4 Settembre, 2014

 

1. Premessa

L’ormai nota pronuncia del Tribunale ordinario di Napoli (1), con la quale il giudice monocratico ha riconosciuto la propria giurisdizione sull’azione cautelare proposta da un contribuente per inibire all’Agenzia delle entrate l’utilizzo del redditometro, ha aperto la strada ad un filone ermeneutico ben preciso della giurisprudenza.

E, infatti, mentre alcuni successivi interventi provenienti dagli organi di giustizia tributaria (2) si sono concentrati sui profili dell’illegittimità e della radicale nullità del decreto ministeriale attuativo del predetto strumento accertativo, emanato il 24 dicembre 2012, e distinto dal n. 65648, la sentenza oggetto del presente esame riprende e approfondisce la tematica della tutela anticipatoria e inibitoria, avendo riguardo alla potenziale lesione di diritti fondamentali della persona. Il tema della nullità del decreto attuativo del redditometro è affrontato marginalmente, solo come assist per giustificare la necessità di garantire una tutela cautelare siffatta.

Ciò che rileva per il giudice monocratico civile è l’operato dell’Agenzia delle entrate la quale ingerisce nella sfera giuridico-patrimoniale del contribuente investigando su dati strettamente personali che richiedono la garanzia di riservatezza e, successivamente, diffondendo le informazioni derivanti da tali indagini.

Si tende, pertanto, ad approfondire la questione mediante un approccio un po’ diverso da quello tradizionale proposto dalla dottrina tributaristica, più mirato verso i profili di criticità del redditometro.

L’orientamento per lungo tempo prevalente, infatti, riconosceva una concreta tutela al contribuente solo dopo l’emissione di un atto autonomamente impugnabile innanzi alle Commissioni tributarie in quanto si riteneva che, solo in quel caso, fosse prospettabile una lesione rilevante al punto da rendere necessario un intervento dell’Autorità giudiziaria.

Nella pronuncia in rassegna si chiarisce, invece, come ci si trovi innanzi all’esercizio di un potere forte attribuito all’Agenzia delle entrate al quale fanno da contraltare diritti soggettivi fondamentali della persona-contribuente, in una fase che è precedente all’emanazione di qualunque atto, anche endoprocedimentale.

Viene, infatti, evidenziata l’importanza di questa fase precedente all’emissione di un provvedimento autonomamente impugnabile per affermare l’esigenza di una tutela cautelare in forza del concretizzarsi dei tradizionali requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Nondimeno, come in altra sede rimarcato (3), il limitato ambito di operatività della tutela cautelare in campo tributario e gli attuali confini dell’oggetto della giurisdizione tributaria non lasciano altra possibilità ai soggetti interessati che quella di rivolgersi all’Autorità giudiziaria ordinaria.

Ci soffermiamo, brevemente, sulla parte della sentenza che delinea aspetti meritevoli di commento al fine di formulare, in merito ad essi, alcune riflessioni.

2. Breve ricostruzione delle circostanze di fatto e degli elementi di diritto della pronuncia in esame

Un contribuente proponeva, innanzi al Tribunale ordinario di Napoli, ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate, resistente (interventore il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli), al fine di ottenere l’accertamento giurisdizionale del proprio diritto alla riservatezza nei confronti dell’Agenzia delle entrate, con riguardo all’utilizzo del c.d. redditometro.

Il predetto Tribunale civile, in composizione monocratica, così si pronunciava.

[-protetto-]

In ordine alla propria giurisdizione ne riconosceva la sussistenza poiché, nonostante l’emanazione ad opera del Ministero delle finanze del decreto attuativo del c.d. redditometro, la materia è da attribuire al giudice ordinario, per espressa e inequivoca disposizione di legge, in applicazione degli ordinari principi di riparto della giurisdizione, vale a dire, del tradizionale criterio del petitum sostanziale o causa petendi, come normato dagli artt. 103 e 113 Cost. e dall’art. 386 c.p.c.

L’art. 152 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, recante il Codice in materia di protezione dei dati personali, dispone infatti che le controversie che riguardano comunque l’applicazione delle disposizioni del codice medesimo, comprese quelle inerenti ai provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o alla loro mancata adozione, nonché le controversie previste dall’art. 10, quinto comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121, e successive modificazioni, sono attribuite all’Autorità giudiziaria ordinaria (4).

Tale esplicita previsione non fa altro che confermare l’interpretazione da riconoscere ai principi che regolano i rapporti tra diritti intangibili della persona e Autorità amministrativa. Quest’ultima, secondo le Sezioni Unite, a fronte di tali posizioni soggettive costituzionalmente apicali, non può considerasi titolare di alcun potere, in sede di riparto di giurisdizione. In particolare infatti i Supremi Giudici (5) con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo hanno specificato che, nel nostro ordinamento, si rinvengono, a fronte di situazioni soggettive a nucleo variabile – in relazione alle quali si riscontra un potere discrezionale della pubblica Amministrazione capace di degradare (all’esito di un giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti) i diritti ad interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino ad elevarli a diritti – posizioni soggettive a nucleo rigido, rinvenibili unicamente in presenza di quei diritti, quale quello alla salute, che, in ragione della loro dimensione costituzionale e della loro stretta inerenza a valori primari della persona, non possono essere definitivamente sacrificati o compromessi. Di conseguenza, allorquando si prospettino motivi di urgenza suscettibili di esporli a pregiudizi gravi e irreversibili, alla pubblica Amministrazione manca qualsiasi potere discrezionale di incidere su detti diritti, non essendo ad essa riservato se non il potere di accertare la coerenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti affinché la pretesa avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, quello spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata.

Il Tribunale adito afferma poi che non può esservi dubbio alcuno circa la natura di diritto fondamentale della persona da attribuirsi alla riservatezza che, peraltro, non si esaurisce nella tutela del mero domicilio della persona, bensì si estende alla sua intera dimensione privata, ex art. 2 del D.Lgs. n. 196/2003.

In tal senso l’art. 7 del predetto decreto prevede una tutela della riservatezza anticipata riguardante i dati personali del soggetto interessato della cui esistenza egli ha diritto di ottenere conferma, anche se non ancora registrati, e dei quali deve ricevere comunicazione in forma intelligibile anche con riguardo alla logica applicata in caso di loro trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici.

Tali dati, se trattati in violazione di legge, devono essere cancellati.

Nel caso specifico, pertanto, si verte in tema di protezione di dati personali e, quindi, di giurisdizione ordinaria.

Ciò perché il redditometro così come l’Anagrafe tributaria e l’ultimo intervento contenuto nell’art. 11 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) – che ha imposto agli operatori finanziari di comunicare all’Anagrafe tributaria i movimenti effettuati sui “rapporti” dai loro clienti a partire dal 1° gennaio 2012– incidono su questi profili.

Non è pertanto accettabile l’orientamento dottrinario che afferma che si debba attendere un atto amministrativo autonomamente impugnabile per far valere le proprie ragioni. Il diritto alla riservatezza e i diritti della persona, una volta violati, non possono più usufruire di una tutela specifica e, quindi, non si può attendere l’emanazione dell’atto, soprattutto perché la tutela deve essere di natura inibitoria oltreché anticipatoria.

In ordine alla legittimazione passiva, contestata dall’Agenzia delle entrate in favore del Ministero delle finanze, il giudice partenopeo riconosce che sia la prima ad esserne titolare poiché l’ordinamento attribuisce ad essa personalità giuridica autonoma e distinta dal Ministero e conferisce ad essa i più ampi poteri di accertamento, riscossione, sanzionatori, ecc., così come confermato, in riferimento alla capacità della predetta Agenzia di stare in giudizio anche innanzi al giudice ordinario, dalla Corte di Cassazione (6).

In ordine alla nullità del decreto ministeriale attuativo del nuovo redditometro, l’Agenzia delle entrate afferma di avere il potere di conoscere tutti i dati personali del contribuente e della sua famiglia, in virtù di tale decreto. pertanto tale potere esiste in quanto il predetto decreto sia valido ed efficace, in forza delle condizioni di validità fissate per esso dall’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Da questo punto in poi, al fine di riaffermare l’illegittimità del decreto attuativo del redditometro in detti termini, il Tribunale decidente riprende integralmente le conclusioni del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Pozzuoli.

3. Riflessioni critiche sul tema

L’annotata pronuncia, come già rilevato, ribadisce alcuni contenuti della precedente ordinanza emessa dal Tribunale di Napoli e, quindi, per evitare di tediare il lettore con osservazioni ripetitive, riteniamo opportuno soffermarci solo sui profili di novità o su quelli in cui si rileva un approfondimento degno di ulteriore disamina.

In primo luogo il giudice monocratico ritiene essenziale affermare la propria giurisdizione con riguardo all’ottenimento, da parte del soggetto interessato (nel nostro caso, il contribuente), dell’accertamento del proprio diritto alla riservatezza nei confronti dell’Agenzia delle entrate con riguardo all’utilizzo del redditometro.

Ciò che il giudice monocratico intende evidenziare è come la questione, in tale frangente, verta in tema di situazioni giuridiche soggettive che fanno capo al contribuente con incidenza prioritaria rispetto alla valutazione della legittimità o meno del decreto attuativo del redditometro predetto.

