15 Giugno, 2018

1. Nemo ultra posse

Giurisprudenza oggi pacifica, alla luce – semplificando all’estremo – del criterio nemo ultra posse (1).
Il soggetto destinatario della notifica a mezzo posta di una sentenza a lui sfavorevole, infatti, se determinato a impugnarla avanti la Suprema Corte, lo deve fare nel perentorio termine – cosiddetto breve – di sessanta giorni dalla sua notificazione (artt. 325, secondo comma, e 326, primo comma, c.p.c.), depositando nella Cancelleria della Corte, oltre al ricorso, una copia autentica della decisione impugnata munita della competente relazione di notificazione [art. 369, secondo comma, n. 2), c.p.c.] (2).
Ora, è del tutto intuitivo che egli non è fisicamente in grado di produrre anche l’avviso di ricevimento, restituito al notificante dall’operatore postale alla fine dell’iter notificatorio. Si verte, a ben vedere, su un documento che non è (mai stato) nella sua materiale disponibilità, essendo semmai in possesso del richiedente la notifica. Ergo, penalizzare per ciò solo il soggetto destinatario della notifica con l’improcedibilità del gravame – sanzione che, per espresso disposto normativo, tiene dietro alla violazione delle formalità contemplate dall’art. 369 c.p.c. – contrasterebbe con il principio costituzionale, di estrazione pretoria e corollario del giusto processo, in base al quale l’adizione della tutela giurisdizionale non può essere gravata di oneri eccessivi (3).
Riepilogando, se è vero che la previsione normativa è funzionale al doveroso riscontro, da parte del giudice ad quem, della tempestività del termine breve utile alla rituale impugnazione (con la conseguenza che l’eventuale produzione, da parte del ricorrente, di una copia autentica della sentenza impugnata monca della relata di notifica comporta a suo carico la dichiarazione di inammissibilità del ricorso quand’anche la controparte si sia astenuta dal contestare lo specifico profilo) (4); se è vero altresì che la documentazione richiesta può essere depositata anche separatamente (e non necessariamente “insieme al ricorso”, nel senso di coincidenza temporale, purché però entro il termine edittale) (5); resta il fatto che l’avviso di ricevimento sarà prodotto dalla controparte – quella che la notifica ha ottenuto – qualora interessata a censurare il rispetto della tempistica.

