25 Luglio, 2018

1. Tre casi clinici, tratti dalla pratica, dimostrano che, nel corso del procedimento di accertamento o del processo tributario, accade di frequente che l’Amministrazione finanziaria invochi, a torto, la propria qualità di terzo, per fare valere iure privatorum la “inopponibilità” (1) di atti, fatti o documenti allegati dal contribuente per contrastare la pretesa impositiva.
Va subito precisato che non si intende fare qui riferimento a quelle ipotesi in cui è la stessa legge tributaria che, a seguito della violazione da parte dell’indagato del dovere di collaborazione collaborativa o servente (2) nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, dispone la inutilizzabilità difensiva, in sede amministrativa e contenziosa, di dati e notizie non addotti o di documentazione non esibita o trasmessa a seguito di richieste e inviti dell’Ufficio; ovvero di rifiuto di esibizione di libri, registri e documenti in sede di ispezione documentale, verifiche e ricerche (3). Trattasi infatti di specifiche preclusioni, interne al sistema dell’accertamento (i.e., disposte da norme pubblicistiche che disciplinano direttamente le relazioni procedimentali tra contribuente e fisco), la cui ratio diverge diametralmente da quella che connota l’intero comparto civilistico, ove la inefficacia può predicarsi tanto agli effetti riflessi di atti negoziali, intervenuti inter alios (4), quanto agli effetti probatori di atti provenienti da terzi, che siano pregiudizievoli nei confronti della controparte. Al contrario, come ha messo bene in luce la Corte di Cassazione (5), le preclusioni pubblicistiche sopra richiamate hanno una duplice valenza: (i) salvaguardare la genuinità della prova alla quale la parte privata con il suo comportamento ha dimostrato di volere sottrarsi e (ii) sanzionare indirettamente la violazione del dovere di collaborazione tra contribuente e fisco.
Tuttavia, come vedremo più oltre, l’Amministrazione finanziaria è solita argomentare che la mancanza di data certa rende inammissibile la prova documentale, in quanto sospetta e/o di comodo, anche quando viene prodotta tempestivamente dal soggetto sottoposto a verifica.
Resta anche esclusa dalla presente indagine, malgrado la identità di denominazione (6), la c.d. “inopponibilità” prevista dalla clausola generale antiabuso, recentemente introdotta dall’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente): non solo, perché essa trae ugualmente origine da una disciplina autoritativa di settore e non già da un norma di diritto comune; ma anche, e soprattutto, perché la sua applicazione è necessariamente collegata alla (e condizionata dalla) repressione delle pratiche elusive, in linea con la scelta volta a potenziare la funzione di accertamento degli Uffici tributari.
Peraltro, come la migliore dottrina ha prontamente messo in luce (7), la vicenda si discosta nettamente da quella privatistica, posto che essa non interessa il piano degli effetti posti in essere dal contribuente, ma quello della normativa applicabile (8): nel senso che è consentito di disapplicare la disciplina che sarebbe propria della fattispecie concreta per applicare in sua vece quella della fattispecie elusa.

2. Il primo caso da esaminare riguarda la eccezione di inammissibilità della prova liberatoria che il contribuente imprenditore/professionista intenda fornire per vincere la presunzione, posta dall’art. 32, secondo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in ordine alla rilevanza reddituale delle movimentazioni emergenti dai conti bancari intestati ad esso o alle parti correlate. Assumono, di norma, i verificatori che le allegazioni di scritti provenienti da terzi (ad es. dichiarazioni di acquisto o, più in generale, di esborsi, non aventi rilevanza ai fini reddituali, effettuati a favore della parte indagata), se privi di data certa, sono “inopponibili” al fisco.
È bene ricordare che, a partire dalla sentenza n. 2402 del 2000 (9), la giurisprudenza della Suprema Corte è ormai costante nel ritenere che il legislatore ha inteso ampliare il concetto di “terzo” cui fa riferimento l’art. 2704 c.c., comprendendovi anche l’Amministrazione finanziaria, titolare di un diritto di imposizione in qualche misura collegato al negozio documentato e suscettibile di pregiudizio per effetto di esso (ad es. con fittizie retrodatazioni).
