30 Giugno, 2014

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti – Art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 – Responsabilità dell’ideatore del sistema proseguito nel tempo ad opera di altri – Sussiste – Mancanza di sua materiale sottoscrizione della dichiarazione dei redditi – Irrilevanza.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti – Art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 – Identificazione del materiale sottoscrittore della dichiarazione – Irrilevanza – Concorso di persone nel reato a norma dell’art. 110 c.p. – Responsabilità di tutti coloro che coscientemente e volontariamente abbiano contribuito alla formazione di una dichiarazione infedele – Sussiste – Condanna ex art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 – Consegue.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione – Artt. 2 e 3 del D.Lgs. n. 74/2000 – Configurabilità dei reati mediante condotte elusive – Sussiste – Dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti – Integrazione del reato mediante l‘inserimento nelle dichiarazioni fiscali di fatture materialmente false o di altra documentazione contabile d’analoga efficacia probatoria materialmente falsa – Sussiste.

Procedimento – Giudizio penale – Nullità della sentenza per mancata correlazione tra condanna e capo di imputazione – Fattispecie – Imputazione a norma dell’art. 48 c.p. per induzione in errore del sottoscrittore della dichiarazione dei redditi e condanna a titolo di concorso proprio ex art. 110 c.p. nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti – Legittimità – Assoluzione del sottoscrittore della dichiarazione per carenza dell’elemento psicologico – Irrilevanza.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Pene accessorie – Art. 12 del D.Lgs. n. 74/2000 – Applicabilità in via esclusiva per i reati tributari – Sussiste – Durata delle pene accessorie temporanee – Inapplicabilità dell’art. 37 c.p. e determinazione delle pene accessorie previste dal D.Lgs. n. 74/2000 – Criteri applicabili.

È penalmente responsabile del reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2010, n. 74, il soggetto che, al fine di evadere imposte sui redditi o sul valore aggiunto, abbia ideato, creato e sviluppato, ancorché in periodi coperti da prescrizione, un sistema di allocazione all’estero di disponibilità finanziarie mediante l’utilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti indicanti elementi passivi fittizi, e abbia fatto in modo che tale sistema fraudolento si consolidasse e fosse proseguito ad opera di soggetti terzi successivamente alla cessazione da parte sua dalle cariche di comando o di controllo della società interessata, a nulla rilevando, ai fini dell’integrazione del reato in questione, che predetto soggetto non abbia materialmente sottoscritto né presentato le relative dichiarazioni dei redditi della società, dovendosi ritenere che permanendo la sua qualifica di azionista di maggioranza egli non avrebbe potuto ignorare la perduranza dell’indicato sistema fraudolento da lui stesso creato.

Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti previsto e punito dall’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, pur avendo natura di reato a mano propria, non implica necessariamente che sia rilevante l’identificazione del materiale sottoscrittore della dichiarazione fiscale, poiché l’applicabilità ai reati tributari degli ordinari principi in tema di concorso di persone nel reato determina con assoluta certezza la responsabilità di coloro che abbiano coscientemente e volontariamente contribuito alla formazione di una dichiarazione infedele, attraverso l’induzione in errore dell’agente materiale.

I reati tributari di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione possono essere integrati anche dalle condotte elusive che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione fiscale espressamente previste dalla legge, ovverossia dagli artt. 37, terzo comma, e 37-bis, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ma poiché l’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si apre con una clausola di salvezza rispetto alla configurabilità delle ipotesi di cui agli artt. 2 e 3 del medesimo decreto, è pacifico che integra il delitto di frode fiscale, previsto e punito dall’art. 2 del predetto D.Lgs. n. 74/2000, e non semplicemente quello di dichiarazione infedele, l’utilizzazione di fatture materialmente false o di altra documentazione contabile di analoga efficacia probatoria materialmente falsa mediante l’inserimento nella dichiarazione IRPEF e IVA, poiché ove si ritenesse diversamente verrebbe a determinarsi la manifesta illogicità del sistema sanzionatorio penale in materia tributaria.

Non è configurabile un’ipotesi di nullità della sentenza penale per mancata correlazione tra condanna e capo di imputazione allorquando la sentenza abbia esplicitamente affermato che la responsabilità di un imputato nel reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2010, n. 74, venga dichiarata a titolo di concorso nel reato stesso ai sensi dell’art. 110 c.p., anziché per induzione in errore ai sensi dell’art. 48 c.p. come inizialmente contestato, a nulla rilevando che l’imputato, rinviato a giudizio in concorso con altri, sia poi risultato l’unico condannato ai sensi dello stesso art. 48 c.p., essendo stati i coimputati assolti per carenza dell’elemento psicologico.

L’art. 12 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, appare il frutto di un organico disegno del legislatore delegato teso a rimodulare, in modo autonomo e in base ad una disciplina che può definirsi speciale, la regolamentazione delle pene accessorie conseguenti alla condanna per i reati tributari, e il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali, di talché il predetto art. 12 del D.Lgs. n. 74/2000 rende inapplicabile l’art. 37 c.p. ed impone l’indefettibile applicazione delle pene accessorie previste dal medesimo decreto per tutti i delitti ivi contemplati, beninteso sempre nel pieno rispetto dei principi costituzionali della individualizzazione e della funzione rieducativa della sanzione di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., tenuto conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p.

[Corte di Cassazione, sez. pen. feriale (Pres. Esposito, rel. Franco), 29 agosto 2013, sent. n. 35729]

(Omissis). uditi per Berlusconi Silvio i difensori avv. prof. F.C. e avv. N.G., che concludono chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso e l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto così come è stato contestato a Berlusconi Silvio non è previsto dalla legge come reato; in via subordinata, l’annullamento con rinvio previa riqualificazione del fatto così come ritenuto dalla sentenza quale violazione dell’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, con remissione ad altro giudice per la valutazione se siano state nel caso di specie superate o meno le soglie di punibilità; l’annullamento con rinvio previa qualificazione del fatto così come ritenuto dalla sentenza quale violazione dell’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, con remissione ad altro giudice con riferimento all’imputazione delle quote di ammortamento per gli anni 2002-2003; per le altre questioni si riportano alle conclusioni scritte e ne chiedono l’accoglimento;

(Omissis).

[-protetto-]

RITENUTO IN FATTO – 1. Con la sentenza impugnata emessa il 8/5/2013, la Corte d’appello di Milano confermò la sentenza emessa il 26/10/2012 dal Tribunale di Milano, che aveva dichiarato Agrama Frank, Berlusconi Silvio, Galetto Gabriella e Lorenzano Daniele colpevoli del reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, limitatamente alle annualità 2002 e 2003 e, concesse le attenuanti generiche ad Agrama Frank e Galetto Gabriella, aveva condannato Agrama Frank alla pena di anni tre di reclusione, Berlusconi Silvio alla pena di anni quattro di reclusione, Galetto Gabriella alla pena di anni uno e mesi due di reclusione e Lorenzano Daniele alla pena di anni tre e mesi otto di reclusione, con le pene accessorie e l’indulto e con i doppi benefici per la sola Galetto, nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile Agenzia delle entrate, danno da liquidarsi in separata sede con una provvisionale provvisoriamente esecutiva di euro dieci milioni.

Con la stessa sentenza il Tribunale aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti degli stessi Agrama Frank, Berlusconi Silvio, Galetto Gabriella e Lorenzano Daniele in ordine al medesimo reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, loro ascritto, limitatamente all’annualità 2001, per intervenuta prescrizione.

Il fatto per il quale è stata emessa condanna era stato oggetto di una contestazione suppletiva operata in udienza dal pubblico ministero, con la quale agli attuali ricorrenti venne contestato di avere concorso, mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nelle fraudolente dichiarazioni dei redditi del 2002 e del 2003 della spa Mediaset, dichiarazioni presentate nell’ottobre del 2003 e del 2004. In particolare, agli imputati venne specificamente e testualmente contestato il seguente reato: “capo B), artt. 81 cpv., art. 110 c.p., 4, lett. f), l. n. 516/82 in relazione all’art. 2 d.lgs. 74/2000, perché in concorso tra loro, con Carlo Bernasconi (deceduto nel 2001) e con Alfredo Cuomo, nei cui confronti si era proceduto separatamente, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso al fine di evadere le imposte sui redditi, Berlusconi Silvio, quale fondatore e, fino al 29.1.1994, presidente di Fininvest spa; proprietario delle società off shore costituenti il cosiddetto Fininvest B Group; azionista di maggioranza di Mediaset spa; figura di riferimento, a fini decisionali, di Bernasconi e Lorenzano; socio occulto di Frank Agrama; Lorenzano Daniele, quale responsabile unico fin dagli anni ‘80 degli acquisti dei diritti di trasmissione sul mercato americano per il gruppo Fininvest e in seguito in qualità di consulente, per Mediaset, referente di Frank Agrama e Alfredo Cuomo; socio occulto delle società Promociones Catrinca e Green Communication; Agrama Frank, quale titolare – attraverso fiduciari – delle società Harmony Gold, Wiltshire Trading (Hong Kong) Ltd e Melchers NV (Antille Olandesi), e socio occulto di Silvio Berlusconi nelle predette società; e Galetto Gabriella, quale assistente della Camaggi nella struttura di Fininvest Service di Lugano; dal 1995 responsabile della cosiddetta “branch di Lugano” della società maltese International Media Services Ltd delegata ad operare sul conto … intestato a International Media Services Ltd presso la Banca Commerciale Italiana di Londra, avvalendosi di un sistema di frode, elaborato negli anni ‘80 e da allora costantemente seguito fino al 1998, per effetto del quale:

a) i diritti di trasmissione (broadcasting rights) per i canali televisivi del gruppo Mediaset venivano acquisiti dai principali Studios americani e da altri produttori internazionali non direttamente ma attraverso la fittizia intermediazione di:

società offshore costituite nelle British Virgin Islands (BVI) e segretamente controllate da Silvio Berlusconi;

le società Wiltshire Trading e Melchers, riconducibili a Frank Agrama, attraverso cui venivano acquistati a prezzi gonfiati i prodotti Paramount;

società denominate Stardust, riconducibili ad Alfredo Cuomo tramite la fiduciaria Commercial Treuhand und Verwaltungs AG di Zurigo, attraverso cui venivano acquistati a prezzi gonfiati prodotti della società 20th Century Fox;

altre società di comodo quali Promociones Catrinca, Green Communications, Film Trading & TV Productions, Cassia, Watozi, Elpico;

b) i diritti di utilizzazione venivano acquistati per lunghi periodi di decorrenza e un certo numero di passaggi televisivi;

c) i diritti cosi acquistati venivano successivamente fatti oggetto di una serie di vendite (generalmente solo per frazioni del periodo di sfruttamento originariamente acquisito) all’interno di complesse catene societarie e venivano infine ceduti, con rilevanti maggiorazioni di prezzo, a società maltesi (collegate al gruppo Mediaset) che successivamente provvedevano alla cessione a Mediaset spa;

d) in taluni casi Mediaset spa ha acquistato da società di comodo (Waton e Elpico e parzialmente da Wiltshire Trading) per periodi temporali delimitati diritti di trasmissione di cui il Gruppo Fininvest – attraverso società di comodo – aveva acquisito il diritto di sfruttamento in perpetuo;

e in particolare nel periodo 1995-1998:

inscenando la costituzione di una struttura dotata di capacità operative e autonoma rispetto al gruppo Fininvest – la International Media Services Ltd di Malta con sede a Malta e uffici a Nuova York e Los Angeles – nella realtà un mero ufficio di rappresentanza domiciliato presso lo studio Fenlex dell’Avv. Tonio Fenech di Malta e interamente gestita dalla vecchia struttura di Fininvest Service di Lugano – rinominata “IMS filiale di Lugano”;

concentrando in capo alla IMS i rapporti contrattuali con società di comodo quali Promociones Catrinca, Green Communications, Film Trading & TV Productions, Cassia, Watou, Elpico, le società Melchers e Wiltshire Trading di Frank Agrama e le società denominate Stardust riconducibili ad Alfredo Cuomo;

concorrevano nella indicazione nelle dichiarazioni dei redditi di Mediaset spa relative agli anni 2000-2003 di costi fittizi costituiti dalle fatture per operazioni inesistenti emesse da International Media Service Ltd recanti l’indicazione dei corrispettivi in una misura superiore al reale con riferimento:

al margine di intermediazione attribuito a detta IMS;

al costo dei diritti di trasmissione forniti a detta International Media Service dalle società di comodo sopra indicate (Promociones Catrinca, Green Communications, Film Trading & TV Productions, Cassia, Watou, Elpico Melchers, Wiltshire Trading, Stardust), con l’effetto di indicare redditi inferiori al reale per gli anni e gli importi sotto specificati:

per il 2001, importo dichiarato 503 milioni di Euro, importo effettivo 522 milioni di Euro, minore imposta versata 6.6 milioni di Euro;

per il 2002, importo dichiarato 397 milioni di Euro, importo effettivo 410 milioni di Euro, minore imposta versata 4.9 milioni di euro;

per il 2003, importo dichiarato 312 milioni di Euro, importo effettivo 320 milioni di euro, minore imposta versata 2.4 milioni di euro.

Fatti commessi fino al 26 ottobre 2004”.

2. (Omissis).

La Corte d’appello ha, in estrema sintesi, ritenuto fondato l’impianto accusatorio ed, in particolare, ha ritenuto provato che anche IMS fosse una società fittizia non avente alcuna funzione reale, e che la sua filiale di Lugano altro non fosse che la prosecuzione della vecchia Fininvest Service di Lugano; mentre non era attendibile la giustificazione che la costituzione di una società a Malta si era resa necessaria solo per far risparmiare alle case di produzione statunitensi la c.d. witholding tax, che altrimenti sarebbe stata posta a carico dell’acquirente i diritti, con correlativo aumento del prezzo.

In particolare, la Corte d’appello ha, tra l’altro, ritenuto:

che le fatture annotate da Mediaset erano sia soggettivamente sia oggettivamente fittizie, in quanto avrebbero dovuto essere emesse dai produttori e dai primi venditori dei diritti ed avrebbero dovuto indicare il prezzo del primo acquisto;

che la “presentazione della dichiarazione fiscale in società come Mediaset è certamente la risultante di una complessa, collettiva, operazione a cui prendono parte tutte le componenti sociali che non solo, materialmente, la formano (come mero documento) ma anche tutte quelle che ne costruiscono i presupposti, ricavi e costi. Tanto che ben può affermarsi che i firmatari finali della dichiarazione, peraltro dei meri impiegati o dirigenti del settore fiscale, non possono che prendere atto delle voci da altri uffici formate in quella determinata misura”;

che, quindi, se l’infedeltà della dichiarazione dipende dalla lievitazione dei costi i responsabili di tale infedeltà altri non possono essere che coloro che di tale illecita lievitazione si erano resi responsabili, e che erano pienamente consapevoli del fatto che la dichiarazione sarebbe stata infedele sul punto la cui falsità avevano determinato;

che pertanto gli imputati, che avevano gonfiato i costi, dovevano “rispondere in via diretta, come partecipanti alla costruzione complessiva della dichiarazione, della sua infedeltà”;

che perciò non si doveva investigare affatto sulla eventuale complicità con essi dei meri presentatori.

La Corte d’appello ha anche ritenuto che gli imputati dovevano rispondere del delitto di cui all’art. 2 e non di quello di cui all’art. 8 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (emissione di fatture per operazioni inesistenti), perché «le fatture ritenute inesistenti sono solo quelle annotate da Mediaset e quello era il risultato reale che tutti avevano di mira, quella era l’operazione inesistente. E pertanto tutti in quella operazione avevano concorso, posto che le precedenti operazioni erano solo prodromiche a tale risultato finale. Nessuna rilevanza quindi avevano le ulteriori fatture emesse nel transito dei diritti dai conti delle altre società. Si pensi poi che le fatture IMS annotate da Mediaset non risultavano comunque essere state formate da alcuno dei coimputati».

La sentenza impugnata ha poi osservato che alcune retrocessioni erano state effettivamente individuate, le altre erano logicamente sottese ai meccanismi creati ed alle ingenti disponibilità liquide. Inoltre non era stata acquisita prova del contrario: che retrocessioni non vi fossero state.

La sentenza ha quindi rilevato che rispondono del reato «solo coloro che avevano consapevolmente partecipato al sistema in atto potendosi rendere conto delle ragioni del medesimo, l’evasione fiscale da realizzare negli anni successivi in Italia. Consapevolezza che poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema, e non in chi ne aveva una visione solo parziale, pur prendendo parte ad alcuni degli atti prodromici».

3. In conclusione, la Corte d’appello di Milano ha ritenuto che gli odierni ricorrenti avessero tutti concorso nel reato proprio di cui all’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, commesso dal sottoscrittore delle dichiarazioni dei redditi, con l’inserzione dei dati falsi nelle due dichiarazioni dei redditi di Mediaset per gli anni 2002 e 2003, per le seguenti testuali ragioni.

3.1. Quanto a Frank Agrama perché (pag. 180):

(Omissis).

3.2. Quanto a Silvio Berlusconi perché (pagg. 180-181):

«anche negli anni di interesse dei presente processo, dal 1995 al 1998, lo schema delle catene era rimasto immutato, pur se le stesse si erano accorciate.

Come negli anni precedenti, attraverso IMS ma anche attraverso intermediari esterni al gruppo, il costo dei diritti acquistati alla fonte subiva un cospicuo rialzo. Del tutto incomprensibile dal punto di vista societario perché era evidente che non aveva senso alcuno acquistare ad un determinato prezzo quel che si era già individuato come acquistabile, ed effettivamente acquistato, ad un prezzo molto minore;

ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo ma che erano vicine, tanto da frequentarlo tutti (da Bernasconi ad Agrama, da Cuomo a Lorenzano) personalmente, al sostanziale proprietario, (rimasto certamente tale in tutti quegli anni) del medesimo, l’odierno imputato Berlusconi;

un imputato, un imprenditore che pertanto avrebbe dovuto essere così sprovveduto da non avvedersi del fatto che avrebbe potuto notevolmente ridurre il budget di quello che era il maggior costo per le sue aziende e che tutti questi personaggi, che a lui facevano diretto riferimento, non solo gli occultavano tale fondamentale opportunità ma che, su questo, lucravano ingenti somme, sostanzialmente a lui, oltre che a Mediaset, sottraendole.