2. L’esercizio del potere di autotutela

A fronte di una querelle delle più longeve, magmatiche e tortuose che la storia del nostro rito tributario ricordi (6), il teorema del diritto vivente è quello ormai arcinoto: l’esercizio dell’autotutela tributaria, istituto codificato nel nostro ordinamento in epoca relativamente recente (7), è rimesso alla discrezionalità dell’ente impositore, il quale ne deve fare uso unicamente in funzione del «ripristino della legalità in sintonia con il pubblico interesse» (8); e dunque le singole, concrete fattispecie sottese (quelle, non si dimentichi, fatte di carne ed ossa, talora persino di stille di sangue), lungi dal rivelarsi insindacabili perché ciò contrasterebbe con il dettato costituzionale (9), possono sì essere fatte oggetto di scrutinio ad opera del giudice naturale (appunto – e pacificamente, oggi – quello tributario) (10), ma solo nell’ambito di fenomenologie di invalidità che, a prescindere da eventuali difetti propri dell’atto nuovo (ad esempio, quelli di sottoscrizione, di notifica, di insanabile contraddizione sostanziale interna), abbiano, insieme con quello privato, intaccato l’interesse pubblico. Solo a queste restrittive condizioni può essere eccezionalmente (e comunque con pressanti vincoli contenutistici) “bypassato” lo scoglio della irreversibilità di un rapporto reso definitivo a monte dalla mancata, tempestiva impugnazione del momento impositivo (11). Concetto a valere comunque si atteggi la risposta negativa dell’Ufficio finanziario, ovverosia tanto in forma espressa (12), quanto in forma implicita (13).
Principale scopo dell’impianto risiede nello scongiurare l’aggiramento, che altrimenti si realizzerebbe, della preclusione statuita dall’art. 21 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il quale, fissando il termine perentorio di sessanta giorni utile all’impugnazione, si erge ad architrave del canone della certezza del diritto; è stata dunque recisamente esclusa l’eventualità che lo ius poenitendi possa piegarsi a mezzo di tutela succedaneo dei rimedi giurisdizionali che il contribuente abbia per qualche ragione omesso di esperire (14) e che invano, una volta “perso il treno”, egli cerchi – “surretiziamente” si usa dire – di accampare attraverso una sostanziale rimessione in termini non codificata. Detto in altro modo: in vista della pace sociale, occorre salvaguardare «le imprescindibili finalità ordinamentali volte a perseguire e valorizzare la definitività dell’assetto giuridico sostanziale (oltre che processuale) del rapporto controverso; evitando al contempo che quest’ultimo possa trovare regolazioni fra esse confliggenti» (15). Insomma, il primato va assegnato alla certezza del diritto, alla stabilità nella circolazione delle ricchezze: ciò che rende irreversibile, una volta attestatosi, il regolamento dei rapporti specifici; unica ipotesi che permette di scalfire il dogma, ancorché materializzato in una sentenza passata in giudicato, è lo scorretto uso fatto dalla pubblica Amministrazione della potestas corrigendi conferitale dal sistema. Potestas – come detto – da riassorbire, più che nella nozione di potere-dovere, in quella della discrezionalità.
Ne consegue, con le parole della Corte Suprema, che «il sindacato giurisdizionale può esercitarsi soltanto sulla legittimità del rifiuto stesso da parte dell’Amministrazione finanziaria, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che ne giustificano l’esercizio, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria» (16). Con accollo al contribuente dell’onere probatorio – non precisamente leggero – di prospettare l’esistenza di siffatte ragioni diffuse, di portata e interesse collettivi (17); in difetto di che egli incapperebbe nella sanzione di «inammissibilità per difetto di una posizione giuridica tutelabile» (18).
Tale – in una dinamica palesemente precaria e tormentata, a cui hanno tentato di trovare una via d’uscita improntata a ragionevolezza alcuni studiosi (19) e certe Corti di merito (20) – il filone (di gran lunga) prevalente, malgrado alcune non irrilevanti pause concessesi dal giudice della legittimità (21).
Filone massimamente espresso dalla già richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 3698/2009 (22), a cui la decisione in commento si allinea in toto pur riconoscendo l’esistenza di una corrente alternativa (23), peraltro sbrigativamente archiviata con un’argomentazione di cui il meno che si possa predicare è il disinvolto massimalismo ai limiti del preconcetto. Corrente alternativa (minoritaria ma non isolata) (24) viceversa nient’affatto trascurabile, mirata com’è a privilegiare le peculiari implicazioni dell’annullamento parziale di un atto impositivo, con il quale la pubblica Amministrazione, in (ripeto: parziale) accoglimento delle rimostranze mosse dall’interlocutore a fronte di un rapporto ormai esaurito (nella circostanza trattata, però, si ignora se per ragioni di diritto o di fatto), abbia ridimensionato la propria pretesa.
Opportunamente la sentenza della Sezione Tributaria n. 14243/2015 ha osservato come la soluzione apoditticamente negativa avrebbe arbitrariamente privato il contribuente «della possibilità di difesa relativamente a tale atto [il secondo, quello emanato in parziale autotutela]» (25). Atto, quest’ultimo, che infatti, riportando il responso ultimo dell’Amministrazione finanziaria, si puntella (meglio: si deve meditatamente puntellare, non potendo la pubblica Amministrazione farla franca allargando le braccia, appiattendosi su una sorta di possideo quia possideo) su una motivazione tecnicamente nuova (in quanto adottata a rilettura, seppure parziale, di quella su cui fondava il precedente enunciato), che informa una nuova e «ben individuata pretesa tributaria», corredata – come non può che essere – dalle (nuove) ragioni, fattuali e giuridiche, che la ispirano. In buona sostanza, il provvedimento emendativo è altro rispetto a quello emendato, frutto cioè di una riconsiderazione – integrale o in parte qua che sia – delle ragioni del contribuente (26). In estrema sintesi: nuova valutazione → nuova motivazione → nuovo provvedimento.
Sbagliano di riflesso le Sezioni Unite nel sostenere – come fanno con la citata sentenza n. 3698/2009 – che, se avesse avuto recriminazioni da svolgere, il contribuente avrebbe dovuto pensarci prima, contestando per tempo il provvedimento causativo del presunto danno (una specie di “nel più sta il meno”): ora che “l’autobus è passato”, tutto quanto di buono gli capita è manna dal cielo, quindi imputet sibi per la sua dabbenaggine. In fondo, non dice il proverbio che “a caval donato …”?
