17 Maggio, 2019

SOMMARIO: 1. Il diritto alla detrazione IVA in caso di mancata osservanza di obblighi formali ed in particolare in caso di omessa dichiarazione: le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nn. 17757 e 17758 del 2016 – 2. Il rimborso IVA – 3. La dichiarazione integrativa IVA alla luce delle recenti modifiche legislative.

1. Il diritto alla detrazione IVA in caso di mancata osservanza di obblighi formali ed in particolare in caso di omessa dichiarazione: le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nn. 17757 e 17758 del 2016

Il contributo si prefigge di verificare il punto di approdo della giurisprudenza nazionale ed eurounitaria in tema di detrazione IVA e rimborsi, che costituiscono due facce della stessa medaglia, o meglio, sono manifestazioni alternative del medesimo diritto, ancorché assoggettate a presupposti diversi.
A questi temi si aggiunge quello della rettificabilità della dichiarazione IVA, tema che è stato oggetto di una revisione organica da parte del legislatore nell’ottobre 2016 con l’introduzione di un nuovo termine di presentazione delle dichiarazioni integrative in aumento e in diminuzione, coincidente con quello previsto per l’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Con riguardo al diritto alla detrazione, la Corte di Giustizia con la sentenza IDEXX Laboratories Italia dell’11 dicembre 2014, causa C-590/13 (1), ha risolto in senso positivo la questione posta dalla Cassazione circa la possibilità di detrarre l’IVA in caso di mancato assolvimento di taluni obblighi formali.
In detta sentenza, la Corte di Giustizia, richiamando la pronuncia Ecotrade dell’8 maggio 2008, causa C-95/07, e le successive Nidera, C-985/09 ed EMS – Bulgaria Transport, C-284/11 (2), ha affermato che in caso di acquisto intracomunitario assoggettato alla procedura dell’inversione contabile il principio fondamentale di neutralità dell’IVA esige che la detrazione dell’imposta a monte debba essere riconosciuta se i requisiti sostanziali siano stati soddisfatti, anche se taluni obblighi formali siano stati omessi dal soggetto passivo.
Afferma la Corte di Giustizia che la detrazione dell’IVA può essere negata solo se la violazione dei requisiti formali produca l’effetto di impedire che sia fornita la prova certa del rispetto dei requisiti sostanziali.
Tali principi sono stati recepiti dalla Corte di Cassazione che, a partire dall’anno 2015, ha ritenuto irrilevanti le violazioni degli obblighi formali previsti dall’ordinamento interno, almeno ai fini della non esigibilità dell’imposta oggetto di detrazione, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria sia in possesso degli elementi atti a dimostrare la spettanza del diritto alla detrazione.
Il principio generale a cui si è finalmente pervenuti è incentrato sulla conoscenza da parte dell’Amministrazione finanziaria dei requisiti sostanziali: in linea generale, se l’Amministrazione finanziaria dispone di tutte le informazioni necessarie per accertare la sussistenza dei requisiti sostanziali, il diritto alla detrazione deve essere riconosciuto, anche qualora taluni obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi.
La Corte di Cassazione, facendo diretta applicazione del principio reso nel giudizio relativo alla IDEXX, con la sentenza del 13 marzo 2015, n. 5072 (3), ha riconosciuto la detrazione dell’IVA nel caso di mancata integrazione e/o autofatturazione delle operazioni intracomunitarie e della mancata annotazione delle fatture nei registri degli acquisiti e delle vendite, nonché nel caso di errata qualificazione degli acquisti come “fuori campo IVA”.
Tale statuizione è stata da ultimo confermata, con riguardo alla mancata annotazione nei registri IVA delle operazioni intracomunitarie, dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 3586 del 24 febbraio 2016 (4).
Ormai, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, a partire dall’anno 2015, si è consolidata nel senso di ritenere irrilevanti le violazioni degli obblighi formali, almeno ai fini della non esigibilità dell’imposta oggetto di detrazione, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria sia in possesso di elementi atti a dimostrare la spettanza del diritto alla detrazione medesima.
Calando tale consolidato orientamento nel tema in esame, è necessario fare riferimento alle recenti sentenze delle Sezioni Unite della stessa Corte di Cassazione dell’8 settembre 2016, nn. 17757 e 17758 (5), le quali, affrontando il caso della dichiarazione omessa (sia perché omessa materialmente sia perché considerata omessa in quanto ultratardiva) hanno sostanzialmente affermato la spettanza del credito IVA riportato nella dichiarazione IVA relativa all’anno di imposta successivo rispetto a quello in cui il credito è sorto. Ciò anche nella fase giurisdizionale di impugnazione della cartella di pagamento notificata a seguito di controllo automatizzato ex art. 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
In particolare, con la sentenza n. 17757/2016, la Suprema Corte ha ripercorso la propria giurisprudenza nonché la prassi amministrativa degli ultimi anni in tema di omessa dichiarazione e di possibilità del riporto dell’eccedenza IVA detraibile.