Per fondare il proprio orientamento, l’Autorità giudiziaria adita si sofferma sul dato normativo e su quello giurisprudenziale.

Quanto al dato normativo l’art. 152 del D.Lgs. n. 196/2003 è molto chiaro nell’affermare che tutte le controversie che riguardano, comunque, l’applicazione delle disposizioni del codice della privacy, comprese quelle inerenti ai provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o alla loro mancata adozione e anche quelle previste dall’art. 10, quinto comma, della legge n. 121/1981, sono attribuite all’Autorità giudiziaria ordinaria. Il giudice monocratico, dunque, afferma che senza ombra di dubbio la riservatezza rientra nei diritti fondamentali della persona e che la dimensione della tutela ad essa riferibile non è circoscritta al mero domicilio della persona, bensì alla sua intera dimensione privata, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 196/2003.

Con riguardo al dato giurisprudenziale, si fa specifico riferimento alla già citata sentenza delle Sezioni Unite n. 8487/2011 (7) con la quale queste ultime hanno ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario se il diritto azionato è inestricabilmente connesso a interessi legittimi non prevalenti rispetto al medesimo affrontando, proprio, una questione inerente all’accesso ai dati personali. E tale conclusione non pone l’art. 152 del D.Lgs. n. 196/2003 in contrasto con l’art. 103 Cost., nella parte in cui quest’ultimo riconosce agli organi di giustizia amministrativa giurisdizione per la tutela in tema di interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche di diritti soggettivi. Allo stesso modo, infatti, non è vietata l’attribuzione al giudice ordinario della cognizione anche in materia di interessi legittimi, soprattutto quando si verta in ambito di accesso ai dati personali e dei costi di esercizio di tale diritto, considerato che vi è una interferenza difficilmente districabile tra i diritti e gli interessi legittimi, con la netta prevalenza dei primi sui secondi. E ciò, soprattutto, in un ambito in cui si richiede all’Autorità garante di effettuare un contemperamento tra interessi privati – facenti capo ai soggetti titolari dei dati e a chi li detiene – e, quindi, insistenti al di fuori di un ambito in cui si possa ritenere operante la discrezionalità amministrativa.

Nelle argomentazioni del Tribunale adito c’è infatti un preciso riferimento all’art. 7 del D.Lgs. n. 196/2003 che riguarda i diritti dell’interessato, cioè del titolare dei dati trattati.

La disposizione prevede che l’interessato abbia diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile, anche in riferimento alla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici. Egli ha, inoltre, diritto di ottenere l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati così come la loro cancellazione, la trasformazione in forma anonima nonché, infine, il blocco dei dati trattati in violazione di legge.

Si tratta, come è evidente, di profili che riguardano una fase certamente precedente a un qualsiasi tipo di provvedimento amministrativo, anche endoprocedimentale. E, dunque, relativi ad una fase che, alla luce degli attuali ambiti della giurisdizione, non può che restarne al di fuori.

Appare pertanto evidente che l’unica possibilità di sovvertire le conclusioni del Tribunale adito sarebbe contrastare l’inquadramento normativo e giurisprudenziale della fattispecie all’attenzione del giudice campano nell’ambito di quelle regolate da disposizioni del codice della privacy. Ad una valutazione siffatta, tuttavia, si potrebbe giungere solo riconoscendo una tutela cautelare inibitoria e anticipatoria nel processo tributario. Nondimeno, in questo momento ed in base all’attuale dimensione della tutela cautelare in quell’ambito, non ci sono le condizioni che consentano di aprire un varco alla giurisdizione delle Commissioni tributarie.

E infatti la singolarità di questa pronuncia, ad avviso di chi scrive, sta tutta nell’ultima considerazione: sembra proprio che il giudice monocratico voglia soffermare l’attenzione, quantomeno della dottrina tributaristica, su questo preciso profilo.

L’Autorità giudiziaria adita si rivolge direttamente agli studiosi di diritto tributario. Addirittura, a molti di essi si rimprovera di avere espresso un orientamento non accettabile nell’affermare che il contribuente debba attendere un atto amministrativo autonomamente impugnabile per far valere le proprie ragioni, in presenza di una prospettabile lesione della propria sfera giuridico-patrimoniale.

Nondimeno in atto il risultato più eclatante è quello contenuto nella sentenza n. 7344/2012 (10) che ha riconosciuto al contribuente la possibilità di impugnare provvedimenti che vengono qualificati come atti diversi da quelli espressamente indicati nell’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, purché idonei a portare a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria e lo ha fatto con specifico riferimento ad uno dei cosiddetti atti intermedi e/o presupposti idonei ad arrecare un pregiudizio al contribuente, vale a dire la comunicazione di irregolarità ex artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973.

La fattispecie in commento, analoga a quella dibattuta innanzi al Tribunale ordinario di Napoli qualche tempo fa, non rientra in una fase della procedura accertativa conclusasi con un atto endo/infra-procedimentale, potenzialmente lesivo della sfera giuridico-patrimoniale, bensì in una fase precedente all’inizio di qualsiasi attività amministrativa a rilevanza esterna.

In questo momento l’impianto del processo tributario è ancora strettamente dipendente dalla dimensione dell’atto impugnabile e quindi non si ritiene proponibile un’istanza di tutela cautelare anticipatoria e inibitoria, considerato che l’unica tutela cautelare esperibile è sempre legata all’atto e cioè all’eventuale sospensione dello stesso, se impugnato innanzi alle Commissioni tributarie provinciali.

Non sono espressamente previsti rimedi ante causam, e la dottrina è particolarmente restia (11) – nonostante l’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992 preveda, nel secondo comma, che «I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile» – a consentire l’utilizzo di procedimenti innominati e atipici disciplinati dal codice di rito.

Nonostante il quadro appena delineato, il giudice monocratico, nella pronuncia in rassegna, ci ammonisce che il diritto alla riservatezza e i diritti della persona, una volta violati, non possono più usufruire di una tutela specifica e, quindi, non si può attendere l’emanazione dell’atto amministrativo/accertativo, soprattutto perché la tutela deve essere di natura inibitoria, oltreché anticipatoria.

Sul punto ci sembra estremamente pertinente l’ulteriore considerazione che fa il giudice monocratico e cioè che l’Agenzia delle entrate afferma di avere il potere di conoscere tutti i dati personali del contribuente e della sua famiglia, in virtù del decreto attuativo del redditometro. Tale potere dunque esiste in quanto il predetto decreto sia valido ed efficace, in forza delle condizioni di validità fissate per esso dall’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973. Posto che l’Autorità giudiziaria adita accoglie quanto già affermato dal giudice monocratico campano in tema di illegittimità e inefficacia del redditometro predetto (cioè, che il decreto attuativo del redditometro sia stato emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dai suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria e, pertanto, sia illegittimo e radicalmente nullo e, sotto il profilo dell’efficacia, sia giuridicamente tamquam non esset), in conseguenza di ciò non ci possono essere dubbi sulla prospettabilità di una lesione grave e irrimediabile di un diritto soggettivo sostanziale in questa fase, a causa del decorso del tempo necessario per pervenire alla decisione di merito.

Come afferma condivisibile dottrina (12), in una ipotesi siffatta si impone una tutela cautelare anche mediante strumenti atipici, in ogni ambito giurisdizionale. A nostro avviso dunque – dato che la lesione configurata dal contribuente e meglio qualificata dal giudice attiene al tema della riservatezza e che in tale ambito non sembra contestabile la giurisdizione del giudice ordinario – non resta al contribuente altra soluzione che quella di rivolgersi a quest’ultimo.

Un ultimo aspetto della pronuncia in esame che ci sembra interessante è l’affermazione del giudice monocratico relativa alla legittimazione passiva, contestata dall’Agenzia delle entrate in favore del Ministero delle finanze. Si riconosce infatti che essa vada riconosciuta in capo all’Agenzia predetta poiché l’ordinamento attribuisce ad essa personalità giuridica autonoma e distinta dal Ministero e le conferisce i più ampi poteri di accertamento, di riscossione, sanzionatori, ecc. D’altra parte anche la giurisprudenza (13) riconosce ad essa la capacità di stare in giudizio anche innanzi al giudice ordinario. Ci sembra una considerazione non di poco conto alla quale è probabile che verrà dato ulteriore e maggiormente motivato seguito proprio per non consentire all’Agenzia delle entrate di trincerarsi dietro questa accezione pretestuosa, al fine di continuare a perpetrare l’uso aggressivo ed invasivo del nuovo redditometro.

Avv. Patrizia Accordino

Università degli Studi di Messina

(1) Cfr. Trib. Napoli, sez. staccata di Pozzuoli, 20 febbraio 2013, ord. n. 250, in Boll. Trib., 2013, 541, con nota di P. Accordino, Il redditometro e la tutela dei dati personali del contribuente.

(2) Ved. Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. II, 18 aprile 2013, n. 74, in Boll. Trib., 2013, 1118, con nota di P. Accordino, Criticità diffuse del nuovo redditometro.

(3) Cfr. P. Accordino, La tutela cautelare tra disposizioni del codice di procedura civile e norme tributarie: riflessioni a margine di alcuni recenti interventi della giurisprudenza, in Rass. trib., 2009, 1337 ss.

(4) Cfr. Cass., sez. un., 14 aprile 2011, n. 8487, in Giur. it., 2011, 2668.

