8 Novembre, 2013

SOMMARIO: 1.La responsabilità patrimoniale delle società di capitali e il principio generale della responsabilità patrimoniale illimitata del debitore di cui all’art. 2740 c.c. – 2.Analisi ai fini tributari – 3.Le singole fattispecie – 4.Conclusioni.

 

1.La responsabilità patrimoniale delle società di capitali e il principio generale della responsabilità patrimoniale illimitata del debitore di cui all’art. 2740 c.c.

L’argomento oggetto delle presenti note concerne l’esame di taluni aspetti salienti della responsabilità patrimoniale delle società di capitali e dei loro soci – nello specifico s.p.a. e s.r.l. – riguardati dal punto civilistico e da quello tributario, al fine di riscontrare le relative peculiarità e differenze, sia pure nella consapevolezza dei distinti ambiti e obiettivi delle due discipline [1].

In particolare, nella dottrina civilistica è risalente la disputa circa la natura del rapporto intercorrente, da un lato, tra il principio generale di illimitata responsabilità del debitore per l’(in)adempimento delle proprie obbligazioni, che invero risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri – cfr. art. 2740 c.c. sulla “responsabilità patrimoniale” – e, dall’altro, il principio, in apparenza di segno opposto, stabilito dai vigenti artt. 2325 e 2462 c.c., ove si stabilisce, rispettivamente, per le società per azioni e per le società a responsabilità limitata, che per le obbligazioni sociali, risponde soltanto la società con il suo patrimonio.

I soci, in tal modo, risultano privilegiati, potendo essi decidere ex ante di porre a rischio dell’affare da intraprendere solo una parte del proprio patrimonio, corrispondente ai conferimenti, sottraendone così la restante parte.

Del resto nello stesso art. 2740 c.c., al secondo comma, si prevede espressamente che il legislatore possa derogare al principio di universalità della responsabilità patrimoniale stabilito al primo comma, prevedendosi che «le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge».

Ne conseguirebbe che la tecnica legislativa è quella della tipicità e della eccezionalità ovvero del numerus clausus delle possibili limitazioni della responsabilità patrimoniale del debitore; tuttavia, proprio il regime delle società di capitali metterebbe in discussione il carattere eccezionale ed episodico che assumerebbero nell’ordinamento le deroghe al principio generale della responsabilità patrimoniale illimitata.

Infatti, risulterebbe fortemente derogata per tutta l’area rilevantissima delle obbligazioni facenti capo agli operatori economici organizzati nella forma delle società di capitali; essa non vale insomma per i rapporti obbligatori che si intrecciano in settori decisivi del traffico giuridico-economico [2].

La dottrina più recente, però, ha ridimensionato tale ricostruzione e ritiene che le norme che regolano la responsabilità delle società di capitali (i.e. gli artt. 2325 e 2462 c.c.) non costituiscano alcuna deroga al divieto contenuto nel capoverso dell’art. 2740; la società di capitali, soggetto di diritto, risponde comunque illimitatamente, cioè con l’intero suo patrimonio, tant’è che risulterebbe in parte qua persino inesatta l’espressione usata dal legislatore “società a responsabilità limitata”; sul socio poi, incombe l’obbligo dei conferimenti, dei quali egli risponde parimenti in misura illimitata [3].

La questione, in questa prospettiva, si riduce quindi in termini di politica legislativa, nel senso che può anche non piacere che il socio possa operare nell’economia con lo strumento societario, in modo da essergli consentito di rispondere dei debiti ponendo a rischio soltanto una parte del suo patrimonio, attraverso i conferimenti in società; ma tale giudizio di valore non attiene allo ius conditum [4].

Ciò è tanto più vero all’esito dell’introduzione anche nel nostro ordinamento delle società di capitali con socio unico; anzi, per effetto di tale innovazione di matrice comunitaria, non v’è più dubbio che il principio della limitazione di responsabilità nelle società di capitali costituisce “principio generale[5]. Per di più detto principio si pone oggi come strumento fondamentale per lo sviluppo dell’economia anche con l’utilizzazione dello strumento giuridico dell’impresa societaria unipersonale; si consente a chiunque di destinare solo una parte del proprio patrimonio ad attività produttive, senza il rischio di responsabilità ulteriori o di fallimento personale [6].