Continuando, peraltro, costoro, a suo danno, una operatività che era invece propria del gruppo, fin da quando non vi era dubbio che l’imputato ne fosse al vertice anche operativo, anche giornaliero, prima del 1994.

Una operatività che aveva visto, negli anni precedenti al collocamento in borsa di Mediaset catene assai lunghe e costruite all’interno del comparto estero, anche quello riservato, così da, documentalmente, costituire disponibilità estere e far lievitare i costi da contrapporre ai ricavi della società italiana;

del resto, seppur comprendendo l’anno 1994, i vantaggi erano stati cospicui arrivando, nel solo ultimo quinquennio, a costituire risparmi fiscali discendenti da un fittizio aumento di costi per oltre 360 milioni di dollari. Certo le somme in gioco in questo processo sono ben minori ma ciò dipende dal fatto che qui si tratta degli ultimi esiti di tale complessiva, ingente, evasione, relativi agli ultimi anni delle quote di ammortamento di tali costi.

… almeno fino al 1998, e, quindi, fino a quando ai vertici della gestione dell’acquisto dei diritti vi era stato Bernasconi … vi erano state anche le riunioni per decidere le strategie del gruppo, riunioni con il proprietario del gruppo, con Berlusconi.

Ed era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse una questione strategica e quindi fosse di interesse della proprietà, di una proprietà che, appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali, pur abbandonando l’operatività giornaliera.

Non possono incidere sul giudizio formulato i diversi arresti a cui erano pervenuti i Gup di Milano e Roma (con sentenze confermate dalla Cassazione) che attengono a diversi periodi di tempo e a distinti quadri probatori. Perché attengono agli anni in cui a IMS era stata sostituita Mediatrade ed alla operatività condotta con tale diversa società. Sostanzialmente da chi aveva ritenuto di dare una svolta, anche di “trasparenza”, al precedente modo di agire».

3.3. Quanto a Gabriella Galetto perché (pagg. 182-183):

(Omissis).

5. I motivi di carattere più propriamente processuale sono i seguenti.

(Omissis).

5.25. Motivo n. 2 del ricorso Berlusconi.

Violazione degli artt. 48 cod. pen., 2 D.Lgs. n. 74/2000, e 178 lett. a) e c) cod. proc. pen., e vizio di motivazione in ordine al rigetto dell’eccezione relativa al vizio di correlazione tra accusa e sentenza.

Secondo la sentenza impugnata, Berlusconi avrebbe integrato il reato contestato pur non facendo parte di alcun organo amministrativo della società e pur non avendo firmato la dichiarazione dei redditi. Tale reato non è astrattamente configurabile in mancanza della presentazione della dichiarazione dei redditi operata dal soggetto a ciò deputato dalla legge, trattandosi di un reato proprio. Ne deriva che la condanna di Berlusconi per un reato che non poteva materialmente commettere, lo potrebbe semmai porre nella figura dell’istigatore o di colui che induce in errore taluno. E poiché deve evidentemente escludersi la prima ipotesi, non risultando nemmeno la presenza di un soggetto istigato, resta l’ipotesi di cui all’art. 48 cod. pen. Ma se l’imputato, con la sua condotta, ha indotto in errore o ha ingannato la persona tenuta alla presentazione della dichiarazione, allora vi è stata condanna per un fatto diverso da quello contestato, in quanto nel capo di imputazione si fa riferimento al concorso di persone nel reato, che è cosa ben diversa, anche sotto il profilo naturalistico, dalla condotta di induzione in errore. Di qui, il vizio di correlazione tra accusa e sentenza con conseguente nullità ai sensi dell’art. 178, lett. c) e lett. a), cod. proc. pen., perché si è presa una decisione ultra petita.

6. I motivi contenenti censure di errori di diritto, vizi di motivazione e travisamento delle prove relativi alla ricostruzione della vicenda e alla posizione dei singoli imputati sono sostanzialmente i seguenti.

(Omissis).

7. I motivi concernenti la qualificazione giuridica delle condotte addebitate ai diversi imputati e la configurabilità dello specifico reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sono sostanzialmente i seguenti.

(Omissis).

7.2. Ricorso di Berlusconi. Si deducono i seguenti specifici motivi.

7.2.1. Motivo n. 41.

Violazione dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., sulla configurabilità del contestato illecito tributario e assoluta mancanza di motivazione su un puntuale motivo di appello; inosservanza ed erronea applicazione degli articoli 1, lett. a), e 2 D.Lgs. n. 74/2000, e dell’art. 8 (sostituito dal comma 4-bis dell’art. 14 della l. 537/1993) del D.L. 2/3/2010 n. 16, come convertito dalla l. 26/4/2012 n. 44.

Ricorda che il Tribunale aveva parlato indifferentemente di inesistenza oggettiva e soggettiva delle operazioni. Con l’appello aveva eccepito che la società maltese IMS faceva parte – negli anni in contestazione – del Gruppo Mediaset, veniva consolidata nei bilancio di gruppo e dunque, per quanto concerne i rapporti infragruppo, doveva trovare applicazione dell’art. 110, comma 7, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. L’utile di IMS veniva distribuito, come dividendo, alla controllante italiana Mediaset ed in Italia questo utile veniva tassato nella misura del 40% dell’ammontare lordo. Aveva poi eccepito che il caso di specie non poteva comunque rilevare penalmente come inesistenza soggettiva, la quale ricorre in tutte le ipotesi di interposizione, reale o fittizia, poiché le quote di ammortamento in questione, utilizzate per gli anni 2001-2003, non riguardano in alcun modo l’IVA. Aveva quindi eccepito che non si trattava di inesistenza oggettiva dell’operazione, in quanto le fatture IMS riportavano la realtà (fattuale, giuridica, ed economica) di un “acquisto di diritti di riproduzione di programmi televisivi”; e nemmeno di inesistenza oggettiva del costo, che riproduceva effettivamente il prezzo che Mediaset aveva pagato per l’acquisto di quei diritti. Il problema quindi riguardava il valore dei beni ceduti ossia una questione che rientra nel tema del transfer pricing, in relazione al quale si doveva applicare la disciplina di cui all’art. 110, comma 7, TUIR. La vendita finale da IMS alla capogruppo Mediaset doveva avvenire ad un “valore congruo” (secondo i criteri OCSE), con dei margini ragionevoli. In ogni caso si sarebbe comunque trattato di un problema di valore e di congruità e non di un costo inesistente in tutto o in parte. Lamenta che la Corte d’appello ha omesso di esaminare queste censure.

7.2.2. Motivo n. 42.

Violazione ed errata applicazione dell’art. 2 D.Lgs. 74/2000, e mancata applicazione degli artt. 4 e 7 D.Lgs. n. 74/2000.

Eccepisce che è comunque irrilevante penalmente l’inesistenza soggettiva trattandosi di imposte dirette. Non può poi parlarsi di “inesistenza oggettiva del costo”, essendone indiscutibile l’effettività. Al più potrebbe discutersi di congruità del costo; ma allora si verserebbe nella fattispecie prevista dall’art. 4 cit. e dovrebbe quindi essere dichiarata la non punibilità del fatto perché dalle consulenze in atti risultano non superati i limiti di cui all’art. 7, comma 2, cit.

7.2.3. Motivo n. 43.

Violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, in tema di responsabilità di Berlusconi.

La sentenza impugnata ha ritenuto Berlusconi responsabile dei reati ascrittigli perché: – le persone coimputate (Bernasconi, Agrama, Cuomo, Lorenzano) gli erano vicine e lo frequentavano; – un imprenditore avveduto avrebbe certamente dovuto accorgersi della possibilità di acquistare a minor prezzo ed essere a conoscenza delle dinamiche imprenditoriali in Mediaset; – almeno fino al 1998 vi erano state delle riunioni per decidere le strategie del gruppo, cui aveva partecipato anche Berlusconi.

Lamenta un evidente travisamento della prova. Non vi è la benché minima prova che Agrama, Cuomo e Lorenzano, negli anni di causa, abbiano mai frequentato Berlusconi. Bernasconi è morto nel 2001 e pacificamente dal 1995 non si occupava più direttamente dell’acquisizione dei diritti. Berlusconi inoltre aveva abbandonato ogni carica con l’ingresso in politica e nel 1996 vi era stata la quotazione in borsa di Mediaset, con la rinnovazione totale dal punto di vista contabile e della valutazione dei diritti. Manca qualsiasi prova sia che eventuali ipotetici comportamenti antigiuridici fossero continuati dopo la quotazione in borsa; sia che l’imputato avesse compartecipato alla ideazione o costituzione di IMS. Sul punto vi sono altre sentenze di merito e di legittimità che sono state totalmente pretermesse.

Inoltre, Berlusconi non ha firmato le denunce dei redditi del 2002 e del 2003; non aveva alcuna possibilità di intervenire in quelle denunce e non poteva decidere come operare gli ammortamenti.

L’effetto di ammortamento non è automatico e la scelta di operare gli ammortamenti è stata dell’azienda e non di Berlusconi, mentre tutti i comportamenti pregressi, sono ininfluenti per la fattispecie penale contestata. Difatti, secondo le Sezioni Unite, le condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, prodromiche o strumentali rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una dichiarazione annuale non sono più, di per sé, previste dalla legge come reato.

7.2.4. Con un motivo aggiunto deduce poi manifesta illogicità della motivazione e inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000.

Osserva che Berlusconi è stato condannato sul presupposto che egli, come recita il capo di imputazione, sia coautore quale figura di riferimento ai fini decisionali di Bernasconi, Lorenzano e socio occulto di Agrama di «un sistema di frode elaborato negli anni 80 e da allora costantemente seguito fino al 1998», in particolare «inscenando la costituzione di IMS … nella realtà un mero ufficio di rappresentanza» e «concentrando in capo a IMS i rapporti contrattuali con società di comodo». I giudici hanno quindi sostenuto che l’imputato aveva dato un contributo causale alla frode contestata e che lo stesso non poteva non sapere che le dichiarazioni dei redditi, da altri elaborate e sottoscritte in epoca in cui era del tutto estraneo alla compagine sociale, erano il frutto del sistema posto in essere anni prima. Pertanto l’imputato è stato necessariamente ritenuto compartecipe di tutti i fenomeni di false fatturazioni, perché se così non fosse non lo si sarebbe potuto ritenere responsabile già per partecipazione alla catena causale prodromica alle dichiarazioni dei redditi e tanto meno responsabile sul piano del dolo. Sennonché, se si è ritenuto provato il concorso dell’imputato nell’attività di false fatturazioni, egli doveva rispondere di questo reato e non del successivo reato di utilizzazione di fatture false ai fini delle dichiarazioni dei redditi elaborate da altri in anni successivi. Se invece l’imputato non si ritenesse corresponsabile dell’attività prodromica, non è spiegato a che titolo sarebbe responsabile del reato di cui all’art. 2. Doveva quindi essere rispettato il disposto dell’art. 9 dichiarando l’imputato responsabile del concorso nel reato di emissione di false fatturazioni e di conseguenza dichiarando estinti per prescrizione i fatti sussumibili sub art. 8.

7.2.5. È stato in seguito depositato un parere pro veritate del prof. F.M. con il quale si deduce, in primo luogo, che, contrariamente alla precedente legge 516 del 82, l’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000, nel rispetto del principio di offensività, prevede una condotta progressiva, che va dalla acquisizione, alla annotazione in contabilità della falsa fatturazione, alla conseguente dichiarazione dell’elemento passivo fittizio, mentre il perfezionamento del reato si ha solo con la dichiarazione. Ciò comporta che può essere punita ex art. 2 solo la dichiarazione riferita allo stesso periodo di imposta della registrazione nelle scritture, che costituisce il momento perfezionativo dell’iter iniziato con l’inserimento contabile. Soggetto attivo è il dichiarante. Secondo la sentenza impugnata, invece, l’autore del fatto propedeutico può non essere (tanto più a distanza di anni) l’autore della dichiarazione e viceversa. In tal modo, si ritorna, contro la volontà del legislatore, alla responsabilità per fatto meramente prodromico, annullando la caratteristica dell’offensività imposta dalla nuova disciplina. Artificiosamente la sentenza afferma che l’autore del fatto prodromico è stato coautore della «costruzione complessiva della dichiarazione», mentre non esiste un concetto di «dichiarazione» tributaria che abbracci globalmente e diffusamente momenti eterogenei. In realtà, si è imputato il reato de quo a chi era ritenuto responsabile del fatto prodromico avvenuto in anni precedenti. Precisa poi che nel caso di successive dichiarazioni annuali che espongano elementi passivi fittizi il reato sarebbe quello dell’art. 4 (e non dell’art. 2), perché manca un contemporaneo utilizzo di falsa fatturazione (avvenuto in anni precedenti). Inoltre, si trattava semmai di una sequenza negoziale artefatta, ma reale, e quindi di una ipotesi di abuso del diritto, punibile ai sensi dell’art. 4.

Sono poi erronei sia la sostituzione del concetto di «indicazione in dichiarazione» (art. 2) con quello di «costruzione complessiva della dichiarazione», sia l’allargamento degli autori del reato di dichiarazione fraudolenta a «tutte le componenti sociali che non solo, materialmente, la formano (come mero documento) ma anche … che ne costruiscono i presupposti». Invece la nozione di dichiarazione tributaria ai fini penale ha il carattere della tipicità ed è quella definita dagli artt. 1-6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n 600, e dagli artt. 1, 5 e 8 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. Inoltre, una fattispecie di dichiarazione fraudolenta che comprenda ogni attività prodromica e soggettivamente riferita addirittura a «tutte le componenti sociali» è contraria al principio di legalità (ex artt. 23 e 25 Cost.) ed alla lettera stessa dell’art. 2 del D.Lgs. 74/2000. Del resto, la circolare ministeriale n. 154/E/2000 precisa «che l’autore del reato può essere l’amministratore, il liquidatore, o il rappresentante legale della società», non già qualsiasi soggetto rientrante in tutte le componenti sociali che influiscono a qualsiasi titolo sulla dichiarazione o sui suoi presupposti. Per di più gli asseriti responsabili dell’utilizzo di false fatture sono stati condannati non già a titolo di concorso ma a titolo di autori.

È mancato infine l’esame dei rapporti di inferenza tra decipiens e deceptus, a causa dell’esclusione, dal processo, dei sottoscrittori della dichiarazione. L’affermazione che «essi non potevano che prendere atto delle voci da altri uffici formate in quella determinata misura», è del tutto apodittica e altresì contraddittoria con la premessa di una grandiosa lievitazione dei costi. Difatti, o i costi non erano così «lievitati» da poter essere conosciuti dall’autore della dichiarazione; oppure, se lo erano, dovevano essere altresì, rilevati nella «complessa e collettiva operazione a cui prendono parte tutte le componenti sociali».

7.3. Ricorso Gabriella Galetto.

(Omissis).

8. I motivi concernenti il trattamento sanzionatorio.

8.1. Ricorso Berlusconi.

(Omissis).

8.1.3. Motivo n. 46.

Violazione dell’art. 12 D.Lgs. n. 74/2000, con riguardo alla quantificazione delle pene accessorie e della pena dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici; omessa motivazione sui motivi di appello afferenti la quantificazione delle sanzioni accessorie dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, dell’incapacità di contrattare con la P.A. e dell’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria. Secondo la Corte d’appello la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per un massimo di tre anni, prevista dall’art. 12, comma 2, cit., si applica, in caso di condanna per la violazione dell’art. 2 quale che sia la misura della pena, sicché quando questa superi i tre anni si deve applicare l’art. 29 cod. pen. La Corte d’appello ha poi omesso di motivare sulla quantificazione delle altre pene accessorie. Inoltre, ha arbitrariamente applicato l’art. 29 cod. pen. sulla base di considerazioni soggettive del giudicante come quella che assegna rilievo alla asserita mancanza di ragionevolezza di un trattamento più favorevole per i reati tributari rispetto ai reati comuni quando la pena superi i tre anni di reclusione. In realtà il legislatore ha esplicitato chiaramente la volontà di creare una disciplina speciale rispetto a quella ordinaria dell’art. 29 cod. pen., valutando, nella sua assoluta discrezionalità, anche la gravità dei reati per i quali prevedere l’applicazione della pena accessoria.

(Omissis).

CONSIDERATO IN DIRITTOA) Questioni processuali

(Omissis).

18. Il motivo n. 2 del ricorso di Berlusconi – con il quale si deduce che l’imputato sarebbe stato necessariamente condannato ai sensi dell’art. 48 cod. pen. per avere necessariamente indotto in errore l’ignoto autore delle dichiarazioni dei redditi dal che deriverebbe nullità della sentenza per mancata correlazione tra condanna e capo di imputazione, nel quale si faceva riferimento alla condotta di concorso nel reato e non a quella di induzione in errore – è infondato.

Innanzitutto, invero, la sentenza impugnata ha esplicitamente affermato che la responsabilità veniva dichiarata a titolo di concorso nel reato ai sensi dell’art. 110 cod. pen. e non per induzione in errore ai sensi dell’art. 48 (p. 109), ed in particolare che tutti gli imputati «che avevano, consapevolmente, gonfiato i costi, debbono, rispondere in via diretta, come partecipanti alla costruzione complessiva della dichiarazione, della sua infedeltà» (p. 177). Tanto vale ad escludere in radice la (pure, da taluni ricorrenti, larvatamente prospettata) violazione dell’art. 6 CEDU) con riferimento ad una asserita lesione del diritto dell’accusato al contraddittorio in relazione alla corretta qualificazione giuridica del fatto.