È stato in tal modo nettamente ribaltato il precedente orientamento (10), risalente ad un non recente passato (11), che aveva concluso che il fisco non può essere considerato terzo perché trae dall’atto, cui è estraneo, soltanto un proprio diritto autonomo di natura pubblica alla imposizione tributaria: pertanto le scritture private non debbono essere munite della data certa, quando vengono sottoposte alla registrazione nei termini di legge.
Oggi costituisce invece massima consolidata che agli effetti dell’imposta di registro e delle altre imposte sui trasferimenti (in.v.im., imposta sulle successioni, imposte ipotecarie e catastali), è applicabile anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria l’art. 2704 c.c.. (12). Ne consegue che nella valutazione di beni trasferiti con scrittura privata non autenticata, deve farsi riferimento al momento in cui la scrittura privata ha acquistato data certa e, più in generale, che nei confronti del fisco la data dell’atto non è quella risultante dal documento, ma quella in cui essa acquista certezza.
Ebbene, generalizzando acriticamente tale principio, l’Amministrazione finanziaria, se difetta la data certa, nega pregiudizialmente ogni efficacia dimostrativa a qualsiasi documento, anche se tempestivamente esibito o prodotto dal contribuente, trasformando così una norma che ha una specifica valenza in ordine alla data della scrittura e non alla efficacia o alla prova del negozio, in una norma generale sulla efficacia dimostrativa del mezzo di prova.
Viene così palesemente travisato l’insegnamento, ormai risalente (13) e costante della Suprema Corte, secondo cui l’art. 2704 c.c., nello stabilire la inopponibilità della data della scrittura privata, non autenticata nella sua sottoscrizione né registrata, non ha portata generale ed assoluta, giacché tutela soltanto i diritti dei terzi quando si vogliono fare valere contro di essi, in relazione alla data dell’atto, gli effetti negoziali propri della convenzione in esso contenuta. Quando invece la scrittura venga invocata come mero fatto storico, la dimostrazione della data può essere fornita con ogni mezzo, anche con presunzioni, e nessun ostacolo impedisce che venga utilizzata in giudizio, incombendo alla controparte di chi l’ha prodotta l’onere di eccepire che la data indicata nel documento non corrisponde a verità (14).
In armonia con questo orientamento, si è anche ripetutamente affermato che alle scritture private non autenticate provenienti da terzi (o formate da una parte e da un terzo), estranei alla lite, non si applica né la disciplina sostanziale di cui all’art. 2702 c.c. né quella processuale di cui all’art. 214 c.p.c.; con la conseguenza che, quando vengano invocate come mezzo di prova e prodotte in giudizio da una delle parti, si configurano come fonti di prova atipica, il cui valore è puramente indiziario, del quale occorre valutare la rilevanza unitamente al comportamento processale tenuto dall’altra parte nel giudizio di merito, specie se non sia contestata la veridicità formale (15). Detto altrimenti, gli scritti provenienti da un terzo, estraneo al giudizio, non hanno efficacia privilegiata in ordine ai fatti attestati o alla data del loro verificarsi, né hanno valore di prova testimoniale, ma sono fonte di prova indiziaria, rimessa alla libera valutazione del giudice di merito e possono fornire, in concorso con altre circostanze desumibili dalla stessa natura della controversia, che ne confortino l’attendibilità, utili elementi di convincimento. Pertanto, la parte contro cui essa è prodotta ha l’onere di contestare la genuinità del documento o la veridicità del suo contenuto, avvalendosi di ogni mezzo di prova.
Tali principi non possono non valere anche in un ordinamento di settore, quale quello tributario, ove le dichiarazioni di terzi svolgono molto spesso un ruolo decisivo per contrastare la pretesa impositiva.
Innanzitutto non esiste alcun norma di portata generale che disponga ex se la inammissibilità come mezzo di prova di scritture provenienti da terzi, che siano prive di data certa.