È indiscutibile che sul piano sostanziale i soci, rispetto ai soggetti che operano nel traffico economico-giuridico senza il supporto dello strumento societario, godono di un privilegio, inteso in senso tecnico, di esenzione dal diritto comune [7]; ma tant’è, sulla base della normativa vigente, le società di capitali, o meglio i suoi soci, godono della segregazione della responsabilità patrimoniale ovvero, con le precisazioni suddette, del beneficio della limitata responsabilità.

Qualora poi, i soci abusino dello strumento societario ovvero della personalità giuridica, a diversi fini – giuslavoristici, civilistici, fiscali [8] – la dottrina maggioritaria, fatta qualche eccezione, e la giurisprudenza sono inclini a suggerire altri rimedi, diversi dal superamento dello schermo societario [9].

 

[-protetto-]

 

 

2.Analisi ai fini tributari

 

Ciò posto in ambito civilistico, anche sul versante tributario, appare risalente e tuttora frequente il pregiudizio per cui le società di capitali sono privilegiate, per esempio, a motivo: a) del beneficio della segregazione patrimoniale; b) dell’applicazione del regime di determinazione analitico del reddito d’impresa, ricollegato dalla normativa fiscale necessariamente a detta forma commerciale di esercizio collettivo di un’attività economica, con conseguente possibilità di dedurre in modo analitico i relativi costi e l’IVA addebitata in via di rivalsa; c) della possibilità di imputare a detto organismo societario i redditi, oltre che cespiti e i patrimoni dei soci, in modo da attenuare la progressività dell’imposizione personale e da opacizzare la situazione patrimoniale dei partecipanti per eludere la ricostruzione del reddito, con metodo sintetico, da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Tale approccio, seppure, come ovvio, prima facie giustificabile in ragione dei diversi comparti dell’ordinamento – quello civilistico, preordinato a regolare e implementare l’esercizio anche in forma societaria di un’attività economica, e quello fiscale, volto a disciplinare le fattispecie imponibili e, se del caso, a reprimere i fenomeni patologici – risulta in controtendenza rispetto all’impostazione civilistica.

Infatti, come si notava prima, in ambito privatistico, l’orientamento si è evoluto, nel senso che le norme che regolano la responsabilità patrimoniale delle società di capitali non vengono interpretate in termini di deroga o di eccezione al principio generale stabilito ex art. 2740 c.c. per cui la responsabilità patrimoniale è illimitata; tant’è che l’originaria concezione della responsabilità limitata come privilegio, anche a seguito dell’introduzione della società di capitali unipersonale, ha ceduto il passo alla regola della piena disponibilità di tale tipologia di società anche per imprese di modeste dimensioni [10].

Tuttavia, analoga evoluzione non si riscontra nel settore tributario; anzi, il legislatore e la prassi hanno continuato a concepire – sia pure per esigenze di tutela degli interessi erariali – il fenomeno delle società di capitali in termini di beneficio o di privilegio, come tale – se del caso – da reprimere con diversi metodi.

In altre parole, in ambito civilistico, il beneficio della limitata responsabilità della società di capitali, nei termini riferiti, è stato ridimensionato e anzi rivalutato a schema da perseguire tutte le volte che si voglia intraprendere e sviluppare un’attività economica; salvo poi approntare dei rimedi specifici per arginare gli abusi della personalità giuridica, ferma restando però l’intangibilità della struttura societaria, e quindi con rimedi alternativi al superamento della persona giuridica.

Diversamente, in ambito fiscale, detto beneficio risulta spesso enfatizzato, assunto a pregiudizio costante, cioè pure in relazione a fattispecie non connotate da caratteri patologici, quasi si trattasse di un’eccezione, di un vantaggio, come tale da revocare e disapplicare tout court. In altri termini, la struttura e il regime fiscale proprio delle società di capitali, sebbene riconnesso ex lege alla forma stessa di tale tipo di società, viene riguardato di frequente con sospetto; a tal proposito, vale la pena di prendere in considerazione le seguenti tematiche:

i) il regime fiscale delle c.d. “società di comodo” e dei relativi soci e familiari;

ii) l’imputazione dei c.d. utili “extrabilancio” in capo ai soci di società “a ristretta base azionaria”;

iii) l’imputazione nella sfera patrimoniale dei soci delle obbligazioni per imposte dovute dalla società, ai sensi degli artt. 36, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e 2495, secondo comma, c.c.;

iv) il sindacato delle operazioni c.d. “antieconomiche”.