Secondo il più datato orientamento della Corte di Cassazione (6), occorre distinguere l’ipotesi dell’omessa registrazione delle fatture ricevute dall’ipotesi di regolare effettuazione della registrazione e delle conseguenti detrazioni nelle liquidazioni periodiche di competenza, alle quali non segua la presentazione della dichiarazione annuale: «nel primo caso, infatti, manca l’esposizione del credito d’imposta e quindi non è ipotizzabile alcuna detrazione, né nel mese di competenza, né nella dichiarazione annuale; sicché non è possibile alcun recupero del credito d’imposta». Nel secondo caso, invece, «per il contribuente che abbia omesso la presentazione della dichiarazione annuale, pur avendo regolarmente annotato tutte le fatture dalle quali scaturisca per lui un credito d’imposta e operato la detrazione nella liquidazione periodica di competenza, non può verificarsi alcuna decadenza».
Tale tesi è stata superata da altro orientamento più restrittivo della Corte di Cassazione, laddove a partire dal 2001 si ritenne che il contribuente «il quale, pur avendo computato le detrazioni per i mesi di competenza, abbia omesso di computarle nella dichiarazione annuale, perde il diritto alla detrazione, fermo il diritto al rimborso di quanto versato in eccedenza» (7).
Tale ultimo orientamento è stato criticato in dottrina in quanto si è affermato che il credito emerge dai registri IVA e dalle liquidazioni periodiche, non potendo essere preclusivo l’aspetto formale della omessa dichiarazione, siccome la sostanza dovrebbe sempre prevalere sulla forma.
Per quanto riguarda la prassi amministrativa, con la circolare del 6 agosto 2012, n. 34/E (8), si era affermato che in caso di omessa dichiarazione annuale il contribuente non può riportare l’eccedenza dell’IVA detraibile nella dichiarazione relativa all’anno successivo, giacché in caso di utilizzo del credito in detta dichiarazione, sarebbe seguita la comunicazione di irregolarità, ovvero la notifica della cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione.
Per cui l’Amministrazione finanziaria giungeva alla paradossale conclusione che il contribuente avrebbe dovuto versare l’IVA eccedente oggetto del controllo automatizzato per poi presentare istanza di rimborso, dimostrando la spettanza del medesimo credito IVA.
Si trattava di un caso eclatante di solve et repete, tant’è che l’Amministrazione finanziaria, con la successiva circolare del 25 giugno 2013, n. 21/E (9), mutava orientamento, affermando che il contribuente poteva provare l’esistenza del credito spettante mediante la produzione di apposita documentazione, quale i registri IVA e relative liquidazioni, le fatture e/o documenti equipollenti, nonché la dichiarazione omessa in forma cartacea.
Da ultimo, si è detto, la Corte di Cassazione ha quindi preso atto della giurisprudenza della Corte di Giustizia, facendo espresso riferimento al caso IDEXX Laboratories, in precedenza citato.
Per cui l’Amministrazione finanziaria, una volta che disponga delle informazioni necessarie per riconoscere che i requisiti sostanziali siano stati soddisfatti, non può escludere il diritto del soggetto passivo alla detrazione, a meno che tale diritto non sia stato esercitato in maniera fraudolenta o abusiva.
Pertanto, ferma restando l’applicazione delle sanzioni per la omessa dichiarazione, in presenza di una violazione formale, la valutazione della spettanza della detrazione da parte dell’Amministrazione finanziaria e in caso di contestazione da parte del giudice, si sposta dal piano della questione giuridica, ormai superata, al piano della fase probatoria.
Ne consegue che se il contribuente adempie correttamente agli obblighi contabili prescritti dalla normativa interna, graverà sull’Amministrazione finanziaria, come condivisibilmente statuito dalla Corte di Cassazione, l’onere della prova circa la non corrispondenza della realtà effettuale a quella rappresentata dalle scritture contabili.
Di converso, ove il contribuente non si attenga agli obblighi formali e contabili previsti dalla normativa interna, avrà l’onere di fornire la “prova certa” dell’esistenza delle condizioni sostanziali a cui la normativa europea ricollega il sorgere del diritto alla detrazione.
Così, passando al piano concreto, la Corte di Cassazione ha ragione quando afferma che occorre dare la prova dell’esistenza dell’operazione passiva e che l’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa deve essere inerente ai beni ed ai servizi acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione (art. 19 del D.P.R. n. 633/1972).
Sul punto, i requisiti sostanziali che il contribuente deve dimostrare in concreto affinché possa legittimamente esercitare il diritto alla detrazione sono tre, ossia la soggettività passiva del contribuente che compie l’operazione, l’assoggettabilità all’IVA di questa e la sua finalizzazione alla realizzazione di operazioni imponibili e, quindi, la sussistenza del criterio dell’inerenza.
Tutto ciò può risultare dalle fatture, dalla contabilità e dalle liquidazioni periodiche.
In conclusione, la neutralità dell’IVA comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale, l’eccedenza d’imposta possa essere riconosciuta sia dall’Amministrazione finanziaria che dal giudice tributario sempreché siano rispettati dal contribuente i requisiti sostanziali per la detrazione.
Pertanto, il diritto di detrazione può essere anche riconosciuto in sede di giudizio di impugnazione della cartella emessa dall’Ufficio finanziario a seguito di controllo automatizzato, laddove pur non avendo il contribuente presentato la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, sia fornita la prova dei requisiti sostanziali.
La differenza tra la sentenza n. 17757/2016 e la coeva sentenza n. 17758/2016, sotto il profilo in esame, consiste nel fatto che la Corte di Cassazione, nella prima, ritiene raggiunta la prova dei requisiti sostanziali, mentre nella seconda, rileva che il contribuente non ha fornito alcuna prova in ordine alla spettanza del credito d’imposta.
