Nell’annotata fattispecie una società viene raggiunta da un avviso di accertamento con il quale l’Ufficio accerta un maggior reddito contestando l’utilizzazione di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti.
La Commissione laziale osserva – correttamente – che l’operazione è oggettivamente inesistente quando la fattura certifica una prestazione di servizi o una cessione di beni mai avvenuta mentre quella soggettivamente inesistente riguarda, invece, una operazione reale, ma posta in essere da un soggetto diverso da quello che emette la fattura.
La falsità soggettiva della fattura è un fenomeno che riguarda da vicino la c.d. frode carosello, quando cioè un fornitore, residente in uno Stato della UE, cede un bene ad un soggetto (c.d. interposto) residente in un altro Stato dell’Unione senza l’applicazione dell’IVA trattandosi di uno scambio intracomunitario; l’interposto, a sua volta, vende il bene, gravato dell’IVA, ad un altro soggetto (secondo cessionario) operante nel medesimo Stato dell’interposto. L’interposto vende il bene al secondo cessionario ad un prezzo scontato (poniamo del 10%) + IVA, rispetto al normale prezzo di mercato; incassata l’IVA, però, l’interposto, dopo qualche tempo si dissolve senza avere mai versato l’imposta all’erario che subisce un danno pari all’ammontare dell’IVA non versata (il meccanismo fraudolento, ovviamente, può essere realizzato anche tra soggetti tutti residenti nel medesimo Stato).
Il legislatore ha tentato di arginare il fenomeno lavorando su più fronti.
Come effetto dissuasivo nei confronti dell’interposto – prima sanzionabile solo con misure amministrative pecuniarie, cui era del tutto insensibile dato che si faceva trovare insolvente – è stato introdotto, nel 2006, il reato di omesso versamento dell’IVA (al di sopra di una certa soglia: cinquantamila euro) previsto e punito dall’art. 10-ter del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
Un anno prima (2005) il legislatore aveva introdotto una norma che coinvolge il cessionario (cioè l’acquirente del bene dall’interposto) in un temibile meccanismo di responsabilità solidale (relativamente ad alcuni beni): l’art. 60-bis, primo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dispone infatti che «in caso di mancato versamento dell’imposta da parte del cedente relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale, il cessionario, soggetto agli adempimenti ai fini del presente decreto, è obbligato solidalmente al pagamento della predetta imposta». Il cessionario può anche acquistare a un prezzo “scontato”, ma se vuole sottrarsi alla responsabilità solidale è tenuto a «dimostrare documentalmente che il prezzo inferiore dei beni è stato determinato in ragione di eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che comunque non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta».
Non solo.
Il cessionario – che ormai si deve ritenere un garante della lealtà fiscale altrui – subisce un’altra pesante conseguenza: l’indetraibilità dell’IVA pagata al cedente infedele. L’Ufficio, quando il cedente non versi l’IVA, di solito denuncia il cessionario per il reato di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti (ex art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74); l’Amministrazione finanziaria sostiene cioè che il cedente sia un soggetto che, in realtà, non entra nell’operazione economica che, invece, si deve ritenere avvenga direttamente in capo al primo operatore economico (cioè il soggetto che cede il bene al cedente da cui si rifornisce il cessionario accusato). Dunque, il cessionario si rende responsabile di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti perché il suo cedente è come se non esistesse.
[-protetto-]
Il processo penale e quello tributario corrono su due binari diversi: nel processo penale la prova della preordinata macchinazione tra cedente e cessionario deve essere fornita dal Pubblico Ministero che, spesso, chiede l’archiviazione dato che una prova del genere – anche perché il dolo specifico di evadere le imposte in capo al cessionario non esiste proprio – non emerge (intanto, però, scatta il raddoppio dei termini per l’accertamento, data la presenza della denuncia penale).
Nel processo tributario la vita per il cessionario è molto più complicata.