In effetti, come risulterà nel seguito, spesso, sulla base di un preconcetto per cui la società di capitali e i suoi soci godrebbero comunque di un beneficio, di un privilegio, si riscontra una tendenza costante a superare lo schermo societario, trasferire ai soci le responsabilità patrimoniali (anche) della società di capitali, sindacare l’attività di impresa e le scelte aziendali.

 

3.Le singole fattispecie

 

Sulla prima ipotesi va detto che il legislatore è intervento di recente ad opera dell’art. 2 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), al fine di scoraggiare ulteriormente la costituzione di c.d. società di comodo (di persone e di capitali), costituite allo scopo esclusivo di gestire patrimoni, usufruendo del regime di determinazione del reddito di impresa, con deduzione analitica dei costi.

In estrema sintesi, tale obiettivo è stato perseguito agendo in diverse direzioni: a) inasprendo la tassazione (sostanzialmente patrimoniale) dell’ente reputato di comodo, con maggiorazione dell’aliquota IRES; b) inserendo una nuova presunzione di non operatività per quelle società che risultino in perdita sistemica o reiterata; c) prescrivendo l’indeducibilità dei costi relativi ai beni dell’impresa concessi gratuitamente in godimento ai soci o loro familiari, oppure dati in uso per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento; d) in connessione a tale circostanza, di riflesso, imputando per maturazione, in capo a tali soci, sub specie di “redditi diversi”, la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per l’utilizzo dei beni dell’impresa.

A tal proposito, val la pena chiedersi – come peraltro già fatto in altra sede – se in alternativa a tali “rimedi” per reprimere l’abuso societario [11], ancorati pur sempre a dati standard, a medie, a coefficienti di redditività, nonché alla mera reiterazione delle perdite, non sia più proficuo utilizzare altra metodologia di contrasto al fenomeno dell’ente societario di comodo o senza impresa, già codificata nell’ordinamento tributario e oggetto di particolare attenzione sia da parte della dottrina che della recente giurisprudenza di legittimità; si fa riferimento alla norma sull’interposizione di cui all’art. 37, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la cui applicazione, in presenza di determinati presupposti, troverebbe fondamento in molteplici considerazioni [12].

Conclusione questa, che, sul versante fiscale, porterebbe nuova linfa a quella dottrina che in ambito civilistico propugna sostanzialmente la stessa soluzione, quella cioè di superare ovvero perforare lo schermo societario e di disapplicare la limitata responsabilità dei soci in tutte le ipotesi di abuso della personalità giuridica [13]. In tale prospettiva, non si tratterebbe di discriminare in modo astratto e statistico, in base al c.d. “test di operatività”, le società di capitali – come invece prescritto nuovamente di recente dal legislatore – bensì di applicare cum grano salis e nel caso concreto, al ricorrere di determinate condizioni, la norma sull’interposizione, con effetti dunque mirati e selettivi, non già per masse e in modo in definitiva indistinto e standardizzato, come invece, ancora un volta, è avvenuto ad opera delle innovazioni introdotte dall’art. 2 del citato D.L. n. 138/2011 [14].

Ciò detto, in questo caso – i.e. delle società di comodo – allo stato, de iure condito, si è optato comunque di non perforare lo schermo societario e di mantenere ferma la responsabilità esclusiva dell’ente societario reputato di “comodo”, all’esito del c.d. “test di operatività”; tuttavia, si è prevista l’anomala imputazione per competenza dei benefit e dei risparmi di spesa, sub specie di “redditi diversi”, in capo ai soci che utilizzano i beni della società a condizioni più favorevoli rispetto a quelle del mercato, a prescindere dalla sussistenza della struttura societaria.

Inoltre si è aggiunto un ulteriore inasprimento della pressione fiscale sulla società, compresa quella in perdita triennale, anche se potrebbe trattarsi però di un’impresa (in perdita) che nulla ha a che vedere con la non operatività presunta ex lege, la quale, invero, pur svolgendo un’attività commerciale effettiva, ispirata a criteri di economicità e lucratività, nondimeno consegue perdite fiscali riportabili in avanti ai sensi dell’art. 84 del TUIR, per svariati motivi di mercato, di settore, di periodo contingente.