A chi scrive – che ai cavalli donati non crede, tanto meno ove in discussione sia un rapporto d’indole pubblicistica quale l’inflizione tributaria – preme, in primis, rimarcare come l’iter ermeneutico or ora evocato ricalchi la distinzione emersa, in campo amministrativo, fra “atto confermativo” e “atto meramente confermativo”. Distinzione secondo la quale quando l’Amministrazione finanziaria, interpellata con un’istanza di riesame, si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento senza mettere mano a una nuova istruttoria e senza di conseguenza elaborare una nuova motivazione, siamo in presenza di un atto meramente confermativo (c.d. “conferma impropria”), l’unico dei due che non apre all’impugnazione, non rappresentando un’autonoma determinazione dell’Amministrazione stessa (sia pure identica nel contenuto alla precedente), ma solo la asettica e tautologica manifestazione della volontà di non ritornare sulle scelte già effettuate.
A ben vedere, tuttavia, una simile opzione dovrebbe rendersi tendenzialmente impraticabile perché, se l’autotutela muove da un’apposita istanza, l’Ufficio finanziario – stante la disciplina in subiecta materia riportata sopra (27) e alla stregua dell’art. 2, primo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo, indubitabilmente applicabile anche al procedimento tributario (28) – deve (29) fornirle un riscontro motivato, quindi imbastito tramite un ripensamento che – coincida o meno, negli esiti, con il precedente – assume i connotati dell’autonomia rispetto a tutto il pregresso, ergo si configura come originale e per ciò stesso come autonomamente impugnabile.
Peccato poi che l’equazione fra le due situazioni, amministrativa e tributaria – cui dottrina e giurisprudenza indulgono per lo più tralaticiamente – risulti quanto meno frettolosa (30).
Si è già ricordato come, ancora di recente, la giurisprudenza amministrativa abbia sottolineato l’insufficienza della mera illegittimità dell’atto ad abilitare la pubblica Amministrazione a ritornare sui propri passi, occorrendo al contrario la comparazione fra gli interessi (vuoi quello pubblico di contro a quello privato, vuoi quelli privati tra loro) in modo che affiori l’interesse pubblico attuale alla correzione di rotta; difformemente l’atto pubblico perderebbe per strada la sua indispensabile connotazione di discrezionalità (31).
Ebbene siffatti paradigmi non sono trasferibili tout court nel nostro ambito, come la migliore dottrina ha colto da tempo mettendo in risalto le “enormi differenze” fra i due settori (32).
Il perché è presto detto: α) l’inflizione tributaria è un’attività vincolata, non discrezionale (33); β) la macchina pubblica ha il dovere, non l’ubbia, di applicare la tassazione corretta, in linea con i vincoli costituzionali scolpiti nella Costituzione agli artt. 23 (riserva di legge in materia di imposizione), 53 (dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva individuale) e 97 (buon andamento e dovere di imparzialità), i quali, tanto più nel loro insieme, reggono alla prova di resistenza opposta dal principio della certezza del diritto (viceversa non eretto a rango costituzionale ma costituente semplice postulato del sistema); γ) la richiesta di emenda avanzata dal contribuente o – il che è lo stesso – l’iniziativa nell’identica direzione assunta sua sponte dall’Amministrazione finanziaria non possono scontrarsi con inesistenti interessi privati contrari, ergo l’interesse pubblico in gioco è solo quello, massimo, alla correttezza e alla lealtà (34), di riconosciuto livello paracostituzionale nella gerarchia delle fonti (35).
Aggiungerei che c’è un altro perché, esponenziato dal raggiunto riconoscimento della giurisdizione generale del giudice tributario: alla luce di tutti i fattori appena illustrati, e benché la categoria sia andata con il tempo smarrendo la sua pregnanza dogmatica, la posizione giuridica del contribuente va qualificata come diritto soggettivo e non come interesse legittimo. Posizione (36) che, solo (!) un ventennio addietro, aveva fatto incrinare più di un sopracciglio e che oggi non desta più scandalo, se è vero che uno studioso dei più resilienti è stato il primo a fare il passo successivo, convenendo che «dispiegandosi una giurisdizione sostanzialmente esclusiva, non regge più, ai fini della denegatio jurisdictionis, l’assunto che l’Amministrazione finanziaria eserciti, nel caso concreto, un’attività discrezionale, atteso che qualsiasi provvedimento, sempreché lesivo della sfera giuridica del contribuente, rientra automaticamente nella giurisdizione piena delle Commissioni» (37).
Al quale Autore va riconosciuto il notevole sforzo di identificare le “tre distinte vicende” attraverso le quali, secondo lui, è lecito dare ingresso alla rivisitazione, in sede giurisdizionale, di un deprecato malo uso fatto dalla pubblica Amministrazione dell’autotutela tributaria pur a fronte di un precedente atto impositivo di cui sia tramontata, a causa del mero decorso del tempo, l’opportunità di impugnazione. Tre vicende, e cioè: «a) accadimento di eventi sopravvenuti dei quali il giudice tributario accerta l’idoneità ad incidere con efficacia novativa sulla originaria pretesa siccome costituita da provvedimenti impositivi inopponibili; b) elementi nuovi (in fatto e in diritto) fatti valere dal contribuente non valutati dall’Amministrazione finanziaria in occasione della confezione del provvedimento impositivo che formano oggetto di apposita attività istruttoria all’esito della quale l’Ufficio emana un provvedimento impositivo sostitutivo del precedente (divenuto definitivo); c) vizi di merito del provvedimento impositivo inopponibile dedotti dal contribuente mediante l’istanza di autotutela che, nonostante la loro gravità e rilevanza, non inducono l’Amministrazione finanziaria a rinnovare l’istruttoria e danno luogo a provvedimenti di mero rigetto (o di silenzio-rigetto) variamente motivati (o nient’affatto motivati)» (38).
Indicazioni pienamente condivisibili; e apprezzabili soprattutto perché, in consonanza con il sistema (39), aprono squarci fino a ieri inimmaginabili sul fronte della rilettura giudiziaria – a seguito di richiesta di autotutela – del rapporto tributario coperto da un provvedimento definitivo.
Avv. Valdo Azzoni