Rimane da aggiungere che il termine per operare il diritto alla detrazione era quello previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, ai sensi dell’art. 19, primo comma, secondo periodo, del D.P.R. n. 633/1972.
Secondo la Corte di Cassazione, ciò «lascia intendere la non irrilevanza, nel diritto interno, della dichiarazione annuale per la corretta emersione del diritto di detrazione, in disparte il peculiare regime sanzionatorio per le omissioni dichiarative».
Per quanto riguarda invece detto termine biennale, occorre fare riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia UE 28 luglio 2016, causa C-332/15 (10), Astone, in cui la Corte, richiamando la sentenza Ecotrade del 2008, ha sostenuto che il termine di decadenza biennale non viola il principio di equivalenza, cioè il principio in base al quale un termine si applica allo stesso modo ai diritti analoghi in materia fiscale fondati sul diritto interno e a quelli fondati sul diritto europeo.
Inoltre, detto termine non è contrario al principio di effettività, atteso che gli artt. 167 e 179 della Direttiva IVA n. 112/2006/CE consentono agli Stati membri di esigere che il soggetto passivo eserciti il proprio diritto a detrazione nello stesso periodo in cui tale diritto è sorto.
Peraltro il nostro ordinamento si è da ultimo adeguato a detto termine annuale in quanto l’art. 2 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, ha modificato l’art. 19, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972, prevedendo che il diritto alla detrazione IVA può essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto stesso è sorto e alle condizioni esistenti alla nascita del diritto medesimo.
La Corte di Giustizia UE, con la sentenza sopra citata, ha inoltre sottolineato che il diniego del diritto a detrazione non può essere considerato contrario al principio di neutralità fiscale in presenza di un comportamento che denoti l’esistenza di una evasione fiscale in quanto il soggetto passivo abbia omesso deliberatamente di rispettare gli obblighi formali allo scopo di sottrarsi al pagamento dell’IVA (nel caso di specie, il contribuente non solo non aveva assolto alcun obbligo formale, omettendo la tenuta dei registri IVA e non presentando la dichiarazione, ma aveva anche omesso le liquidazione periodiche e il versamento dell’IVA dovuta a debito).
Nella successiva sentenza n. 17758/2016, le Sezioni Unite si sono soffermate sull’ambito di operatività dell’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972, al fine di verificare la legittimità dell’iscrizione a ruolo e della conseguente cartella di pagamento aventi ad oggetto il recupero del credito IVA sorto nel precedente periodo d’imposta e per il quale il contribuente aveva omesso la dichiarazione annuale.
Sul punto, si riscontrano due orientamenti di segno opposto nella giurisprudenza di legittimità: il primo (11) riteneva che il mero controllo cartolare di cui all’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972 non consentisse il disconoscimento della detrazione dell’imposta nel caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale, poiché sarebbe stata necessaria un’ulteriore attività di verifica e di valutazione che sfociasse nell’emissione di un motivato avviso di rettifica.
Difatti, l’iscrizione a ruolo e la notifica della cartella di pagamento ai fini IVA sarebbero consentiti solo quando ricorrano le ipotesi tassative indicate dall’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972, ovvero quando «vi sia un errore materiale o di calcolo manifestamente evidente, ovvero quando sussistano dei vizi di forma nella compilazione della dichiarazione o quando si riscontrino indicazioni completamente contraddittorie, sempreché tali vizi ed irregolarità siano intrinseci alla dichiarazione del contribuente».
Secondo tale orientamento, nel caso di omessa dichiarazione IVA nell’anno di imposta precedente con imposta a credito non si potrebbe applicare il controllo automatizzato e cartolare dell’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972, poiché non sarebbe prospettabile una mera attività esecutiva con cui l’Ufficio si limiti a dare attuazione alla dichiarazione del contribuente, ma sarebbe necessario procedere ad un accertamento vero e proprio, nel rispetto delle ordinarie garanzie procedimentali previste dalla legge, che incida sulla posizione sostanziale del contribuente.
Il secondo orientamento (12), di segno opposto e a cui le Sezioni Unite hanno aderito con la sopracitata sentenza n. 17758/2016, si fonda su una interpretazione letterale dell’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972, e, pertanto, sarebbe legittimo l’utilizzo del controllo automatizzato volto a contestare il riporto del credito IVA sorto nel periodo d’imposta precedente, attesa la non incidenza di tale contestazione sulla posizione sostanziale del contribuente.
Difatti, il controllo automatizzato «si fonda su dati ed elementi ricavabili direttamente dalla dichiarazione e presenti nell’anagrafe tributaria» ed è volto «a rimuovere gli errori e le inesattezze risultanti in modo obiettivo dalla dichiarazione, che non comportano giudizi di valutazione ed estimazione delle componenti positive e negative di reddito», sicché si ha una mera attività liquidativa ed esecutiva svolta sulla base di quanto dichiarato dal contribuente.
In tutte le altre ipotesi «in cui il Fisco procede ad una vera e propria interpretazione dei dati indicati nella dichiarazione, non si può parlare di controllo automatizzato, bensì di un autentico accertamento» (13).
Seguendo l’indirizzo avallato dalle Sezioni Unite, si può affermare che laddove il credito IVA portato in detrazione non risulti dalla dichiarazione annuale, sia da considerarsi legittima l’iscrizione a ruolo e la notifica della cartella di pagamento.