(5) Cfr. Cass., sez. un., 9 settembre 2009, ord. n. 19393, in Giur. it., 2010, 451; e Cass., sez. un., 16 settembre 2010, ord. n. 19577, in Riv. dir. internaz. priv. e proc., 2011, 498.

(6) Così Cass., sez. III, 9 aprile 2009, n. 8703, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cfr. nota 4.

(8) Si veda il riferimento contenuto nella nota 1.

(9) Cfr. Cass., sez. un., 16 marzo 2009, n. 6315, in Boll. Trib., 2009, 729; e Cass., sez. un., 7 maggio 2010, n. 11082, in Boll. Trib. On-line, che ribadiscono quanto precedentemente stabilito dalla più nota sentenza di Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, in Boll. Trib., 2005, 1828.

(10) Cfr. Cass., sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7344, in Boll. Trib., 2012, 1547, con nota di P. Accordino, Riconosciuta l’autonoma impugnabilità delle cosiddette comunicazioni di irregolarità.

(11) Sul punto ci sia consentito rimandare a P. Accordino, La tutela cautelare tra disposizioni del codice di procedura civile e norme tributarie: riflessioni a margine di alcuni recenti interventi della giurisprudenza, cit., 1337 ss.

(12) Cfr. T. Baglione – S. Menchini – M. Miccinesi, Il nuovo processo tributario, Milano, 2004, 495 ss.

(13) Cass. n. 8703/2009, cit.

 

 

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – Tutela cautelare prima dell’inizio dell’attività accertativa – Ammissibilità – Giurisdizione del giudice ordinario – Sussiste – D.M. 24 dicembre 2012 – Nullità e inefficacia per carenza di potere e difetto di attribuzione – Si configura – Ordine inibitorio dell’uso dei dati del contribuente – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Compressioni e limitazioni dei diritti umani fondamentali – Illegittimità del decreto ministeriale per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione del diritto alla riservatezza – Illegittimità del decreto ministeriale per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Impugnazione avanti il giudice ordinario prima dell’emissione dell’avviso di accertamento – Ammissibilità – Diritto alla riservatezza e diritti della persona – Tutela anticipata rispetto al verificarsi della loro lesione da parte dell’atto tributario – Va concessa.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Tutela del diritto alla riservatezza – Impugnazione del decreto avanti avanti il giudice tributario prima dell’emissione dell’avviso di accertamento – Ammissibilità.

Procedimento – Assistenza e rappresentanza – Capacità di stare in giudizio degli Uffici periferici dell’Agenzia delle entrate avanti al giudice ordinario – Sussiste.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – È affetto da radicale nullità per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione – Indifferenziata sottoposizione a controllo di tutte le spese riferibili alla famiglia – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione degli artt. 2 e 13 Cost., degli artt. 1, 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 – Sussiste – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione del diritto alla difesa ex art. 24 Cost., del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 – Sussiste – Impossibilità di fornire la prova di avere speso di meno di quanto risultante dalle medie ISTAT – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione dei principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità – Sussiste – Inidoneità del redditometro a perseguire gli obiettivi di repressione dell’evasione fiscale, pur sacrificando del tutto il diritto alla dignità, all’autodeterminazione e alla privatezza della vita individuale, associativa, culturale e relazionale di tutto il nucleo familiare – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione dell’art. 47 Cost. sulla tutela del risparmio – Sussiste – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione dei principi fondamentali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, nonché dei conseguenti corollari di cui alla legge n. 241/1990 – Sussiste – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione del principio di proporzionalità ex art. 13 del Trattato dell’Unione europea, nonché del principio di necessità e proporzionalità previsto dall’art. 3, commi 3 e 22, del D.Lgs. n. 196/2003 – Sussiste – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione dell’art. 20 del D.Lgs. n. 196/2003 – Sussiste – Autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da parte di una norma di legge – Necessità – Mancanza di tale norma – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Violazione dell’art. 14 del D.Lgs. n. 196/2003 – Sussiste – Illegittimità del decreto ministeriale – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – D.M. 24 dicembre 2012 – Nullità per carenza di potere e difetto di attribuzione – Si configura – Tutela cautelare ante accertamento – Ammissibilità – Giurisdizione del giudice ordinario – Sussiste.

Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda del contribuente volta ad ottenere l’accertamento giurisdizionale del suo diritto alla riservatezza nei confronti dell’Agenzia delle entrate riguardo all’operatività del D.M. 24 dicembre 2012.

I diritti umani fondamentali godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e non possono essere degradati ad interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore, di talché il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è non solo illegittimo, ma radicalmente nullo ai sensi dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione, in quanto emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria, atteso che il c.d. redditometro ivi disciplinato utilizza categorie concettuali ed elaborazioni non previste dalla norma attributiva.

Il diritto alla riservatezza ha natura di diritto fondamentale della persona che non si esaurisce nella tutela del mero domicilio della persona, bensì si estende alla sua intera vita privata come concretamente si articola nella quotidianità, in applicazione dei principi di rispetto della dignità umana e di libertà rendendo esperibile una tutela anticipata e inibitoria a protezione dell’autonomia delle scelte quotidiane individuali anche nei confronti dei pubblici poteri, quale il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo del c.d. redditometro di cui all’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Il diritto alla riservatezza e i diritti della persona, una volta violati, sono per definizione incapaci di poter usufruire di una tutela in forma specifica, di talché attendere l’emanazione dell’atto tributario significherebbe attendere il verificarsi della lesione della riservatezza, cioè proprio ciò che il codice della privacy di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, vuole evitare mercé l’attribuzione di una tutela anticipata, e pertanto deve ritenersi ammissibile l’impugnazione del D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, avanti alla Autorità giudiziaria ordinaria, prima dell’emanazione dell’avviso di accertamento, assumendone la sua illegittimità o radicale nullità ai sensi dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione.

Gli Uffici periferici dell’Agenzia delle entrate hanno la capacità di stare in giudizio, in via concorrente ed alternativa al direttore, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c., configurandosi detti Uffici quali organi dell’Agenzia che, al pari del Direttore, ne hanno la rappresentanza, con la conseguenza dell’imputabilità all’organo rappresentato dell’attività da loro svolta, e con l’ulteriore conseguenza della sussistenza della loro legittimazione passiva ed attiva concorrente anche nel processo innanzi al giudice ordinario.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è non solo illegittimo ma radicalmente nullo ai sensi dell’art. 21-septies, della legge 7 agosto 1990, n. 241, per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione, in quanto emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria, atteso che il c.d. redditometro ivi disciplinato utilizza categorie concettuali ed elaborazioni non previste dalla norma attributiva che richiede l’identificazione di categorie di contribuenti, laddove il predetto decreto ministeriale non individua tali categorie ma ben altro, sottoponendo indirettamente a controllo, vista l’ampiezza dei controlli e il riferimento ai nuclei familiari, anche le spese riferibili a soggetti diversi dal contribuente per il solo fatto di essere appartenenti al medesimo nucleo familiare.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, viola gli artt. 2 e 13 Cost., gli artt. 1, 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché lo stesso art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, in quanto prevede la raccolta e la conservazione non già di questa o quella voce di spesa diverse tra loro per genere (come previsto dal predetto art. 38), ma di tutte le spese poste in essere dal soggetto (rectius, dalla sua famiglia), che viene quindi definitivamente privato del diritto ad avere una vita privata, di poter gestire autonomamente il proprio denaro e le proprie risorse e di essere perciò libero nelle proprie determinazioni senza dover essere sottoposto all’invadenza del potere esecutivo, senza dover dare spiegazioni dell’utilizzo della propria autonomia e senza dover subire intrusioni anche su aspetti delicatissimi della vita privata quali quelli relativi alla spesa farmaceutica, al mantenimento e all’educazione impartita alla prole e alla propria vita sessuale.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, viola il diritto alla difesa ex art. 24 Cost., il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., nonché lo stesso art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, in quanto rende impossibile fornire la prova di aver speso di meno di quanto risultante dalle medie ISTAT, non potendosi provare ciò che non si è fatto e ciò che non si è comprato, atteso che, anche a voler prevedere una grottesca conservazione di tutti gli scontrini e una altrettanto grottesca analitica contabilità domestica, è chiaro che tale documentazione non può dimostrare che non è stata sopportata altra concreta spesa, arrivando così all’irragionevole ricostruzione di spese artificialmente imposte dall’Autorità governativa, mercé le quali si può di fatto intensificare il prelievo fiscale in violazione dell’art. 53 Cost., circostanza che appare ancora più evidente ove si consideri che le ipotesi di spese minori di quelle presuntivamente ancorate alle medie non sono improbabili ma invece assolutamente certe, poiché se vi è una media di spesa significa che sono state registrate nella realtà economica fasce di oscillazione da un minimo a un massimo, sicché è certo che coloro i quali si ritroveranno al di sotto di tale media si vedranno attribuire automaticamente consumi non sostenuti accomunando oltretutto situazioni territoriali differenti in quanto altro è la grande metropoli, altro è il piccolo centro e altro ancora è vivere in questo o quel quartiere.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, viola i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità in quanto non è lo strumento idoneo a raggiungere in modo adeguato i prefissi obiettivi di repressione dell’evasione fiscale, pur sacrificando del tutto il diritto alla dignità, all’autodeterminazione e alla privatezza della vita individuale, associativa, culturale e relazionale non solo del singolo contribuente ma di tutto il suo nucleo familiare trattandosi di un meccanismo induttivo che è tanto più severo quanto più il presunto evasore è economicamente meno robusto.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, si pone in contrasto con l’art. 47 Cost. secondo cui la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, in quanto, per come è stato impostato il c.d. redditometro, viene considerato lecito esclusivamente il risparmio che sia compatibile con i criteri di spesa ivi previsti del tutto astratti e avulsi dalla realtà, perché mutuati da elaborazioni statistiche nate per tutt’altri fini.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è in contrasto coi principi fondamentali di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione, nonché con i conseguenti corollari di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, dei principi di leale collaborazione procedimentale volta ad assicurare uno scambio di informazioni in una logica non di antitesi ma collaborativa, in quanto il diritto al contraddittorio assicurato al contribuente ai fini dell’accertamento sintetico del reddito complessivo netto è in gran parte svuotato di effettività ove si consideri che: a) si è in presenza di un procedimento di tipo eminentemente inquisitorio e sanzionatorio; b) i soggetti a confronto si trovano in posizione di fortissima asimmetria, in quanto l’Agenzia delle entrate è anche socia della società di riscossione forzata, che gode di poteri di autotutela esecutiva anch’essi del tutto inusuali per la loro incisività sulla proprietà privata; c) l’Agenzia delle entrate si trova in una situazione di oggettivo conflitto di interessi, poiché essa è normalmente vincolata al raggiungimento di obiettivi e di risultati, sicché ha filologicamente interesse alla conferma della propria ipotesi, anche in ragione della sua partecipazione alla società di riscossione; d) proprio in ragione di ciò, cioè della fisiologica previsione di obiettivi di evasione da recuperare, l’accertamento presuntivo mercé il c.d. redditometro porta con sé il rischio che l’Agenzia delle entrate, anziché intensificare i controlli sulla realtà per la ricostruzione reale dei redditi, tenda invece a privilegiare l’accertamento mediante il redditometro, costituente uno strumento meramente burocratico, meno dispendioso in tempo di costi e di energia e soprattutto strutturato in modo tale da rendere non sempre praticabile un reale ed efficace contraddittorio, tanto da escludere, per certi aspetti e in una certa misura, la stessa possibilità di una prova liberatoria.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è in contrasto con il principio di proporzionalità di cui all’art. 13 del Trattato dell’Unione europea, nonché con quello di necessità e proporzionalità previsto dall’art. 3, commi 3 e 22, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto non vi è alcun limite di tempo con riferimento alla conservazione dei dati personali, né è richiesto un collegamento tra la conservazione e la raccolta dei dati e l’accertamento fiscale.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è in contrasto con l’art. 20 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, recante il Codice in materia di protezione dei dati personali, secondo cui «il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici è consentito solo se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale sono specificati i tipi di dati che possono essere trattati e di operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite» in quanto, sebbene non vi sia alcuna norma espressa che preveda l’autorizzazione al trattamento di tali dati, il redditometro li prevede egualmente.