Vero è, invece, che unica norma che introduce a danno del contribuente una limitazione delle fonti di prova è l’art. 7, quarto comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in tema di prova testimoniale e giuramento; ed è anche vero che quando la legge tributaria prescrive, sempre in casi tassativi, che una scrittura privata abbia data certa, per essere utilizzabile come prova liberatoria, lo dice espressamente. Si veda in proposito l’art. 5, secondo comma, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in tema di presunzione che le quote di partecipazione agli utili di società di persone siano proporzionali ai conferimenti, se non risultano diversamente determinate, tra l’altro, da scrittura privata autenticata di data anteriore all’inizio del periodo di imposta. Si veda anche l’art. 4 del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, in tema di prova dell’esistenza di un rapporto di rappresentanza del soggetto che detiene beni dell’impresa; prova che deve risultare, tra l’altro, da scrittura privata registrata o da lettera annotata in data anteriore a quella in cui è avvenuto il passaggio dei beni in apposito registro presso l’Ufficio IVA competente.
Non solo. Quelle speciali cautele – cui già si è fatto cenno all’inizio di questo scritto – che, in sede di istruttoria procedimentale o processuale, sono poste a tutela della attendibilità delle prove contabili e documentali e che sono oggetto di specifiche norme: nessuna di esse prevede che le prove documentali debbano anche essere corredate dalla certezza della data.
Infatti:
– l’art. 61, quarto comma, del D.P.R. n. 600/1973 dispone che i contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili non possono provare circostanze omesse nelle scritture stesse o in contrasto con le loro risultanze, ammettendo peraltro qualunque prova contraria, purché fondata su elementi certi e precisi, del sostenimento di costi “neri” non imputati al conto economico;
– l’art. 52, quinto comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, richiamato dall’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973, dispone che i libri, registri, scritture contabili e documenti di cui si è rifiutata l’esibizione nel corso della verifica non possono successivamente essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa;
– l’art 32, quarto comma, del D.P.R. n. 600/1973, aggiunto dall’art. 25 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, estende la suddetta preclusione anche ai documenti non esibiti o trasmessi in risposta alle richieste effettuate dell’Ufficio in sede istruttoria.
Trattasi indubbiamente di disposizioni tassative, in quanto tutte puntuali e circostanziate (alias, a fattispecie esclusiva) e da cui non è consentito estrarre un più ampio principio di cautela, dal quale possa farsi derivare una regola generale in ordine ad una presunta “inopponibilità” all’Amministrazione finanziaria della documentazione proveniente da terzi, priva di data certa.
Sarebbe del resto contraria al principio costituzionale di “parità delle armi” (art. 111 Cost.) una disposizione o un principio che rendesse inammissibile una prova documentale, se priva di data certa, posto che il contribuente sarebbe sottoposto ad un assurdo onere vessatorio, qualora fosse costretto a sottoporre preventivamente alla registrazione qualsiasi dichiarazione allo scopo di precostituirsi un mezzo di prova spendibile a suo favore in un eventuale e futuro giudizio tributario.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata deve quindi indurre a respingere la tesi interpretativa che sorregge questa posizione così radicale del fisco. Né può essere trascurato che, proprio in armonia con il principio di parità delle armi, sia il giudice delle leggi (16) sia quello di legittimità (17) hanno concordemente affermato che le dichiarazioni di terzi ben possono essere utilizzate come fonti di prova atipica a favore del contribuente, senza minimamente condizionare la loro ammissibilità alla certezza della data (18).
Dal canto suo, è indiscutibile che neanche l’art. 32, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, subordina ad alcuno specifico mezzo di prova la dimostrazione che le movimentazioni bancarie non hanno rilevanza fiscale; donde la conclusione che la prova liberatoria è a forma libera, con la sola esclusione della prova testimoniale e del giuramento.