(1) Cfr. Cass., sez. trib., 19 settembre 2014, n. 19750, in Boll. Trib., 2015, 914, con nota di D. CARNIMEO, In caso di atti notificati a mezzo posta, l’indisponibilità dell’avviso di ricevimento da parte del destinatario rende meno rigorosa la verifica sulla tempestività del ricorso.
(2) Cfr. Cass., sez. VI, 10 dicembre 2010, ord. n. 25070, in Boll. Trib. On-line; insufficiente, fra gli altri casi, il deposito di una mera copia fotostatica (cfr. Cass., sez. I, 1° dicembre 2005, n. 26222, in Mass. giur. it., 2005). In difetto di notificazione la sentenza passa in giudicato allo scadere dei sei mesi dal suo deposito (art. 327, primo comma, c.p.c.).
(3) Cfr. Cass. n. 19750/2014, cit. Ad ogni buon conto merita attenzione la seguente fattispecie: se è lo stesso ricorrente ad allegare, nel suo ricorso in cassazione, che la sentenza che ne è oggetto gli è stata effettivamente notificata (confessione giudiziale), gli eventuali errori procedurali commessi si ritorcono ugualmente contro di lui, di talché il ricorso è dichiarato improcedibile (Cass., sez. trib., 29 novembre 2011, n. 25237, in Boll. Trib. On-line). Altrimenti, la mancata notificazione si presume e di conseguenza si presume pure il decorrere del termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c. (cfr. Cass., sez. VI, 15 marzo 2013, ord. n. 6706, ivi).
(4) Cfr. Cass., sez. un., 16 aprile 2009, ord. n. 9005, in Giur. it., 2010, 382; e Cass., sez. trib., 17 marzo 2017, n. 6918, pubbl. in questo stesso fascicolo a pag. 648.
(5) Cfr. Cass., sez. un., 25 novembre 1998, n. 11932, in Giur. it., 1999, 1584.
(6) Di «partita spinosa operativamente e delicata sotto il profilo dogmatico» parla – per allora come anche per ora – S. MUSCARÀ, La Cassazione chiude (apparentemente) le porte alla tutela giurisdizionale in tema di diniego di autotutela, in Boll. Trib., 2009, 501. Nel contributo si legge che la valutazione successiva degli eventi sopravvenuti al maturato esaurimento del rapporto, ove ritualmente offerti in documentazione a cura del contribuente invocante l’autotutela, costituisce, a carico dell’Amministrazione finanziaria, un obbligo comportamentale di conformarsi agli eventi estintivi della pretesa. Sull’approfondita riflessione dell’Autore, già intrapresa in S. MUSCARÀ, Autotutela V) Diritto tributario [in dettaglio nel par. 4, dal titolo Tutela giurisdizionale a fronte dei provvedimenti negativi assunti dall’Amministrazione (anche nelle forme del silenzio-rigetto)], in Enc. giur. Trecc., Roma, 2005, IV, e proseguita con Le Sezioni Unite scrivono un ulteriore capitolo in tema di impugnabilità del diniego di autotutela, in Boll. Trib., 2009, 833, si tornerà in sede di considerazioni finali.
(7) Ved. artt. 68, primo comma, del D.P.R. 27 marzo 1992, n. 287, e 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656). Regime di poi opportunamente integrato con il regolamento di esecuzione approvato con il D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, il cui illuminante art. 3 stabilisce sia data «priorità alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso». Se ne deve arguire che, stando alle direttive superiori, la pendenza o il timore di una pandemia giudiziaria sul punto devono essere letti dalla pubblica Amministrazione come pungoli al ristabilimento del vero e del giusto in un’ottica di pubblico interesse. Anche su questo profilo, in sé comprensibile ma non appieno convincente nel complessivo contesto, si tornerà nel corso della presente nota.
(8) Per tutte cfr. Cass., sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26313, in Boll. Trib. On-line.
(9) Ved. gli artt. 24 Cost. («1. Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. 2. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento») e 113 Cost. («1. Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. 2. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. 3. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa»).
(10) Per tutte cfr. Cass., sez. un., 6 febbraio 2009, n. 2870, in Boll. Trib., 2009, 474, con nota di V. FICARI, Diniego di autotutela negativa e Sezioni “disunite” della Cassazione. La giurisdizione generale ratione materiae (dunque esclusiva, e insieme piena, perché non circoscritta ai vizi formali/procedurali ma estesa al merito) risulta affidata senza più margini di dubbio al giudice tributario sulla scorta della riforma dell’art. 2, primo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (come sostituito dall’art. 12, secondo comma, della legge 28 dicembre 2001, n. 448), nella lettura datane dal Giudice delle leggi (cfr. Corte Cost. 14 maggio 2008, n. 130, in Boll. Trib., 2008, 1304), che ha appunto statuito la giurisdizione assorbente delle Commissioni tributarie sull’intero spettro del comparto fiscale, eleggendole, con clausola generale, a giudice naturale della branca (ex pluribus cfr. Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, in Boll. Trib., 2005, 1828; e Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7388, ivi, 2007, 1223, con nota di F. CERIONI, Il sindacato sulla legittimità del diniego di autotutela spetta sempre ai giudici tributari, seguite da S. SERVIDIO, Autotutela. Impugnazione del diniego, ivi, 2010, 1599). Il superamento del contrasto fra gli artt. 2 e 19 del D.Lgs. n. 546/1992 ha costituito un passaggio tutt’altro che indolore e va ascritto a merito di Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, ord. n. 22245, in Boll. Trib., 2007, 1641, con nota di P. MINUTOLI, Interrogativi in ordine alla fattura come veicolo di accesso al processo tributario, che ha distinto fra ambito della giurisdizione, tracciato dall’art. 2, e condizioni per la proponibilità della domanda, definite dall’art. 19 del citato D.Lgs. n. 546/1992. Falso problema, dunque, il bisticcio logico fra le due disposizioni, poiché «la mancata inclusione degli atti in contestazione [assunti in autotutela] nel catalogo contenuto in detto articolo [il 19] comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli artt. 24 e 113 Cost. Infatti, il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione (Cass., S.U., ordinanza n. 13793/2004)».
(11) Cfr. Cass., sez. trib., 3 luglio 2012, ord. n. 11127, in Boll. Trib. On-line.
(12) Cfr. Cass. n. 2870/2009, cit.; e Cass., sez. un., 16 febbraio 2009, n. 3698, in Boll. Trib., 2009, 547.
(13) Nel caso di totale inerzia opposta dall’Ufficio finanziario alla richiesta di autocorrezione cfr. Comm. trib. reg. della Puglia, sez. XIV, 9 gennaio 2012, n. 3, in Boll. Trib., 2012, 461, con nota di V. AZZONI, L’istanza di autotutela va sempre riscontrata da parte dell’Amministrazione finanziaria e la verifica della legittimità dell’eventuale rifiuto spetta al giudice tributario. Si legge nella decisione richiamata: «A fronte di una motivata domanda di autotutela, rivolta dal contribuente all’Amministrazione finanziaria in relazione ad una cartella di pagamento emessa in forza di una precedente sentenza passata in giudicato per mancata impugnazione, il giudice tributario, avanti al quale il privato abbia impugnato il silenzio opposto dalla mano pubblica, deve verificare la legittimità di detto silenzio e non la legittimità della cartella, [anche se] tuttora sub iudice perché impugnata con separato gravame, verificando se l’Ufficio ha titolo per sottrarsi al dovere di rendere una pronuncia espressa, quand’anche al solo fine di negare la fondatezza della domanda di autotutela».
(14) Cfr. Cass., sez. un., 9 luglio 2009, n. 16097, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 20 gennaio 2011, n. 1219, ivi; e Cass., sez. trib., 24 maggio 2013, n. 12930, in Boll. Trib., 2014, 858, con nota di V. FICARI, Impugnabilità del silenzio avverso l’istanza di autotutela e interesse pubblico all’annullamento.
(15) Cfr. Cass., sez. trib., 8 aprile 2016, n. 6858, di prossima pubbl. in questa stessa Rivista con nota di V. AZZONI, Gli effetti e i limiti del giudicato formato nel giudizio estinto. Per la verità, un secondo scopo – dall’alone storico-politico, risalendo esso al Risorgimento – aleggia sullo schema, cioè la proibizione, in capo al giudice tributario, di sostituirsi all’Amministrazione finanziaria nell’adozione delle valutazioni discrezionali proprie dell’esercizio della potestà di autotutela. Diversamente opinando, si avrebbe un’indebita inframmettenza dell’Autorità giurisdizionale sulle funzioni rimesse agli Organi di un altro potere, in spregio al riparto operato dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. Tale secondo argomento – secondo ma non secondario – è costantemente ripreso dalla giurisprudenza interna. Per tutte cfr. Cass. n. 2870/2009, cit.; e Cass., sez. VI, 13 novembre 2012, ord. n. 19740, in Boll. Trib. On-line.
(16) Cfr. Cass., sez. trib., 20 febbraio 2015, n. 3442, in Boll. Trib. On-line.