Il D.M. 24 dicembre 2012, recante il regolamento attuativo dell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è in evidente contrasto con l’art. 14 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, recante il Codice in materia di protezione dei dati personali, secondo cui «nessun atto o provvedimento giudiziario o amministrativo che implichi una valutazione del comportamento umano può essere fondato unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato», essendo palese che il c.d. redditometro prevede proprio un mero automatismo da cui fa discendere una valutazione del comportamento del contribuente senza alcuna verifica concreta e puntuale, tanto che infatti l’accertamento sintetico del reddito complessivo netto non fonda una base indiziaria giustificativa di veri accertamenti concreti e fondati su indagini specifiche, bensì è esso stesso un accertamento definitivo secondo parametri automatici e del tutto astratti.

Il decreto ministeriale 24 dicembre 2012, attuativo del c.d. redditometro, è stato emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e in contrasto con le norme della Costituzione e del diritto comunitario, in quanto tale istituto, nella sua impostazione susseguente all’applicazione delle indicazioni contenute nel predetto decreto attuativo, utilizza categorie concettuali ed elaborazioni non previste dalla norma attributiva e deve, pertanto, ritenersi radicalmente nullo, ai sensi dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione e, di conseguenza, giuridicamente tamquam non esset sotto il profilo dell’efficacia, in guisa da giustificare l’ordine, rivolto all’Agenzia delle entrate, di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione o comunque attività di conoscenza e uso dei dati del contribuente relativi a quanto previsto dall’art. 38, quarto e quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, di cessare ogni attività di accesso, analisi e raccolta di dati di ogni genere relativi alla posizione del contribuente medesimo, di comunicare formalmente a quest’ultimo se è in atto un’attività di raccolta di dati nei suoi confronti ai fini dell’applicazione del redditometro e, in caso positivo, di distruggere tutti i relativi archivi previa specifica informazione al soggetto interessato.

[Tribunale di Napoli, sez. stralcio (G.I. Valletta), 24 settembre 2013, sent. n. 10508]

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONESULLA GIURISDIZIONE – Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto la domanda di parte ricorrente è volta ad ottenere l’accertamento giurisdizionale del suo diritto alla riservatezza nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, nonostante l’emanazione ad opera del Ministero delle Finanze del decreto attuativo del c.d. redditometro (decreto ministeriale del 24.12.2012, n. 65648 pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 3 del 4.1.2013 in attuazione di quanto previsto dalla normativa primaria di cui all’art. 38, comma 4, d.p.r. 29.9.1973, n. 600 come modificato dall’articolo 22, comma 1, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78; il che evidenzia – e sia detto per mera esigenza di completezza – che la presente controversia riguarda l’operatività, quindi, del nuovo redditometro e di certo non già quanto posto in essere in attuazione del precedente modulo di accertamento sintetico del reddito.

Sussiste, quindi, la giurisdizione del giudice ordinario per espressa e inequivoca disposizione di legge e già in applicazione degli ordinari principi di riparto di giurisdizione in applicazione del criterio tradizionale del petitum sostanziale o causa petendi come normato dall’art. 103 e 113 Cost. e dall’art. 386 cpc.

Sotto il primo aspetto, è appena il caso di rammentare quanto dispone espressamente l’art. 152, d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali): “Tutte le controversie che riguardano, comunque, l’applicazione delle disposizioni del presente codice comprese quelle inerenti ai provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o alla loro mancata adozione, nonché le controversie previste dall’articolo 10, comma 5, della legge 1° aprile 1981, n. 121, e successive modificazioni, sono attribuite all’autorità giudiziaria ordinaria” (Cfr. anche Cass. sez. un. 14.4.2011, n. 8487: “La controversia tra il titolare del trattamento di dati personali e l’Autorità Garante per la protezione dai dati personali, concernente la legittimità del rifiuto da quest’ultimo opposto alla richiesta, avanzata dal titolare, di autorizzazione ad esigere un contributo dai richiedenti l’accesso ai dati, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 152 del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 152. Infatti, posto che la chiara scelta operata dal legislatore tramite l’art. 152 citato non contrasta con l’art. 103 Cost., non essendo vietata l’attribuzione al giudice ordinario della cognizione anche degli interessi legittimi la materia dell’accesso ai dati personali e dei costi di esercizio di tale diritto presenta una inestricabile interferenza tra i diritti ed interessi legittimi, con la netta prevalenza dei primi sui secondi, là dove, inoltre, il bilanciamento che deve operare l’Autorità Garante è, eminentemente tra interessi privati (quelli degli interessati ai dati trattabili e quelli delle imprese detentrici), mancando, quindi, una vera e propria discrezionalità amministrativa”, che in parte motiva, peraltro, significativamente afferma che la “cristallina espressione letterale (rara avis) non lascia margini a dubbi circa l’intentio legis di attribuire alla cognizione della AGO”).

La esplicitamente prevista giurisdizione del giudice ordinario, del resto, non è altro che conferma di quanto già derivante in applicazione dei principi regolanti i rapporti tra diritti intangibili della persona e autorità amministrativa, che – a fronte di tali posizioni soggettive costituzionalmente applicabili – non può considerarsi titolare di alcun potere secondo la giurisprudenza elaborata dalle sezioni unite in sede di riparto di giurisdizione. In particolare, la giurisprudenza, con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo, ha specificato che «nel nostro ordinamento si rinvengono a fronte di situazioni “soggettive a nucleo variabile” – in relazione alle quali si riscontra un potere discrezionale della pubblica amministrazione capace di degradare (all’esito di un giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti) i diritti ad interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino ad elevarli a diritti – “posizioni soggettive a nucleo rigido”, rinvenibili unicamente in presenza di quei diritti, quale quello alla salute, che – in ragione della loro dimensione costituzionale e della loro stretta inerenza a valori primari della persona – non possono essere definitivamente sacrificati o compromessi sicché allorquando si prospettino motivi di urgenza suscettibili di esporli a pregiudizi gravi ed irreversibili, alla pubblica amministrazione manca qualsiasi potere discrezionale di incidere su detti diritti non essendo ad essa riservato se non il potere di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perché la pretesa avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, quello spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata» (Cass. S.U. 17461/06); Cass. sez. un. ord. 9.9.2009, n. 19393: “i diritti umani fondamentali (…) godono della protezione apprestata dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore” (cfr. anche Cass. sez. un. ord. 16.9.2010, n. 19577).