Sta di fatto che in tale contesto il legislatore ha previsto un’ipotesi peculiare di presunzione di antieconomicità, sulla falsariga di quell’orientamento che reputa legittimo contestare e sindacare le scelte imprenditoriali in relazione ai costi reputati non congrui ovvero non idonei ad incidere positivamente sui risultati reddituali dell’azienda [15].

In ogni caso, la premessa logica, il preconcetto, come traspare chiaramente nella mens legis e nella prassi amministrativa più recente non mutano [16]; i vantaggi di cui gode la società di capitali, consistenti nel duplice beneficio della segregazione patrimoniale e dell’applicazione del regime analitico di determinazione del reddito d’impresa, pur in assenza di un’effettiva attività economica, vanno repressi, scoraggiati, con inasprimento della tassazione in capo alla medesima società.

Quanto poi alla separatezza giuridica dell’impresa societaria e dei suoi soci, va messo in risalto come i partecipanti che utilizzino i beni della società a condizioni di vantaggio non risultano indenni da responsabilità: infatti, in capo ad essi, a prescindere dallo schermo societario e dalla persona giuridica, vengono imputati, ai fini IRPEF, a titolo di “redditi diversi”, i proventi in natura fruiti durante il periodo di imposta; per di più tale imputazione avviene, non già in base al principio di cassa, tipico di tale categoria reddituale, bensì in forza del principio di maturazione [17].

La seconda ipotesi oggetto di esame concerne la presunzione di distribuzione ai soci degli utili c.d. “extrabilancio” accertati in capo ad una società a ristretta compagine sociale; come noto, sebbene la tassazione c.d. “per trasparenza” sia predicabile in relazione soltanto alle società di persone e agli enti di cui all’art. 5 del TUIR – tra cui non rientrano di certo le società di capitali, che sono contraddistinte da un’autonomia patrimoniale e da una propria personalità giuridica – cionondimeno la prassi amministrativa e i giudici di legittimità fondano l’imputazione (per trasparenza) sul fatto noto rappresentato dalla ristrettezza della compagine societaria e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo che in genere astringe i soci [18].

Sulla base di tale premessa, a dispetto della idoneità del diaframma giuridico proprio delle società di capitali a realizzare una netta separazione tra società e partecipanti, l’Amministrazione finanziaria e la giurisprudenza reputano superabile tout court lo schermo societario in presenza di utili occultati. Di conseguenza detti proventi vengono imputati in proporzione ai medesimi partecipanti, fermo restando la facoltà di questi ultimi di provare che i maggiori ricavi “neri” non sono stati oggetto di distribuzione, ma sono stati invece accantonati nel bilancio della società ovvero reinvestiti.

I soci dunque rispondono, non già delle obbligazioni tributarie della società, ma delle proprie, cioè ai fini dell’IRPEF dovuta sui dividendi così attribuiti, a prescindere dalla percezione e da una apposita delibera di distribuzione. In tale ambito, la pretesa erariale non sembra innescarsi a motivo del privilegio della segregazione patrimoniale o del regime di determinazione analitico del reddito di impresa ovvero di altri benefici di cui gode la società di capitali in quanto tale – i.e. imputazione temporale dei ricavi per competenza, opacizzare i beni intestati al veicolo societario, sfruttare il regime meno oneroso di circolazione delle partecipazioni, avvantaggiarsi del diritto di detrazione ai fini IVA, ecc. – bensì in ragione della particolare (cioè ristretta) composizione della società e dei legami di complicità che in genere avvincono i soci. Elementi questi, reputati idonei a fondare presuntivamente la prova dell’avvenuta distribuzione dei maggiori utili accertati in capo alla prima.

Nondimeno viene comunque superato il diaframma che divide società e soci, con imputazione a questi ultimi della responsabilità patrimoniale in ordine alle maggiori imposte (IRPEF) da essi dovute sugli utili occultati, che si presumono così essere stati percepiti a suo tempo, in proporzione alle quote di partecipazione di ciascuno.

L’altra casistica da esaminare concerne l’escussione erariale dei soci di società di capitali attivando la responsabilità stabilita dall’art. 36, terzo comma, del D.P.R. n. 602/1973, per effetto del quale i partecipanti sono responsabili delle obbligazioni tributarie della società (ai fini IRES) limitatamente a quanto essi hanno ricevuto in denaro o in natura nel c.d. “periodo di sorveglianza”, cioè nei due periodi d’imposta precedenti la liquidazione e durante quest’ultima procedura.