Il cessionario – afferma la Corte di Cassazione – è tenuto a fornire la prova di non sapere che il cedente agiva con la riserva mentale di non versare l’IVA perché la conoscenza dell’altrui disegno fraudolento si presume: «in tema di IVA, nelle c.d. “frodi carosello” – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successivamente rivendute anche attraverso l’interposizione di una o più società o ditte filtro (“buffers”) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare quelli di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari» (1).
Si tratta però di una prova diabolica. Il cessionario non può limitarsi ad opporre un “non lo sapevo” (che il cedente non avrebbe versato l’IVA); non basta. Ma se il cessionario cerca di premunirsi (ad esempio, chiedendo copia della documentazione che il cedente svolge una effettiva attività commerciale, ecc.) – per poter provare ex post la sua buona fede – offre il destro alla facile contestazione: siccome tu cessionario hai chiesto al cedente la documentazione sulla sua attività significa che nutrivi dubbi al riguardo per cui avresti potuto immaginare che non avrebbe versato l’IVA. Una situazione da “Comma 22”. La norma – ricordata nel famoso film dall’omonimo titolo – prevedeva l’esonero dal servizio militare nell’esercito USA che combatteva in Vietnam di coloro che avessero patologie di tipo psichiatrico; aggiungeva però che chi chiedeva l’esonero perché affetto da patologie psichiatriche si considerava ex lege sano di mente.
Qualcuno ha provato a difendersi chiedendo all’Amministrazione finanziaria di esaminare la documentazione IVA del cedente. La ragione è evidente; «non si può, infatti, dubitare che l’analisi dei dati delle dichiarazioni IVA della società …, nel confronto con le scritture contabili della ricorrente e con altri elementi di fatto, potrebbe astrattamente consentire alla società ricorrente di dimostrare “la correttezza del proprio operato” e “la regolarità delle transazioni commerciali” poste in essere tra le società coinvolte in un periodo più ampio di quello oggetto dell’accertamento (l’ipotetico accertamento della veridicità delle operazioni poste in essere negli anni successivi a quello oggetto dell’accertamento potrebbe, infatti, costituire un valido elemento di difesa)»; quindi «la ditta sottoposta a verifica fiscale ha diritto, al fine di dimostrare la correttezza del proprio operato, di ottenere dall’Agenzia delle entrate l’accesso alla documentazione relativa a dichiarazioni iva di altre ditte nel quadro di una dedotta cd. frode carosello» (2). Ma per potersi difendere il contribuente – accusato di essere consapevole dell’intento frodatorio del cedente – ha dovuto rivolgersi ai Giudici amministrativi perché l’Agenzia delle entrate, a fronte della richiesta di esibire i dati IVA del cedente, aveva risposto seccamente di no.
In una recente sentenza la Suprema Corte afferma che «incombe al Fisco l’onere di provare sia gli elementi di fatto della frode attinenti il cedente, ovvero la sua natura di “cartiera”, sia la partecipazione ad essa del contribuente, ovvero la sua consapevolezza. Tale prova può essere data anche mediante presunzioni, dotate di gravità, precisione e concordanza, consistenti in elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente. Qualora tale prova venga fornita, grava sul contribuente l’onere di dimostrare il contrario» (3).
Questa sentenza, salutata forse con eccessiva enfasi da chi ha ravvisato un cambio di rotta per quanto riguarda l’onere della prova, in realtà non muta il precedente regime probatorio. Cosa significa «elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente»? Oggi numerosi acquisti si fanno on-line; in questo caso cosa si può presumere? Nulla o che il cessionario avrebbe potuto sapere – fosse stato prudente o diligente – perché la vendita può essere facilmente sfruttata da soggetti che non verseranno l’IVA? Se chi vende offre un prezzo concorrenziale è di per se stesso sospettabile? Se il cedente non ha una struttura operativa materiale è per forza un potenziale evasore?
Temiamo che non cambi nulla: tutte le volte che un cedente non verserà l’IVA il cessionario dovrà provare che non sapeva di essere di fronte a un contribuente di frodo. Rimane in questo ordine di idee anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, perché il diritto alla detrazione dell’IVA – afferma il giudice comunitario – può essere negato non solo nel caso in cui si il contribuente sapeva, ma anche quando «avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal suddetto emittente o da un altro operatore intervenuta a monte nella catena di prestazioni» (4).