E non può esservi dubbio alcuno circa la natura di diritto fondamentale della persona da attribuirsi alla riservatezza che di certo non si esaurisce nella tutela del mero domicilio della persona, bensì alla sua intera [sfera o vita, N.d.r.] privata come concretamente si articola nella quotidianità e ciò in applicazione dei principi di rispetto della dignità umana e di libertà: non può esservi, infatti, ictu oculi, né dignità né libertà ove non vi sia protezione e piena autonomia delle proprie scelte quotidiane che si svolgano all’interno della legalità, autonomia che comporta ovviamente il non dover giustificarsi delle proprie scelte se non in casi di assoluta eccezionalità e fondate su circostanze specifiche, concrete e determinate (art. 2 Decreto legislativo 30/6/2003, n. 196). Il presente testo unico, di seguito denominato codice, garantisce che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali. Il trattamento dei dati personali è disciplinato assicurando un elevato livello di tutela dei diritti e delle libertà di cui al comma 1.

Proprio in ragione di ciò, del resto, cioè al fine di assicurare una tutela veramente efficace e incisiva, la normativa amplia la tutela richiedibile tanto da concepirla come fisiologicamente, per così dire, anticipata e di tipo inibitorio così come chiaramente si evince dall’art. 7, d.lgs. n 196/2003. In particolare, la tutela della riservatezza è concepita e disegnata proprio come tutela necessariamente anticipata e quasi sempre necessariamente, per così dire, “al buio”: infatti, normalmente la persona non è in grado di sapere se questo o quell’Ente stanno effettivamente raccogliendo dati e ciò riguarda anche e soprattutto gli Enti pubblici a cui non a caso è dedicato specificamente il Capo II. Del resto, se così non fosse la tutela sarebbe quasi del tutto inutile. L’art. 7 disciplina, infatti, i diritti dell’“interessato”, soggetto che si identifica per espressa definizione di legge solamente ed esclusivamente con “la persona fisica cui si riferiscono i dati personali” (art. 4, comma 1 lett. l, come modificata dalla L. n. 201/2011 che significativamente ha eliminato il riferimento alle persone giuridiche, riconoscendo tale qualifica solo alla persona fisica): in definitiva, è la sola titolarità dei dati personali che rende il soggetto per legge interessato ad espletare le azioni previste dall’art. 7 nei confronti di soggetti che per una ragione o l’altra possono interferire coi suoi dati personali. L’art. 7, poi, disciplina espressamente l’azione della presente fattispecie, in quanto prevede che “l’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati e la loro comunicazione in forma intelligibile” (comma 1), nonché di sapere anche la “logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici” (ausilio di cui si avvale normalmente l’Agenzia delle Entrate; comma 2, lett. c): è chiaro che la legge vuole appunto consentire alla persona fisica di sapere se e come un certo Ente stia raccogliendo suoi dati personali; l’art. 7 poi completa la tutela prevedendo appunto espressamente il diritto alla “cancellazione … dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati” (comma 3, lett. b). Infine, è prevista esplicitamente anche l’azione inibitoria al comma 4, lett. a) secondo cui la persona fisica ha diritto di opporsi “per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta”: ed è appena il caso di ricordare che per “trattamento” si intende proprio la “raccolta”, oltre che la conservazione, elaborazione etc. (art. 4, comma 1, lett. a): in definitiva, la legge esplicitamente riconosce alla persona fisica, per il solo fatto di essere tale, la qualifica di interessato e la possibilità di sapere se alcuni suoi dati potrebbero essere raccolti e quindi opporsi alla stessa raccolta dei suoi dati; la legge cioè riconosce esplicitamente ciò che è stato chiesto col ricorso introduttivo, cioè impedire la raccolta dei dati del ricorrente.

La fattispecie in esame, quindi, rientra fisiologicamente nell’ambito di tutela giurisdizionale ordinaria come disegnata dal codice di protezione dei dati personali, posto che a partire dal 24.12.2002 ciascun contribuente è sottoposto al controllo delle Agenzie delle entrate in virtù del decreto ministeriale del 24.12.2012, n. 65648 pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 3 del 4.1.2013 in attuazione di quanto previsto dalla normativa primaria di cui all’art. 38, comma 4, d.p.r. 29.09.1973, n. 600 come modificato dall’articolo 22, comma 1, del D.L 31 maggio 2010, n. 78.

Interesse tanto più evidente laddove la introduzione del c.d. redditometro è oggi accompagnata anche dalla cd. anagrafe tributaria istituita dal d.p.r. 21.9.1973, 605 come rafforzata dalla incisiva previsione dell’art. 11, commi 2 e 3 decreto legge n. 201 del 6.12.2011 secondo cui “A far corso dal 1° gennaio 2012, gli operatori Finanziari sono obbligati a comunicare periodicamente all’anagrafe tributaria le movimentazioni che hanno interessato i rapporti di cui all’articolo 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, ed ogni informazione relativa ai predetti rapporti necessaria ai fini dei controlli fiscali, nonché l’importo delle operazioni finanziarie indicate nella predetta disposizione. I dati comunicati sono archiviati nell’apposita sezione dell’anagrafe tributaria prevista dall’articolo 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n 605, e successive modificazioni. Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia, delle entrate, sentiti le associazioni di categoria degli operatori finanziari e il Garante per la protezione dei dati personali, sono stabilite le modalità della comunicazione di cui al comma 2, estendendo l’obbligo di comunicazione anche ad ulteriori informazioni relative ai rapporti strettamente necessari ai fini dei controlli fiscali. Il provvedimento deve altresì prevedere adeguate misure di sicurezza, di natura tecnica e organizzativa, per la trasmissione dei dati e per la relativa conservazione, che non può superare i termini massimi di decadenza previsti in materia di accertamento delle imposte sui redditi”. L’Agenzia delle Entrate ha peraltro provveduto ad emanare il provvedimento attuativo, prot. n. 2013/37561.

Quanto osservato rende evidente l’infondatezza di quella tesi espressa da parte di certa dottrina tributaria secondo cui il contribuente dovrebbe prima attendere il provvedimento della amministrazione tributaria; verificare che tale provvedimento sia stato emanato sulla base della avvenuta conoscenza e invasione della sfera dei dati personali e solo allora, quindi, impugnare l’atto innanzi ai giudice tributari. Ebbene, non v’è chi non veda che tale dottrina si mostra del tutto inconsapevole della peculiarità del diritto alla riservatezza e dei diritti della persona che, una volta violati, sono per definizione incapaci di poter usufruire di una tutela in forma specifica: in definitiva, attendere l’emanazione dell’atto tributario significherebbe attendere proprio il verificarsi della lesione della riservatezza, cioè proprio ciò che il codice della privacy vuole evitare mercé l’attribuzione di una tutela anticipata. Infine, proprio tali peculiarità ontologiche dei diritti della personalità spiegano anche perché secondo l’opinione prevalente tutto ciò spieghi efficacia anche con riferimento alla valutazione del c.d. periculum in mora laddove la procedura cautelare abbia ad oggetto appunto la richiesta di tutela di un diritto fondamentale: si ritiene, infatti, che in tali fattispecie la irreparabilità inevitabile della potenziale lesione al diritto imponga di anticipare in modo sensibile il provvedimento di tutela richiesto, tutela che, appunto, non a caso sarà quasi sempre di natura inibitoria oltre che anticipataria.

Del resto è significativo che parte resistente non contesta in fatto l’esistenza di un interesse ad agire concreto ed attuale in capo al ricorrente, affermando anzi, di essere tiolare di pieni poteri di controllo e verifica di tutte le spese della persona e del suo nucleo familiare.

SULLA LEGITTIMAZIONE PASSIVA – L’Agenzia delle Entrate contesta la sua c.d. legittimazione passiva, spettando, quest’ultima, in capo al Ministero delle Finanze di cui, del resto, ha chiesto la non concessa chiamata in causa.

A tal proposito, è agevole osservare che:

a) in primo luogo, ove vi fosse effettivamente un difetto di legittimazione passiva c.d. nel merito, la domanda andrebbe semplicemente rigettata, non potendosi certo chiamare in giudizio il soggetto eventualmente responsabile: il ricorrente dovrà vedersi rigettata la sua pretesa perché rivolta contro un soggetto erroneamente individuato come responsabile;

b) in secondo luogo, non vi è dubbio che l’Agenzia delle Entrate sia l’unica legittimata passiva di tale fattispecie: il ricorrente, infatti, si limita a chiedere di accertare che l’Agenzia delle Entrate non può effettuare quei controlli e verifiche di cui al redditometro. E non vi è dubbio che solo contro tale Agenzia dovesse essere spiegata la domanda: ed infatti è proprio l’Agenzia delle Entrate il soggetto a cui l’ordinamento conferisce i più ampi poteri di accertamento, controllo, ispezioni, verifiche etc. necessari per assicurare i regolari adempimenti tributari e per prevenire o reprimere l’evasione e l’elusione fiscale. Sotto questo punto di vista nulla spetta al Ministero delle Finanze, che – pur avendo emanato il d.m. citato – non ha alcun potere di verifica e controllo: il Ministero si è limitato ad emanare un regolamento attuativo della normativa primaria necessario per attivare i poteri predetti della Agenzia delle Entrate.