In secondo luogo, la giurisprudenza ha ritenuto sia che «non dà luogo a violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.) ed è quindi legittima la riqualificazione giuridica del fatto, originariamente contestato all’imputato per avere tratto in inganno e indotto in errore gli autori della condotta di falso (art. 48 e 479 cod. pen.), ai sensi invece dell’art. 110 cod. pen., ossia come commesso a titolo di concorso personale con gli stessi autori» (Sez. 5, n. 27133 del 15/6/2006, Mercurio, Rv. 236010), sia che il principio stesso non è violato in una ipotesi in cui «l’imputato, rinviato a giudizio in concorso con altri, era poi risultato l’unico condannato ai sensi dell’art. 48 cod. pen., essendo stati i coimputati assolti per carenza dell’elemento psicologico» (Sez. 5, n. 7581 del 5/5/1999, Graci, Rv. 213776). D’altra parte, «con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’“iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione» (Sez. U, n. 16 del 19/6/1996, Di Francesco, Rv. 205619). Nella specie, nel ricorso non è stato nemmeno evidenziato quale pregiudizio e quali limitazioni del diritto di difesa avrebbe in concreto subito l’imputato da una eventuale qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 48 cod. pen.

B) Motivi relativi alla ricostruzione dei fatti e ai lamentati vizi di travisamento della prova

(Omissis).

19.2. Procedutosi al dibattimento, all’udienza del 19/11/2007, veniva formulata dal PM contestazione suppletive per il reato di dichiarazione fraudolenta relativamente agli anni fiscali 2000-2001-2002-2003. Con sentenza del 21 gennaio 2008, il Tribunale di Milano dichiarava la estinzione per prescrizione del reato di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, limitatamente alle dichiarazioni dei redditi presentate negli anni 1999 e 2000 per essere decorso dalla data di commissione dei fatti (fino ad ottobre 2001) il termine di cui all’art. 157 cod. pen., come modificato dalla legge n. 251/2005, osservando che “dagli atti non emergono elementi evidenti tali da comportare il proscioglimento di alcuno degli imputati” (come si dirà in seguito, questa Corte di Cassazione, con sentenza n. 3176/08, rigetterà il ricorso dell’imputato Agrama).

Conclusivamente, si procedeva per il reato di dichiarazione fraudolenta di cui al capo B relativamente agli anni 2001-2002-2003 nei confronti di Agrama, Berlusconi, Colombo, Confalonieri, Dal Negro, Galetto e Lorenzano, come da capo di imputazione in precedenza descritto.

Con sentenza del 26/10/2012 il Tribunale dichiarava estinto per prescrizione il reato di frode fiscale relativo all’annualità 2001 mentre riteneva gli imputati Agrama Faouk, Berlusconi Silvio, Galetto Gabriella e Lorenzano Daniele colpevoli di tale delitto in ordine alle annualità 2002-2003.

Tale decisione veniva integralmente confermata dalla Corte di Appello con sentenza dell’8 maggio 2013.

Si è in presenza, dunque, di una c.d. doppia conforme. Pertanto, quando non vi è difformità sul punto denunciato, le motivazioni delle sentenze di I e II grado, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale la Corte di legittimità deve, in ogni caso, far riferimento per giudicare della congruità della motivazione.

Il meccanismo fraudolento, già delineato dal GUP, veniva poi dal Tribunale analizzato, con dovizia di particolari e con il richiamo sistematico a prove orali e documentali. Il Giudice di I grado, sotto il capitolo “le origini del sistema di frode, il meccanismo fraudolento”, premetteva: “le imputazioni originarie e quelle attualmente residue descrivono un meccanismo fraudolento di evasione fiscale sistematicamente e scientificamente attuato sin dalla seconda metà degli anni 80 nell’ambito del Gruppo Fininvest “giro dei diritti televisivi”. Anticipando per comodità di esposizione, quanto sarà più analiticamente esposto nel prosieguo, si può sin d’ora evidenziare che i diritti di trasmissione televisiva provenienti dalle majors o da altri produttori e/o distributori, venivano acquistati da società del comparto estero e riservato di Fininvest e quindi venivano fatti oggetto di una serie di passaggi infragruppo, o con società solo apparentemente terze, per essere poi trasferiti ad una società maltese che a sua volta li cedeva, a prezzi enormemente maggiorati rispetto all’acquisto iniziale alle società emittenti.

Tutti questi passaggi erano palesemente privi di una qualche funzione commerciale, risolvendosi esclusivamente in una artificiosa lievitazione di prezzi. E questo anche e soprattutto perché le società acquirenti, tramite le quali il diritto transitava nell’area Fininvest-Mediaset, erano totalmente prive di una struttura commerciale effettiva. La reale acquisizione dei diritti era infatti operata direttamente dalla struttura di Rete Italia prima e di Mediaset poi che faceva capo a Bernasconi. Detta struttura riceveva le richieste degli addetti commerciali delle reti e si avvaleva, in particolare, della consulenza tecnica dell’imputato Lorenzano che procedeva alla trattativa con le majors e gli altri fornitori. Nessuna funzione, neppure marginale, era pertanto demandata alle società del comparto estero che figuravano acquirenti in prima battuta.

Sul piano operativo è risultato che il contratto originario, definito “master”, dopo essere stato sottoscritto, spesso da un mero fiduciario, quale, per esempio, l’imputato Del Bue, non veniva reso pubblico nemmeno all’interno della struttura Rete Italia-Mediaset. I master venivano generalmente stipulati con largo anticipo rispetto al concordato periodo di utilizzazione del diritto.

Avvicinatasi la data di prevista decorrenza, si procedeva alla stipulazione dei c.d. subcontratti, di solito per periodi frazionati rispetto a quelli del contratto iniziale. Detti subcontratti venivano preparati dalla struttura svizzera di Fininvest Service SA, sulla base delle indicazioni che venivano fornite da Bernasconi, anche tramite la collaboratrice Cavanna.

A seguito della stipulazione dei subcontratti venivano preparati sempre dalla struttura di Fininvest Service delle schede, solitamente composte da tre pagine, delle quali la seconda, con l’indicazione dei prezzi, veniva mantenuta presso la sede di Fininvest Service, mentre a Milano venivano inviate solo le schede contenenti le informazioni utili per la programmazioni quali provenienza del diritto, numero dei passaggi, decorrenza e scadenza.

A partire dal 1995 e sostanzialmente in occasione della quotazione in borsa di Mediaset e fino alla fine del 1998-99, il sistema indicato veniva parzialmente modificato nel senso che scomparivano generalmente i passaggi infragruppo, mentre i diritti venivano fatti intermediarie da società apparenti terzi e poi ceduti alla società maltese International Media Service Itd (di seguito per brevità IMS) che, a sua volta, li cedeva a Mediaset, rimanendo immutato il meccanismo di lievitazione dei prezzi. Il tutto ha comportato una evasione notevolissima che, per quello che concerne il periodo residuo di causa si aggira intorno agli importi indicati nel capo di imputazione (L. 17,5 miliardi nel 2000; 6.6,00 milioni di Euro nel 2001; 4.9,00 milioni di Euro nel 2002 e 2.9,00 milioni di Euro nel 2003)”. (pagg. 2 e 3 sentenza di I grado).

A sua volta, la Corte territoriale sotto l’intestazione: “La premessa (e la ragione) logica della ricostruzione”, ha, così, argomentato (pagg. 114-115 sent. impugn.):

Fatte le premesse di metodo, va subito chiarita anche quella inerente alla ragione, storica e logica, della ricostruzione che il Tribunale ha impostato e che la Corte condivide.

Il ragionamento posto è il seguente: gli uomini vicino a Mediaset (ma, ancor più ed ancor meglio, vicini al suo azionista di riferimento, pur tramite Fininvest, l’imputato Berlusconi) erano collocati all’origine del “giro dei diritti”. Erano coloro che li contrattavano con i produttori, e specialmente con le Major statunitensi.

Mediaset avrebbe pertanto potuto avere quei diritti al costo a cui la Major li vendevano. Ciò non era accaduto e, per di più, ad opera di personaggi che erano così vicini, anche personalmente, al proprietario della società, a Berlusconi. Egli era a perfetta conoscenza di quel mondo posto che anch’egli, nei primissimi anni di operatività, aveva personalmente acquistato i diritti utilizzati poi dalle sue società.

I diritti erano pervenuti a Mediaset con un differenziale di prezzo altissimo. E del tutto ingiustificato. Tale operatività era proseguita per anni. Sempre ad opera degli stessi uomini, che sempre avevano mantenuto la fiducia del proprietario.

L’unica alternativa alla ricostruzione dell’intera operatività così come delineata nel capo di imputazione era ritenere che la società fosse presidiata da amministratori e proprietari di straordinaria incompetenza, sia dal punto di vista commerciale, sia nella scelta degli uomini di cui circondarsi.

Lettura questa che viene smentita in nuce appunto dalla acquisita conoscenza del proprietario del mercato in questione.

E che viene smentita, lo si vedrà, anche dalla congerie di elementi di fatto che si riporteranno (e che per la quasi totalità sono già stati descritti dal Tribunale). Partendo da ciò, il percorso argomentativo seguito dal Tribunale, ed ora dalla Corte, è lineare:

si parte dall’esistenza di quella galassia di società che intercettava i fondi maturati all’estero, e ne spiegava destinazione ed utilità;

si prosegue con la verifica dell’interessamento, nel giro dei diritti, di almeno parte di queste società estere;

si giunge infine all’accertamento della semplificazione ed accorciamento delle catene di compravendita dei diritti, necessitata dalla quotazione in Borsa della società (e dai conseguenti maggiori controlli esterni), catena, però, che, seppure accorciata, manteneva la sua ragion d’essere: la costituzione di costi fittizi da opporre al fisco italiano, la costituzione di fondi finanziari disponibili all’estero (quest’ultima, peraltro, una finalità eterodossa all’odierna imputazione)”.

In sostanza, il quadro probatorio esaminato dai Giudici del merito è orientato essenzialmente a mettere a fuoco la gestione dei diritti di sfruttamento delle opere televisive innanzitutto nel periodo ante-1995 e, poi, nel periodo 1995-1998, periodo quest’ultimo oggetto del presente giudizio perché sfociato nella fatturazione di IMS a Mediaset poi utilizzata, in virtù dell’ammortamento pluriennale dei costi, ai fini delle dichiarazioni fiscali della stessa Mediaset relative agli anni 2001 (prescritto) e 2002-2003.

(Omissis).

20.8. Alla luce di quanto fin qui considerato, va, dunque, affermata la infondatezza di tutti i motivi dedotti dai ricorrenti in ordine all’eccepito travisamento della prova.

Inoltre, possono farsi le seguenti due notazioni generali e conclusive.

In primo luogo, va riaffermato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente e forma con essa un unico, complessivo corpo argomentativo (cfr. Sez. 4, n. 15227 del 14/2/2008, Baretti, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307/03 del 26/9/2002, Delvai, Rv. 223061). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica quando – come nel caso in esame – i giudici di secondo grado esaminano le censure proposte dagli appellanti con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione. Si è in presenza, dunque, anche dal punto di vista argomentativo, di una c.d. doppia conforme di merito, ossia della conferma specifica in punto di apprezzamento delle prove data dalla Corte d’appello alla sentenza di primo grado, con un giudizio tipicamente di merito coincidente con quello del Tribunale. È vero che questo presupposto non muta la natura delle questioni da esaminare, ma l’adesione critica del giudice d’appello, preposto proprio al controllo di quel giudizio, vale a rimarcare che l’ulteriore sindacato rimesso al successivo grado di giudizio deve svolgersi nei confini di pura legittimità, ossia limitatamente ad eventuali errori di diritto o ai vizi di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

In secondo luogo, l’apprezzamento della prova impone di considerare ogni singolo fatto e il loro insieme non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio. È quindi necessario verificare se i singoli elementi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale (Sez. 2, n. 33578 del 20/5/2010, Isoa, Rv. 248128; Sez. 6, n. 8314 del 25/6/1996, Cotoli, Rv. 206131). E questa esigenza di una applicazione rigorosa del principio di valutazione globale e complessiva del contesto, si impone a maggior ragione qualora le risultanze istruttorie presentino natura indiziaria. Da tale valenza unitaria del contesto probatorio ed indiziario consegue poi che non è consentita una parcellizzazione della loro valutazione, come quella proposta in alcuni passi dei ricorsi in esame.

(Omissis).

C) Motivi relativi alla qualificazione giuridica dei fatti.

23. I Giudici del merito e, segnatamente, la Corte territoriale, come si è ampiamente visto, hanno ritenuto, correttamente e motivatamente provato, in fatto, un gioco di specchi sistematico che – a fronte di una realtà costituita dall’acquisizione di diritti su opere scelte presso i produttori da un emissario di Mediaset, per prezzi concordati dalle stesse Major con costui – rifletteva una serie di passaggi privi di giustificazione commerciale: privi di giustificazione perché, quanto meno, (ma a volte gli anelli della catena erano più numerosi, e altrettanto – anzi, viepiù – ingiustificati), la titolarità dei diritti andava dal fornitore USA a un primo intermediario “di comodo”; da costui alla società IMS; quindi da IMS alla stessa Mediaset.

Ad ogni passaggio, la lievitazione dei costi era (a dir poco) imponente.

Infatti, il prezzo finale pagato da Mediaset a IMS, comprendente la sommatoria di tutti i ricarichi intermedi, risultava dunque enormemente superiore al costo originario (secondo una logica, in effetti, incomprensibile, se si applicano criteri d’impresa): ed era, appunto, il prezzo infine fatturato, destinato ad essere portato in detrazione quale costo nelle denunce dei redditi, (per un importo invero consistente: diversi milioni di Euro, che comportavano minori imposte pur esse di milioni, nonostante si tratti ormai dei momenti finali dell’ammortamento pluriennale: sicché le imposte evase negli anni oggetto della residua imputazione erano di entità sì ragguardevole – milioni all’anno, appunto – ma tra gli importi più bassi, nel succedersi delle annualità, rispetto al passato anche recente, in cui il sistema operava ancor più proficuamente).

Quanto a IMS, i Giudici del merito ne hanno incontestabilmente accertato la sua natura di mera “cartiera”, di pura domiciliazione a Malta, così come è risultata anche accertata l’assenza di potere decisionale del rappresentante legale di IMS, il quale si limitava a firmare i documenti contrattuali predisposti altrove.

Conclusivamente:

Mediaset trattava gli acquisti, mediante suoi uomini di fiducia (si vedrà, di fiducia di Silvio Berlusconi), direttamente con le Major USA;

linearità commerciale e fiscale avrebbe dovuto comportare che quegli acquisti le venissero fatturati;

invece, le fatture che la società usava a fini di dichiarazione fiscale le erano rilasciate da altro soggetto (IMS), all’uopo costituito all’estero;

l’importo dei costi in tali fatture indicato non era commisurato al prezzo d’origine, bensì enormemente maggiorato in esito ai passaggi intermedi, privi di ragion d’essere commerciale.

La ricaduta in diritto è la contemporanea, duplice fittizietà di tali fatture:

a) che non provenivano – soggettivamente – dal venditore reale;

b) e – sul versante oggettivo, che è quello decisivo – recavano importi del tutto svincolati da quelli effettivamente corrisposti all’originario (unico vero) alienante.

La definizione come sovrafatturazione qualitativa (che è concetto che concede al rapporto giuridico sottostante una valenza di effettività commerciale della quale, in realtà, esso nel caso di specie era privo) appare quasi un sottodimensionamento del fenomeno descritto: è, anzi, inadeguata a definirlo.

Questo carattere di radicale fittizietà dei documenti determina il configurarsi di una altrettanto generale simulazione finale, sul versante fiscale:

la quale giustifica – o, per meglio dire, impone – la qualificazione delle operazioni in termini di inesistenza, come normativamente qualificate ai sensi dell’art. 1, lett. “a”, D.Lgs. n. 74/2000 (norma di riferimento, per l’impiego fatto dei documenti – cioè delle fatture emesse da IMS – a base e corredo delle dichiarazioni fiscali presentate da Mediaset negli anni 2002 e 2003):

Ai fini del presente decreto legislativo:

a) per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti … emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi … in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi; …”.

Del tutto corretta e puntuale è, pertanto, la considerazione, sul punto, della Corte di merito: “Del resto le ulteriori argomentazioni spese delle difese circa la non configurabilità del delitto in questione sono, parimenti, infondate. Si è argomentato che le operazioni sottostanti alle fatture annotate da Mediaset o fossero solo soggettivamente inesistenti, e quindi irrilevanti in relazione alle dichiarazioni relative alla imposte dirette, o solo oggettivamente inesistenti e, in questo caso, non di rilievo penale perché a fronte di esse era pacifico che il contribuente, Mediaset, aveva corrisposto quanto dalle medesime fatture indicato. In realtà è del tutto evidente che la questione si pone in termini diversi (anche a prescindere dal fatto che la sentenza sopra citata l’ha già risolta, ritenendo che proprio quelle operazioni concretassero il reato contestato): le fatture annotate da Mediaset erano sia soggettivamente sia oggettivamente fittizie, in quanto avrebbero dovuto essere emesse dai produttori, dai primi venditori dei diritti, ed avrebbero dovuto indicare il costo del primo acquisto. Nascondevano quindi una evidente doppia simulazione, sull’intestatario e sul valore economico, che rendeva l’operazione del tutto fittizia e quindi, soggettivamente ed oggettivamente inesistente. La riprova più evidente era che il risultato finale dell’operazione aveva consentito l’appostazione di costi fittizi ai quali era conseguita una tangibile, ed illecita, diminuzione dell’utile sottoponile a tassazione, e ciò proprio ai fini del pagamento delle imposte dirette” (pag. 176-177 sent. impugn.).

A sostegno del suo assunto, la Corte territoriale ha richiamato la decisione di questa Corte di legittimità n. 39176 del 20/10/2008 che rigettava il ricorso di Agrama Frank e che riguardava la medesima imputazione trattandosi delle dichiarazioni dei redditi presentate per gli anni 1999 e 2000 e i cui relativi reati erano stati dichiarati estinti per prescrizione dal Tribunale di Milano con sentenza 21/1/2008.