Un autentico revirement implica principi chiari: occorre cioè dire che l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare (anche per presunzioni, che è una prova, sia pure di tipo logico) che il cessionario conosceva con certezza la condotta fiscale del cedente (o, peggio, era suo complice). Se rimane fermo – come è rimasto fermo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia – il principio dell’“avrebbe dovuto sapere”, diciamoci la verità: stiamo parlando di una responsabilità oggettiva. Ovvio che se il soggetto interposto (che non versa l’IVA) è il fratello o il coniuge del cessionario tale difesa non regge; ma quando si è in presenza di un normale rapporto commerciale allora non si dovrebbe più discutere: il “non poteva non sapere” dovrebbe andare in soffitta (poniamo, ad esempio, che il cedente faccia dumping, cioè la tecnica commerciale di vendere sottocosto: l’acquirente si deve necessariamente rappresentare di essere di fronte a un evasore fiscale? Deve indagare sulle strategie commerciale dell’acquirente?).
Infine è utile una precisazione.
Non deve sembrare una conversione di rotta la recente sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione 22 maggio 2013, n. 12503 (5), in quanto oggetto di giudizio è stato esclusivamente il rapporto fiscale diretto e non anche l’ambito IVA, ed è stato affermato che «non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relative alle predette operazioni».
In altri termini, anche se deriva da una fattura soggettivamente falsa, il costo è deducibile (ovviamente se inerente); qui però è intervenuto l’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44), che ha modificato l’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537. Per effetto di questa norma – afferma la relazione al disegno di legge di conversione del D.L. n. 16/2012 – «l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi».
Avv. Fausta Brighenti
(1) Cfr. Cass., sez. VI, 13 marzo 2013, ord. n. 6400, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. trib., 6 giugno 2012, n. 9107, in Boll. Trib., 2013, 226, con nota di F. Cerioni, L’indetraibilità dell’IVA relativa alle operazioni inesistenti tra frode ed abuso del diritto di detrazione.
(2) Cfr. TAR Campania, sez. VI, 21 giugno 2012, n. 2946, in Giurisd. amm., 2012, 188.
(3) Cfr. Cass., sez. trib., 10 aprile 2013, n. 8722, in Boll. Trib. On-line.
(4) Cfr. Corte Giust. UE, sez. III, 21 giugno 2012, causa C-80/11, in Boll. Trib. On-line.
(5) In Boll. Trib. On-line.
IVA – Fatturazione di operazioni inesistenti – Fatture per operazioni soggettivamente inesistenti – Nozione – Operazione reale ma posta in essere da un soggetto differente dall’emittente la fattura – Diritto alla detrazione – Sussiste.
IVA – Fatturazione di operazioni inesistenti – Fatture per operazioni soggettivamente inesistenti – Mancata partecipazione e conoscenza, da parte del cessionario, della frode perpetrata dal cedente – Diritto alla detrazione – Sussiste.
IVA – Fatturazione – Fatture per operazioni inesistenti – “Frode carosello” – Mancanza di consapevolezza o di complicità del cessionario – Necessità – Insussistenza di tale consapevolezza o complicità – Deducibilità dell’IVA – Spetta.
IRPEF – Redditi di impresa – Costi e spese riconducibili ad operazioni soggettivamente inesistenti nell’ambito delle cosiddette “frodi carosello” – Prestazione di servizi o cessione di beni effettuata da un soggetto diverso dal soggetto che ha emesso la fattura – Irrilevanza – Deducibilità del costo – Sussiste.
La nozione di fattura soggettivamente inesistente presuppone da un lato l’effettiva acquisizione dei beni o servizi entrati da parte dell’impresa ricevente le fatture e, dall’altro, la simulazione soggettiva, ossia la provenienza dei beni o dei servizi da un soggetto diverso dall’emittente la fattura medesima, mentre la fattura oggettivamente inesistente certifica un’operazione mai avvenuta (cessione di un bene o prestazione di un servizio), di talché sussiste il diritto alle deduzioni e alle detrazioni fiscali operate sulla base di fatture relative ad operazioni realmente effettuate, benché poste in essere da un soggetto differente dall’emittente la fattura medesima.