I Supremi Giudici, dando continuità a quanto statuito con la precedente pronuncia n. 17757/2016, hanno confermato che in ogni caso il controllo automatizzato non preclude al contribuente la possibilità di provare in giudizio i presupposti sostanziali del diritto alla detrazione IVA.
Orbene, quanto affermato dalle Sezioni Unite appare condivisibile, sebbene, come evidenziato anche da autorevole dottrina (14), venga pressoché ignorata la c.d. comunicazione bonaria da inviare al contribuente sottoposto a controllo automatico nel caso in cui emerga un risultato diverso rispetto a quanto indicato in dichiarazione.
È noto che dalla notifica dell’avviso bonario il contribuente ha trenta giorni di tempo per fornire all’Amministrazione finanziaria dati o elementi non considerati o erroneamente valutati, ovvero versare la somma indicata nel predetto avviso.
La notificazione dell’avviso bonario, che è obbligatoria e quindi non meramente facoltativa, rappresenta un momento in cui l’Amministrazione finanziaria e il contribuente possono attuare un “contraddittorio” rispetto al risultato del controllo automatizzato.
Sul punto è lo stesso Statuto dei diritti del contribuente (art. 6, comma 5) a prevedere che «prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’Amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici a fornire chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta … Sono nulli i provvedimenti emessi in violazione delle disposizioni del presente comma».
Rapportando le predette disposizioni alla pronuncia delle Sezioni Unite, emerge che i giudici hanno completamente ignorato tale necessario confronto tra le parti, allorquando emerga un risultato diverso da quanto dichiarato in sede di controllo automatizzato.
Così facendo però si priverebbe di significato e di utilità la comunicazione bonaria, intesa quale strumento di efficace confronto tra le parti al fine di chiarire la sussistenza degli elementi che dovrebbero consentire al contribuente, che non abbia presentato la dichiarazione annuale relativa all’anno precedente, di riportare il credito d’imposta nell’anno immediatamente successivo.
Tale “contraddittorio” tra le parti consentirebbe di introdurre una sorta di filtro, al fine di evitare un intasamento della giustizia tributaria per delle contestazioni che possono essere risolte in una fase precontenziosa.
In caso contrario, il rischio è quello di abusare del processo tributario, inteso come unica sede dove il contribuente possa dimostrare la sussistenza dei requisiti sostanziali per il diritto alla detrazione IVA.

2. Il rimborso IVA

Come è noto, il credito IVA può essere utilizzato in compensazione dei pagamenti, oppure, nei limitati casi espressamente previsti dalla legge, può essere chiesto a rimborso (cfr. artt. 30 e 34 del D.P.R. n. 633/1972; ad esempio: cessazione di attività, esportazioni, acquisti di beni ammortizzabili e spese per studi e ricerche, operazioni non imponibili superiori al 25 per cento delle operazioni effettuate, etc.)
Il recente D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 (convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225) aveva apportato rilevanti modifiche al sistema dei rimborsi IVA, intervenendo sull’art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972: era stata innalzata a euro 30.000,00 la soglia che consentiva di ottenere i rimborsi IVA senza previa presentazione del visto di conformità e della dichiarazione sostitutiva di atto notorio o della garanzia.
Pertanto, a seguito della modifica, per i rimborsi di importo inferiore a euro 30.000,00 non risultava necessaria la presentazione di alcun documento, mentre per i rimborsi di importo superiore alla predetta somma, i contribuenti potevano scegliere tra l’apposizione del visto di conformità (e la contestuale dichiarazione sostitutiva di atto notorio, con la quale attestare i requisiti di solidità patrimoniale, continuità aziendale e regolarità contributiva) o la presentazione di apposita garanzia. Successivamente con l’art. 3 del D.L. n. 50/2017, la soglia è stata ridotta a euro 5.000.
Tralasciate le novità normative, le questioni che appaiono a mio avviso più rilevanti e di estrema attualità sono due: la legittimazione all’azione di rimborso e la sospensione del rimborso IVA da parte dell’Amministrazione finanziaria in presenza di c.d. carichi pendenti, ossia di giudizi pendenti relativi anche ad altre imposte.
Per quanto riguarda la legittimazione attiva all’esperimento dell’azione di rimborso in caso di versamento di IVA non dovuta (ad esempio, nel caso di errata indicazione dell’aliquota riportata in fattura), la questione tuttora è aperta e appare di non immediata soluzione.
Si confrontano due orientamenti della Corte di Cassazione: un primo orientamento, da sempre ritenuto la strada maestra, che fa leva sul c.d. rimborso mediato, cioè il rimborso richiesto in sede civilistica dal cessionario-committente nei confronti del fornitore.
Come è noto, secondo tale tesi occorrerebbe distinguere il rapporto di carattere pubblicistico tra cedente, debitore d’imposta, e Amministrazione finanziaria e quello di carattere privatistico, dovuto all’obbligo di rivalsa, tra cessionario e cedente.
L’azione in sede civilistica da parte del cessionario nei confronti del fornitore impone a quest’ultimo la presentazione dell’istanza di rimborso per ottenere la restituzione dell’imposta indebitamente versata.
Secondo la Corte di Cassazione in virtù del «principio di non interferenza dei rapporti tra Amministrazione, cedente e cessionario in materia di IVA, l’istanza di rimborso da parte del cessionario deve essere diretta esclusivamente nei confronti del cedente, il quale solo, nella qualità di soggetto passivo d’imposta, è legittimato nei confronti dell’Amministrazione» (15).