In definitiva, la legittimazione passiva della Agenzia delle Entrate è evidente, atteso che la presente vertenza ha ad oggetto l’accertamento dell’integrità del diritto alla riservatezza dell’attore nei confronti della Agenzia delle Entrate che è appunto il soggetto a cui l’ordinamento attribuisce rilevantissimi poteri di accertamento e di controlli sui cittadini al fine di assicurare la regolare riscossione delle entrate tributarie e nel caso l’eventuale accertamento e repressione dell’evasione fiscale. In particolare, parte ricorrente chiede che sia accertato il suo diritto alla riservatezza con riferimento ai suoi dati sensibili e a tutto ciò che attiene alla propria vita privata anche familiare. L’agenzia delle entrate afferma invece l’inesistenza di tale riservatezza a fronte dei suoi poteri rigorosamente previsti e disciplinati dalla legge. Il Ministero delle Finanze nulla ha anche a vedere con tutto ciò posto che non è il Ministero delle Finanze il soggetto a cui l’ordinamento attribuisce il potere/dovere di consentire il regolare svolgimento delle entrate tributarie e controlli e sanzioni volti alla repressione e prevenzione della evasione ed elusione fiscale.

Tutto ciò emerge inequivocabilmente dalla legislazione in materia che attribuisce alla predetta Agenzia: a) personalità giuridica autonoma e distinta dal Ministero delle Finanze; b) tutta l’attività relativa all’accertamento e riscossione delle entrate tributarie, nonché tutto ciò che – per quanto attiene alla causa in esame – riguarda i poteri di controllo e di verifica, con i conseguenti poteri sanzionatori: la legge espressamente, infatti, ha attribuito alla Agenzie delle entrate tutti i compiti e poteri che in precedenza spettavano ai dipartimenti delle entrate del Ministero delle Finanze; c) come previsto espressamente dallo Statuto delle Agenzie delle Entrate l’ordinamento attribuisce alla predetta agenzia la gestione di tutto il contenzioso tributario presso ogni sede giudiziaria e presso ogni giurisdizione.

In tal senso depongono inequivocabilmente tutti i dati normativi: artt. 57, 61 1° comma, art. 62 2° comma, art. 64 decreto legislativo 30.07.2009, n. 300; artt. 1, 2 1° e 2° comma, 4 lett. c) ed e) dello Statuto della Agenzia delle Entrate (deliberazione della Agenzia delle Entrate 13.12.2000,10585 – Gazzetta Ufficiale 20.2.2001, n. 42).

Sul punto, del resto, è anche intervenuta la Corte di Cassazione che ha esplicitamente affermato che “Gli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate hanno la capacità di stare in giudizio, in via concorrente ed alternativa al direttore, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 cod. civ., configurandosi detti uffici quali organi dell’Agenzia che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza, con la conseguenza dell’imputabilità all’organo rappresentato dell’attività da loro svolta e l’ulteriore conseguenza della sussistenza della legittimazione passiva ed attiva concorrente, anche nel processo innanzi al giudice ordinario” (Cass. 9.4.2009, n. 8703).

SULLA NULLITà DEL DECRETO MINISTERIALE DEL 24.12.2012, N. 65648, PUBBLICATO NELLA GAZZETTA UFFICIALE N. 3 DEL 4.1.2013 – L’Agenzia delle Entrate contesta la domanda di parte ricorrente, affermando di avere il potere di conoscere tutti i dati personali del contribuente e della di lui famiglia in virtù del citato decreto emanato dal Ministero delle Finanze; regolamento, quest’ultimo, attuativo dell’art. 38, comma 4, d.p.r. 29.9.1973, n. 600 come modificato da ultimo dalla già citata normativa. In definitiva.

È quindi chiaro che intanto esiste tale potere della Agenzia delle Entrate in quanto sia valido ed efficace il predetto regolamento ministeriale: si tratta quindi di una tradizionale ipotesi di accertamento incidentale necessario ai fini della decisione di una controversia, accertamento incidentale avente ad oggetto nel caso in esame la validità del predetto atto ministeriale. Si rientra, cioè, nello schema disegnato dagli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso, vale a dire la legge n. 2248/1865 all. e, che come noto ha previsto l’istituto c.d. della disapplicazione.

L’oggetto del predetto accertamento incidentale, quindi, non è la validità o meno dell’art. 38, comma 4, d.p.r. 29.9.1973, n. 600, che in quanto normativa primaria potrebbe tutt’al più essere sottoposto al vaglio di costituzionalità innanzi al giudice delle leggi. Nel caso in decisione, invece, si tratta più semplicemente di verificare se il predetto decreto ministeriale rispetti o meno i paletti e le condizioni fissate dal menzionato art. 38 dpr 600/1973, nonché dalla restante normativa primaria applicabile nella fattispecie concreta e in primo luogo del codice della riservatezza.

Ebbene, a tal proposito questo tribunale aderisce all’orientamento già espresso dal tribunale di Napoli sez. civ. dist. di Pozzuoli giudice unico dott. A.L. con l’ordinanza del 21.2.2013 (1).

Dall’analisi del rapporto esistente tra il decreto ministeriale e l’art. 38 deve ritenersi che non solo il regolamento abbia violato la normativa primaria, ma che in realtà sia stato emanato in assenza dei presupposti di esistenza del relativo potere come disciplinato dalla norma attributiva. Si rientra quindi in quella che la giurisprudenza assorbe nella categoria della c.d. carenza di potere che dà vita alla patologia della nullità e non già della annullabilità, coincidendo, altresì, con la patologia del difetto di attribuzione previsto dall’art. 21-septies legge n. 241/1990 (Cass. sez. lav. 25.2.2011, n. 4653, Cass. sez. lav. 13.9.2006, n. 19576, Cass. civ. sez. un. 12.6.1984, n. 3478).

Infatti, il regolamento ministeriale si muove molto al di là dei presupposti tracciati dall’art. 38 d.p.r. 600/1973 e dal codice della riservatezza.

In particolare:

secondo l’art. 38, comma 4, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 l’agenzia delle entrate “può sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta, salva la prova che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile”; secondo il comma 5 della medesima disposizione “la determinazione sintetica può altresì essere fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuato mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza, con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale con periodicità biennale. In tal caso è fatta salva per il contribuente la prova contraria di cui al quarto comma”.

In definitiva, quindi, la norma attributiva del potere al Ministero dell’Economia e Finanza prevede come presupposti che: a) sia sempre concessa la prova liberatoria in capo al contribuente; b) può essere considerata qualsiasi spesa di qualsiasi genere; c) i campioni significativi riguardino specificamente i “contribuenti”; d) che tali contribuenti vanno differenziati tra loro “anche” in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza.

Ebbene, il decreto ministeriale, a ben vedere, pone una disciplina ben al di fuori di tutti questi presupposti.

Il regolamento, infatti, prevede che: i beni e servizi da considerare significativi di capacità contributiva sono quelli indicati nella tabella A, nonché altri elementi, di capacità contributiva diversi da quelli riportati nella tabella A, qualora siano disponibili dati relativi alla spesa sostenuta per l’acquisizione di servizi e di beni e per il relativo mantenimento, nonché la quota di risparmio riscontrata formatasi nell’anno (art. 1, comma 2 e 4); nonché “dell’ammontare delle spese, anche diverse rispetto a quelle indicate nella tabella A che, dai dati disponibili o dalle informazioni presenti nel Sistema informativo dell’Anagrafe tributaria, risultano sostenute dal contribuente”.

2. Il contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva di cui alla tabella A “è determinato tenendo conto della spesa media, per gruppi di categorie di consumi, del nucleo familiare di appartenenza del contribuente; tale contenuto induttivo corrisponde alla spesa media risultante dall’indagine annuale sui consumi delle famiglie compresa nel Programma statistico nazionale, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 6 settembre 1989, n. 322, effettuata su campioni significativi di contribuenti appartenenti ad undici tipologie di nuclei familiari distribuite nelle cinque aree territoriali in cui è suddiviso il territorio nazionale. Le tipologie di nuclei familiari considerate sono indicate nella tabella B, che fa parte integrante del presente decreto”.

3. Il reddito complessivo ai sensi dell’art. 3 è quindi accertato sulla base di quanto indicato sub 1 e sulla base “della quota parte, attribuibile al contribuente, dell’ammontare della spesa media ISTAT riferita ai consumi del nucleo familiare di appartenenza, determinata: nella percentuale corrispondente al rapporto tra il reddito complessivo attribuibile al contribuente ed il totale dei redditi complessivi attribuibili ai componenti del nucleo familiare; in assenza di redditi dichiarati dal nucleo familiare, nella percentuale corrispondente al rapporto tra le spese sostenute dal contribuente ed il totale delle spese dell’intero nucleo familiare, risultanti dai dati disponibili o dalle informazioni presenti nel Sistema informativo dell’Anagrafe tributaria”, nonché sulla base “dell’ammontare delle ulteriori spese riferite ai beni e servizi presenti nella tabella A, nella misura determinata considerando la spesa rilevata da analisi e studi socio economici; della quota relativa agli incrementi patrimoniali del contribuente imputabile al periodo d’imposta, nella misura determinata con le modalità indicate nella tabella A; della quota di risparmio riscontrata, formatasi nell’anno”.