Il destinatario di una fattura nella sua veste di cessionario non ha il diritto di detrarre l’IVA soltanto se ha partecipato alla frode posta in essere dal cedente o se comunque ne era consapevole, di talché il diritto alla detrazione non è pregiudicato dal fatto che, nella catena delle cessioni in cui si iscrivano tali operazioni, senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia viziata da frode all’IVA.
Un’impresa contribuente che sia stata coinvolta, a sua insaputa, in frodi all’imposta, come può accadere nelle frodi carosello, ha diritto alla detrazione dell’IVA pagata, in quanto il diritto alla deduzione dell’IVA, previsto dalla VI direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, costituisce parte integrante del meccanismo del tributo e non può essere soggetto a limitazioni.
Il requisito indispensabile e sufficiente per la deducibilità del costo sostenuto nell’esercizio dell’impresa è l’esistenza, sotto il profilo oggettivo, dell’operazione di cessione dei beni o di prestazione di servizi documentati dalla fattura, essendo a tal fine del tutto irrilevante che la prestazione sia stata fornita da un soggetto diverso da quello che ha emesso la relativa fattura, di talché i costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti, purché sopportati a fronte di operazioni effettive e reali, sono deducibili dal reddito d’impresa.
[Commissione trib. regionale del Lazio, sez. XXVIII (Pres. Silvestri, rel. Martinelli), 29 ottobre 2012, sent. n. 164, ric. Agenzia delle entrate – Ufficio di Roma 1 c. Cedis Distribuzione Mobili s.r.l.]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – L’Agenzia delle Entrate Ufficio Roma 1 propone appello alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio avverso la sentenza n. 214/02/10 del 9 aprile 2010, pronunciata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma sul ricorso proposto dalla Soc. Cedis Distribuzione Mobili Srl avverso l’avviso di accertamento n. … relativo ad IVA, IRPEG ed IRAP per l’anno 2003.
L’Ufficio:
– fa presente: – che con l’accertamento de qua veniva accertato un maggior reddito per l’anno 2003 derivante da presunto utilizzo di fatture emesse in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti; – che avverso tale accertamento proponeva ricorso la Società ed i Primi Giudici accoglievano il ricorso;
– propone appello avverso tale sentenza, ritenendola illegittima ed infondata per violazione e falsa interpretazione dell’art. 1 del D.Lgs. n. 74 del 2000;
– chiede, quindi, in riforma della sentenza impugnata, di accogliere l’appello; con vittoria di spese.
La Soc. Cedis Distribuzione Mobili Srl, in persona del legale rappresentante pro-tempore …, si costituisce in giudizio e deposita controdeduzioni con cui evidenzia che l’unico motivo d’appello è il fatto che la C.T.P. di Roma ha invertito l’onere della prova a carico dell’Amministrazione finanziaria;
– critica puntualmente quanto esposto dall’ufficio nell’appello;
– rimarca la violazione del divieto di emissione di accertamento prima del decorso dei 60 giorni dalla consegna del verbale;
– insiste sulla violazione dell’obbligo di allegazione dei documenti afferenti la verifica nei confronti della Soc. PromoGraf. Srl;
– conclude chiedendo di rigettare l’appello dell’Ufficio confermando la sentenza impugnata; con vittoria di spese.
In data 26.6.12 la Cedis Distribuzione Mobili Srl deposita memorie illustrative.
MOTIVI DELLA DECISIONE – Il Collegio, esaminati gli atti e sentite le parti, non ritiene condivisibili le motivazioni addotte a sostegno dell’atto di appello.
Trattasi di ricorso proposto dalla dalla Soc. Cedis Distribuzione Mobili Srl avverso l’avviso di accertamento n. … relativo ad IVA, IRPEG ed IRAP per l’anno 2003, con il quale veniva accertato un maggior reddito derivante da presunto utilizzo di fatture emesse in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti.