Ciò dovrebbe risultare ancora più evidente, se si considera che oggetto di prova è la dimostrazione che le movimentazioni risultanti dai conti bancari non abbiano rilevanza reddituale; il che implica che la evidenza che gli introiti e gli esborsi hanno diversa causale deve essere affidata, in quasi la generalità dei casi, proprio ad una documentazione unilaterale rilasciata da terzi, la cui contestuale registrazione sarebbe quindi tecnicamente impossibile. È, quindi, assurdo pensare che la disposizione in esame imponga che la scrittura contenete la prova liberatoria sia corredata dalla certezza di data.
In conclusione, le dichiarazioni provenienti da terzi, per potere essere disattese dall’Amministrazione finanziaria o dal giudice, debbono essere pregiudizialmente contestate, vuoi sotto il profilo della loro autenticità, vuoi sotto quello della veridicità del loro contenuto, ivi compresa la falsità ideologica della data. Costituisce quindi un preciso onere dell’Agenzia delle entrate quello di eccepire nelle sedi di merito che il fatto dedotto nei documenti non corrisponde alla realtà, così da aprire il contraddittorio sul tema e dare avvio alle prove ed agli accertamenti di rito sulla questione (19).

3. Il secondo caso da analizzare riguarda direttamente il problema della certezza di data della scrittura privata nei confronti dei terzi; certezza che l’art. 2704 c.c., oltre alle fattispecie tipizzate, riconosce che possa desumersi in via residuale dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo ugualmente certo l’anteriorità della formazione del documento.
La questione è sorta a seguito della posizione assunta del fisco nei confronti del patto di deroga convenzionale al dettato dell’art. 2561 c.c., dalla cui esistenza l’art. 14, secondo comma, del D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, fa dipendere la disapplicazione della disciplina dell’art. 67, nono comma, del TUIR (il quale dispone che, per le aziende date in affitto, le quote di ammortamento sono deducibili nella determinazione del reddito dell’affittuario).
Alla esibizione del documento in sede di verifica, viene infatti eccepito che esso non è probante poiché non è fornito di data certa e che questa avrebbe dovuto risalire al momento della stipula del contratto di affitto di azienda.
Come è facile intendere, l’esibizione del documento ai verificatori costituisce una circostanza di fondamentale importanza che non può essere trascurata, in quanto l’esibizione vale a conferire, ai sensi dell’art. 2704 c.c., al documento menzionato nel processo verbale data certa dal giorno in cui detto verbale è redatto (essendo quest’ultimo evento il fatto che vale a stabilire «in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento»).
Ed una volta raggiunta tale incontrovertibile conclusione, nessuna ulteriore dimostrazione può essere richiesta dall’Amministrazione finanziaria.
Ciò premesso, va anche osservato che il secondo comma del citato art. 14 non contiene alcuna specificazione formale e temporale circa le modalità con cui deve avvenire la prescritta deroga convenzionale alle norme dell’art. 2561 c.c.; ne consegue che palesemente errata si rivela l’opinione secondo cui il documento avrebbe dovuto essere fornito di data certa risalente al momento della stipula del contratto di affitto di azienda. E, del pari, ugualmente arbitraria si rivela l’affermazione secondo cui la pattuizione avrebbe dovuto essere incorporata nello stesso contratto di affitto o resa con scrittura a parte risalente allo stesso periodo.
Ed invero, quanto alla formalizzazione del patto, nessuna norma civile o fiscale impone la sua contestualità temporale rispetto al contratto base, essendo ben possibile che per qualunque ragione – ad esempio una dimenticanza – la stipulazione avvenga successivamente.
Quanto poi alla data certa della pattuizione accessoria, non è affatto necessario che essa debba risalire al momento della stipula del contratto base, se è vero quanto si è osservato, che la norma fiscale non considera la scrittura privata “inopponibile” all’Amministrazione finanziaria, qualora sia esibita nel corso della verifica.

4. Il terzo caso clinico riguarda direttamente l’eccezione di simulazione.
La posizione del fisco, nel caso di difformità tra il regolamento negoziale apparente e quello reale, è stata per molto tempo analizzata con riferimento alle imposte d’atto (20) e ai poteri dell’Amministrazione finanziaria di fare valere la simulazione, senza che sia necessaria una preventiva pronuncia giurisdizionale (21), posto che l’esigenza di effettività impone di correlare il concorso alle pubbliche spese a rapporti voluti e tenuti vincolanti per le parti (22).