Tuttavia, nel caso in cui il cessionario (consumatore finale o operatore economico) non ha l’effettiva possibilità di procedere con la richiesta di rimborso al fornitore, in quanto impossibile o particolarmente difficile, la Corte di Giustizia con la sentenza C-138/12, Rusedespred, dell’11 aprile 2013 (16), ha precisato che «qualora il rimborso dell’IVA divenga impossibile o eccessivamente difficile in base alle condizioni nelle quali le domande di rimborso delle tasse possono essere esercitate, il principio di neutralità nonché il principio di effettività possono imporre che gli Stati membri prevedano gli strumenti e le modalità procedurali necessari per consentire al soggetto passivo (da intendersi destinatario della fattura) di recuperare l’imposta indebitamente fatturata».
Un secondo orientamento, invece, riconosce il rimborso diretto a favore del cessionario-committente.
La Cassazione, da ultimo con la sentenza 6 dicembre 2016, n. 24923 (17), ha affermato che il cessionario è legittimato a chiedere il rimborso dell’IVA direttamente all’Amministrazione finanziaria: «il cessionario che acquisisce beni nell’esercizio di una impresa, a differenza del mero consumatore finale, è egli stesso un soggetto attivo nel rapporto IVA; e come tale può chiedere direttamente all’Erario il rimborso delle somme indebitamente versate (e ad esso Erario pervenute), promuovendo la conseguente controversia tributaria».
Sul punto la Corte di Cassazione richiama una serie di sentenze (18), nelle quali si è affermato che il committente cessionario può instaurare davanti al giudice tributario «ogni controversia utile ai fini della determinazione degli obblighi e dei pesi che su di essi gravano», atteso che l’operatore economico che versa l’IVA dovuta sui beni e servizi acquistati nell’esercizio della sua attività, si inserisce in un sistema di trasferimento “a cascata” dell’IVA che tendenzialmente mira a far sì che l’IVA non incida sull’operatore stesso, ma che si trasferisca sul consumatore finale.
Proprio in tale ambito, l’operatore economico «è titolare di diritti e di pretese che godono di tutela davanti al giudice tributario e che hanno ad oggetto la corretta applicazione dell’imposta».
Affrontata la prima questione, occorre passare al secondo tema, ponendosi il problema se la disciplina dei rimborsi IVA debba essere considerata un sistema chiuso oppure se possa subire l’interferenza di altre normative, fiscali ed extra-fiscali, che impediscano il regolare esercizio del diritto al rimborso.
Faccio riferimento, in particolare, all’ipotesi della sospensione cautelare dei rimborsi IVA, prevista, in via generale, dall’art. 69 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440 (c.d. fermo contabile generale), sia in materia tributaria dall’art. 23 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
È sempre più frequente la prassi dell’Amministrazione finanziaria di bloccare il rimborso IVA, ricorrendo al c.d. fermo amministrativo generale previsto dall’art. 69 del R.D. n. 2440/1923 o al fermo tributario di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 427/1997, in presenza dei c.d. carichi pendenti (giudizi pendenti relativi a tutte le imposte).
A prescindere dall’abuso che l’Amministrazione finanziaria fa di questi strumenti (trattandosi di misure cautelari, dovrebbero essere disposte solamente in casi eccezionali), il problema si pone più in generale con riguardo ai principi europei di effettività del diritto al rimborso e di proporzionalità.
Difatti, la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE ha stabilito il principio in base al quale le eventuali misure cautelari a favore dell’Amministrazione finanziaria, tendendo ad alterare il funzionamento del complesso meccanismo giuridico che tutela la neutralità dell’IVA, sono ammissibili solo nella misura in cui sia assicurato il bilanciamento dell’interesse fiscale alla riscossione con i principi europei di effettività e di proporzionalità.
La questione della compatibilità del fermo amministrativo (ossia della sospensione del rimborso IVA) è stata già affrontata in termini generali dalla Corte di Giustizia CE con la sentenza 18 dicembre 1997, procedimenti riuniti C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, Molenheide e A (19).