In tale contesto, quindi, viene derogata la responsabilità patrimoniale dei soci di società di capitali, i quali, a determinate condizioni e al verificarsi di precisi presupposti [19], rispondono delle obbligazioni tributarie della società, sia pure in modo limitato, cioè in correlazione alla percezione di somme o alla assegnazione di beni nel periodo di sorveglianza.

Si riscontra poi di recente, anche a seguito della riforma del diritto societario avvenuta con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, una diffusa prassi nell’applicazione, in ambito tributario, con efficacia anche ai fini del recupero delle altre imposte indirette dovute dalla società, dell’art. 2945, secondo comma, c.c., in forza del quale i creditori sociali, nella specie l’Amministrazione finanziaria, possono escutere i soci fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base a bilancio finale di liquidazione [20].

Pertanto, in questo caso, sebbene non si muova dallo stesso pregiudizio, afferente il beneficio della responsabilità patrimoniale (il)limitata della società, tuttavia le obbligazioni tributarie fiscali di quest’ultima si propagano ai partecipanti, sia pure in connessione all’evento della percezione di denaro ovvero della assegnazione di beni, con deroga quindi alla limitata responsabilità dei soci di società di capitali.

L’ultima ipotesi – che si analizza per connessione e completezza – riguarda la tesi degli atti antieconomici, che, naturalmente, riguarda tutte le tipologie di imprese, sia quelle di natura individuale sia le società commerciali di persone e di capitali [21]. In questo caso, come ovvio, la responsabilità patrimoniale della società non viene messa in discussione, nel senso che essa rimane esclusiva dell’ente societario, non si propaga ai soci e quindi rimane intatta l’imputabilità in capo ad essa delle obbligazioni per le maggiori imposte derivanti dal disconoscimento dei costi reputati dall’Amministrazione finanziaria eccessivi, non congrui e quindi non inerenti (oppure, in senso opposto, derivanti dalla contestazione di maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati, reputati insufficienti all’esercizio dell’attività dell’impresa).

In tale prospettiva, qualora i costi risultino esorbitanti rispetto ai canoni di economicità e ai criteri del mercato, spetta all’impresa assolvere l’onere di dimostrare che detti oneri sono finalizzati comunque all’esercizio di un’attività almeno potenzialmente idonea ad incidere in senso positivo sulla produzione dei relativi utili [22].

Pertanto, pur rimanendo intatta la segregazione patrimoniale e la separatezza della posizione della società e dei suoi partecipanti, per cui delle maggiori obbligazioni tributarie continua a rispondere soltanto la prima, nondimeno, a dispetto della forma commerciale tout court della società di capitali, si mette in discussione la gestione dell’azienda, si esercita un sindacato sulle scelte imprenditoriali; ciò a prescindere dal tipo di società, che, almeno per definizione legale e in linea di principio, esercita un’attività che si connota dei caratteri di economicità, lucratività, redditività.

 

4.Conclusioni

 

Estrapolando la sintesi delle note che precedono, si può rilevare quanto segue: sia pure nella consapevolezza della diversità di ambiti e di obiettivi delle due discipline, nondimeno spesso nel settore fiscale è dato di riscontrare il preconcetto e il pregiudizio di fondo, invece superato dalla dottrina civilistica, per cui la società di capitali gode del beneficio (anche) della segregazione patrimoniale e così pure i suoi soci, che fruiscono del privilegio della responsabilità limitata ai conferimenti effettuati.

Similmente, quanto ai rimedi, non di rado si prescinde dallo schermo societario, nel senso che la responsabilità patrimoniale per tributi dei soci o della società si propaga ai partecipanti, indipendentemente dalla personalità giuridica e dalla autonomia patrimoniale della società; ciò che avviene, infatti, segnatamente per le società di comodo, le società a ristretta base azionaria e le società in liquidazione, che nel periodo di sorveglianza assegnano ai soci denaro o beni. Rimedio questo, che diversamente risulta per lo più ripudiato in ambito civilistico, ove invero si riscontrano una pluralità di tecniche giuridiche che, seppure a titolo diverso, conducono all’affermazione della responsabilità dei soci che abusino della posizione di dominio sulla società; nondimeno non si stravolgono i criteri di imputazione dell’attività previsti dall’ordinamento.