La Corte – dopo aver affermato che, nel caso di frazionamento in successive dichiarazioni annuali delle quote di ammortamento di fatture per l’acquisto di beni strumentali, acquisto risultato inesistente, il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, è integrato da ogni dichiarazione nella quale vengono indicati i corrispondenti elementi passivi fittizi in detrazione dei redditi (principio massimato in Sez. 3, n. 39176 del 24/9/2008, A. F., Rv. 241266) – ha così precisato: “dalla contestazione riportata in sentenza emerge in termini univoci il carattere sostanzialmente fittizio delle varie operazioni commerciali costituite dai molteplici passaggi tra le varie società, che secondo l’imputazione hanno natura simulata con particolare riferimento alla IMS, sicché l’effettivo trasferimento dei corrispettivi, in quanto riconducibile agli stessi soggetti non costituisce elemento di per sé idoneo per attribuire natura reale alle operazioni commerciali indicate nella contestazione. È evidente, peraltro, che la cosiddetta sopraffatturazione è menzionata nel capo di imputazione quale elemento indicativo della natura fittizia delle cessioni dei diritti televisivi ovvero strumento attraverso il quale mediante le cessioni fittizie dei predetti diritti televisivi venivano gonfiati i costi simulati da portare in deduzione nelle dichiarazioni dei redditi … nessuna influenza, pertanto, può esplicare nel caso in esame l’indirizzo interpretativo enunciato da questa Suprema Corte nella sentenza prodotta dal ricorrente, che si riferisce alla diversa ipotesi della indicazione dei corrispettivi ritenuti incongrui rispetto a quelli di mercato, ma afferenti ad operazioni reali”.

Appare, così, evidente come la Corte di legittimità abbia ritenuta corretta la qualificazione giuridica della condotta riportata nel capo di imputazione – (medesima, identica imputazione, diversa solo perché relativa ad annualità fiscali precedenti) – con la conseguenza che la circostanza che le operazioni commerciali in questione, in quanto non aventi natura reale ed essendo “riconducibili agli stessi soggetti”, rende inapplicabile il richiamo di alcune difese alla esclusione della punibilità dell’emittente delle fatture fittizie con il dichiarante stabilito dall’art. 9 D.Lgs. n. 74/2000. E rende, altresì, inapplicabile il richiamo, su cui insiste in particolare il ricorso Galletto (motivo n. 9) ed in parte anche il ricorso Berlusconi (motivo n. 41), a quella giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. 3, n. 45056 del 7/10/2010, Semeraro, Rv. 248766; Sez. 3, n. 1996/08 del 29/10/2007, Figura, Rv. 238547), che ritiene non sussistere il reato di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 nell’ipotesi di corrispettivi ritenuti incongrui rispetto a quelli di mercato, poiché tale giurisprudenza riguarda casi in cui le operazioni siano effettive e reali. L’accertata natura fittizia delle operazioni e la dimostrata doppia simulazione delle fatturazioni rende del tutto irrilevante l’inciso contenuto nella sentenza impugnata dell’“altissimo differenziale di prezzo” (su cui insiste il ricorso Galletto, motivo n. 9), perché è ininfluente rispetto al quadro complessivo di inesistenza, soggettiva e oggettiva, delle operazioni fatturate dopo l’iniziale, reale, primo acquisto dei diritti.

E, del resto, l’assoluta infondatezza dei motivi di ricorso che invocano tale applicazione discende, ancora, dalla circostanza che plurime sono le decisioni di questa Corte di legittimità che hanno sempre escluso, in tema di “frodi carosello”, la possibilità di invocare l’art. 9 della legge suddetta poiché il reato di dichiarazione fraudolenta è realizzato anche nel caso in cui la documentazione infedele viene creata dallo stesso utilizzatore dichiarante, che la faccia apparire come proveniente da terzi (v. in particolare, Sez. 3, n. 48498 del 24/11/2011, P.M. in proc. Iossa, Rv. 251626; e Sez. 3, n. 47862 del 6/10/2011, Ercolini, Rv. 251963, ove si afferma “l’esistenza di fatturazioni irregolari per importi rilevanti tra due società collegate sul piano della titolarità e della operatività, rende indiscutibile l’esistenza di una consapevole programmazione e attuazione delle condotte”).

Ne consegue, allora, come, in tal caso, sia possibile il concorso tra tutti coloro che forniscono il loro contributo causale a colui che artificiosamente si precostituisce dei costi sostenuti al fine di abbattere l’imponibile, poiché l’esclusione del concorso ha come presupposto due soggetti diversi, e tra loro, autonomi.

Sul punto, fondamentale è la decisione del 2012 di questa Corte di Cassazione in tema di “frodi carosello”, puntualmente richiamata dai Giudici di I e II grado che ne hanno fatta corretta applicazione (Sez. 3, n. 19247 del 8/3/2012, P.M. in proc. Desiati, Rv. 252545). La Corte di legittimità – premesso che era principio costante che la deroga al regime di concorso previsto dall’art. 110 cod. pen. introdotta dall’art. 9 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non ha portata generale – ha ravvisato l’esistenza sul piano normativo di due fattispecie differenti cui conseguono due diversi regimi giuridici: “La prima risulta integrata dalla ipotesi che due soggetti giuridici diversi e tra loro autonomi definiscono un accordo per la realizzazione di una frode fiscale mediante l’emissione di fatture false da parte di un soggetto e la loro utilizzazione da parte dell’altro … Si tratta di fattispecie che interessa due soggetti accomunati soltanto dalla prospettiva di un vantaggio economico che, in forme diverse, viene raggiunto mediante il ricorso a fatture che la terminologia corrente qualifica come false (f.o.i.) ovvero non corrispondenti ad operazioni effettive”. In tal caso, ha precisato la Corte, “la disciplina introdotta dal D.Lgs. 10/03/2000, n. 74 ha inteso modificare tale profilo ed ha espressamente previsto che l’utilizzazione non possa essere chiamata a concorrere con il diverso soggetto che ha accettato di provvedere alla emissione delle f.o.i. necessarie alla successiva realizzazione della frode che l’utilizzazione intende concretizzare mediante la presentazione di dichiarazioni infedeli. Sulla base del medesimo principio interpretativo, la persona che ha emesso le f.o.i. non può essere chiamata a rispondere a titolo di concorso con la diversa condotta di utilizzazione posta in essere dal soggetto che le fatture ha ricevuto, iscritte in contabilità e incluso nella dichiarazione annuale”.

Ha continuato la Corte precisando che “la seconda (fattispecie) risulta integrata dall’ipotesi che il soggetto giuridico che ha interesse a utilizzare le f.o.i. dia luogo a una serie di condotte preparatorie e dissimulatorie diverse. Reitera in questa ipotesi il meccanismo, tipico delle c.d. “frodi carosello” che prevede la creazione di soggetti giuridici intermediari che opera come filtro; ma vi rientra anche l’ipotesi di ricorso a fatture irregolari “infragruppo”, nel quale vengono coinvolti società che fanno capo al medesimo controllante che può nei fatti condizionarne la gestione e le soluzioni contabili”.

Conclude la Corte con riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame: “come si vede, l’attività che viene contestata agli imputati, e in particolare al sig. Desiati, non è quella di aver istigato il soggetto emittente o rafforzato il suo proposito illecito, condotta rilevante ex art. 110 cod. pen., e non procedibile ex art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000, ma di aver emesso, in proprio, seppur in concorso “interno” con altre persone, le fatture che poi la società utilizzatrice avrebbe ricevuto e immesso in contabilità per giungere alle dichiarazioni infedeli. Si è in presenza, dunque, di una fattispecie non riconducibile alla sfera di applicazione del citato art. 9”.

Questa Corte di legittimità si è ripetutamente occupata delle frodi fiscali, cd. “truffe carosello” riconducibili al paradigma di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000, e realizzato mediante l’interposizione fittizia dei terzi. Si è, così, ritenuto (Sez. 5, n. 2697 del 2012) che la prova della fittizietà delle operazioni era stata dai Giudici del merito correttamente desunta dai seguenti elementi (la cui sussistenza è stata, come si è ampiamente visto, anche nel presente processo, incontestabilmente dimostrata):

a) il volume di affari delle società intermediarie costituito, in via pressoché esclusiva, dalle vendite effettuate in favore della società rappresentata dai prevenuti;

b) i pagamenti delle forniture apparentemente acquistate dalle “società cuscinetto”, effettuati con denaro anticipato dalle società rappresentate dai ricorrenti;

c) la merce presso i fornitori ritirata dai responsabili delle due società facenti capo ai ricorrenti;

d) la mancanza di una struttura aziendale, ancorché minimale, idonea a giustificare la mole di affari risultante dalle fatture.

Sul sistema delle “frodi carosello” va ancora richiamata – oltre a Sez. 3, n. 11670 del 2011; non mass., Sez. 3, n. 40559 del 2012, non mass., nella quale si afferma che la frode carosello non è esclusa dalla circostanza che la società “cartiera” possa direttamente ed in via autonoma trarre un indebito profitto – Sez. 3, n. 3203/09 del 26/11/2008, Cavalli, Rv. 242281, ove si afferma che “secondo la definizione contenuta nell’art. 1, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 74/2000, per fatture o altri documenti per le operazioni inesistenti, si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base di nome tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. Orbene, la nozione di operazione soggettivamente fittizia, prevista dalla norma, deve necessariamente corrispondere, per esigenze di omogeneità interpretativa, a quella che è tale oggettivamente e, cioè, all’operazione che non è regolarmente intercorsa tra i soggetti che figurano quale emittente e percettore della fattura o altra documentazione fiscalmente equivalente … Tipiche ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti sono quelle che corrispondono alle fatturazioni previste dalle c.d. società “cartiere”, cioè da società costituenti un mero simulacro, che non effettuano le operazioni commerciali nella realtà intercorsi tra altri soggetti, ma emettono le relative fatture, al fine di consentire a colui che le riceve una indebita imputazione di costi”.

Sul punto, ancor più recentemente – sempre in riferimento all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, sia pure con riferimento all’evasione dell’IVA – Sez. 3, n. 23667 del 2011, non mass., ove si afferma: “A ben vedere, la costituzione di diverse società in Paesi esteri … l’interposizione di tali società, quali “cartiere”, nello schema di “carosello” ipotizzato dalla Procura, altro non sono che gli stessi passaggi che consentono di considerare le fatture contestate come soggettivamente inesistenti e, dall’altro, di considerare evasa l’IVA da parte delle società destinatane finali della merce oggetto del giro di fatture contestate”.

In definitiva, questo Collegio ritiene che:

a) risultano integrati dalla ricostruzione operata dalla Corte territoriale tutti gli elementi costitutivi della fattispecie prevista dall’art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000, dal momento che sono state presentate dichiarazioni annuali con indicazione di elementi passivi fittizi, al fine di evadere le imposte sui redditi, e che ci si è, a tal fine, avvalsi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, registrate ai sensi dell’art. 2, comma 2 del medesimo D.Lgs. (a tal proposito è irrilevante che la citata sentenza Sez. 3, n. 39176 del 2008 sia andata di contrario avviso rispetto ad un unico più risalente precedente, sicché questo mutamento giurisprudenziale non può “scriminare” le condotte degli imputati, né escluderne la punibilità dovendo gli stessi sapere che il reato de quo ben poteva configurarsi anche in relazione a dichiarazioni annuali dei redditi indicati fittizi elementi passivi di cui a quote di ammortamento di costi registrati negli anni precedenti);

b) nel caso di specie, l’unitario disegno realizzato, attraverso la creazione di società cartiere, fittizie, tutte riconducibili al medesimo autore, l’enorme lievitamento dei costi, la sostanziale assenza di autonomia decisionale di IMS nella vicenda che si esamina danno conto dell’identità dei profili fondanti della responsabilità che si concentrano sul finale risultato dell’evasione tributaria rilevante, appunto, ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, reato che non può, nel modo più assoluto, essere configurato ai sensi dell’art. 8, come vorrebbero le difese dei ricorrenti ed, in particolare, del Berlusconi che invoca, sul punto, la prescrizione di tale reato.

Alla stregua di tali considerazioni, del tutto corretta, sia in punto di fatto che di diritto, la conclusione cui pervengono i Giudici del merito, secondo i quali il contributo causale materiale o morale degli imputati di frode fiscale ex art. 110 cod. pen. si desume dagli elementi che provano un loro coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento sopra delineato, meccanismo che consentiva all’autore di avvalersi di documentazione fiscale fittizia (pag. 67 sent. I grado).

Per completezza, va pure ricordato quanto segue.

Per ciò che concerne l’obiezione che ruota attorno alla natura del delitto in questione come reato a mano propria, è appena il caso di sottolineare che l’identificazione del materiale sottoscrittore della dichiarazione (e la conseguente analisi dei profili soggettivi necessari a dimostrarne il concorso nel reato) non appare rilevante ai fini del decidere, dal momento che l’applicabilità degli ordinari principi in tema di concorso di persone nel reato, anche commesso attraverso l’induzione in errore dell’agente, determina con assoluta certezza la responsabilità di quanti abbiano coscientemente e volontariamente contribuito alla formazione di una dichiarazione infedele.

È poi il caso di rilevare che non coglie nel segno il richiamo all’art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000, dal momento che è certamente esatto che i reati tributari di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione possono essere integrati anche dalle condotte elusive ai fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione espressamente previste dalla legge, ovverossia quelle di cui all’art. 37, comma 3, e art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (Sez. 2, n. 7739/12 del 22/11/2011, Gabbana, Rv. 252019), ma è anche vero che l’art. 4 si apre appunto con una clausola di salvezza rispetto alla configurabilità delle ipotesi di cui all’art. 2 (e 3) del medesimo D.Lgs., del quale per le ragioni sopra ricordate ricorrono tutti gli estremi. È, infatti, pacifico che integra il delitto di frode fiscale, previsto dall’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, e non quello di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 del citato decreto, l’utilizzo, mediante inserimento nella dichiarazione Irpef e Iva, di fatture materialmente false o di altra documentazione contabile, di analoga efficacia probatoria, materialmente falsa: ove si ritenesse diversamente, si determinerebbe la manifesta illogicità del sistema sanzionatorio penale in materia tributaria (così Sez. 3, n. 46785 del 10/11/2011, Acitorio, Rv. 251623).

Ne consegue la infondatezza dei seguenti motivi di ricorso: motivi n. 2, n. 41 e n. 42 del ricorso Berlusconi nonché del motivo aggiunto con il quale si insiste nella inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 9 D.Lgs. n. 74/2000; motivi n. 8, n. 9, n. 10, n. 11, n. 12, n. 13 e n. 14 del ricorso Galletto, nonché del motivo n. 2 della memoria integrativa della stessa Galletto; motivi n. 3, n. 4 e n. 5 del ricorso Agrama.

D) Motivi relativi alle responsabilità individuali e alle conseguenti statuizioni.

24. È doveroso opportunamente ribadire che, nell’esercizio della funzione di controllo di legittimità spettante a questa Corte, che include la verifica della “tenuta” logica della motivazione, la sentenza impugnata, sul piano dell’argomentazione che riguarda i risultati probatori, è esente dai vizi lamentati dai ricorrenti.

Essa presenta una motivazione solida e coerente, che alla ricostruzione dei fatti come emersi dall’istruttoria ed apprezzati dalla Corte d’appello accompagna sia un esplicito, agevole riscontro delle scansioni e degli sviluppi critici che connotano la decisione in relazione a ciò che è stato oggetto di prova, sia una costante attenzione per la coerenza complessiva dei risultati valutativi.

La sentenza della Corte d’appello di Milano si colloca, pertanto, al di fuori dell’ambito di irrazionalità che i ricorrenti lamentano e, a maggior ragione, al di fuori dell’area di manifesta illogicità della motivazione, la quale soltanto legittimerebbe una pronuncia di annullamento da parte della Corte di cassazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

24.1. In ordine alla responsabilità di Berlusconi Silvio, ritiene questa Corte di legittimità di premettere le conclusioni cui, in proposito, sono pervenuti i Giudici di merito per poi verificarne la congruità, l’adeguatezza e la correttezza argomentativa rispetto alle risultanze processuali esaminate.

Il Giudice di I grado riporta le seguenti conclusioni alle pagg. 72-76 della sentenza:

Nell’imputazione Berlusconi è indicato quale fondatore e, fino al 29.1.1994, Presidente di Fininvest spa, proprietario delle società off shore costituenti il cosiddetto “Fininvest B Group”, azionista di maggioranza di Mediaset s.p.a., figura di riferimento, a fini decisionali di Bernasconi e Lorenzano nonché socio occulto di Frank Agrama.

Rileva il Collegio che il c.d. “giro dei diritti” si inserisce in un contesto più generale di ricorso a società off shore anche non ufficiali ideate e realizzate da Berlusconi avvalendosi di strettissimi e fidati collaboratori quali Berruti, Mills e Del Bue nonché di alcuni dirigenti finanziari del Gruppo Fininvest.

Questo contesto è già stato ampiamente analizzato in tutte le sue possibili sfaccettature; quello che qui si intende ribadire è la pacifica diretta riferibilità a Berlusconi della ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro separato da Fininvest ed occulto.

Pare sufficiente qui ulteriormente osservare che il sistema così organizzato ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere presso conti correnti intestati a varie società che erano a loro volta amministrate da fiduciari di Berlusconi (cfr. la documentazione sui trusts di cui si è ampiamente parlato in precedenza).

Il passaggio del patrimonio delle società “One” e delle “prime” Principal, ossia delle società del comparto estero riservato di Fininvest (Group B) e dei rapporti contrattuali inerenti ai diritti è avvenuto in varie fasi: dapprima alle società off-shore non formalmente inserite nel bilancio del Gruppo si sostituiscono le Principal Communication e Principal Network Communication (il passaggio è attuato attraverso l’espediente del cambio dei nomi e dello spostamento delle sedi oltre che dei conti correnti); successivamente, ossia a metà 1995, le Principal vengono formalmente cedute con effetto retroattivo dall’1.1.94 a società apparentemente terze create da Mills e amministrate dalla fiduciaria Edsaco, le Lainden e vengono, quindi, escluse dal bilancio consolidato; quasi contemporaneamente, con la estromissione di Mills da Edsaco (o quantomeno a seguito della decisione di Edsaco di non seguire le società create da Mills il cui beneficiario economico non era noto, e su ideazione di Del Bue (vedi dep. Bravetti già citata), vengono create le società maltesi AMT (questa società è formalmente costituita nel 1991 e formalmente terza rispetto a Fininvest), MEDINT (costituita nel 1994 e inclusa nel bilancio consolidato del Gruppo) e Lion, tutte seguite dalla Arner delle quali Berlusconi e il suo “entourage” sono i beneficiari economici; tali società risultano intermediarie di ulteriori compravendite di diritti frazionati e poi verranno sostituite con la costituzione di IMS, costituzione che, come si è visto, si è resa necessaria in vista della quotazione in borsa di Mediaset per rendere “cristallino” il bilancio consolidato del Gruppo Fininvest.