In tale sentenza la Corte di Giustizia CE, pronunciandosi sulla normativa belga, che prevedeva la sospensione della restituzione dell’eccedenza IVA mediante sequestro conservativo in caso di controversie in materia di IVA fino alla sentenza passata in giudicato, ha fissato i seguenti principi di diritto:
a) in conformità al principio di proporzionalità, i provvedimenti cautelari di sospensione del rimborso dell’eccedenza IVA «possono essere adottati da uno Stato membro nei limiti in cui essi non eccedano quanto necessario per raggiungere il loro obiettivo, altrimenti arrecherebbero pregiudizio ai principi del sistema comune dell’IVA e, in particolare, al regime delle deduzioni che ne costituisce un elemento essenziale» (par. 48);
b) l’applicazione completa del principio di proporzionalità spetta al giudice nazionale, il quale deve «valutare la compatibilità dei provvedimenti nazionali con il Diritto Comunitario, dato che la Corte è solo competente a fornirgli tutti gli elementi interpretativi attinenti al Diritto Comunitario che possano consentirgli di valutare questa compatibilità» (par. 49);
c) il carattere automatico del fermo amministrativo a seguito di una lite fra Amministrazione e un soggetto passivo non è conforme al principio di proporzionalità se «la necessità e l’urgenza sono presunte in modo inoppugnabile» (par. 51), giacché deve essere l’Amministrazione finanziaria a fornire la prova del carattere necessario ed urgente del provvedimento;
d) il giudice nazionale adito avverso il provvedimento cautelare può revocare detto provvedimento anche sulla base di una valutazione prima facie nel merito della maggiore pretesa IVA dell’Amministrazione: «disposizioni legislative o regolamentari che comportino l’impossibilità per il giudice adito nel merito di pronunciare la revoca, totale o parziale, della trattenuta del saldo IVA da restituire prima che la pronuncia nel merito divenga definitiva, sarebbero sproporzionate» (par. 57);
e) deve essere riconosciuta al soggetto passivo la possibilità di richiedere la sostituzione della misura cautelare con la prestazione di una cauzione o di una garanzia bancaria (par. 58), che deve essere proporzionata all’importo dell’eccedenza IVA da rimborsare, potendosi tener conto anche delle dimensioni economiche del soggetto passivo;
f) in caso di revoca del fermo amministrativo «il calcolo degli interessi dovuti dall’Erario, che non prenda come decorrenza il giorno in cui il saldo IVA controverso avrebbe normalmente dovuto essere restituito, sarebbe contrario al principio di proporzionalità» (par. 64), sicché nel nostro ordinamento, nel caso di revoca del fermo amministrativo, gli interessi devono decorrere dalla richiesta di rimborso.
I principi affermati dalla Corte di Giustizia pongono seri problemi di compatibilità con il fermo amministrativo ex art. 69 del R.D. n. 2440/1923 ed ex art. 23 del D.Lgs. n. 472/1997: per sbloccare il rimborso IVA, l’Amministrazione finanziaria richiede una “seconda fideiussione”, senza limiti di tempo (sine die), commisurata all’ammontare delle liti pendenti relative anche ad altri tributi e comunque di entità non superiore all’ammontare dell’IVA da rimborsare.
Accanto alla fideiussione triennale prevista per la procedura di rimborso (art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972), che ha la funzione di garantire l’Amministrazione finanziaria nel caso di non spettanza dell’IVA rimborsata, la seconda fideiussione, secondo l’Amministrazione, ha una funzione diversa, quella di garantire i possibili crediti relativi alle liti pendenti.
Orbene, è evidente che questa “seconda” misura cautelare viola i principi di effettività e di proporzionalità così come sopra individuati, ponendosi in aperto contrasto con il principio di neutralità dell’IVA.
Come si è visto, la Corte di Giustizia ha giudicato sproporzionata la procedura cautelare di riscossione prevista dal sistema belga, dal momento che essa andava oltre quanto strettamente necessario per raggiungere il proprio scopo, arrecando un pregiudizio «ai principi del sistema comune dell’IVA».
Il carattere sine die della sospensione del rimborso dell’eccedenza dell’IVA detraibile che ne deriva, rischia infatti di condurre ad una negazione sistematica e generale del diritto al rimborso: questo, invece, deve essere effettuato entro un termine ragionevole (20).
La prassi seguita dall’Amministrazione finanziaria italiana con riguardo al fermo amministrativo, sarebbe in contrasto con «uno degli elementi fondamentali a garanzia dell’applicazione del principio di neutralità del sistema comune dell’IVA, le cui modalità stabilite dagli Stati membri non possono essere tali da ledere questo principio facendo sopportare al soggetto passivo, in tutto o in parte, gli oneri dell’IVA … Il rimborso deve essere effettuato entro un termine ragionevole, mediante pagamento con somme liquide … Comunque, il sistema di rimborso adottato non deve far correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo» (21).
Inoltre, la Corte di Giustizia ha sottolineato come «secondo una costante giurisprudenza, lo Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini imposti da una direttiva» (22).
Alla luce di tale giurisprudenza, la prassi dell’Amministrazione finanziaria italiana di operare con riguardo all’IVA il “fermo amministrativo generale” di cui all’art. 69 del R.D. n. 2440/1923 e il “fermo amministrativo tributario” di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 472/1997, dovrebbe considerarsi del tutto illegittima, in quanto violerebbe apertamente i principi europei sopra esposti.

3. La dichiarazione integrativa IVA alla luce delle recenti modifiche legislative

È ormai pacifico che la dichiarazione tributaria ha natura di dichiarazione di scienza, o, come anche si suole dire, di manifestazione di scienza e, direi anche, di giudizio, atteso che il contribuente, prima ancora che l’Amministrazione finanziaria, è chiamato al difficile compito di interpretare le norme tributarie al fine di applicare correttamente la disciplina delle imposte in sede di dichiarazione.
La dichiarazione, proprio per la sua natura, è emendabile e ritrattabile e ciò consente al contribuente di prospettare elementi di fatto e o di diritto ulteriori rispetto a quanto originariamente indicato.
Sul punto, si richiama la fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite del 25 ottobre 2002, n. 15063 (23), con cui si è affermato definitivamente che è «corretta ed accettabile la tesi che afferma, in linea di principio, emendabile e ritrattabile ogni dichiarazione dei redditi (e, quindi, anche ogni dichiarazione tributaria) che risulti, comunque, frutto di un errore del dichiarante nella relativa redazione, sia tale errore testuale o extratestuale, di fatto o di diritto, quando da essa possa derivare l’assoggettamento del contribuente ad oneri contributivi diversi, e più gravosi, di quelli che per legge devono restare a suo carico».