In primo luogo va rilevato che la Commissione Tributaria Provinciale, con la sentenza impugnata, ha accolto il ricorso della Soc. Cedis Distribuzione Mobili Srl con una motivazione articolata e circostanziata, motivazione che viene condivisa da questo Collegio.
I primi Giudici scrivono che è stato documentalmente provato che il contribuente intratteneva rapporti commerciali (acquisto di materiale cartaceo quali cataloghi, locandine e depliants) esclusivamente con la Promo Graf Srl ed è lo stesso PVC a chiarire detta circostanza, laddove esclude categoricamente che dall’esame delle scritture contabili possa emergere l’esistenza di un rapporto “diretto” tra la contribuente e la RotoEffe quest’ultima infatti risultava estranea sia per gli ordinativi che per i pagamenti).
Di contro si osserva che le eccezioni sollevate dall’Ufficio con l’atto di appello hanno già formato oggetto di disamina nella richiamata sentenza e questa Commissione non ravvisa motivi per pervenire ad una diversa conclusione.
Infatti va precisato che viene contestato alla Soc. Cedis Distribuzione Mobili Srl non l’utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti, bensì di fatture provenienti da soggetto diverso rispetto a quello a ciò per legge obbligato, operazioni comunque oggettivamente esistenti.
È notorio che mentre la fattura oggettivamente inesistente certifica una operazione (cessione di un bene o prestazione di servizio) mai avvenuta, quella soggettivamente inesistente riguarda, invece, una operazione reale, ma posta in essere da un soggetto differente dall’emittente la fattura medesima.
La nozione di fattura soggettivamente inesistente presuppone, da un lato, l’effettiva acquisizione dei beni o servizi entrati da parte dell’impresa ricevente le fatture e, dall’altro, la simulazione soggettiva, ossia la provenienza dei beni o dei servizi da soggetto diverso dall’emittente la fattura medesima.
Vi è giurisprudenza consolidata per quanto riguarda che il destinatario non ha il diritto di detrarre l’IVA soltanto se ha partecipato alla frode o se comunque ne era consapevole; la stessa Corte di Giustizia, valga per tutte la sentenza n. C-484/03(1), ha sancito che il diritto alla detrazione “non è pregiudicato dal fatto che, nella catena delle cessioni in cui si iscrivano tali operazioni, senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia viziata da frode all’IVA”.
La Corte Giustizia Comunitaria ha dunque stabilito che una società che sia stata coinvolta, a sua insaputa, in frodi all’imposta (come nelle frodi carosello), ha diritto alla detrazione dell’IVA pagata, in quanto il diritto alla deduzione IVA, previsto dalla sesta direttiva, costituisce parte integrante del meccanismo del tributo e non può, dunque, essere soggetto a limitazioni.
Va inoltre precisato che il requisito indispensabile sufficiente per la deducibilità del costo è l’esistenza, sotto un profilo oggettivo, della operazione di cessione dei beni o prestazione di servizi documentati dalla fattura, essendo a tal fine del tutto irrilevante che la prestazione sia fornita da soggetto diverso da quello che ha emesso la relativa fattura.
A tal proposito la Corte Suprema di Cassazione ha statuito (sent. 29 aprile 2011, n. 9537(2)) che “in tema di imposte sui redditi, i costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti, purché sopportati a fronte di operazioni effettive e reali, sono deducibili dal reddito d’impresa”.
Alla luce di quanto sopra è evidente la legittimità del comportamento fiscale della società e la sussistenza del diritto alle deduzioni e alle detrazioni fiscali operate sulla base di fatture relative ad operazioni realmente effettuate.
La sentenza dei primi Giudici va, pertanto, confermata.
Resta assorbita ogni altra questione, domanda e/o eccezione prospettata dalle parti o rilevabile d’ufficio.
Il Collegio ritiene che sussistono giusti motivi, consistenti in apprezzabili e comprensibili ragioni di difesa, anche alla luce della particolarità della materia del contendere, che inducono a compensare integralmente le spese fra le parti.
P.Q.M. – (Omissis).
(1) Corte Giust. CE 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, in Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib. On-line.
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