A ben vedere, l’orientamento diffuso in ambito tributario denota una razionalità di fondo, nel senso che tende a colpire, anche sotto il profilo sanzionatorio, quei soggetti passivi, cioè i soci, che, in definitiva, verosimilmente, si ingeriscono nella gestione delle società e hanno il possesso dei redditi. Tuttavia, questo diverso approccio, ingenerato da un pregiudizio e volto al superamento del diaframma societario, in controtendenza rispetto all’impostazione civilistica, rischia di mettere in crisi la segregazione patrimoniale propria delle società di capitali.

 

Avv. Edoardo Belli Contarini

 

 

 


[1] È interessante sull’argomento il lavoro di righini, Gli oneri fiscali delle azioni di tutela del patrimonio personale, in Boll. Trib., 2010, 1673 ss., sulle varie ipotesi di segregazione, tra cui anche quella conseguente alla costituzione di società di capitali.

[2] roppo, voce Responsabilità patrimoniale, in Enc. dir., 1041 ss., spec. 1049-1051.

[3] cagnasso-irrera, voce Società a responsabilità limitata, in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1997, 183; maffei alberti, Commentario breve al diritto delle società, Padova, 2007, sub art. 2325 c.c.; e granatiero, in Il nuovo diritto delle società, a cura di maffei alberti, Padova, 2005, sub art. 2325, 5 s.

[4] roselli, Responsabilità patrimoniale. I mezzi di conservazione, in Trattato di diritto privato, diretto da bessone, IX, tomo III, Torino, 2005, 30 ss.

[5] roselli, Responsabilità patrimoniale, cit., 31.

[6] gambino, Limitazione di responsabilità, personalità giuridica e gestione societaria. La responsabilità limitata nelle società di capitali come principio generale, in Il nuovo diritto delle società, diretto da abbadessa-portale, I, Milano, 2007, 48 s.

[7] miraglia, voce Responsabilità patrimoniale, in Enc. giur. Treccani, sub n. 4.4, e, prima ancora, ma in termini più decisi e di deroga al principio di universalità della responsabilità patrimoniale, roppo, Responsabilità patrimoniale, cit., 1050.

[8] Cioè, ad esempio, al fine di frazionare i dipendenti tra le diverse società, per sottrarsi all’applicazione delle norme che regolano diversamente il licenziamento dei dipendenti in relazione al numero complessivo eccedente o meno una data soglia; oppure al fine di eludere un patto di non concorrenza, di guisa che l’imprenditore svolge sotto il nome della neo costituita società l’attività concorrenziale vietata dal patto; per altri esempi, relativi anche alla materia fiscale, cfr. galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, XXIX, Padova, 2003, 102 ss.

[9] Per il superamento della personalità giuridica, come strumento di repressione dell’abuso societario, cfr. galgano, Persone giuridiche, in Commentario del codice civile, a cura di scialoja-branca, Bologna-Roma, 1969, 37 ss., e, più di recente, id., Il nuovo diritto societario, cit., 107-108. Tuttavia, per il ridimensionamento di tale tesi, cfr. barba, in La riforma delle società, a cura di sandulli-santoro, Torino, 2003, sub art. 2325, 7 ss.; gambino, op. cit., spec. 49 ss.; cappiello, in Codice commentato delle nuove società, a cura di bonfante-corapi-marziale-roforf-salafia, Milano, 2004, sub art. 2325 c.c., ove ampi riferimenti, anche in ordine ai rimedi alternativi per reprimere l’abuso societario, quali, ad esempio: i) la qualificazione del socio, che si sia ingerito in modo sistematico nella gestione della società, sub specie di “amministratore di fatto”, ii) la simulazione, assoluta o relativa, del contratto di società, nel caso di società di capitali che si riveli un mero schermo volto a dissimulare l’esercizio di un’attività imprenditoriale individuale, con conseguente fallimento del socio-imprenditore, iii) l’applicazione dell’art. 2476, comma 7, c.c., per effetto del quale i soci di una s.r.l., che hanno deciso o autorizzato atti dannosi per la società, gli altri soci e i terzi, sono solidalmente responsabili con gli amministratori per i danni da questi causati con dolo o colpa.