(17) Cfr. Cass., sez. VI, 5 novembre 2014, ord. n. 23628; Cass., sez. VI, 2 dicembre 2014, ord. n. 25524; e Cass., sez. trib., 12 maggio 2010, n. 11457; tutte in Boll. Trib. On-line.
(18) Cfr. Cass., sez. un., 23 aprile 2009, n. 9669, in Boll. Trib., 2009, 881; reiezione cui tiene dietro la condanna alle spese di lite, rischio che invece, nella medesima situazione, la pubblica Amministrazione non corre mai (cfr. Cass., sez. trib., 13 aprile 2016, n. 7273, ivi, 2016, 883, con nota di V. AZZONI, La rinuncia agli atti di causa da parte dell’Amministrazione finanziaria e la liquidazione delle spese di giudizio).
(19) Non possiamo non segnalare G. LOCATELLI, L’impugnazione del diniego di annullamento in autotutela in materia tributaria, in Boll. Trib., 2017, 255 ss.; si ved. altresì P. ACCORDINO, La giurisprudenza di merito ritorna sull’annosa questione dell’impugnabilità del diniego di autotutela dell’Amministrazione finanziaria, ivi, 2013, 405.
(20) Cfr. Comm. trib. reg. del Lazio, sez. IX, 9 ottobre 3013, n. 297, in Boll. Trib., 2014, 531, con nota di P. BARABINO, Dall’impugnazione del diniego di autotutela all’annullamento dell’atto di accertamento.
(21) Spicca Cass., sez. trib., 20 novembre 2015, n. 23765, in Boll. Trib. On-line.
(22) Ved. nota 12.
(23) Cfr. Cass., sez. trib., 8 luglio 2015, n. 14243, in Boll. Trib. On-line.
(24) Cfr. Cass., sez. trib., 15 ottobre 2007, n. 21530, in Boll. Trib. On-line.
(25) La già citata sentenza n. 14243/2015 afferma di attingere ai precedenti resi da Cass., sez. trib., 8 ottobre 2007, n. 21045 (in Boll. Trib., 2008, 587, con nota di G. CHIARIZIA, Impugnabili tutti gli atti che esprimono una pretesa tributaria compiuta e non condizionata: la Corte di Cassazione consolida tale principio), per ciò che attiene alla irrilevanza della mancata inclusione dei provvedimenti di autotutela nel catalogo di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; e da Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776 (ivi, 2005, 1828), per ciò che attiene alla endemica, generalizzata facoltà del contribuente di adire il giudice a fronte di un provvedimento lesivo a suo dire non soddisfacente.
(26) Cfr. Cass. n. 21530/2007, cit.
(27) Ved. nota 7.
(28) Cfr. Corte Cost. 5 novembre 2007, n. 377, in Boll. Trib., 2007, 1831.
(29) Non illuda il “può” edittale, atteso che l’art. 2 della citata legge n. 241/1990, come a sua volta reiteratamente modificato (art. 3, comma 6-bis, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), prefigura un mezzo inteso a ottenere dalla pubblica Amministrazione, con la massima celerità possibile, il rispetto dell’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Si aggiunga l’obbligo di motivazione (art. 3 della stessa legge n. 241/1990) e il cerchio si chiude.
(30) Con ciò, nessuno ha l’ardire di confutare le strette analogie fondative tra diritto tributario e diritto amministrativo, essendo dato acquisito che «la nozione tradizionale di autotutela della pubblica Amministrazione proposta dalla dottrina fa coincidere questo istituto “con quella parte di attività amministrativa con la quale la stessa pubblica amministrazione provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti con altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti o alle sue pretese”; nella medesima teorizzazione si distingue l’autotutela spontanea, che si ha allorquando l’amministrazione esercita spontaneamente il potere di autotutela e che si manifesta attraverso gli atti dell’annullamento d’ufficio, della revoca, dell’abrogazione e della caducazione; l’autotutela necessaria, che coincide con il vasto campo dei controlli; e l’autotutela contenziosa, che coincide con il settore dei ricorsi amministrativi». Così – citando F. BENVENUTI, Autotutela (diritto amministrativo), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 539 – G. GHETTI, Autotutela della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., I, Torino, 1987, 30. Asserzione (del 1999), tuttora attuale e perfettamente trasmigrabile in campo tributario.
(31) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 816, in Boll. Trib. On-line.
(32) Ci si rifà qui a D. STEVANATO, Autotutela (diritto tributario), in Enc. dir., agg., 2000, 295 ss. Scrive l’Autore (p. 297): «Questi schemi di ragionamento non possono essere meccanicamente riprodotti nel diritto tributario, per una serie di ragioni così sintetizzabili: a) anzitutto, gli atti dell’amministrazione finanziaria, diversamente da quelli amministrativi che ampliano la sfera giuridica del loro destinatario (e per cui più spesso si pone un problema di autotutela nel diritto amministrativo), sono atti ablatori, che incidono negativamente sul privato. Non esistono allora parti controinteressate al provvedimento di autoannullamento …; b) in diritto tributario sono tendenzialmente inconcepibili interessi pubblici secondari, diversi da quello all’obiettiva applicazione della legge, tali da giustificare il mantenimento in vita di una pretesa impositiva ingiusta, contenuta in un atto non conforme alla legge e all’effettiva capacità contributiva del contribuente. L’unico “interesse” contrario all’annullamento è in ipotesi un interesse egoistico dell’erario a trattenere a tutti i costi …; c) l’amministrazione finanziaria, nella sua attività tesa all’applicazione della giusta imposta, è strettamente vincolata alla legge; l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo, nel diritto tributario, coincide con il ripristino della legalità violata».
(33) «Non» – quanto meno – «nel senso in cui l’autotutela è discrezionale nel diritto amministrativo generale» (così D. STEVANATO, op. cit., 298).
(34) Perfettamente comprensibile, allora, che la giurisdizione amministrativa la veda, nel suo terreno, in maniera nettamente diversa, negando la sussistenza di un “diritto” vero e proprio all’autotutela: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 6 luglio 2010, n. 4308, in Boll. Trib. On-line, 2010; e Cons. Stato, sez. V, 3 ottobre 2012, n. 5199, in Giur. it., 2013, 962.
(35) Il pensiero va allo Statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), sulla cui collocazione intermedia fra leggi costituzionali e leggi ordinarie cfr. ex multis, agli albori della problematica, Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17576, in Boll. Trib., 2003, 777. In dottrina ved., fra gli altri, E. DE MITA, Lo Statuto dei diritti del contribuente tra la valorizzazione che ne fa la Cassazione e le violazioni del Parlamento, in Boll. Trib., 2008, 1639; e F. TESAURO, Compendio di diritto tributario, Torino, 2000, 20.
(36) Cfr. V. AZZONI, L’autotutela come diritto del contribuente, in Boll. Trib., 2000, 171 ss.
(37) Ved. S. MUSCARÀ, La Cassazione chiude (apparentemente) le porte alla tutela giurisdizionale in tema di diniego di autotutela, cit. Nell’altro scritto già citato [S. MUSCARÀ, Autotutela V) Diritto tributario], risalente ad epoca anteriore all’ormai incontestabile conferimento della tutela giurisdizionale tributaria alle Commissioni tributarie, l’Autore attribuiva la competenza a pronunciarsi in tema di autotutela al giudice amministrativo, salvi i poteri del giudice ordinario in chiave risarcitoria (posizione condivisa peraltro anche in sede amministrativa: cfr. Cons. Stato 9 novembre 2005, n. 6269, in Boll. Trib., 2005, 1829). E solo in questo secondo ambito l’Autore introduceva l’idea – maturata sul tronco di quel «fondamentale contributo giurisprudenziale» costituito da Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in Boll. Trib. On-line – del «diritto soggettivo del contribuente ad ottenere il risarcimento del danno per ingiusta lesione anche alla luce dell’interesse legittimo del privato».
(38) Ved. S. MUSCARÀ, La Cassazione chiude (apparentemente) le porte alla tutela giurisdizionale in tema di diniego di autotutela, cit.
(39) Si pensi solo allo strumento processuale della revocazione di cui all’art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992 (Sentenze revocabili e motivi di revocazione), riguardante «sentenze che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate». Senza dire che l’argomento contrario generalmente speso, ricavabile dall’art. 19 dello stesso D.Lgs. n. 546/1992 («1. Gli atti diversi da quelli indicati [nell’elenco del comma precedente] non sono impugnabili autonomamente. 2. Ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri. 3. La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo»), potrebbe rivelarsi estraneo alla fattispecie, vuoi perché relativo al legame avviso-cartella (come sempre è stato inteso), vuoi perché la disposizione si rivolge non al rapporto tributario, ma alla sequenza di atti normativamente consequenziali (legame che, come ho cercato di argomentare nel testo, non si profila fra atto originario e atto successivo finalizzato alla sua rimozione).

