SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Sulla motivazione dell’avviso di accertamento – 3. Sulla motivazione della sentenza – 4. Sull’abuso del diritto.
1. Premessa
Il caso oggetto di un interessante giudizio (1) prendeva origine dall’arresto di un notaio svizzero presso il quale erano stati rinvenuti contratti relativi alla gestione del rischio d’impresa. A parere dell’Ufficio finanziario la ditta ricorrente li aveva sottoscritti al solo fine di contabilizzare formalmente i relativi costi per ridurre l’utile imponibile. Oltre alle eccezioni di rito di cui subito si dirà, la ricorrente aveva messo in risalto la legittimità e la congruità di tali contratti e il fatto che l’Ufficio non avesse dimostrato l’incidenza dei medesimi in termini di costo.
2. Sulla motivazione dell’avviso di accertamento
Il fatto che il ricorrente avesse potuto svolgere le sue difese, diceva la Commissione tributaria, attestava che egli aveva ben compreso quale fossero i rilievi contenuti nell’avviso di accertamento. Siccome la natura di questo atto è quella di provocatio ad opponendum, l’obbligo della motivazione era da ritenersi soddisfatto in quanto il contribuente aveva dimostrato di avere compreso la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali, contestandone efficacemente sia l’an che il quantum debeatur.
Questa visione tuttavia è riduttiva rispetto al ruolo della motivazione. La sufficienza di questa, precisa la Corte di Cassazione, non può argomentarsi sulla difesa comunque svolta dal ricorrente, dovendo basarsi sulla idoneità degli elementi enunciati a consentire, sul piano ontologico, e dunque indipendentemente dal contenuto del ricorso, l’effettivo esercizio di un tale diritto di difesa.
La funzione della motivazione, dicevano le Sezioni Unite nell’ormai lontana sentenza n. 4853 del 1987 (2), è quella di «esternare le ragioni del provvedimento in modo da consentire al contribuente di svolgere la propria difesa attraverso la motivata impugnazione dell’atto e al giudice di verificare gli aspetti materiali e giuridici della pretesa fiscale».
La motivazione non ha dunque soltanto la funzione di impulso processuale ma anche quella di identificare, sotto l’aspetto formale e sostanziale, le dimensioni qualitative e quantitative del presupposto impositivo.
Se così è il giudice dovrebbe riscontrare, preliminarmente ed indipendentemente dal contenuto del ricorso, l’esistenza del corretto assetto giuridico dei presupposti di legge che giustificano l’emanazione dell’atto. Una volta verificato che l’atto impugnato è venuto ad esistenza nel rispetto delle norme formali e sostanziali dettate dalle singole leggi d’imposta, potrà passare, questa volta alla luce dei motivi di impugnazione, alla verifica della determinazione del quantum del tributo. In questo facendo uso, ove lo ritenga opportuno, dei poteri e delle facoltà di cui all’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Senza con questo sostituirsi, evidentemente, all’Amministrazione finanziaria a cui solo compete la ricerca dei presupposti di fatto del rapporto d’imposta.
L’atto di accertamento deve dunque essere esaminato sotto una duplice angolazione: da un lato, quale strumento di attuazione del rapporto giuridico d’imposta, dall’altro, nella sua funzione di determinazione dell’entità di questo rapporto, la base imponibile e, per conseguenza, l’imposta a carico del contribuente.
In questa prospettiva la sentenza del giudice sarà di annullamento se il giudizio si arresterà di fronte al fatto che l’atto impugnato non consente l’identificazione degli elementi materiali e giuridici della pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria, fondata o meno che sia. Verrà emessa invece una sentenza di merito, attribuendosi a questa espressione la sua accezione processuale di enunciazione del torto o della ragione, allorché, superata la fase di legittimità, il giudice perverrà ad esaminare il rapporto d’imposta al fine di accertare, nei limiti tracciati dall’atto impugnato e dai motivi del ricorso, i presupposti materiali e giuridici a fondamento della pretesa impositiva dell’Amministrazione stessa.
Le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano dunque i confini del processo, all’interno del quale i motivi di ricorso individuano l’oggetto. In questo, a nulla vale il fatto che l’Ufficio può allegare ulteriori e diverse ragioni o modificare la motivazione dell’atto e, ancora, a nulla vale il fatto che il ricorso può contenere motivi non esattamente pertinenti alla motivazione come sopra descritta.
