possibili soluzioni, cit., 1155; Martis, La transazione fiscale e la falcidia dell’Iva, cit., 1043; Fabiani, La falcidiabilità di tutti i crediti tributari e l’equivoco della lettura della Cassazione, cit., 262. Nel concordato fallimentare, il fondamento normativo della falcidia dei crediti tributari sarebbe costituito dall’art. 124 della legge fallimentare. Un’implicita conferma della possibilità di proporre in tale sede il pagamento parziale dei tributi potrebbe rinvenirsi nell’art. 87, comma 2-bis, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, introdotto dall’art. 29, comma 3, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), che disciplina il meccanismo di espressione del voto nel concordato fallimentare da parte dell’Agenzia delle entrate. Ci si potrebbe chiedere, infine, se un’analoga proposta (formulata, ad esempio, a fronte dell’accertata insolvenza del deb
itore) possa trovare spazio anche nell’ambito dell’ordinario procedimento di riscossione coattiva dei tributi: una simile indagine, tuttavia, fuoriesce dallo scopo della presente trattazione. Per un autorevole approfondimento si veda L
a Rosa, Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi, cit., 314 ss., il quale riflette su due possibili tipologie di accordi fra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria. La prima tipologia è rappresentata dagli “accordi amministrativi” di cui all’art. 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241; la seconda da accordi negoziali che trovano il proprio fondamento nella generale capacità negoziale di diritto privato dell’Amministrazione finanziaria. Nell’ambito dell’esercizio “consensuale” delle funzioni pubbliche di accertamento e riscossione, l’Autore ritiene ammissibili accordi di tipo pragmatico che, a fronte di espresse rinunce a parte del tributo, garantiscano in realtà un più elevato soddisfacimento dell’interesse pubblico alla riscossione dei tributi.

(39) L’art. 177, comma 1, della legge fallimentare, infatti, dispone che «Il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi».

(40) Nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo osservava, infatti, che «naturalmente non va taciuto che l’ammissibilità di una proposta che permettesse un grado di soddisfazione dell’Iva inferiore al totale (come oggi imposto dall’art. 182-ter l.f.) potrebbe aprire la strada ad un sostanziale svuotamento delle pretese creditorie dell’Erario le volte in cui, l’Erario, in relazione al credito Iva, fosse inserito in una classe apposita, inidonea a determinare autonomamente l’approvazione della proposta in ragione del numero delle altre classi previste dalla proposta ovvero in relazione all’entità del suo credito».

(41) Se si aderisce alla tesi che nega alla transazione fiscale effetti inibitori dei poteri di accertamento, sembra che le medesime conclusioni possano essere ragionevolmente estese anche a tale fattispecie.

(42) Il suggerimento si trova in Miconi, Dubbi sulla costituzionalità della infalcidiabilità dell’Iva nel concordato preventivo, cit., 320.