Procedimento – Ricorso per cassazione – Deposito della copia della sentenza impugnata con la relata di notificazione – Sufficienza – Onere del resistente di contestare, attraverso il deposito dell’avviso di ricevimento in suo possesso, il rispetto del termine breve d’impugnazione e la tempestività del ricorso avversario – Consegue.

Procedimento – Ricorsi – Atti impugnabili innanzi alle Commissioni tributarie – Diniego di autotutela – Autonoma impugnabilità – Esclusione – Provvedimento di annullamento parziale – Autonoma impugnabilità – Limiti e condizioni.

In tema di ricorso per cassazione, ai fini del¬l’osservanza dell’art. 369, secondo comma, n. 2), c.p.c., è sufficiente, ove la notifica della sentenza impugnata sia avvenuta a mezzo posta, che il ricor¬rente depositi, insieme al ricorso, copia autentica della sentenza con la relazione di notificazione, ossia con l’attestazione dell’ufficiale giudiziario della spedizione dell’atto, spettando al resistente l’onere di contestare, attraverso il deposito dell’avviso di ricevimento in suo possesso, il rispetto del termine breve d’impugnazione, atteso che, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata che eviti, in ossequio al principio del giusto processo, oneri tali da rendere eccessivamente difficile la tutela giurisdizionale, deve tenersi conto che solo il resistente, in qualità di notificante, ha la materiale disponibilità dell’avviso di ricevimento.