Vi è la piena prova, orale e documentale, che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale per così dire del Group B) e, quindi, dell’enorme evasione fiscale realizzata con le società offshore di cui si è lungamente detto.

Questa fase è stata condotta da persone di sicura fiducia dell’imputato e quando Mills non ha potuto proseguire, a causa della vicenda Edsaco, i tramite sono stati spostati a Malta sotto il controllo del Del Bue.

Il meccanismo di frode è proseguito, sotto la stessa regia, con ulteriori nuovi soggetti e con i metodi già sperimentati, secondo lo schema già collaudato, con la sola eccezione della graduale sostituzione delle consociate estere con i vari Giraudi e company.

Anche la gestione del nuovo corso ha avuto come indiscussi protagonisti i soggetti preposti ai diritti e cioè Bernasconi e Lorenzano, già scelti dall’imputato. Berlusconi rimane infatti al vertice della gestione dei diritti posto che, come ha dichiarato il già citato teste Tatò, Bernasconi rispondeva a Berlusconi senza nemmeno passare per il C.d.A. e nessuno ha riferito che tra Bernasconi e Berlusconi vi fosse un altro soggetto con poteri decisionali nel settore dei diritti, neppure dopo la quotazione in borsa e la c.d. “discesa in campo” di Berlusconi.

Lo stesso ha dichiarato il teste Tronconi.

Inoltre Berlusconi aveva rapporti diretti con lorenzano, che operava a fianco di Agrama e Cuomo come risulta dalla deposizione di vari testi che hanno riferito di incontri tra i due che non potevano che riguardare questioni attinenti ai diritti. Vari testi hanno riferito infatti che Agrama e Cuomo quando venivano in Italia si recavano sistematicamente ad Arcore o comunque incontravano Berlusconi.

E, come si è detto, si tratta di persone con le quali la societas sceleris è proseguita per tutto il periodo oggetto dell’imputazione. Ed evidentemente la possibilità di proseguire l’illecito rapporto sodale con Cuomo ed Agrama non necessitava del formale esercizio di poteri gestori in Mediaset.

Come si è visto si tratta di un sistema che è stato congegnato e strutturato con mezzi e modalità tali da richiedere un apporto che non può provenire da un soggetto con limitati mezzi e privo di un potere indiscusso e generale, necessario per alimentare ovunque ve ne fosse la necessità l’operatività del meccanismo delittuoso.

Detto sistema ha infatti richiesto l’intervento di fiduciari stranieri di alto livello (Mills, Del Bue) a loro volta certo lautamente remunerati per il lavoro svolto; l’apertura di numerosissimi conti correnti presso banche ubicate in vari paesi; la creazione di numerose società all’estero; la contestuale movimentazione di ingentissime somme di denaro; il coinvolgimento di una pluralità di collaboratori; il raggiungimento di accordi illeciti con soggetti inizialmente estranei alla propria sfera d’influenza.

Non è dunque verosimile che qualche dirigente di Fininvest/Mediaset abbia organizzato un sistema come quello accertato e, soprattutto, che la società abbia subito per ventanni truffe per milioni di Euro senza accorgersene (non risultano invero denunce nei confronti di Bernasconi o Lorenzano). Anzi, per il vero, l’anomala discussione svolta dalla parte civile Mediaset all’esito del processo e la conseguente asserita mancanza di danni alla società in coerenza con una ritenuta congruità dei prezzi corrisposti da Mediaset nel corso degli anni per l’acquisto dei diritti, significa sostanzialmente che i vertici della società ancora oggi neppure riconoscono l’illiceità di quanto è stato accertato.

Pertanto deve ritenersi che l’interposizione di tutte le suddette entità nelle compravendite dei diritti provenienti dall’estero sia stata ideata per il duplice fine di realizzare un’imponente evasione fiscale e di consentire la fuoriuscita di denaro dal patrimonio di Fininvest/Mediaset a beneficio di Berlusconi.

Si tratta dunque di un preciso progetto di evasione che si è esplicato in un arco temporale molto ampio, in un vasto ambito territoriale e con modalità molto sofisticate.

Deve infine essere rimarcato il fatto che Berlusconi, pur non risultando che abbia intrattenuto rapporti diretti con i materiali esecutori della gestione finanziaria di Mediaset, la difesa assume che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione di non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali, senza possibilità, quindi, di pervenire ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti e che continuavano ad occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale. Né ad un diverso avviso può condurre la pronuncia della Cassazione in merito all’impugnazione della decisione del Gup Milano, circa il non luogo a procedere nei confronti di Berlusconi, nel processo Mediatrade, secondo cui non vi è alcun elemento probatorio preciso e concreto che possa considerarsi apprezzabilmente significativo dell’esistenza in capo all’imputato Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset nel periodo di riferimento dei fatti per cui si procede. Rileva il Collegio che le due situazioni non appaiono automaticamente sovrapponibili, atteso che manca nella vicenda Mediatrade la descritta continuità temporale e fattuale che sussiste, invece, nel procedimento de quo. La circostanza che tutto il materiale di questo processo sia stato, in ipotesi, trasfuso nell’altro processo, non toglie che qui il contesto sia diverso, permanendo per esempio l’utilizzo delle società maltesi, della cui reale funzione si è più volte detto. Peraltro verso qualsiasi comparazione è impossibile a questo collegio non essendo in questo procedimento noti gli atti del processo Mediatrade. Ma va detto che anche tutte le varie problematiche successivamente emerse, anche a seguito della piena conoscenza pubblica degli atti di indagine, in particolare per quel che concerne la cessazione del rapporto con Agrama ed il mancato intervento di Berlusconi perché ciò non accadesse (“trattandosi – dice la difesa – del suo socio occulto”) sono fatti ai quali non è assolutamente possibile dare quel significato univoco che la difesa sostiene. Infatti, come si è detto sono intervenuti, medio tempore, plurimi atti (sequestri, perquisizioni, arresti) che potrebbero costituire appagante spiegazione di ciò che si pretende di ritenere incompatibile con una condotta intervenuta molti anni prima. A questo punto appare opportuno esaminare la doglianza a lungo espressa dalla difesa Berlusconi sulla riduzione delle liste testimoniali. Sul punto, tra l’altro, nella discussione l’avv. Ghedini così si esprime: Berlusconi non aveva possibilità di intervenire, non c’è stata una domanda del signor Procuratore in questo senso. Perché lui dice: eh, la Difesa avrebbe potuto domandare, poi vedremo sui testimoni, ma qui il Pubblico Ministero non ha portato alcunché di rilevante probatoriamente sull’intervento di Silvio Berlusconi che ha detto “No, no, gli ammortamenti si dovevano fare così”. Erano decisioni assunte da altri, funziona così, signor Procuratore. Se voi vedete i nomi su quelle denunce, se voi guardate le firme, vedrete che non c’è la firma di Silvio Berlusconi, e nessuno di costoro su tale scelte non aveva possibilità di intervenire. Ritiene il Collegio che francamente è quanto meno opinabile cogliere nelle parole della Corte il significato che la difesa pretende di dare ha mai ipotizzato che vi sia stato un intervento di Silvio Berlusconi per decidere che gli ammortamenti fossero appostati in quella maniera. Va detto, per inciso, che sono proprio le suddette affermazioni che in realtà ben chiariscono le ragioni della riduzione delle liste testimoniali della difesa, atteso che effettivamente il P.M. non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti nei bilanci. Ne conseguiva appunto l’assoluta inutilità di una prova negativa, peraltro, di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto. A quanto detto può aggiungersi il criterio non certo evanescente del cui prodest, atteso che anche su questo punto vi è prova diretta e documentale, con riguardo al primo periodo, che il risultato dell’evasione sia confluito nella piena disponibilità dell’imputato, per cui non vi è ragione di ritenere che qualcosa di diverso sia accaduto con riguardo ai fatti di cui all’imputazione. Ed i rilevanti importi confluiti sui conti del “socio occulto” Agrama costituiscono palese dimostrazione del mantenimento inalterato del precedente sistema di frode. E del resto la qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza e dominus indiscusso del gruppo gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento, anche in mancanza di poteri gestori formali. La permanenza di tutti i suoi fidati collaboratori, ma anche correi, ne costituisce la più evidente dimostrazione. In definitiva deve affermarsi la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli, con esclusione dell’annualità 2001, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione».

Le conclusioni del Giudice di II grado (pagg. 181-182):

Anche negli anni di interesse del presente processo, dal 1995 al 1998, lo schema delle catene dei diritti era rimasto immutato pur se le stesse si erano accorciate. Come negli anni precedenti, attraverso IMS ma anche attraverso intermediari esterni al gruppo, il costo dei diritti acquistati alla fonte subiva un cospicuo rialzo. Del tutto incomprensibile dal punto di vista societario perché era evidente che non aveva senso alcuno acquistare ad un determinato prezzo quel che si era già individuato come acquistabile, ed effettivamente acquistato, ad un prezzo molto minore. Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo ma che erano vicine, tanto da frequentarlo tutti (da Bernasconi, ad Agrama, da Cuomo a Lorenzano) personalmente, al sostanziale proprietario (rimasto certamente tale in tutti quegli anni) del medesimo, l’odierno imputato Berlusconi. Un imputato, un imprenditore che pertanto avrebbe dovuto essere così sprovveduto da non avvedersi del fatto che avrebbe potuto notevolmente ridurre il budget di quello che era il maggior costo per le sue aziende e che tutti questi personaggi, che a lui facevano diretto riferimento, non solo gli occultavano tale fondamentale opportunità ma che, su questo, lucravano ingenti somme, sostanzialmente a lui, oltre che a Mediaset, sottraendole. Continuando, peraltro, costoro, a suo danno, una operatività che era invece propria del gruppo, fin da quando non vi era dubbio che l’imputato ne fosse al vertice anche operativo, anche giornaliero, prima del 1994. Una operatività che aveva visto, negli anni precedenti (indicando come discrimine temporale non tanto l’entrata in politica dell’imputato quanto il collocamento in Borsa di Mediaset), catene assai lunghe e costruite all’interno del comparto estero, anche quello riservato, così da, documentalmente, costituire disponibilità estere e far lievitare i costi da contrapporre ai ricavi della società italiana. Del resto, seppur comprendendo l’anno 1994, si è visto come i vantaggi siano stati cospicui arrivando, nel solo ultimo quinquennio, a costituire risparmi fiscali discendenti da un fittizio aumento di costi per oltre 360 milioni di dollari. Certo le somme in gioco in questo processo sono ben minori ma ciò dipende dal fatto che qui si tratta degli ultimi esiti di tale complessiva, ingente, evasione, relativi agli ultimi anni delle quote di ammortamento di tali costi. Ciò detto si deve inoltre aggiungere che, almeno fino al 1998, e, quindi, fino a quando ai vertici della gestione dell’acquisto dei diritti vi era stato Bernasconi (e non gli uffici ad esso proposti e neppure gli organi societari a ciò deputati, come aveva precisato l’amministratore Tatò che, pur chiamato a contenere i costi, era stato escluso dalla maggior partita di tale voce) vi erano state anche le riunioni per decidere le strategie del gruppo, riunioni con il proprietario del gruppo, con Berlusconi. Ed era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse una questione strategica e quindi fosse di interesse della proprietà, di una proprietà che. appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali, pur abbandonando l’operatività giornaliera. Non possono incidere sul giudizio formulato i diversi arresti a cui erano pervenuti i Gup di Milano e Roma (con sentenze confermate dalla Cassazione) che attengono a diversi periodi di tempo e a distinti quadri probatori. Perché attengono agli anni in cui a IMS era stata sostituita Mediatrade ed alla operatività condotta con tale diversa società. Sostanzialmente da chi aveva ritenuto di dare una svolta, anche di “trasparenza”, al precedente modo di agire. Resta pertanto confermata la penale responsabilità dell’imputato (e la sola prescrizione per l’annualità 2001)”.

Si è ritenuto di riportare integralmente le conclusioni formulate dai Giudici del merito per poter affermare che esse sono del tutto conformi alle plurime risultanze probatorie che essi hanno richiamato, riportato e valutato con adeguate argomentazioni del tutto immuni da vizi logico-giuridici e, come tale, non sindacabili in questa sede di legittimità.

A prescindere da altre vicende giudiziarie pur richiamate (quelle relative ad altri fidati collaboratori di Berlusconi, quali Berruti Massimo Maria e Mills Makenzie), va qui osservato come le risultanze processuali dimostrino, come incisivamente afferma il Giudice di I grado, “la pacifica diretta riferibilità a Berlusconi della ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro separato da Fininvest ed occulto”, cioè di quel meccanismo dette società facenti capo a Berlusconi – che nella più volte richiamata email del contabile Schwalbe, indirizzata al presidente della distribuzione internazionale della Fox – è definito come “l’impero di Berlusconi, che funziona come un elaborato shell game … e, cioè, “gioco dei gusci vuoti … con la finalità di evadere le tasse italiane”.

Come già si è visto, attraverso l’analisi del c.d. “giro dei diritti”, i Giudici del merito ne hanno individuato le caratteristiche di meccanismo riservato, direttamente promanante in origine da Berlusconi e avente, sin dal principio, valenza strategica per l’intero apparato dell’impresa a lui facente capo.

Ed è in questo scenario descritto che la Corte d’appello, con assoluta linearità logica, ha ritenuto di valorizzare quel dato che – attraverso l’analisi delle emergenze anzitutto dichiarative del processo – essa ha posto in evidenza in più punti della sentenza: la continuità della gestione dei diritti di sfruttamento delle opere televisive nella forma dell’acquisizione attraverso passaggi d’intermediazione fittizi, tutti accomunati dall’aumento considerevole di prezzo lungo il percorso. L’avvio del sistema in anni di diretto coinvolgimento gestorio del dominus delle aziende coinvolte – Silvio Berlusconi – e, poi, l’evoluzione del medesimo sistema secondo schemi adattati alle modifiche societarie e anche alle necessità d’immagine esterna, ma con sostanziale perdurare dei caratteri essenziali del meccanismo fittizio complessivo, acquistano evidenza probatoria – nell’ottica della Corte d’appello – alla luce dell’accertata continuità dei rapporti di tutti i personaggi-chiave: quei personaggi mantenuti sostanzialmente nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui, di talché la mancanza in capo a Berlusconi di poteri gestori e di posizione di garanzia nella società non è dato ostativo al riconoscimento della sua responsabilità.

(Omissis).

Ed allora è nel giusto la Corte di merito quando afferma che “nel gruppo Fininvest/Mediaset era stato creato un particolare sistema di acquisizione dei diritti di diffusione di prodotti che comportava che gli stessi acquisti trattati, come era logico, fin dall’origine da persone di assoluta fiducia, venissero poi dirottati in catene più o meno lunghe di società (appartenenti allo stesso gruppo o ad intermediari compiacenti) che, operando ulteriori compravendite, ne determinavano il notevole aumento di costo finale consentendo così al gruppo di diminuire in modo cospicuo il carico fiscale da assolvere in Italia, e nel contempo di disporre di ingenti fondi all’estero” (pag. 172).

Così come è ancora nel giusto la Corte territoriale quando, sotto le definitive conclusioni, a pag. 172, afferma:

Così che si è già dimostrato come nel “giro dei diritti” relativo alle annualità prescritte fosse del tutto palese la fittizietà del costo finale del diritto imputato all’acquirente. Ed altrettanto palese era che esisteva una struttura, pur interna al gruppo ma sostanzialmente parallela ai suoi organi formali, che si occupava di questo tipo di operatività (che, ovviamente, non doveva svelare la sua reale, illecita, attività) e che era costituita da Bernasconi che ne era il vertice operativo (e da alcuni operativi che a Lugano, o a Milano, si limitavano ad eseguirne le direttive), da Lorenzano che era l’uomo di fiducia del gruppo deputato agli acquisti dalle Majors, da alcuni formali intermediari (Agrama e Cuomo su tutti), tutti con accesso diretto al vertice proprietario del gruppo” (pag. 125).

E, del resto, la qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza e dominus indiscusso del gruppo gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento, anche in mancanza di poteri gestori formali. La permanenza di tutti i suoi fidati collaboratori ma anche correi, ne costituisce la più evidente dimostrazione.

A tutto ciò – e, dunque, a livello strategico di gestione, e ancora al rapporto diretto Bernasconi-Berlusconi (che saltava il consiglio d’amministrazione) e al rapporto Lorenzano-Berlusconi, oltre che ai sistematici incontri di Agrama e di Cuomo con Berlusconi, quando venivano in Italia (tutti immutati protagonisti del meccanismo prima e dopo il 1994: un sistema in sostanza preservato inalterato dallo stesso Berlusconi) – si aggiungono due argomenti di verifica della ragionevolezza della motivazione in conto di responsabilità individuale e che assumono anche il valore di prove logiche, ampiamente esaminate dai Giudici del merito.

Il primo è l’assoluta inverosimiglianza della ipotesi alternativa che vorrebbe tratteggiare una sorta di colossale truffa ordita per anni ai danni di Berlusconi (proprio in quello che è il suo campo d’azione e nel contesto di un complesso meccanismo da lui stesso strutturato e consolidato) da parte dei personaggi da lui scelti e mantenuti, nel corso degli anni, in posizioni strategiche e nei cui confronti non risulta essere mai stata presentata denuncia alcuna.