L’esperienza ha anche dimostrato che l’evasione si avvale sempre più diffusamente in ogni settore impositivo di espedienti finzionistici ed ingannatori, di stampo simulatorio (23), legittimando l’autorevole conclusione che la simulazione può assumere nel diritto tributario una moltitudine di forme ed una maggiore estensione rispetto all’analogo istituto di diritto civile (24).
Meno indagata è stata invece l’ipotesi inversa e cioè quando sia la parte ad opporre la simulazione al fisco.
Accade spesso che per contrastare l’accertamento sintetico, originato da un investimento patrimoniale, avente ad oggetto immobili o quote societarie e privo di copertura reddituale, un coniuge o un parente in linea retta alleghi che, essendo legato al proprio dante causa da un rapporto di coniugio o parentela, il titolo del trasferimento non è oneroso, ma gratuito e quindi è simulato, posto che nella realtà nessun pagamento di prezzo vi è stato da parte sua. Pertanto, non essendoci stato alcun esborso di denaro, cade in radice il fatto segnaletico della disponibilità di presunti redditi non dichiarati su cui si fonda l’accertamento.
L’Agenzia delle entrate è solita contrapporre l’abusato argomento che l’invocata donazione non avrebbe potuto produrre effetti tra le parti per difetto del requisito di forma (artt. 1414 e 782 c.c.) e che la simulazione non è opponibile ai terzi ex art. 1415 c.c.
In disparte della facile replica che la presunzione (relativa) di liberalità, posta dall’art. 26 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (testo unico dell’imposta di registro), vale per tutti i tributi (25) e che la forma solenne richiesta dal diritto civile non è richiesta per dimostrare che la capacità di spesa del soggetto indagato non deriva da redditi evasi (26) (perché non sono gli effetti del contratto dissimulato che in questo vengono invocati, bensì il mero fatto dell’assenza di un effettivo esborso di denaro a fronte della cessione, esborso dal quale era stata tratta la errata presunzione di reddito evaso), il fisco si ostina ad ignorare il fondamentale arresto che proviene dalla sentenza n. 5991 del 2006 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (27), la quale ha bene chiarito che il contribuente non ha esercitato con il ricorso alla Commissione tributaria un’azione diretta ad ottenere una dichiarazione di nullità del contratto simulato oppure a fare valere gli effetti del contratto dissimulato; mentre, dal canto suo, il fisco non può essere considerato un terzo danneggiato dalla simulazione di una finta vendita da cui sia scaturito un accertamento sintetico, in quanto il contribuente che invoca la simulazione del pagamento del prezzo esercita un suo preciso diritto di provare che l’effettuata acquisizione di beni non denota una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione ai fini fiscali.
Tale massima di decisione – si noti – non è isolata, ma costituisce diritto vivente da quattro decenni, giusta una giurisprudenza costante della Suprema Corte in tema di interpretazione dell’art. 1415, primo comma, c.c.
Invero, sin dalla sentenza n. 973 del 1971 (28), la Corte di Cassazione ha precisato che la simulazione è inopponibile ai terzi come negozio giuridico produttivo di conseguenze sostanziali fra i contraenti, ma non anche la simulazione come semplice fatto o mezzo di prova di un altro fatto non costituente un effetto negoziale.
E il mancato pagamento del prezzo in un’apparente compravendita costituisce appunto un indiscutibile esempio di un fatto che può essere opposto ai terzi, tra cui appunto il fisco.
Tale principio è stato ripetutamente affermato in tema di opponibilità al fallimento della simulazione riguardante l’ammontare del prezzo della vendita (29), specificando che non ostano gli art. 1415 e 1416 c.c. che regolano solo le ipotesi di simulazione assoluta e di simulazione relativa per interposizione fittizia e la rendono inopponibile ai terzi che abbiano acquistato diritti dal titolare apparente, oltre che ai creditori del medesimo che abbiano compiuto atti esecutivi sui beni oggetto del contatto simulato, ma non al curatore che non rientra tra detti terzi.