In tema di contenzioso tributario, l’atto con il quale l’Amministrazione finanziaria manifesti il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo, non rientra nella previsione di cui all’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e non è quindi impugnabile, sia per la discre¬zionalità da cui l’attività di autotutela è connotata in questo caso, sia perché, altrimenti, si darebbe ingresso ad una inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo, con la precisazione che qualora si tratti di an¬nullamento parziale o comunque di provvedimento di autotutela di portata riduttiva rispetto alla prete¬sa impositiva contenuta negli atti divenuti definitivi, esso non può comportare alcuna effettiva innovazio¬ne lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui già noto e consolidatosi in ragione della mancata tempestiva impugnazione del precedente ac¬certamento, per converso potendo e dovendo ammet¬tersi una autonoma impugnabilità del nuovo atto, se di portata ampliativa rispetto all’originaria pretesa.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Di Amato, rel. Iannello), 15 aprile 2016, sent. n. 7511, ric. Agenzia delle entrate]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. L’Agenzia delle entrate ricorre, con tre mezzi, corredati da quesiti di diritto, nei confronti di R.B. (che ha depositato controricorso) avverso la sentenza con la quale la C.T.R. del Lazio, in data 17/6/2009, ha confermato la decisione di primo grado che, in accoglimento dei ricorsi, riuniti, proposti da R.B., aveva rivisto in riduzione la determinazione sintetica dei redditi di quest’ultimo, a fini Irpef e Ilor, per gli anni 1997 e 1998, operata dall’ufficio ai sensi dell’art. 38, comma 4, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sulla base dei beni posseduti e in particolare della proprietà di un immobile e di una barca a vela.
Disattesa la eccezione di inammissibilità dei ricorsi introduttivi, reiterata in appello dall’Agenzia delle entrate in quanto proposti non avverso gli originari avvisi di accertamento bensì nei confronti di successivi provvedimenti di parziale annullamento degli stessi emessi in autotutela su istanza del contribuente, riteneva nel merito la C.T.R. che – come dedotto dal contribuente – i redditi della madre convivente dovessero concorrere alla quantificazione del reddito cui rapportare gli indici di maggiore capacità contributiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 2. Con i primi due motivi di ricorso, pienamente sovrapponibili nel contenuto, l’Agenzia delle entrate deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 19 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (alternativamente prospettando, nel primo motivo, error in iudicando: art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ.; nel secondo, error in procedendo: art. 360 comma primo n. 4 cod. proc. civ.) in relazione al rigetto della iterata preliminare eccezione di inammissibilità dei ricorsi introduttivi in quanto proposti avverso provvedimento di rifiuto parziale di autotutela, atto non compreso nella tassativa elencazione degli atti impugnabili contenuta nella citata disposizione.

3. Con il terzo motivo l’ufficio deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 4, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ.
Rileva che erroneamente la C.T.R. ha adottato una nozione di nucleo familiare – cui far riferimento per l’individuazione delle fonti di reddito che possono concorrere a giustificare gli indici rivelatori di maggiore capacità contributiva valorizzati dall’ufficio ai fini dell’accertamento sintetico – più estesa di quella accolta dalla giurisprudenza, in coerenza con le finalità della norma, la quale ha limitato riferimento esclusivamente alla famiglia naturale costituita dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori, in ragione del particolare legame che vincola le persone che lo compongono, escludendo invece la rilevanza del mero fatto della convivenza di altri parenti.

4. Con il proposto controricorso il B. preliminarmente eccepisce l’improcedibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 369, secondo comma n. 2, cod. proc. civ., in ragione del mancato deposito, nei termini previsti, da parte della ricorrente, di copia autentica della sentenza impugnata con la relata di notifica.
Nel merito, quanto ai primi due motivi di ricorso, rileva che, a seguito dell’istanza di autotutela, gli è stato notificato un nuovo atto di accertamento, tempestivamente impugnato.
Quanto al terzo motivo ne eccepisce preliminarmente l’inammissibilità, per la mancata specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali esso si fonda; ne contesta infine la fondatezza.