Il secondo è il “cui prodest”. È argomento di chiusura che presenta un elevato tasso di utilità in termini di verifica della tenuta logica della decisione. Ebbene, il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benefici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente con quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compiuto dai due gradi di merito: esso indica, cioè, proprio in Berlusconi – ideatore del meccanismo del giro dei diritti, che a distanza di anni continuava a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende a lui facenti capo in vario modo – il soggetto che in ultima analisi, anche dopo l’assunzione della veste di azionista di maggioranza, continuava a godere della ricaduta economica del sistema praticato.

(Omissis).

27.1. Fondato è, invece, il motivo n. 46 del ricorso Berlusconi con riferimento alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici.

Non ignora il Collegio l’orientamento espresso, in altre occasioni, da questa Corte, secondo il quale, nel caso di pena accessoria, non espressamente determinata dalla legge, quanto alla durata della stessa, tale statuizione, più che rimessa ad una valutazione discrezionale – come tale, in tesi, preclusa al giudice dell’esecuzione – “va parametrata dal giudice a quella della pena principale” (in termini, Sez. 3, n. 41874 del 9/10/2008, Azzani, Rv. 241410, relativa proprio alle pene accessorie previste per i reati tributari dall’art. 12 del D.Lgs. n. 74 del 2000; Sez. 5, n. 29780 del 30/6/2010, Ramunno, Rv. 248258; Sez. 1, n. 22067 del 1/2/2011, Hu Zhiyu, Rv. 250227).

Tuttavia, nella più recente delle sentenze citate, si discuteva della possibilità per il giudice dell’esecuzione di applicare le pene accessorie, in un caso nel quale il giudice di cognizione, oltre ad aver previsto in parte motiva l’applicazione nei confronti del condannato delle tre pene accessorie oggetto della richiesta di correzione, obbligatoria ex lege, ne aveva anche determinato la durata. Nella sentenza Azzani come pure nella sentenza Ramunno, il principio dell’operatività dell’art. 37 c.p. per la determinazione delle pene accessorie concernenti i reati tributari è stato affermato in relazione ad una pena principale determinata per tali illeciti in misura concretamente inferiore ai tre anni. Ora, a tacer del fatto che, come si rileverà infra, ritiene il Collegio maggiormente persuasivo l’orientamento secondo il quale, agli effetti dell’art. 37 c.p., “pena accessoria di durata espressamente determinata dalla legge” è anche quella per la quale la legge contempli un minimo ed un massimo, spettando in tali casi al giudice, nell’ambito di tale intervallo temporale, stabilirne la concreta durata ricorrendo ai criteri di cui all’art. 133 c.p. (Sez. 3, n. 25229 del 17/4/2008, Ravara, Rv. 240256; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538), l’analisi delle decisioni sopra ricordate dimostra che in tali pronunce non è stato affrontato il problema del rapporto tra l’art. 12 del D.Lgs. n. 74 del 2000, e l’art. 29 c.p.

Ciò posto, occorre muovere dal dato normativo.

L’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, dispone che la condanna per taluno dei delitti previsti dagli artt. 2, 3 e 8 importa altresì l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano le circostanze previste dagli articoli 2, comma 3, e 8, comma 3.

L’art. 29 cod. pen., al comma primo, prevede, invece che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni importa l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

Secondo l’interpretazione prospettata dalla sentenza impugnata quando la pena principale superi gli anni tre si deve applicare il disposto dell’art. 29 cod. pen., che individua la misura dell’interdizione in anni cinque, “non essendovi ragione alcuna per trattare più favorevolmente i reati fiscali rispetto a quelli comuni, posto che la loro stessa normativa li considera così gravi da imporre l’interdizione, seppure per un termine minore, come accessorio a qualsivoglia pena detentiva.

Tanto più se si considera che, nel citato art. 12, non si rinviene alcun appiglio letterale che imponga la deroga alla disciplina generale”.

In realtà, l’art. 12 del D.Lgs. appare il frutto di un organico disegno del legislatore delegato inteso a rimodulare in modo autonomo, secondo una disciplina speciale, la regolamentazione delle pene accessorie conseguenti alla condanna per i reati tributari.

Tale convincimento si desume sia dalla legge delega (art. 9, comma 2, lett. d, della legge n. 205 del 1999, secondo cui al Governo era affidato il compito di “prevedere sanzioni accessorie adeguate e proporzionate alla gravità delle diverse fattispecie, desunta in particolare dalle caratteristiche della condotta e della sua offensività per gli interessi dell’erario”), sia dalla relazione governativa che, sul punto, testualmente prevede che: “… Limitati ritocchi sono stati apportati alla durata delle misure, in una logica di razionalizzazione complessiva dell’assetto sanzionatorio: in particolare, è stata aumentata la durata minima e massima … dell’interdizione dai pubblici uffici …

… A differenza che per le altre pene accessorie, le quali trovano applicazione in caso di condanna per uno qualsiasi dei delitti contemplati dallo schema, si è previsto che l’interdizione dai pubblici uffici consegua esclusivamente alla condanna per i delitti più gravi (dichiarazione fraudolenta e emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), e sempre che non ricorrano le circostanze attenuanti speciali …

… È appena il caso di rilevare, al riguardo, come la conservazione della pena accessoria in parola – peraltro in ambiti più ristretti rispetto alla normativa (pre)vigente – risulti pienamente giustificata a fronte dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i doveri di probità e fedeltà all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus publicum”.

La conclusione del carattere speciale della normativa penal-tributaria è confortata dall’insegnamento delle Sezioni Unite, secondo le quali “il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali” (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010 – dep. 19/1/2011, Giordano, Rv. 248865).

In siffatto contesto normativo, l’obiettivo di complessiva razionalizzazione dell’assetto sanzionatolo è reso palese, sul piano testuale, dall’assenza di una clausola di salvezza di quanto disposto dall’art. 29 cod. pen.

In assenza di una disciplina di raccordo con la regolamentazione generale codicistica (sul modello di quanto previsto, ad es., dall’art. 216, ult. co. l. fall.), non è, pertanto, consentita un’interpolazione dei due modelli di determinazione delle pene accessorie, anche per le irrazionali ricadute applicative che ne scaturirebbero, in quanto, a seguire l’intepretazione disattesa, si dovrebbe giungere ad applicare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per le pena non superiore ai tre anni, a fronte di una pena principale di pari durata (art. 12 cit.), mentre, per le pene non inferiori a tre anni, venendo meno la pretesa correlazione con la pena principale, si dovrebbe sempre applicare la pena accessoria nella misura fissa di cinque anni (art. 29 cod. pen.). E ciò senza dire che tale coordinamento è tutt’altro che perfetto, in quanto, a fronte di una pena principale della durata di tre anni si realizzerebbe una sovrapposizione delle due previsioni (ciò che è il sintomo dell’assenza di una voluntas legis di operare un raccordo fra le due norme), da risolversi, a favore dell’operatività legge speciale, in applicazione dell’art. 16 cod. pen.

In realtà, proprio l’art. 16 appena menzionato, a mente del quale le disposizioni del codice si applicano alle materie regolate dalle leggi speciali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti, conferma che l’unica norma applicabile in subiecta materia è l’art. 12 d.lgs. n. 74 del 2000.

Né siffatta interpretazione rivela una manifesta irrazionalità, censurabile sul piano della legittimità costituzionale e idonea a prospettare letture maggiormente adeguate al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta fondamentale, in quanto l’art. 12 cit. impone, nello speciale disegno sanzionatorio sopra evidenziato, anche l’indefettibile applicazione, per tutti i delitti previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 (e, dunque, anche per quelli di cui agli artt. 2, 3 e 8), delle pene accessorie ivi previste.

Per effetto della conclusione raggiunta, occorre porsi il problema delle conseguenze da trarre sul piano processuale.

Ritiene questa Corte, per quanto si accennava in principio, che la tesi maggiormente persuasiva sia quella secondo la quale l’art. 37, nell’indicare come presupposto della sua operatività, la mancata espressa determinazione della durata della pena accessoria non si riferisca al caso in cui il legislatore abbia specificato una durata minima e una durata massima.

Pur nella consapevolezza del contrario orientamento espresso dalle decisioni sopra ricordate, si ritiene, infatti, che, in presenza di uno spettro applicativo fissato dal legislatore attraverso la previsione di un limite minimo e di uno massimo, la norma debba essere intesa nel senso che la determinazione delle pene accessorie deve avvenire, in ossequio ai principi costituzionali della individualizzazione e della funzione rieducativa della sanzione (art. 27 Cost., comma terzo), attraverso una valutazione discrezionale, fondata sui criteri di cui all’art. 133 c.p. e rimessa alle valutazioni del giudice di merito (Sez. 3, n. 17702 del 5/12/2012 – dep. 18/4/2013, Pagliaroni, non massimata, oltre le già citate Sez. 3, n. 25229 del 17/4/2008, Ravara, Rv. 240256; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538).

(Omissis).

28. Il motivo n. 47 di Berlusconi – con il quale si denunzia vizio di motivazione con riguardo al riconoscimento del danno non patrimoniale in favore dell’agenzia delle entrate ed alla quantificazione della provvisionale – è anch’esso infondato.

È difatti congrua ed adeguata la motivazione con la quale la Corte d’appello ha confermato la condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile Agenzia delle Entrate, osservando che il danno patito non coincide con la mera misura della imposta evasa ma anche con il danno funzionale rappresentato dallo sviamento e turbamento dell’attività di accertamento tributario. I giudici, in particolare, hanno tenuto conto della particolare complessità dell’operazione di occultamento, attuato con la costituzione di un meccanismo di notevole accuratezza ed insidiosità, facendo larga profusione di società e conti esteri; e così grandemente difficultando indagini ed accertamenti e costringendo pertanto l’organo accertatore ad un difficilissimo, e dispendiosissimo, compito.

La Corte d’appello ha poi confermato la liquidazione del danno non patrimoniale, considerando che una operazione illecita protratta per anni, per somme ingenti, e solo disvelata con grande difficoltà non può che recare un rilevante pregiudizio all’organo accertatore nell’opinione dei consociati, anche in relazione alla notorietà della società e dei suoi vertici.

Il ricorrente ora contesta specificamente la risarcibilità del danno all’immagine asseritamente subito da enti preposti al controllo del corretto esercizio di attività (economiche e non) a seguito della commissione di reati connessi all’espletamento di tale attività, ed in particolare invoca l’art. 17, comma 30-ter, del D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, il quale prevede che «Le procure della Corte dei Conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97», disposizione quest’ultima che fa espresso riferimento unicamente ai «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale».

Ritiene il Collegio che anche questo assunto non possa essere condiviso. I Giudici del merito, ed in particolare il Giudice di primo grado, hanno infatti richiamato il principio generale della risarcibilità del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c. ed il principio della risarcibilità del danno all’immagine subito da enti preposti al controllo del corretto esercizio di attività (economiche e non) a seguito della commissione di connessi all’espletamento di tali attività (cfr. Sez. 3, n. 35868 del 1/10/2002, Falconi, Rv. 222512). Questo principio generale non può ritenersi derogato, in mancanza di qualsiasi specifica indicazione normativa, dal citato art. 17, comma 30-ter, del D.L. n. 78/2009, che pone una norma speciale che si riferisce esclusivamente all’azione per il risarcimento del danno all’immagine esercitata dalle procure della Corte dei Conti recato da pubblici dipendenti all’ente pubblico di appartenenza e non si estende in via generale al risarcimento del danno non patrimoniale liquidabile dal giudice penale a seguito di una condanna per un illecito penale.

La quantificazione della provvisionale è stata poi, con congrua motivazione, determinata tenendo conto che la mera evasione ammontava a oltre 7 milioni di euro. E ciò fermo restando il principio per cui non è deducibile con il ricorso per cassazione la questione relativa alla pretesa eccessività della somma di denaro liquidata a titolo di provvisionale (Sez. 4, n. 34791 del 23/6/2010, Mazzamurro, Rv. 248348).

(Omissis).

Frode carosello in materia di imposte dirette e responsabilità penale di soggetti diversi dal dichiarante

1. Premessa

L’annotata sentenza, nell’assumere una particolare rilevanza pubblica per uno degli imputati coinvolti, si segnala, invero, per l’ampia motivazione in fatto che è alla base delle due decisioni di merito (1) senza che, invece, particolari elementi di novità emergano nei principi in diritto in essa affermati che risultano essere il frutto di consolidati orientamenti giurisprudenziali. L’unica questione affrontata con originalità è quella avente a oggetto l’irrogazione dell’interdizione, essendo il caso trattato privo di precedenti, a cui si aggiungono alcune considerazioni, non del tutto chiare nei principi affermati, in materia di concorso di persone nel reato proprio tributario. Nella parte che segue si riprenderanno, allora, alcuni degli aspetti più importanti affrontati dalla sentenza, richiamando la giurisprudenza e la dottrina per essi rilevante, dando per scontati gli elementi in fatto oggetto di accertamento in sede di giudizio, non essendo certo questa la sede per una loro nuova rivalutazione.

2. Il meccanismo della frode

Il meccanismo della frode, per come accertato nei giudizi di merito, risulta relativamente semplice e di facile comprensione, assumendo caratteristiche assimilabili ad un tipo di condotta illecita molto diffusa in questi ultimi anni quale la frode carosello (2). Oggetto della frode – che è iniziata alla fine degli anni ’80 e si è protratta fino al 2003 – sono stati gli acquisiti di diritti di programmi per la televisione, da parte di una società proprietaria di reti televisive in Italia con case produttrici di questi programmi degli Stati Uniti (c.d. major), con un’operazione commerciale che portava all’emissione di fatture false che determinavano un’artificiosa lievitazione di costi che, poi, sono stati utilizzati dalla società italiana in sede di dichiarazione per ottenere un’illecita riduzione dell’imponibile con una conseguente evasione di imposta, per ogni anno, di rilevante entità. In particolare, secondo quanto accertato nei giudizi di merito, l’operazione realmente avvenuta consisteva nell’acquisto da parte della società italiana – dopo una trattativa svolta dai suoi rappresentanti – dei diritti televisivi direttamente dalle major, senza l’intervento di intermediari e con singoli contratti che avevano ad oggetto lunghi periodi ed un certo numero di passaggi televisivi. Dal punto di vista contabile, invece, questi diritti erano oggetto di una serie di vendite fittizie con passaggio, iniziale, degli stessi dalle major a delle società offshore presenti in Paesi a fiscalità agevolata (Isole Vergini Britanniche, Bahamas, Isole del Canale) e riconducibili alla società italiana essendo da questa controllate con fondi dalla stessa alimentati. Dopo una serie di passaggi fittizi tra queste società, i diritti giungevano ad una società maltese, appartenente sempre al gruppo italiano che, poi, li rivendeva alla società italiana ad un prezzo notevolmente più alto (3) di quello effettivamente da quest’ultima versato alle società produttrici statunitensi ed oggetto dell’originario contratto di vendita; vendite – quelle dalle società maltesi a quella italiana – che, peraltro, avvenivano, rispetto all’unico acquisto iniziale, in modo frazionato e con riferimento a diritti che, di fatto, erano già stati acquisiti ed (a quel momento) utilizzati, da tempo, dalla società italiana.

Con questo meccanismo fittizio, la società italiana ha ottenuto due risultati. Innanzitutto, di portare notevoli quantità di denaro all’estero attraverso l’ultimo pagamento, in favore di una società maltese del gruppo, di una somma maggiore di quella effettivamente pagata alle major; inoltre, di conseguire un indebito risparmio fiscale in quanto il costo dei diritti, inserito nella dichiarazione dei redditi, era, in modo importante, superiore a quello effettivamente da essa sostenuto per acquistarli, con conseguente evasione di imposta (4).

3. Gli elementi indicativi della fittizietà dei diversi passaggi

Per indicare la natura fittizia dei vari passaggi dei diritti tra le società intermedie e, in ultimo, la società italiana e, indi, per giungere a valutare la natura di cartiera delle prime, i giudici di merito hanno richiamato i criteri, abitualmente utilizzati dalla giurisprudenza, sia tributaria che penale, per ritenere provata la presenza di una società di comodo con un’abbondanza di elementi sintomatici che abitualmente non si trovano in un’unica sola operazione di questo tipo ma che è giustificata dalla natura articolata della frode compiuta.

A tale fine, nelle sentenze la natura fittizia dei diversi passaggi dei diritti viene, innanzitutto, dedotta da elementi emergenti dall’operazione in sé, richiamandosi, in particolare, come risultino privi di una giustificazione commerciale i numerosi passaggi dei diritti tra le diverse società offshore essendosi questi ridotti ad un’artificiosa e notevole lievitazione dei prezzi (5) per la società italiana acquirente finale che sarebbe stata facilmente evitabile acquistando direttamente dalle società statunitensi (6). Il tutto tenendo, tra l’altro, conto che gli acquisti venivano conclusi a seguito di una trattativa compiuta direttamente da una struttura operativa della società italiana a ciò dedicata – senza che in essa le società intermediarie svolgessero alcuna funzione – i cui rappresentanti, poi, perfezionavano i contratti di trasferimento dei diritti che, tra l’altro, venivano, di fatto, acquisiti ed utilizzati dalla società italiana, dopo la vendita da parte della società statunitense, alcuni anni prima di quando, poi, gli stessi risultavano (a seguito della vendita da parte della società maltese) formalmente dalla stessa acquisiti.

Inoltre hanno a tale fine acquisito una rilevanza decisiva le modalità di funzionamento delle società intermediarie, indicative di come si trattasse di cartiere. In particolare, ciò è emerso dalla circostanza che queste società: venivano alimentate con fondi della società italiana alla quale, poi, parte delle risorse così conferite tornavano attraverso versamenti su conti correnti svizzeri riconducibili alla stessa; erano prive di una struttura commerciale effettiva riducendosi in alcuni casi ad una pura domiciliazione nel Paese ove risultavano avere una sede; sui loro conti correnti operava – con prelievi importanti ed essendo a ciò autorizzato – una stessa persona (diversa dai formali amministratori) che era riconducibile alla società italiana (7); erano amministrate da soggetti che non avevano alcuna esperienza in questo settore (un commerciante di carne, un esperto di informatica) (8); avevano quale unico cliente la società italiana; da quest’attività ottenevano enormi ricarichi (anche del 100%) che, poi, venivano destinati, in una parte minore, in favore del loro amministratore e in parte maggiore in favore della società italiana.