In definitiva, già queste constatazioni fanno concludere nel senso di affermare che il decreto ministeriale è non solo illegittimo, ma radicalmente nullo ai sensi dell’art. 21-septies legge n. 241/1990 per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione in quanto emanato del tutto al di fuori del perimetro disegnato dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria, atteso che il c.d. redditometro utilizza categorie concettuali ed elaborazioni non previste dalla norma attributiva, che richiede la identificazione di categorie di contribuenti, laddove – per come si vedrà – il d.m. non individua tali categorie ma altro, sottoponendo indirettamente – visto l’ampiezza dei controlli e il riferimento ai nuclei familiari – a controllo anche le spese riferibili a soggetti diversi dal contribuente e per il solo fatto di essere appartenenti al medesimo nucleo familiare (si pensi all’acquisto di un medicinale per il congiunto malato oppure del libro di lettura).

Ciò in particolare, discende dalle seguenti considerazioni. Specificamente, il regolamento del potere esecutivo:

non fa alcuna differenziazione tra cluster di “contribuenti” così come imposto dall’art. 38, d.p.r. 600/1973 e dall’art. 53 Cost., bensì del tutto autonomamente opera una differenziazione di tipologie familiare suddivise per cinque aree geografiche, ricollocando, quindi, all’interno di ciascuna delle tipologie figure di contribuenti del tutto differenti tra loro (l’operaio, l’impiegato, il funzionario, il dirigente, chi ha avuto periodi di disoccupazione alternati a periodi di forti guadagni etc. etc.); non può, cioè, non rilevarsi come l’art. 38 parla esplicitamente di “contribuenti” e non già di famiglie (non potendo peraltro fare altro essendo ciò imposto dall’art. 53 Cost.); contribuenti che vanno differenziati “anche” in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza: in definitiva, il riferimento al nucleo familiare e all’area territoriale sono criteri aggiuntivi che in tutta evidenza devono servire a ulteriormente specificare e, per così dire, concretizzare il cluster di riferimento già di per sé individuato in base a caratteristiche proprie. Il decreto ministeriale invece utilizza tale due criteri di complemento come principali ed esaustivi;

utilizza come parametro per determinare le spese medie delle famiglie (peraltro, anche difficilmente armonizzando con Corte Cost. 15.7.1976, n. 179 (2) che aveva escluso la cumulabilità dei redditi dei coniugi) quelle di cui al Programma statistico nazionale predisposto ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 6.9.1989, n. 322: si utilizza, cioè, l’attività dell’ISTAT che nulla ha a che vedere con la specificità della materia tributaria che deve indirizzare la sua indagine alla ricostruzione specifica di individualizzati profili di contribuenti e non già alla ricostruzione di macrocategorie funzionali ad analisi macroeconomiche e sociologiche che proprio per questo sono del tutto eterogenee rispetto al concetto di contribuente; è infatti appena il caso di osservare che il predetto Programma statistico nazionale è il piano predisposto per legge dall’ISTAT, nel quale vengono esposte le attività statistiche di interesse pubblico che l’ISTAT e gli altri enti del SISTAN si impegnano a realizzare nel corso di un triennio, al fine di offrire ai cittadini, un’immagine non distorta della società e dell’economia nel suo complesso;

viola l’art. 2, 13 Cost., art. 1, 7 e 8 Carta dei diritti fondamentali della UE, nonché l’art. 38 d.p.r. 600/1973 poiché prevede la raccolta e la conservazione non già di questa o quella voce di spesa diverse tra loro per genere (come previsto dall’art. 38) ma, a ben vedere, di tutte le spese poste in essere dal soggetto (rectius: dalla famiglia), che viene, quindi, definitivamente privato del diritto ad avere una vita privata, di poter gestire autonomamente il proprio denaro e le proprie risorse, ad essere quindi libero nelle proprie determinazioni senza dover essere sottoposto all’invadenza del potere esecutivo e senza dover dare spiegazioni dell’utilizzo della propria autonomia e senza dover subire intrusioni anche su aspetti delicatissimi della vita privata quali quelli relativi alla spesa farmaceutica, al mantenimento e all’educazione impartita alla prole e alla propria vita sessuale; soppressione definitiva di ogni privatezza e dignità riguardante, peraltro, non solo il singolo contribuente ma in realtà tutti i componenti di quel nucleo familiare; ed, infatti, appena si legge la Tabella A del d.m. si deve prendere atto che l’autorità governativa a titolo meramente semplificativo: saprà di ciascuna famiglia quante e quali calzature, pantaloni, biancheria intima etc. utilizzano i suoi componenti; se questi ultimi preferiscono il vino, la birra o analcolici e di che tipo; quanta acqua si utilizza, se sono state eseguite riparazioni di manutenzione ordinaria relative alla rottura della caldaia o del fornello; quanta energia elettrica, gas è stato utilizzato; quali elettrodomestici, arredi sono stati comprati o comunque usati con relative spese di gestione; quali e quanta “biancheria, detersivi, pentole, lavanderia e riparazione” consuma questa o quella famiglia; addirittura, in manifesta violazione della dignità umana di cui all’art. 1 Carta dei diritti fondamentali della UE di quali e quanti “medicinali e visite mediche” ha necessitato il nucleo familiare e quindi i suoi singoli componenti; quale carburante, lubrificante si utilizza per la propria auto; quanti tram, autobus, taxi e trasporti sono utilizzati; e in violazione di ogni diritto dei minori anche quali libri scolastici e spese assimilabili sono state sopportate (ad esempio, quindi, se quella famiglia necessita di materiale didattico specifico per il proprio figlio affetto da una certa patologia, l’Agenzia delle entrate lo verrà a sapere) e così egualmente per i giochi, giocattoli; in violazione dell’art. 18 e dell’art. 21 Cost. l’autorità governativa saprà quali associazioni culturali, quali manifestazioni culturali sono preferite dal nucleo familiare; infine, come visto, l’Agenzia delle entrate può considerare in ogni caso anche tutte le altre spese non elencate nella predetta Tabella A: norma di chiusura che esplicita l’autoattribuzione da parte dell’Esecutivo del potere di raccogliere e immagazzinare ogni singolo dettaglio dal più insignificante al più sensibile della vita di ciascun componente di un nucleo familiare;

conferisce all’Agenzia governativa un potere che va, quindi, manifestamente oltre quello della ispezione fiscale consentito astrattamente dall’art. 14, 3° comma Cost., che in via eccezionale e manifestamente tassativo non richiede la riserva di giurisdizione; infatti, è previsto dal regolamento ministeriale un potere di acquisizione, archiviazione e utilizzo di dati di ogni genere che nulla ha a che vedere con la mera ispezione, rappresentando un potere di cui non gode persino l’autorità giudiziaria penale che pure è destinataria di potere non di controllo generalizzato e indiscriminato ma sempre con riferimento ad indagini riferite a specifici reati ipotizzati;

viola il diritto alla difesa ex art. 24, il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e l’art. 38 d.p.r. 600/1973 in quanto rende impossibile fornire la prova di aver speso di meno di quanto risultante dalle predette media ISTAT: ed, infatti, non si vede come si possa provare ciò che non si è fatto, ciò che non si è comprato, atteso che – anche a voler prevedere una grottesca conservazione di tutti gli scontrini e una altrettanto grottesca analitica contabilità domestica – è chiaro che tale documentazione non dimostrerà che non è stata sopportata altra concreta spesa; si arriva così all’irragionevole ricostruzione di spese artificialmente imposte dall’autorità governativa, mercé le quali si può di fatto intensificare il prelievo fiscale in violazione dell’art. 53, 1° e 2° comma Cost.; ed è pure rilevante osservare che la ipotesi di spese minori di quelle presuntivamente ancorate alle medie non sono improbabili ma, invece, assolutamente certe; ed, infatti, se vi è una media di spesa, significa che sono state registrate nella realtà economica fasce di oscillazione da un minimo a un massimo, sicché è certo che coloro i quali si ritroveranno al di sotto di tale media si vedranno attribuire automaticamente consumi non sostenuti accomunando situazioni territoriali differenti in quanto altro è la grande metropoli altro è il piccolo centro e altro ancora è vivere in questo o quel quartiere;

viola i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità in quanto, a ben vedere, non è lo strumento idoneo a raggiungere in modo adeguato i prefissi obiettivi di repressione dell’evasione fiscale, pur sacrificando del tutto – come visto – il diritto alla dignità, all’autodeterminazione e alla privatezza della propria vita individuale, associativa, culturale e relazionale non solo del singolo contribuente ma di tutto il suo nucleo familiare; ed, infatti, lo strumento induttivo è tanto più severo quanto più il presunto evasore è economicamente meno robusto: al soggetto, infatti, meno abbiente di imperio si impone fittiziamente una spesa anche maggiore di quella reale presumendo, quindi, una evasione fiscale in caso di acquisto di taluni beni di valore eccedenti il range di tolleranza; il contribuente (rectius il nucleo familiare) più economicamente benestante, invece, ne trae beneficio, in quanto sarà sufficiente evitare di acquistare la merce con sistemi tracciabili telematicamente e potrà, quindi, spendere nella realtà molto di più di quanto, invece, in assenza di costi tracciabili, già sarà presuntivamente imputato: in definitiva, più è benestante l’evasore potenziale, più è agevolato nel sottrarsi a tale controllo, anche perché, anche a voler tracciare i pagamenti proprio in ragione del suo benessere per così dire “ufficiale”, potrà giustificare tutta una serie di spese che vanno oltre il range di tolleranza e continuare ad accumulare reddito non dichiarato; sotto altro profilo, è poi evidente che la evasione economicamente più significativa viene poi realizzata nell’ambito delle attività di impresa in specie societarie, così come è pacifico che i singoli contribuenti fortemente evasori normalmente si industriano al fine di creare soggetti giuridici fittizi intestatari e beneficiari delle maggiori ricchezze, di cui quindi, possono godere indirettamente attraverso tali artifici giuridici e contabili;