Chiare a questo proposito le parole della Corte di Cassazione n. 5072 del 2015 (3). Dopo avere ribadito che la motivazione dell’avviso di accertamento deve mettere il contribuente in grado di conoscere compiutamente le ragioni della pretesa tributaria al fine di approntare un’idonea difesa, la Corte afferma «che l’oggetto della contesa è delimitato in via assoluta proprio dall’atto impugnato e l’Amministrazione non può addurre altri profili rispetto a quelli che hanno formato la motivazione dell’atto impositivo impugnato».
3. Sulla motivazione della sentenza
Nella fattispecie che ha ispirato le presenti riflessioni i giudici di merito avevano ritenuto che l’atto impugnato contenesse tutte le indicazioni richieste dalla normativa vigente. La ricostruzione del reddito era apparsa esauriente, il calcolo delle sanzioni del tutto sufficiente. Il fatto è che il tutto si era ridotto a tali affermazioni, senza nulla dire della normativa di riferimento, del tutto taciuta al di là del semplice utilizzo di aggettivi di valore come “esauriente” e “sufficiente”, senza premettere alcuna spiegazione che ne avvalorasse l’utilizzo.
Secondo la Suprema Corte un tale modo di argomentare, invero piuttosto frequente nelle Corti territoriali, non è idoneo ad esplicitare le ragioni di una decisione.
Parole chiare che purtroppo non sempre vengono percepite nel giusto peso e attuate da parte dei giudici di merito.
Per motivare una sentenza, infatti, non bastano le affermazioni conclusive che un giudice ritiene di potere fare sulla base del suo modo di intendere le vicende di causa. Occorre la descrizione delle tappe del percorso da lui seguito per giungere a quanto così affermato. In altre parole, occorre che egli renda evidente il criterio di valutazione attraverso il quale è pervenuto a decidere in quel modo, e questo affinché sia chiaro, anche a lui che decide, che trattasi di criterio indipendente dalle sue personali convinzioni, essendo basato soltanto sulla razionale applicazione della legge ai fatti allegati dalle parti.
Non basta, di certo, stimolare la perspicacia dei destinatari della sentenza scrivendo ad esempio che «non si capisce la logica economica, commerciale e di mercato che avrebbe indotto la società appellante a sottoscrivere i contratti di management risk» (4).
Nulla a che vedere con quanto sopra esposto. Se la sentenza deve spiegare ed esplicitare da quale parte sta il torto e la ragione, questo va fatto in maniera piana e lineare e senza artifizi retorici o affermazioni tautologiche.
4. Sull’abuso del diritto
Difficile dire se l’argomentare della Corte di Cassazione in tema di abuso del diritto sia stato influenzato dalla riforma introdotta dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che ha inserito l’art. 10-bis nella legge 27 luglio 2000, n. 212 (lo Statuto dei diritti del contribuente) e abrogato l’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sull’accertamento.
Certo è che i principi ivi enunciati sono del tutto compatibili con la nuova disciplina.
Nella più volte citata sentenza n. 24024/2015 i Supremi Giudici, dopo avere premesso che la condotta abusiva è quella che ha come elemento predominante lo scopo di eludere il fisco e che la pratica abusiva non è quella che può spiegarsi anche con ragioni diverse da quelle dell’indebito risparmio d’imposta, hanno precisato che la prova del disegno elusivo perseguito dal contribuente e delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali utilizzati incombe sull’Amministrazione finanziaria.
È quest’ultima, infatti, che deve dimostrare l’irragionevolezza di tali schemi sul piano della logica commerciale, e dunque il fatto che siano stati attuati con il solo intento di perseguire un indebito risparmio d’imposta.
In buona sostanza, la contestazione della fattispecie sull’abuso del diritto non può fermarsi all’affermazione del principio sul piano della astrazione, occorrendo identificare la specifica ipotesi di pratica abusiva effettivamente realizzata.
Esattamente quanto prevede il primo comma dell’art. 10-bis della legge n. 2012/2000 sopra menzionato: «prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti», seguito dalle prescrizioni dei successivi commi laddove affermano che il correlato atto impositivo deve essere «specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati» e, ancora, che «l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva».