La questione è da sempre stata oggetto di accesi e complessi dibattiti, sia a livello dottrinale (24) che giurisprudenziale e, principalmente, ha avuto per oggetto il diverso limite “temporale” per la presentazione della dichiarazione integrativa a favore e a sfavore del contribuente.
La dichiarazione integrativa a favore del contribuente poteva essere proposta entro uno strettissimo termine di tempo, ossia quello previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, mentre quella a sfavore era proponibile entro i termini di decadenza per l’accertamento.
Per ovviare a tale disparità, ci si è chiesti sin da subito se l’integrativa a favore fosse l’unico mezzo utilizzabile dal contribuente per correggere errori od omissioni o se si potesse comunque agire, oltre i termini previsti, con una istanza di rimborso.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità (25) ha affermato la “coesistenza” di entrambi gli istituti, atteso che i relativi ambiti applicativi erano ben diversi e non sovrapponibili.
Difatti la natura della dichiarazione integrativa e dell’istanza di rimborso è ben diversa: la prima, svolge la stessa funzione di quella originaria, ossia quella di liquidare correttamente l’imposta dovuta a cura del contribuente e di mettere l’Ufficio nella condizione di potere svolgere l’attività di controllo e di accertamento; la seconda, non ha natura di dichiarazione di scienza, bensì di volontà e non è un atto collaborativo con cui si fornisce una nuova visione del presupposto impositivo, ma è semplicemente un atto con cui si chiede la restituzione di quanto pagato in eccesso, per reintegrare la sfera patrimoniale del contribuente.
La questione è stata di recente affrontata dalle Sezioni Unite, che, con la sentenza n. 13378/2016 del 30 giugno 2016 (26), hanno confermato che la ritrattazione a favore del contribuente «può essere esercitata soltanto entro il termine (strettissimo) di presentazione della dichiarazione successiva, utilizzando il credito emergente in compensazione ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 241/1997» e, al contempo, che lo stesso può, entro il termine di decadenza (per l’IVA il termine generale stabilito dall’art. 21 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) di due anni dal versamento proporre istanza di rimborso.
Secondo i Supremi Giudici il rimborso sarebbe del tutto autonomo rispetto all’integrativa, attesa la diversa natura degli istituti, il diverso campo di applicazione delle relative discipline (l’uno relativo alla riscossione, l’altro all’accertamento), e la “specificità funzionale dell’integrativa”, che consente la sola compensazione dell’eccedenza versata.
Orbene, nella sentenza citata è stata confermata la legittimità della disparità di trattamento temporale tra integrativa a favore e a sfavore del contribuente, ad avviso della dottrina (27), del tutto ingiustificata.
Da lungo tempo si era affermato che la completezza dell’ordinamento si sarebbe avuta solo se la ritrattazione della dichiarazione potesse essere fatta entro i termini dell’accertamento da parte dell’Ufficio finanziario, con la conseguente possibilità per il contribuente di ricorrere al giudice tributario avverso l’atto di rettifica da parte della stessa Amministrazione finanziaria (28).
Possiamo certamente affermare che il tentativo di razionalizzazione della materia compiuto dai giudici è stato assolutamente inadeguato: il sistema continuava ad essere farraginoso poiché per ottenere il riconoscimento, oltre il termine previsto per la integrativa a favore, delle imposte versate in eccesso a causa di errori od omissioni era necessario presentare l’istanza di rimborso, seguita dalla più che probabile impugnazione avverso il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria.
Va riconosciuto che la pronuncia delle Sezioni Unite ha avuto comunque il merito di sollecitare una organica revisione dell’intera disciplina della ritrattabilità della dichiarazione, che si è compiuta con l’art. 5 del citato D.L. n. 193/2016 (c.d. decreto fiscale), il quale ha modificato i commi 6-bis, 6-ter, 6-quater e 6-quinquies, dell’art. 8 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, riguardanti la nuova dichiarazione integrativa ai fini IVA.
I termini per la presentazione della dichiarazione integrativa ai fini IVA (come anche per le imposte sui redditi, per l’IRAP e per il sostituto d’imposta) è stato allineato al termine per l’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria (31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione originaria).
Vi è da sottolineare come il profilo temporale relativo alla presentazione della dichiarazione integrativa rileva ai fini dell’utilizzo in compensazione del credito d’imposta.
Nel caso in cui la dichiarazione integrativa sia proposta entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, il credito emergente dall’integrativa potrà essere utilizzato in compensazione ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, ovvero utilizzato in detrazione all’atto della liquidazione o, ancora, richiesto a rimborso se sussistono i presupposti di legge.
Laddove, invece, la dichiarazione integrativa venga presentata successivamente (quindi, oltre l’anno), il credito potrà essere utilizzato in compensazione per eseguire il pagamento dei soli debiti d’imposta maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione integrativa, ovvero chiesto a rimborso con la stessa dichiarazione integrativa.
Nella dichiarazione IVA relativa al periodo d’imposta in cui è presentata la dichiarazione integrativa, dovrà essere indicato il credito d’imposta derivante dall’integrativa stessa. Ciò, ovviamente, al fine di agevolare l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria.
Dal momento della presentazione dell’integrativa maturano nuovi termini per l’accertamento, che può investire solo gli elementi oggetto dell’integrazione: questo a dimostrazione del fatto che la dichiarazione integrativa non sostituisce la dichiarazione originaria.