accentua le predette discriminazioni, anche in considerazione della insufficiente differenziazione geografica effettuata, anch’essa modellata – coerentemente con indagine di tipo statistico funzionali a riflessioni macroeconomiche e a ricostruzioni di tendenze di massima della società – su ampie categorie, posto che si è tenuto conto di cinque aree territoriali: ebbene, è noto che all’interno della medesima Regione è, anzi, della medesima Provincia vi sono fortissime oscillazioni del costo concreto della vita, così come altrettanto forti oscillazioni vi possono essere all’interno di una medesima metropolitana a seconda del quartiere in cui si vive; ebbene, anche sotto tale profilo, lo strumento presuntivo approntato dal d.m. tende a pregiudicare fatalmente proprio la fascia di popolazione economicamente meno forte in favore di quella più forte; la media, infatti, come detto, è la risultante di valori opposti tra loro: ebbene, è noto che il costo della vita è inferiore nelle zone economicamente meno sviluppate, mentre, invece, è più alto nelle zone economicamente più robuste; se ciò è vero, allora i contribuenti delle zone più disagiate perderanno anche, per così dire, il vantaggio di poter usufruire di un costo della vita inferiore in quanto gli sarà imputato in ogni caso il valore medio ISTAT delle spese; i contribuenti agiati delle zone economiche più forti, invece, come già rilevato, potranno addirittura utilizzare il redditometro a proprio vantaggio, mentre il contribuente economicamente meno agiato che però vive nell’area economicamente più costosa, ove utilizzi mezzi di pagamento tracciabili, sarà quello fatalmente più esposto al controllo da parte della Agenzia delle entrate; situazione analoga si verificherà per il contribuente economicamente agiato che viva in zone col costo della vita inferiore alla media: ed, invero, in ragione di ciò egli potrà più agevolmente di altri accantonare i risparmi; ma – poiché la quota risparmio e anch’essa considerata ai fini della ricostruzione del reddito – tale risparmio, se non compatibile con la spesa media presunta, sarà inevitabilmente attribuito a reddito illecitamente sottratto al fisco;

si pone – per quanto anche appena detto – in contrasto con l’art. 47 Cost. secondo cui la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; non v’è chi non veda che, per come impostato il c.d. redditometro, sarà considerato lecito esclusivamente il risparmio che sia compatibile con tali criteri di spesa del tutto astratti e avulsi dalla realtà, in quanto scontano il fatto di aver mutuato elaborazioni statistiche nate per tutt’altri fini;

è in contrasto coi principi fondamentali di imparzialità, buon andamento dell’amministrazione, nonché con i conseguenti corollari di cui alla legge n. 241/1990 dei principi di leale collaborazione procedimentale volta ad assicurare uno scambio di informazioni in una logica non di antitesi ma collaborativa, in quanto il diritto al contraddittorio assicurato al contribuente è in gran parte svuotato di effettività appena si ponga mente alla circostanza che: a) si è in presenza di un procedimento di tipo eminentemente inquisitorio e sanzionatorio; b) i soggetti a confronto (contribuente e Agenzia) si trovano in posizione di fortissima asimmetria, in quanto l’Agenzia delle entrate è anche socia della società di riscossione forzata, che gode di poteri di autotutela esecutiva anch’essi del tutto inusuali per la loro incisività sulla proprietà privata, asimmetria che potrebbe essere colmata solo in un confronto innanzi ad un organo terzo; c) la Agenzia si trova in situazione di oggettivo conflitto di interessi, poiché essa è normalmente vincolata al raggiungimento di obiettivi e di risultati, sicché ha filologicamente interesse alla conferma della propria ipotesi, anche in ragione della sua partecipazione alla società di riscossione; d) proprio in ragione di ciò, cioè della fisiologica previsione di obiettivi di evasione da recuperare, è evidente che l’accertamento presuntivo mercé il c.d. redditometro poiché non più ancorato – come nella vecchia disciplina – a dati certi ma sempre invece possibile porta seco il rischio [che, N.d.r.] l’Agenzia delle entrate, anziché intensificare i controlli sulla realtà, ai fini della ricostruzione reale dei redditi, tenda invece a privilegiare l’accertamento mercé il redditometro: strumento meramente burocratico, meno dispendioso in tempo di costi e di energia e soprattutto strutturato in modo tale da rendere non sempre praticabile un reale ed efficace contraddittorio, tanto da escludere come visto, anzi, per certi aspetti e in una certa misura, la stessa possibilità di una prova liberatoria;

pone in evidente pericolo l’integrità morale della sfera privata nella sua completezza con potenzialità pregiudizievoli irreparabili e imprevedibili nelle loro evidenti proiezioni in danno della dignità umana e della relativa libertà e vita privata;

è in contrasto con il principio di proporzionalità ex art. 13, Trattato Unione Europea (cfr. Corte giustizia CE sez. II, 22 dicembre 2010, n. 279; Corte giustizia UE grande sezione, 27 novembre 2012, n. 566; Corte europea dir. uomo sez. grande chambre 10 novembre 2005, n. 44774; Cass. civ. sez. trib. 15 maggio 2006, n. 11133 (3); Cds. sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471; TAR Ancona Marche, sez. I, 10 dicembre 2012, n. 788; Trib. Palermo 18 giugno 2010); nonché con quello di necessità e proporzionalità dall’art. 3, 22° 3° comma d.Lgs. 196/2003; infatti, non vi è alcun limite di tempo con riferimento alla conservazione dei dati personali, né è richiesto un collegamento tra la conservazione, raccolta e l’accertamento fiscale. In definitiva, non si vede perché l’autorità amministrativa non possa limitarsi a raccogliere del contribuente solo ed esclusivamente quando abbia deciso di sottoporre effettivamente ad accertamento fiscale quella specifica tipologia di contribuente e con riferimento ad un altrettanto specifico periodo di riferimento; violazione del principio di proporzionalità ancora più evidente laddove si ponga mente alla circostanza che eguale eccessi si verificano anche con la c.d. anagrafe tributaria per come concretamente regolata dal citato provvedimento delle Agenzie delle Entrate; ed, infatti, a fronte della normativa primaria (art. 11, comma 3, decreto legge n. 201/2011) che abilita l’Agenzia ad imporre la comunicazione delle sole informazioni “relative ai rapporti strettamente necessarie ai fini dei controlli fiscali”, vi è invece un provvedimento attuativo che in buona sostanza impone agli intermediari finanziari e soggetti equiparati di comunicare ogni tipo di informazione dei propri clienti, senza minimamente distinguere tra quelle strettamente necessarie e quelle non avente tale caratteristica;

è in contrasto con l’art. 20 decreto legislativo n. 196/2003 secondo cui “il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici è consentito solo se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale sono specificati i tipi di dati che possono essere trattati e di operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite”: non c’è alcuna norma espressa che preveda l’autorizzazione al trattamento di tali dati, ma ciò nonostante il redditometro li prevede egualmente;

è in evidente contrasto con l’art. 14 decreto legislativo 196/2003 secondo cui “nessun atto o provvedimento giudiziario o amministrativo che implichi una valutazione del comportamento umano può essere fondato unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato”: è palese che il redditometro prevede proprio un mero automatismo da cui fa discendere una valutazione del comportamento del contribuente, senza alcuna verifica concreta e puntuale. In buona sostanza, l’accertamento sintetico non fonda una base indiziaria giustificativa di veri accertamenti concreti e fondati su indagini specifiche, bensì è esso stesso accertamento definitivo secondo quindi parametri automatici e del tutto astratti.

Vista la sostanziale novità della problematica trattata sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M. – Il Tribunale di Napoli, sez. stralcio, definitivamente pronunziando, così provvede:

a) accoglie il ricorso e, per l’effetto, ordina alla Agenzia delle Entrate di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione, o comunque attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’art. 38, 4° e 5° comma d.p.r. 600/1973 e di cessare, ove iniziata, ogni attività d’accesso, analisi, raccolta dati di ogni genere relativi alla posizione del ricorrente;

b) ordina alla Agenzia delle entrate di comunicare formalmente al ricorrente se è in atto un’attività di raccolta dati nei suoi confronti ai fini dell’applicazione del redditometro e, in caso positivo, di distruggere tutti i relativi archivi formatisi successivamente al 24.12.2012 e previa specifica informazione a parte ricorrente;

c) compensa le spese di giudizio.

 

  1. In Boll. Trib., 2013, 536.

  2. In Boll. Trib., 1976, 1160.

  3. In Boll. Trib. On-line.

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