Discorso a parte deve essere fatto in relazione al punto in cui il decreto delegato ha stabilito che «la sussistenza della condotta abusiva non [è] rilevabile d’ufficio».
Se l’abuso va espressamente motivato, a pena di nullità, nell’avviso di accertamento, lo spazio per rilevarlo per la prima volta in giudizio diventa decisamente angusto. E questo anche in relazione al fatto che per accertare una tale ipotesi elusiva l’Amministrazione finanziaria deve ora seguire, sempre a pena di nullità, una dettagliata procedura. In particolare, deve notificare al contribuente una preliminare richiesta di chiarimenti circa l’operazione che intende contestare, indicando «i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto». Deve poi inserire i chiarimenti così ottenuti nel contesto della motivazione.
Dopo avere ricordato che un consolidato orientamento giurisprudenziale vuole che il giudice possa valutare la fattispecie dell’abuso del diritto anche se questa non è stata allegata da parte dell’Amministrazione finanziaria, la Corte ha ricordato tuttavia che è altrettanto consolidato l’orientamento che pone in capo all’Amministrazione l’onere della prova del disegno elusivo nei modi sopra evidenziati.
Posto che, nella fattispecie sfociata nella sentenza n. 24024/2015, l’Ufficio non aveva dedotto l’antieconomicità delle operazioni contestate e non aveva nemmeno provato il disegno elusivo e le «modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato ed utilizzati solo per pervenire al risultato di conseguire un indebito – perché tale ne deve essere la natura – risparmio fiscale», ne risultava che il giudice aveva dato per provato quello che provato invece non era.
In tale modo, la Corte di Cassazione ha ricondotto il problema in parola nel giusto ambito che gli appartiene, e cioè in quello dell’autonoma qualificazione da parte del giudice della fattispecie oggetto del giudizio.
Ambito che era stato del tutto prevaricato in quanto si riteneva che il principio sancito dagli artt. 2 e 53 Cost. consentisse al giudice di potere rilevare, in ogni stato e grado del giudizio e anche se l’Ufficio non avesse allegato alcuna prova in proposito, qualsiasi manifestazione di artificiosa autonomia negoziale intesa a sottrarsi all’imperativo che impegna ciascuno a contribuire alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva. Con quale impatto sulla prevedibilità della giustizia e sull’applicazione del tributo è facile immaginare.
Il problema che attiene all’autonoma qualificazione da parte del giudice di una tale fattispecie, allorché gli elementi caratterizzanti siano stati acquisiti in giudizio nel modo sopra accennato, è un problema del tutto diverso dalla sua rilevabilità ex novo della stessa nel corso del processo.
Se la Corte di Cassazione fa salvo il principio per cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, e quello per cui alla base della pretesa non possono essere poste ragioni diverse da quelle così indicate e ab origine eplicitate, la facoltà del giudice di autonomamente qualificare la fattispecie oggetto di giudizio è principio generale sancito dal nostro ordinamento giuridico, come tale valevole anche nell’ambito del processo tributario.
Con il citato D.Lgs. n. 128/2015 si ritorna dunque al passato, al rispetto dei principi generali del nostro ordinamento processuale. Non per niente, la rubrica di tale decreto è dedicata alla certezza del diritto nei rapporti con il contribuente.
Il problema del perché certe garanzie siano state tuttavia ribadite soltanto in relazione alla fattispecie in parola è un problema che si apre indubbiamente a rilievi di non conformità al principio di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. ed è verosimile che la Suprema Corte sarà chiamata ancora ad esercitare la sua preziosa funzione nomofilattica in tali delicati e complessi ambiti giuridici.
Avv. Bruno Aiudi
(1) Ci riferiamo a Cass., sez. trib., 25 novembre 2015, n. 24024, in Boll. Trib., 2016, 1205.
(2) Cass., sez. un., 3 giugno 1987, n. 4853, in Boll. Trib., 1987, 1152.
(3) Cass., sez. trib., 13 marzo 2015, n. 5072, in Boll. Trib. On-line.
(4) Così testualmente nella parte motiva di Cass. n. 24024/2015, cit.