5. È infondata l’eccezione di improcedibilità del ricorso.
Risulta allegata al ricorso copia conforme della sentenza impugnata con la relata di notifica effettuata a mezzo posta.
La mancata allegazione anche dell’avviso di ricevimento restituito al notificante si giustifica ovviamente con il fatto che trattasi di atto non nella disponibilità del destinatario della notifica (nel caso di specie, appunto, l’Agenzia).
In tal senso questa Corte ha già affermato il principio – pienamente condiviso e qui ribadito – secondo cui, «in tema di ricorso per cassazione, ai fini dell’osservanza dell’art. 369, secondo comma, n. 2, cod. proc. civ., è sufficiente, ove la notifica della sentenza impugnata sia avvenuta a mezzo posta, che il ricorrente depositi, insieme al ricorso, copia autentica della sentenza con la relazione di notificazione, ossia con l’attestazione dell’ufficiale giudiziario della spedizione dell’atto, spettando al resistente l’onere di contestare, attraverso il deposito dell’avviso di ricevimento in suo possesso, il rispetto del termine breve d’impugnazione, atteso che, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata che eviti, in ossequio al principio del giusto processo, oneri tali da rendere eccessivamente difficile la tutela giurisdizionale, deve tenersi conto che solo il resistente, in qualità di notificante, ha la materiale disponibilità dell’avviso di ricevimento» (Cass., Sez. 5, n. 19750 del 19/9/2014 (1), Rv. 632464).
Del resto, nel caso di specie, è da escludere possa sussistere dubbio alcuno sul rispetto del termine breve per impugnare dal momento che la data di spedizione dell’atto ricavabile dalla copia prodotta dalla ricorrente (7/8/2009) si colloca in pieno periodo feriale di guisa che, quale che sia la data successiva di restituzione al notificante dell’avviso di ricevimento, il dies a quo per il computo di detto termine non potrebbe comunque considerarsi anteriore al 16/9/2009, considerata la sospensione dei termini per il periodo feriale, risultando pertanto in ogni caso perfettamente tempestiva la notifica del ricorso avvenuta in data 12/11/2009.

6. Sono fondati i primi due motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili in quanto proponenti la medesima questione, ancorché diversamente sussunta alternativamente nelle tipologie di vizi di cui ai nn. 3 e 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ. (qualificazione comunque non vincolante per questa Corte e inidonea pertanto a costituire effettivo motivo di differenziazione tra le due censure).
In punto di fatto risulta pacifico tra le parti che gli atti impugnati siano effettivamente non gli avvisi di accertamento originari, bensì il provvedimento reso sull’istanza di annullamento degli stessi in autotutela: istanza accolta solo in parte, essendo disattesa la tesi difensiva principale, poi costituente materia di lite nel giudizio di che trattasi, circa la necessità di computare tra le fonti di reddito idonee a giustificare gli indici di maggiore capacità contributiva anche il reddito percepito dalla madre convivente.
Emerge altresì pacificamente dalla incontestata esposizione dei fatti contenuta in ricorso che gli atti originari non sono stati ex se impugnati e sono pertanto divenuti definitivi, ancor prima della emissione del provvedimento reso in autotutela dalla amministrazione di annullamento parziale degli stessi.
In tale contesto viene pertanto in rilievo il principio affermato da Cass., Sez. U, n. 3698 del 16/2/2009 (2) (Rv. 606565) – cui si intende dare in questa sede continuità – secondo il quale «in tema di contenzioso tributario, l’atto con il quale l’Amministrazione manifesti il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo, non rientra nella previsione di cui all’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e non è quindi impugnabile, sia per la discrezionalità da cui l’attività di autotutela è connotata in questo caso, sia perché, altrimenti, si darebbe ingresso ad una inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo».
Non ignora questo Collegio che in senso difforme una giurisprudenza successiva ha ritenuto impugnabile l’annullamento parziale, adottato nell’esercizio del potere di autotutela, di un avviso impositivo già definitivo, trattandosi di un atto contenente la manifestazione di una compiuta e definitiva pretesa tributaria, rispetto a cui, pur se riduttivo dell’originaria pretesa, non può privarsi il contribuente della possibilità di difesa (Cass., Sez. 5, n. 14243 del 8/7/2015 (3), Rv. 635875).
Tale precedente non offre però argomenti convincenti a supporto dell’accolta soluzione, apparendo di contro dirimente il rilievo che, se si tratta di annullamento parziale o comunque di provvedimento di autotutela di portata riduttiva rispetto alla pretesa impositiva contenuta negli atti divenuti definitivi, esso non può comportare alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui già noto e consolidatosi in ragione della mancata tempestiva impugnazione del precedente accertamento, per converso potendo e dovendo ammettersi una autonoma impugnabilità del nuovo atto se di portata ampliativa rispetto all’originaria pretesa.
La sentenza dei Giudici di appello è, dunque, affetta dal denunciato vizio di nullità (per error in procedendo: art. 360 comma primo n. 4 cod. proc. civ.) e deve quindi essere cassata, restando conseguentemente assorbito l’esame del terzo motivo di ricorso.

7. In conclusione il ricorso deve essere accolto con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 382 comma terzo cod. proc. civ. in quanto la causa non poteva essere proposta.
Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, sono poste a carico della parte soccombente.

P.Q.M. – La Corte, congiuntamente esaminando i primi due motivi di ricorso, li accoglie nei sensi di cui in motivazione; dichiara assorbito il terzo; cassa senza rinvio la sentenza impugnata in quanto la causa non poteva essere proposta; condanna il controricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate: a) per il primo grado in € 400,00; b) per il secondo grado in € 500,00; c) per il presente giudizio di legittimità in € 1.000,00, oltre eventuali spese prenotate a debito.

(1) In Boll. Trib., 2015, 914.
(2) In Boll. Trib., 2009, 547.
(3) In Boll. Trib. On-line.

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