[10] roselli, Responsabilità patrimoniale, cit., spec. 31 e 37; e gambino, op. cit., 48.

[11] In argomento, anche per richiami agli aspetti civilistici, cfr. deotto, Senza abuso della persona giuridica la disciplina delle società di comodo non trova applicazione, in Corr. trib., 2012, 1852 ss.

[12] Su tale tema, ci sia consentito di rinviare al nostro lavoro, Nuove e meno recenti disposizioni fiscali di contrasto anche per le società ed enti di comodo e loro partecipanti, in Boll. Trib., 2011, 1608 ss., ove ulteriori riferimenti; in ambito civilistico, cfr. invece sciuto, La nullità della società. Il problema della “simulazione” nelle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società, diretto da abbadessa-portale, I, Milano, 2007, 441-444.

[13] È la tesi minoritaria di galgano, Il nuovo diritto societario, cit., 102 ss.

[14] Di contrario avviso beghin, Le intestazioni societarie “di comodo” nel decreto legge n. 138/2011 tra difetto di inerenza e resistibile tassazione dei risparmi di spesa, in Riv. dir. trib., 2012, I, 141 ss., spec. 143-144.

[15] Su cui ved. anche dopo; in argomento, cfr. deotto, op. cit., 1856, e, per la prassi amministrativa, ved. spec. circ. 11 giugno 2012, n. 23/E, in Boll. Trib., 2012, 928.

[16] Cfr. spec. circ. 2 febbraio 2007, n. 5/E, in Boll. Trib., 2007, 270; e circ. 4 maggio 2007, n. 25/E, ibidem, 779, pure richiamate di recente nella circ. 29 marzo 2013, n. 7/E, ivi, 2013,517, in tema di participation exemption.

[17] In argomento cfr. beghin, op. cit., 151 ss., nonché per la prassi amministrativa circ. 15 giugno 2012, n. 24/E, in Boll. Trib., 2012, 926; e circ. 24 settembre 2012, n. 36/E, ibidem, 1404.

[18] In argomento cfr. rasi, La tassazione per trasparenza delle società di capitali a ristretta base proprietaria, 2012, spec. 39 ss.; nonché tinelli-parisi, Società nel diritto tributario. Il superamento delle schermo societario nelle società a ristretta base azionaria, in Dig. disc. priv., sez. comm., 1997, 323 s.

 

[19] Su tali condizioni cfr. belli contarini, La responsabilità tributaria nei confronti del creditore erariale dei soci e associati nella liquidazione dei soggetti passivi dell’ires, in Riv. dir. trib., 2009, I, 931 ss.

[20] Su tale specifico tema cfr. anche tassani, La responsabilità di soci, amministratori e liquidatori per debiti fiscali della società, in Rass. trib., 2012, 359 ss., nonché ficari, Cancellazione dal registro delle imprese delle società di capitali, “abuso della cancellazione” e buona fede nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1037 ss. Più di recente poi, in materia di cancellazione di società dal registro delle imprese, la conseguente estinzione e successione dei soci nei rapporti giuridici facenti capo alla società estinta, si è pronunciata Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n.6070, in Boll. Trib., 2013, 701, con nota di proietti, La cancellazione delle società dal Registro delle imprese tra profili di diritto sostanziale e conseguenze processuali: in attesa chela Consulta si pronunci sulla costituzionalità degli artt. 2495 c.c. e 328 c.p.c., “risponde”la Corte di Cassazione, nonché iorio-ambrosi, Estinzione della società e obblighi patrimoniali dei soci, in Corr. trib., 2013, 1526 ss.

[21] In argomento, di recente, cfr. villani-rizzelli, Ancora sui compensi agli amministratori tra “antieconomicità”, abuso del diritto e denuncia penale, in nota a Cass., sez. VI, 11 febbraio 2013, ord. n.3243, in Riv. dir. trib., 2013, III, 11 ss., nonché ferranti,La Cassazione conferma la sindacabilità dei compensi agli amministratori, in nota a Cass., sez. VI, 15 aprile 2013, ord. n.9036, in Corr. trib., 2013, 1715 ss.

[22] Cfr. anche Commentario breve alle leggi tributarie. Tuir e leggi complementari, tomo III, a cura di fantozzi, Padova, 2010, sub art. 109.