La nuova normativa consente espressamente al contribuente di far valere in giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile o di un maggiore debito d’imposta.
Questa disposizione avvalora la tesi consolidata della Corte di Cassazione che il giudizio tributario è un giudizio da configurarsi come di impugnazione-merito, per cui il giudice può decidere sull’intero rapporto tributario, e quindi a prescindere dalla preesistenza di un atto di accertamento.
In ogni caso, l’intervento normativo ha, da un lato, disciplinato organicamente la materia; dall’altro lato, ha comunque fatto salva la possibilità per il contribuente di far valere in sede di accertamento o di giudizio eventuali errori di fatto o di diritto che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria.
Come si vede le problematiche dell’IVA non finiscono mai!

Prof. Maurizio Logozzo
Ordinario di Diritto Tributario
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

* Il contributo è destinato alla Raccolta di scritti in onore di Gianfranco Gaffuri di prossima pubblicazione.
(1) In Boll. Trib. On-line.
(2) Tutte in Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib. On-line.
(4) In Boll. Trib. On-line.
(5) Entrambe in Boll. Trib. On-line.
(6) Cfr. Cass. 20 gennaio 1997, n. 544, in Boll. Trib., 1997, 1748.
(7) Cfr. Cass., sez. trib., 9 febbraio 2001, n. 1823, in Boll. Trib., 2001, 707; Cass., sez. trib., 12 gennaio 2012, n. 268; Cass., sez. trib., 25 luglio 2012, ord. n. 13090; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(8) In Boll. Trib., 2012, 1237.
(9) In Boll. Trib., 2013, 931.
(10) In Boll. Trib. On-line.
(11) Cfr. Cass., sez. VI, 3 aprile 2012, ord. n. 5318; Cass., sez. trib., 15 febbraio 2013, n. 3755; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(12) Cfr. Cass., sez. trib., 22 aprile 2009, n. 9564; Cass., sez. trib., 4 maggio 2010, n. 10674; Cass., sez. VI, 16 ottobre 2012, ord. n. 17754; tutte in Boll. Trib. On-line.
(13) Così, da ultimo, Cass., sez. trib., 29 ottobre 2014, ord. n. 22902, che richiama Cass., sez. trib., 6 agosto 2008, n. 21176, entrambe in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 26 gennaio 2007, n. 1721, ivi; Cass., sez. trib., 16 settembre 2005, n. 18415, in Boll. Trib., 2006, 704; Cass., sez. trib., 17 marzo 2000, n. 3119, in Boll. Trib. On-line.
(14) Cfr. A. COMELLI, Disconoscimento formale del credito IVA in caso di omessa dichiarazione relativa all’anno d’imposta precedente, in Riv. giur. trib., 2017, 1, 5.
(15) Così Cass., sez. trib., 26 febbraio 2011, n. 4625, in Boll. Trib. On-line.
(16) In Boll. Trib. On-line.
(17) In Boll. Trib. On-line.
(18) Cass., sez. un., 31 luglio 2008, n. 20752, in Boll. Trib., 2009, 399; Cass., sez. un., 17 aprile 2009, n. 9107, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. un., 13 gennaio 2010, n. 355, in Boll. Trib., 2010, 380; Cass., sez. un., 26 ottobre 2010, n. 18425, in Boll. Trib. On-line.
(19) In Boll. Trib. On-line.
(20) Corte Giust. UE, sez. VII, 16 marzo 2017, causa C-211/16, Bimotor, in Boll. Trib. On-line.
(21) Corte Giust. CE, sez. V, 25 ottobre 2001, causa C-78/00, Commissione c. Italia, in Boll. Trib., 2001, 1663: si tratta della sentenza con cui l’Italia è stata condannata per aver tardato i rimborsi IVA concessi, peraltro, mediante l’assegnazione di titoli di Stato.
(22) Corte Giust. CE causa C-78/00, cit.; Corte Giust. CE, sez. III, 14 giugno 2001, causa C-473/99, Commissione c. Austria, in Boll. Trib. On-line.
(23) In Boll. Trib., 2002, 1658, con nota di G. RESTIVO, In tema di ritrattabilità della dichiarazione dei redditi.
(24) Cfr. M. LOGOZZO, Le SS.UU. della Cassazione riconoscono la ritrattabilità della dichiarazione tributaria, in Corr. trib., 2003, 1, 55.
(25) Cfr. Cass., sez. I, 8 giugno 2007, n. 13484, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 19 ottobre 2007, n. 21944, in Boll. Trib., 2007, 1293, con nota di C. CIPOLLINI, L’emendabilità della dichiarazione IVA nel termine quadriennale previsto per la rettifica ad opera dell’Ufficio rimane soggetta ai termini di decadenza previsti per l’istanza di rimborso e il ricorso contro il ruolo; Cass., sez. trib., 10 marzo 2008, n. 6331, ivi, 2008, 1290.
(26) In Boll. Trib. On-line.
(27) Cfr. A. CARINCI – D. DEOTTO, Dichiarazione a favore del contribuente e istanza di rimborso dopo la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, in il fisco, 2016, 32, 1; e M. NUSSI, L’emendabilità della dichiarazione: l’occasione persa dalle Sezioni Unite, in Riv. giur. trib., 2016, 12, 936.
(28) Cfr. E. DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2011, 302.

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