4. La riconducibilità della frode alla fattispecie di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000

Una volta valutato come provato un tale meccanismo fraudolento è, allora, conseguente la ricorrenza del delitto di cui all’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per coloro i quali hanno agito per la società italiana acquirente finale dei diritti televisivi in quanto quest’ultima ha utilizzato in dichiarazione delle fatture che descrivono un’operazione inesistente secondo la nozione data dall’art. 1, lett. a), del medesimo D.Lgs. n. 74/2000.

Al riguardo, in una tale ipotesi, le fatture che assumono rilevanza penale sono le ultime fatture che sono state emesse dalla società cartiera maltese in favore della società italiana acquirente dei diritti televisivi che, poi, le ha utilizzate in sede di dichiarazione dei redditi per dedurre i costi in essa indicati (9).

Queste fatture sono state valutate come false, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, descrivendo delle transazioni commerciali che, nella realtà economica, non sono mai avvenute tra quei soggetti (la società italiana quale acquirente e quella maltese quale venditrice) e con quegli importi in quanto le vere operazioni sono intervenute tra la società italiana direttamente con le società statunitensi – dalle quali questa acquistava i diritti televisivi – e per un prezzo, di molto, inferiore.

In questo contesto allora – come indicato nelle sentenze di merito e in quella della Suprema Corte – la fattura emessa dalla società maltese in favore della società italiana è, innanzitutto, oggettivamente inesistente (in modo relativo) in quanto descrive un’operazione nella quale viene indicato che la società italiana acquirente ha versato per quei diritti televisivi un prezzo, di molto, superiore a quello effettivamente sostenuto attraverso il vero pagamento in favore della società statunitense. Condotta questa che determina la presenza di una sovrafatturazione quantitativa (o qualitativa) qui rilevante, in conformità a quanto stabilito dall’art. 1, lett. a) – che, tra l’altro, indica quali fatture per operazioni inesistenti quelle emesse «a fronte di operazioni che … indicano i corrispettivi … in misura superiore a quella reale» – e con una falsità ideologica idonea a determinare, in concreto, un’evasione di imposta per l’acquirente attraverso la deduzione di costi maggiorati rispetto a quelli effettivamente sostenuti (10).

Sul punto, per completezza, appare opportuno precisare che è proprio la sovrafatturazione a rendere penalmente rilevanti le fatture emesse dalla società maltese rivestendo l’accertata falsa indicazione dell’emittente la fattura un elemento utile unicamente a dimostrare la natura fraudolenta dell’intera operazione. Infatti la falsa indicazione del solo emittente della fattura non determina la ricorrenza della fattispecie in esame laddove il costo sostenuto dall’effettiva società acquirente che ha ricevuto la fattura sia corrispondente a quello dalla stessa pagato al reale venditore, in quanto in una tale ipotesi, almeno per quanto riguarda le sole imposte dirette, non è presente il necessario dolo di evasione avendo l’utilizzatore di quella fattura – pur soggettivamente falsa dal lato dell’emittente – comunque sostenuto quel costo che si è, poi, dedotto senza, allora, potersi ritenere che questa falsa indicazione fosse indirizzata a fargli ottenere un illecito vantaggio fiscale (11). Il tutto a meno che la diversa qualità dell’emittente non abbia influito sulla deducibilità (o sulla misura della deducibilità) di quel costo in misura tale da determinare per l’utilizzatore, comunque, dei vantaggi fiscali indebiti (12).

In ultimo si osserva che – come correttamente rilevato dalla Suprema Corte – l’evidenziata inesistenza oggettiva della fattura rende inconferente il richiamo, effettuato dalla difesa di alcuni degli imputati, a quella giurisprudenza che esclude la ricorrenza della fattispecie in esame nei casi di accertata incongruenza dei corrispettivi pagati rispetto al valore di mercato del bene o del servizio ottenuto. Infatti, come precisato in quelle sentenze, vi è una tale ipotesi – per la quale non ricorre la fattispecie in discorso – solo laddove si contesti la congruità del costo dell’operazione che è stata, tuttavia, realmente pagata in quella misura e non, invece, nel caso – come quello in trattazione – ove si sia accertata la presenza di una divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale data dalla esposizione in fattura di un costo superiore a quello effettivamente pagato (13).

5. La responsabilità dei singoli imputati con riferimento ad un reato proprio

L’elemento che ha maggiormente impegnato le diverse parti del processo deciso dalla Suprema Corte è quello relativo al titolo della responsabilità sulla cui base si è giunti ad una condanna degli imputati, avendone la difesa contestato l’ammissibilità sotto diversi profili anche non attinenti alla valutazione delle prove nei loro confronti (14).

In via preliminare, deve osservarsi che nel processo di primo grado risultavano imputati del delitto di frode fiscale, in concorso tra di loro, non solo il presidente della società – quale suo legale rappresentante ed obbligato alla presentazione della dichiarazione dei redditi – ma anche delle altre persone alle quali ultime si è contestato non già di aver presentato le dichiarazioni dei redditi nelle quali erano inseriti i costi fittizi, ma di aver preso parte all’intera o a singole sezioni della complessiva condotta fraudolenta descritta in precedenza (par. 2), quale antecedente necessario al successivo uso delle fatture false in dichiarazione. Nel processo non erano, invece, presenti come imputati coloro i quali avevano materialmente sottoscritto le dichiarazioni dei redditi della società, da individuare in personale appartenente al settore fiscale a cui un tale compito era stato delegato (15).

In tale contesto accusatorio il Tribunale di Milano condannava solo alcuni degli imputati indicando – come confermato dalla decisione di secondo grado – che «rispondono del delitto contestato solo coloro che avevano consapevolmente partecipato al sistema in atto potendosi rendere conto delle ragioni del medesimo, l’evasione fiscale da realizzare negli anni successivi in Italia. Consapevolezza che poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema, e non chi aveva una visione solo parziale, pur prendendo parte ad alcuni degli atti prodromici» (16). Sono, pertanto, stati considerati responsabili della frode fiscale solo quegli imputati per i quali era emersa una loro consapevolezza dell’intero complesso sistema che aveva portato all’evasione d’imposta – attraverso la costituzione delle società estere, i diversi passaggi dei diritti tra di esse con fittizia lievitazione dei costi, e così via – anche con riferimento a chi aveva partecipato attivamente solo ad un segmento della frode essendo, tuttavia, consapevole che la sua azione si inseriva in questa articolata attività diretta a consentire alla società italiana di indicare nella dichiarazione dei redditi costi superiori a quelli effettivamente sostenuti. Sono invece stati valutati come estranei quegli imputati che, pur partecipi di segmenti di questa condotta, non risultavano avere detta consapevolezza. Inoltre è stato assolto anche il presidente e legale rappresentante della società in quanto, secondo le sentenze di merito, con motivazione valutata come congrua dalla Suprema Corte, nel processo è emerso che l’acquisto dei diritti televisivi, in quella società, era gestito da «una struttura, pur interna al gruppo, ma sostanzialmente parallela ai suoi organi formali, che si occupava di questo tipo di operatività (che ovviamente non doveva svelare la sua reale, illecita, attività)» (17) e che agiva sulla base di direttive dategli direttamente dal socio di maggioranza della società (che è stato condannato), con delle operazioni che, allora, non erano conosciute dai vertici aziendali non avendo, rispetto ad esse, questi alcun potere di intervento e limitandosi i diversi settori della società a recepire i dati per le operazioni effettuate per come gli venivano forniti da questo settore (18).

Nel predetto contesto il Tribunale, nell’assolvere il legale rappresentante della società, dava atto di come non venisse valutato come responsabile non solo questo soggetto ma neanche chi aveva firmato, concretamente, la dichiarazione dei redditi nella quale erano indicati i falsi costi di cui alla frode, stabilendo, invece, la penale responsabilità di alcuni degli altri imputati a titolo di concorso ex art. 110 c.p. (19) quali partecipi della struttura che gestiva i diritti televisivi alla quale questa frode era riconducibile.

Dopo la sentenza di primo grado – sia nel ricorso in appello che in Cassazione – le difese degli imputati condannati hanno, allora, eccepito che i loro assistiti non potevano essere giudicati responsabili di un reato proprio – quale è quello di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 – per il quale non era imputato o, comunque, non era stato condannato anche chi aveva firmato la dichiarazione dei redditi che si assumeva ideologicamente falsa, non potendosi affermare una responsabilità di soggetti da esso diversi laddove non vi fosse la prova di un loro concorso con chi rivestiva quella particolare qualifica ritenuta necessaria dal legislatore per commettere questo reato (20).

Con riferimento a tali argomentazioni la sentenza di secondo grado, pur giungendo ad una conclusione finale che appare condivisibile, risulta poco corretta nei principi enunciati mentre quella della Corte di Cassazione non appare aver preso – come invece sarebbe stato opportuno – un’esplicita posizione sul punto.

In particolare la Corte d’Appello ha indicato che gli imputati rispondono in via diretta del delitto contestato, anche in assenza di una responsabilità da parte di coloro che hanno presentato la dichiarazione dei redditi ideologicamente falsa, in quanto trattandosi della dichiarazione di una grande società la stessa è il frutto di una «complessa, collettiva, operazione a cui prendono parte tutte le componenti sociali che non solo, materialmente, la formano ma anche tutte quelle che ne costruiscono i presupposti, ricavi e costi. Tanto che ben può affermarsi che i firmatari finali della dichiarazione, peraltro dei meri impiegati o dirigenti del settore fiscale, non possono che prendere atto delle voci da altri uffici formate in quella determinata misura. Così che se l’infedeltà della dichiarazione dipende dalla lievitazione dei costi i responsabili di tale infedeltà altri non potranno essere che coloro che di tale illecita lievitazione si erano resi responsabili» (21). Con ciò quindi indicando che, correttamente, gli imputati sono stati valutati responsabili, non già quali concorrenti in un reato proprio altrui, ma quali diretti responsabili di questo reato avendo, evidentemente (22), la qualifica soggettiva necessaria quali unici responsabili di quel settore che ha prodotto quelle fatture false.

Di rimando la Corte di Cassazione, sul punto, ha espresso una doppia motivazione confermando, in via principale, la presenza di una responsabilità diretta ed in concorso degli imputati condannati – anche se diversi da chi ha presentato la dichiarazione – per, poi, indicare che la loro condanna è, comunque, ammissibile ex art. 48 c.p. (Errore determinato dall’altrui inganno).

Ora, a parere di chi scrive, l’affermazione della Corte d’Appello non appare corretta non avendo i soggetti condannati la qualifica necessaria per la commissione del reato proprio in assenza dei requisiti formali o anche sostanziali indispensabili a tale fine. Si osserva, in via preliminare, che – come peraltro non contestato nelle sentenze – il delitto di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 è, come tutti i reati dichiarativi ivi disciplinati, un reato proprio potendo essere commesso «unicamente» da chi, essendo a ciò obbligato, ha presentato la dichiarazione dei redditi che si assume infedele per essere in essa state utilizzate delle fatture false descrittive di elementi passivi fittizi. Soggetto obbligato a detta presentazione che è, per le società di capitali, chi ne ha la rappresentanza legale, e in mancanza chi ne è l’amministratore anche di fatto, o chi ne ha una rappresentanza negoziale (art. 1 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322) quale soggetto che è titolare del potere e dell’obbligo di presentare e sottoscrivere – assumendone la titolarità – la dichiarazione dei redditi che poi si valuta infedele e con essa di rispondere del relativo reato proprio (23). Il tutto tenendo conto che in questo settore abitualmente non assume valore esimente per questi soggetti l’eventuale sottoscrizione da parte di un delegato ritenendosi che la delega non è idonea a trasferire su terzi un obbligo (con connessa responsabilità) normativamente previsto (24). In tale contesto allora in termini generali il delitto in esame, quale reato proprio, può essere commesso solo da chi ha presentato o comunque ha la responsabilità della presentazione della dichiarazione dei redditi nella quale è stato inserito il costo fittizio (c.d. intraneo), essendo solo con questa necessaria dichiarazione che si perfeziona il delitto in esame.

Né è possibile sostenere – come sembra avere fatto la sentenza di appello – che nelle società di grandi dimensioni la qualifica soggettiva richiesta per il reato proprio si estenda non solo a chi presenta la dichiarazione, avendone la responsabilità, ma a tutti coloro i quali forniscono la documentazione per essa necessaria, contrastando una tale interpretazione con la struttura di questo reato che, almeno dal punto di vista oggettivo, può essere realizzato solo con la presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di chi ne ha i poteri.

Naturalmente la natura di reato proprio di questa fattispecie non esclude che la stessa possa essere commessa anche da un soggetto che non rivesta detta qualità (il c.d. estraneo) con, tuttavia, una duplice e diversa possibile qualificazione giuridica.

Innanzitutto, può accadere che l’estraneo concorra con l’intraneo nel reato proprio di quest’ultimo avendolo agevolato, materialmente o psichicamente, nella commissione del reato ed essendo, allora, lo stesso responsabile insieme all’intraneo del reato proprio secondo le regole ordinarie stabilite per il concorso delle persone nel reato dall’art. 110 c.p. e con le limitazioni di responsabilità di cui all’art. 117 c.p. Tuttavia, per la presenza di tale responsabilità in concorso dell’estraneo, è necessario che questi abbia posto in essere con l’intraneo una cooperazione materiale ovvero lo abbia determinato o istigato alla commissione del reato di cui poi l’intraneo, quale esecutore materiale, sia riconosciuto responsabile, indipendentemente peraltro dalla sua punibilità in concreto per l’eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità (25).

Altra possibile fonte di responsabilità per l’estraneo è quella regolata dall’art. 48 c.p. avente ad oggetto il caso nel quale l’intraneo non può essere valutato come responsabile del reato ad esso proprio avendolo commesso, in buona fede, a seguito della condotta ingannatoria altrui che lo ha indotto a compiere quell’attività illecita ad esso propria. In tali ipotesi prevede la norma che l’intraneo non sarà punibile – laddove si tratti di un reato doloso – ma che «del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo» e cioè l’estraneo.

Ora, a parere di chi scrive, nel caso qui giudicato, quest’ultima è la fonte di responsabilità per gli imputati qui condannati senza, invece, che fosse necessario un improprio richiamo a forme di responsabilità diretta nel reato proprio. Infatti, a fronte dell’assoluzione del legale rappresentante della società (e del non coinvolgimento di chi ha materialmente sottoscritto la dichiarazione dei redditi) gli altri imputati dovevano essere dichiarati responsabili del reato proprio attraverso un richiamo all’art. 48 c.p. emergendo – dalla motivazione della sentenza di primo grado per quanto riguarda il legale rappresentante della società obbligato alla presentazione della dichiarazione e da quella di secondo grado per il dirigente del settore fiscale delegato alla sottoscrizione della dichiarazione – che il soggetto che aveva la qualifica per commettere il reato proprio in esame era stato ingannato dalla complessa attività fraudolenta compiuta da appartenenti alla stessa società che lo aveva portato ad inserire nella dichiarazione quelle fatture false facendo lo stesso affidamento comprensibile viste le dimensioni dell’azienda e la gestione di quel settore da persona di diretta fiducia del maggiore azionista della società) su quanto gli veniva indicato da chi si occupava, in modo esclusivo, di quel settore. Diversa soluzione che non avrebbe modificato la condanna degli imputati ma avrebbe richiesto una sua più precisa qualificazione ex art. 48 c.p. tenendo conto che – come correttamente indicato sia dalla Corte d’Appello di Milano che dalla Corte di Cassazione – l’originaria imputazione dell’estraneo in concorso con l’intraneo nel reato proprio di quest’ultimo non esclude di per sé la possibilità di assolvere l’intraneo per mancanza dell’elemento soggettivo e di affermare, nel contempo, la responsabilità dell’estraneo per una sua responsabilità mediata ex art. 48 c.p. senza che possa invocarsi una mancanza di correlazione tra la contestazione e la condanna (26).

6. L’esclusione dell’applicazione dell’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000

La circostanza che il Tribunale abbia condannato solo quegli imputati che ha ritenuto consapevoli e compartecipi dell’intera condotta, con la quale sono state acquisite ed utilizzate in dichiarazione le fatture false, ha portato alcune difese ad evidenziare – nelle proprie impugnazioni – come nei confronti dei propri assistiti dovesse contestarsi il diverso delitto di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 74/2000 – nel frattempo prescritto – e non anche quello di cui all’art. 2 del medesimo decreto. Secondo infatti questa prospettazione, se alcuni degli imputati sono stati condannati per aver partecipato alla creazione del sistema fraudolento – costituendo le società offshore, nominando il loro amministratore etc. – allora ad essi deve innanzitutto imputarsi l’attività che ha portato all’emissione da parte delle cartiere delle fatture false, tra le quali vi erano anche le ultime emesse dalla società maltese in favore della società italiana per la sovrafatturata vendita dei diritti televisivi, con ricorrenza per essi della penale responsabilità per il delitto di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 74/2000 – avendo emesso delle fatture false – e con conseguente esclusione di una loro responsabilità per l’uso di quelle stesse fatture ex art. 2, non essendo consentito un concorso tra i due delitti sulla base dell’art. 9 del medesimo decreto.

Ora tale tesi non appare sostenibile tenendo conto del contenuto dell’art. 9 richiamato e del consolidato indirizzo della Suprema Corte in materia.

Al riguardo invero l’art. 9 nasce dalla volontà del legislatore – espressa anche attraverso l’art. 6 in materia di esclusione del tentativo – di ancorare la punibilità dei delitti dichiarativi (regolati dal Capo I) all’effettiva presentazione di una dichiarazione infedele, valutandosi che solo con essa si viene a ledere l’interesse dell’erario a percepire per intero le imposte dovute escludendo di sanzionare quelle condotte che siano ad esse prodromiche. Scelta di particolare rilevanza per il delitto in esame tenendo conto che, in precedenza, l’art. 4, lett. d), del D.L. 10 luglio 1982, n. 429 (convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516) puniva la mera acquisizione in contabilità di documenti falsi anche laddove gli stessi non fossero, poi, concretamente, utilizzati in dichiarazione, mentre con l’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 tale tipo di condotte preparatorie non sono più punite ex se, avendo voluto il legislatore premiare – con la non rilevanza penale del fatto – la resipiscenza del contribuente che, dopo aver acquisito i documenti falsi, decida di non utilizzarli.

Per ottenere tale risultato il legislatore non solo ha subordinato il perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 2 all’uso delle false fatture in dichiarazione, ma ha esplicitamente escluso ogni possibile penale responsabilità per il mancato utilizzatore di tali fatture escludendo sia che i reati dichiarativi possano essere puniti a titolo di tentativo sia che l’utilizzatore possa concorrere nel delitto dell’emittente e viceversa (27).

Dalla finalità appena indicata e anche dal contenuto letterale della norma emerge allora che – come ritenuto in modo costante dalla Suprema Corte – l’art. 9 non possa trovare applicazione nel caso in cui una persona fisica agisca, con riferimento alla stessa fattura falsa, sia come emittente che come utilizzatore di tale documento. Si fa, in particolare, riferimento alle ipotesi nelle quali lo stesso soggetto agisca quale amministratore (di fatto o di diritto) sia della società che emette la fattura sia di quella che, poi, la riceve e la utilizza: ipotesi questa che è, di frequente, ricorrente proprio nel caso delle cartiere, ove nella pratica accade che l’utilizzatore delle fatture false acquisisca tali documenti non da una società di terzi ma da una società dallo stesso, di fatto, costituita a tale fine alla cui amministrazione formale sono stati poi inseriti dei “prestanomi”. In questi casi, allora, quel soggetto risponderà di entrambi i reati, essendo rispettata, anche dal punto di vista psicologico, la necessaria intersoggettività qui richiesta in quanto l’operazione intercorre, comunque, tra due soggetti giuridici diversi e al fine di soddisfare l’interesse all’evasione di uno dei due (28). In una fattispecie, allora, ove non si tratta di evitare che l’utilizzatore venga chiamato a rispondere in concorso con l’emittente nel delitto commesso da quest’ultimo (e viceversa), ma ove il primo è il protagonista di entrambi i reati avendo creato – o partecipato alla creazione – delle società cartiere proprio al fine di fare evadere la società utilizzatrice ad esso riferibile con imputabilità, allora, ad esso di entrambi i reati.

7. L’interdizione

Per quanto riguarda l’interdizione la pronuncia della Suprema Corte ha posto rimedio a quella che risulta essere stata un’evidente erronea interpretazione degli artt. 12 del D.Lgs. n. 74/2000 e 29 c.p., probabilmente assunta dai giudici di merito con il mal celato intento di porre rimedio a quella che appariva loro essere un’irrazionale scelta legislativa.

In premessa, nel codice penale l’interdizione dai pubblici uffici – che priva il condannato di ogni munus publicum – è prevista dall’art. 29 c.p., in termini generali e per tutti i reati, solo nei casi di condanna ad una pena detentiva non inferiore ai tre anni di reclusione con una durata di questa pena accessoria stabilita dal legislatore, in modo perpetuo laddove la condanna sia ad una pena detentiva non inferiore ai cinque anni, ed in cinque anni negli altri casi. In tale contesto normativo, con il D.Lgs. n. 74/2000 si è ritenuto necessario di prevedere – nella regolamentazione delle pene accessorie – che per i delitti tributari più gravi (artt. 2, 3 e 8) dovesse applicarsi sempre l’interdizione dai pubblici uffici, valutando una tale pena accessoria necessaria anche per le condanne inferiori ai tre anni di reclusione «a fronte dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i doveri di probità e fedeltà all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus publicum» (29). In quest’occasione tuttavia il legislatore, nel decidere di sanzionare più gravemente il predetto tipo di reati, ha fissato il periodo massimo di durata della pena accessoria in tre anni con una scelta che, nell’applicazione concreta, può portare a dei risultati non in linea con l’espressa volontà di una maggiore severità rispetto a quanto previsto dal codice penale; infatti, applicando l’art. 12 del D.Lgs. n. 74/2000 accade che laddove la pena in concreto inflitta sia di almeno tre anni di reclusione si viene ad applicare un’interdizione inferiore a quella che si sarebbe applicata con l’art. 29 c.p. (30).

Per porre rimedio a quella che appare un’irrazionale scelta del legislatore, le due sentenze di merito hanno ritenuto di dover – a fronte di una condanna a 4 anni di reclusione – applicare l’art. 29 c.p. sostenendo che «quando questa [la pena detentiva] superi gli anni tre si debba applicare il disposto dell’art. 29 c.p. che individua la misura dell’interdizione in anni 5, non essendovi ragione alcuna per trattare più favorevolmente i reati fiscali rispetto a quelli comuni, posto che la loro stessa normativa li considera così gravi da imporre l’interdizione, seppure per un termine minore, come accessoria a qualsivoglia pena detentiva» (31).

Come ben evidenziato dalla Suprema Corte, una tale soluzione appare in contrasto con quanto previsto dall’art. 16 c.p. ove si stabilisce che «le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali in quanto non sia da queste altrimenti stabilito»; infatti nel caso in esame la legge penale speciale ha una disposizione che regola in modo diverso l’applicazione di tale pena accessoria che deve, allora, essere applicata anche in presenza di una condanna alla pena della reclusione non inferiore ai tre anni. Né, a parere di chi scrive, questa situazione può determinare una questione di costituzionalità, non tanto per le argomentazioni espresse dalla Suprema Corte – dirette ad evidenziare come non vi possa essere un paragone tra l’art. 29 c.p. e l’art. 12 del D.Lgs. n. 74/2000, prevedendo quest’ultimo un complesso di pene accessorie nelle quali l’interdizione si inserisce – ma in quanto la Corte Costituzionale non ha il potere di ampliare in peius l’operatività di una norma penale, trattandosi di competenza esclusiva del legislatore.

Una volta annullata tale parte della sentenza, la Corte di Cassazione aveva due possibilità di intervento, essendo al riguardo presenti – anche con riferimento a questa pena accessoria – diversi indirizzi interpretativi con riferimento alla durata delle pene accessorie per le quali il legislatore ha fissato la durata non in modo rigido ma con un minimo ed un massimo.

Infatti secondo parte della giurisprudenza (32) in tali ipotesi si applica l’art. 37 c.p. che stabilisce che laddove la durata della pena accessoria non sia espressamente determinata la stessa ha una durata uguale a quella della pena principale inflitta, non potendo, tuttavia, oltrepassare il limite minimo e quello massimo. In tale ambito, se la Suprema Corte avesse aderito a questo principio, allora, avrebbe potuto annullare, sul punto, la sentenza senza rinvio, fissando essa stessa la pena accessoria in tre anni.

Diversamente la Corte di Cassazione ha aderito ad un altro indirizzo che valuta come il giudice, in presenza di un prefissato minimo e massimo della pena accessoria, dovrà stabilirne la durata usando il potere discrezionale ad esso conferito, ex art. 133 c.p., senza essere vincolato ad un criterio rigido e predeterminato (33). Discrezionalità alla quale la Suprema Corte non può sostituirsi e che l’ha portata a rimettere tale valutazione ad un’altra sezione della stessa Corte d’Appello di Milano.

Dott. Gian Luca Soana

(1) Cfr. Trib. Milano 26 ottobre 2012, n. 10956, e Corte App. Milano 23 maggio 2013, n. 3232, entrambe in Boll. Trib. On-line.

(2) Assimilabilità richiamata dalla stessa Suprema Corte e derivante dalla circostanza che anche la frode carosello si sviluppa attraverso la fittizia moltiplicazione di passaggi del bene o del servizio oggetto, nella realtà, di un’unica vendita, con intervento di cartiere; in essa tuttavia abitualmente oggetto della frode è l’evasione dell’IVA e non, come nel caso in esame, delle imposte dirette. Sulle frodi carosello in materia di IVA cfr. Furlan, Brevi riflessioni sulla riforma penale tributaria e frodi all’Iva intracomunitaria, in il fisco, 2001, 13081; Cass., sez. V pen., 30 gennaio 2007, n. 3257, in Cass. pen., 2007, 4613; e Cass., sez. III pen., 22 marzo 2012, n. 11147, in Dir. & giust., 2012, 27.

(3) Nella sentenza si indica come in una di queste occasioni la maggiorazione sia stata di 171 milioni di euro (pag. 87).

(4) Pari a 17,5 miliardi di lire nel 2000, 6,6 milioni di euro nel 2001, 4,9 milioni di euro nel 2002 e 2,9 milioni di euro nel 2003.

(5) Fa riferimento all’«assenza di una qualsiasi convincente spiegazione dell’intera operazione in particolare in ordine alla necessità dell’interposizione di altre società» per giustificare, tra l’altro, la presenza di una frode carosello con intervento di cartiere, Cass., sez. trib., 20 giugno 2012, n. 10167, in Boll. Trib., 2013, 224, con nota di Cerioni, L’indetraibilità dell’IVA relativa alle operazioni inesistenti tra frode ed abuso del diritto di detrazione.

(6) Tra l’altro nelle sentenze si rileva come nei primi anni di attività la società italiana comprasse direttamente dalle major americane tali diritti senza passaggi intermedi essendo, allora, priva di giustificazione una modificazione di questa modalità tenendo conto che la stessa ha determinato un notevole incremento dei costi.

(7) Cfr. Cass., sez. III pen., 18 novembre 2002, n. 38652, in il fisco, 2003, 276, in un caso ove è stata qualificata come cartiera una società che era di fatto gestita da rappresentanti della società effettiva acquirente dei beni.

(8) Cfr. Cass., sez. III pen., 16 gennaio 2006, n. 1427, in Boll. Trib. On-line, ove è stata considerata come cartiera una società priva di sede operativa, di organizzazione stabile ed intestata a persone sprovviste della necessaria competenza nei settori commerciali in cui le stesse operavano.

(9) Non acquisiscono, invece, diretta rilevanza penale – se non quali elementi per dimostrare l’avvenuta frode carosello – le fatture emesse dalla società statunitense in favore delle società offshore in quanto queste, pur essendo false dal punto di vista soggettivo essendo l’effettivo acquirente un soggetto diverso da quello ivi indicato, sono relative a fatti che non sono avvenuti in Italia e che non hanno determinato alcuna evasione di imposta ai danni dell’erario italiano essendosi, tra l’altro, la major detratto un costo effettivamente sostenuto.

(10) Sulla presenza del delitto in esame in caso di sovrafatturazione quantitativa, quando la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, cfr. Cass., sez. III pen., 15 gennaio 2008, n. 1996, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. III pen., 24 novembre 2011, n. 48486, ivi; Cass., sez. III pen., 7 ottobre 2010, n. 45056, in Giur. it., 2011, 2135; nella vigenza dell’art. 4, lett. f), della legge 7 agosto 1982, n. 516, cfr. Cass., sez. III pen., 28 febbraio 1997, n. 1969, in Boll. Trib. On-line.

(11) Sul punto Cass., sez. III pen., 14 gennaio 2010, n. 10394, in Boll. Trib., 2011, 539, ove si indica che, in una tale ipotesi, l’inesistenza può avere rilievo solo ai fini IVA in quanto per essa la detrazione è possibile solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua la cessione o la prestazione; sul punto cfr. anche maccagni, Fatture soggettivamente false e mancanza di dolo di evasione, in il fisco, 2000, 12544.

(12) Si veda anche la giurisprudenza tributaria che, anche alla luce dell’art. 14, comma 4-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, riformulato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44), ha evidenziato come proprio in materia di frodi carosello «non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi a dette operazioni. Resta comunque aperto il problema della concreta deducibilità dei costi in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità»: cfr. Cass. n. 10167/2012, cit.; Cass., sez. VI, 11 febbraio 2013, ord. n. 3258, in Boll. Trib. On-line; richiama tali sentenze e i principi in esse affermati Cass., sez. III pen., 12 giugno 2013, n. 25792, ivi.

(13) Cfr. Cass. n. 1996/2008, cit., in un caso ove è stata annullata la sentenza di merito non essendo chiaro se si trattasse di un caso di sovrafatturazione o di incongruità del prezzo pagato.

(14) Nella presente sede non si affronta la questione sulla congruità degli elementi di prova posti alla base della decisione di merito, trattandosi di fattori non propri ad un commento su una sentenza di legittimità e per i quali si dovrebbe ovviamente disporre di pieno accesso a tutti gli atti del processo.

(15) Nelle sentenze di merito si precisa che tale funzione era stata delegata – non firmando il presidente della società le dichiarazioni dei redditi – e che durante le indagini e nel processo non si era provveduto neanche ad individuare chi materialmente, a ciò delegato, aveva provveduto ad una tale sottoscrizione.

(16) Cfr. pag. 179 di Corte App. Milano n. 3232/2013, cit.

(17) Cfr. pag. 124 di Corte App. Milano n. 3232/2013, cit.

(18) Si indica nella sentenza che la struttura che operava sotto gli ordini del responsabile di quel settore non coinvolgeva gli altri settori della società a cui venivano inviate delle schede contenenti delle indicazioni utili unicamente alla programmazione, quali la provenienza del diritto, il numero di passaggi, la decorrenza e scadenza in assenza del prezzo, e senza che venissero inviati né i master né i subcontratti.

(19) Cfr. pag. 67 di Trib. Milano n. 10956/2012, e pag. 177 di Corte App. Milano n. 3232/2013, cit.

(20) Aggiungendosi che, in mancanza di una tale penale responsabilità, si sarebbero, in modo non consentito, condannati degli imputati che potevano avere commesso solo atti prodromici all’evasione – avvenuta con la presentazione della dichiarazione da parte di soggetti diversi – che in sé erano privi di rilevanza penale.

(21) Pag. 177 della sentenza della Corte d’Appello.

(22) Sul punto non vi è una esplicita motivazione.

(23) Sulla natura di reato proprio di tale reato la dottrina è pressoché unanime; cfr. tra gli altri: Traversi-Gennai, I nuovi delitti tributari, Milano, 2011, 51; D’Avirro-Nannucci, La riforma del diritto penale tributario: d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, Padova, 2000, 53; in giurisprudenza cfr. Cass., sez. III pen., 4 aprile 2012, n. 1757, inedita, ove è stata individuata la responsabilità proprio nel soggetto che aveva firmato la dichiarazione.

(24) Si tralascia nel presente intervento la questione complessa della possibile efficacia di una tale delega, ma si richiamano alcune sentenze che si sono espresse in senso negativo: cfr. Cass., sez. III pen., 8 marzo 2010, n. 9163, in Boll. Trib. On-line; e, anche durante il regime previgente, Cass., sez. III pen., 24 novembre 1993, in Riv. giur. trib., 1994, 654.

(25) Cass., sez. VI pen., 18 giugno 2004, n. 36166, in Riv. pen., 2005, 1391.

(26) Cass., sez. V pen., 20 luglio 2009, n. 35884, in Cass. pen., 2010, 2705; e Cass., sez. V pen., 5 maggio 1999, n. 7581, ivi, 2000, 2240; in altra occasione si è indicato che anche la procedura inversa – contestazione per induzione ex art. 48 c.p. e condanna ex art. 110 c.p. per concorso con l’autore del reato – non determina violazione del principio di correlazione: cfr. Cass., sez. V pen., 15 giugno 2006, n. 27133, ivi, 2007, 4676.

(27) Norma questa che, nelle intenzioni del legislatore, è stato indicato partecipare alla medesima logica sottesa all’art. 6 del D.Lgs. n. 74/2000 (in materia di tentativo): quella cioè di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando una indiretta resurrezione del reato prodromico. In difetto dell’enunciato in rassegna, difatti, il soggetto a favore del quale venga emessa una fattura o un altro documento per operazioni inesistente potrebbe essere considerato in buona parte dei casi – ancorché egli non si sia successivamente avvalso della fattura o del documento a supporto di una dichiarazione inveritiera come ugualmente punibile in veste di compartecipe nel delitto di emissione alla cui base sta normalmente un accordo tra emittente e beneficiario (Relazione governativa al D.Lgs. n. 74/200, in Boll. Trib. On-line). Ciò tenendo anche conto che, normalmente, l’emissione di documenti fittizi nasce da un accordo tra il beneficiario e l’emittente e che, pertanto, laddove il beneficiario utilizzi effettivamente i documenti in una dichiarazione fraudolenta egli non può essere punito due volte per lo stesso fatto sia per il reato di cui all’art. 2 sia, a titolo di concorso morale, per il reato di cui all’art. 8 (cfr. in tal senso Cass. n. 10394/2010, cit.).

(28) Cass., sez. III pen., 2 maggio 2013, n. 19025; Cass., sez. III pen., 21 maggio 2012, n. 19247; Cass., sez. III pen., 13 aprile 2006, n. 13244; Cass., sez. III pen., 20 aprile 2006, n. 13947, tutte in Boll. Trib. On-line; G.U.P. Trib. Rieti 16 ottobre 2003, n. 130, in Giur. imp., 2004, 220; e Cass., sez. III pen., 14 novembre 2002, n. 38199, in Boll. Trib. On-line.

(29) Cfr. relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo [del 3 marzo 2000] recante “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205” approvata il 5.1.2000 dal Consiglio dei ministri, in Boll. Trib. On-line.

(30) Tra l’altro con la paradossale conseguenza che in caso di condanna alla pena di tre anni di reclusione per un altro dei delitti tributari si applicherà l’interdizione per cinque anni, mentre con una stessa condanna per uno dei più gravi delitti di cui agli artt. 2, 3 o 8 del D.Lgs. n. 74/2000 l’interdizione potrà avere una durata massima di 3 anni.

(31) Cfr. pag. 182 di Corte App. Milano n. 3232/2013, cit.

(32) Con riferimento all’art. 12 indicano come la pena accessoria vada parametrata a quella principale inflitta ex art. 37 c.p. Cass., sez. V pen., 28 luglio 2010, n. 29780; e Cass., sez. III pen., 10 novembre 2008, n. 41874, entrambe in Boll. Trib. On-line.

(33) Con riferimento all’art. 12 si è così espressa Cass., sez. III pen., 15 ottobre 2008, n. 42889, in CED Cass. pen., 2008.

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