Inoltre tale principio è stato applicato alla simulazione oggettiva, in relazione al carattere apparentemente oneroso, anziché gratuito, di un trasferimento (30).
Insegna infatti la Suprema Corte che la ratio delle norme dettate dagli art. 1415, 1° c. e 1416 c.c. risiede nell’esigenza di salvaguardare la certezza nella circolazione dei beni oggetto del negozio simulato, impedendo che restino pregiudicati i diritti acquistati da terzi in buona fede presso il soggetto che ai loro occhi si presentava come legittimato a cederli ed esponendo i simulatori a subire, da un lato le conseguenze della finzione da essi posta in essere nei confronti dei creditori in buona fede di detto soggetto e, dall’altro le conseguenze della eventuale scoperta della simulazione attraverso l’esperimento della relativa azione concessa agli aventi causa del finto alienate e ai creditori anteriori all’atto simulato (31).
E ad ulteriore chiarimento detta sentenza, nel sancire la inopponibilità della simulazione ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti della domanda di simulazione, aggiunge incisivamente che l’art. 1415 c.c. postula la necessità imprescindibile che via sia un titolare apparente ed uno effettivo del diritto al momento del suo acquisto da parte del terzo.
Ed è appunto richiamando questo consolidato orientamento che la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, con la citata sentenza n. 5991 del 2006, ha riconosciuto il pieno diritto del contribuente di opporre al fisco – che pacificamente non è un terzo acquirente o un creditore che agisce in executivis sui beni trasferiti – l’inconsistenza del fatto segnaletico della presunta capacità di spesa (e quindi di maggior reddito) provando che a fronte di un trasferimento immobiliare non ha pagato alcun prezzo. Prova che il contribuente sottoposto ad accertamento sintetico ha sempre la facoltà di fornire, investendo il presupposto di fatto legittimante l’accertamento stesso (32).
L’applicazione del redditometro genera infatti – è sempre la Corte di Cassazione che parla – l’inversione dell’onere della prova, trasferendo al contribuente l’impegno di dimostrare che il dato di fatto sul quale essa si fonda non corrisponde alla realtà; in particolare, nella specie, che il pagamento del prezzo non è avvenuto e, quindi, l’effettuata acquisizione di beni non denota una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione a fini fiscali, poiché il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, ha una causa gratuita anziché quella onerosa apparente (33).

Prof. Giuliano Tabet
già Ordinario di diritto tributario
nell’Università di Roma “Sapienza”

(1) Nella pratica, la categoria privatistica viene evocata in senso atecnico per fondare su un unico principio le eccezioni del fisco alle difese del privato. Per una migliore chiarezza è bene puntualizzare che si tratta di istituti distinti che agiscono su piani diversi: sul terreno del diritto sostanziale, operano le limitazioni soggettive di efficacia dell’atto; su quello processuale, le limitazioni alla ammissibilità o alla efficacia dimostrativa della prova.
(2) L. SALVINI, La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo Statuto del contribuente ed oltre), in Riv. dir. trib., 2000, I, 13; e A. FANTOZZI, Diritto ributario, Torino, 2013, 541.
(3) Sulla irragionevolezza della inibizione di avvalersi nel corso del controllo e in sede processuale di dati non addotti, rispetto a quella invece giustificata del divieto di utilizzo di documenti non statim prodotti in risposta alla richiesta dell’Ufficio, ved. acutamente, G.M. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 338.
(4) G. VETTORI, Opponibilità, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1999, 4 s.
(5) Ex multis, Cass., sez. un., 25 febbraio 2000, n. 45, in Boll. Trib., 2001, 227; e Cass., sez. trib., 6 settembre 2013, n. 20487; Cass., sez. trib., 14 maggio 2014, n. 10489; Cass., sez. VI, 26 maggio 2014, ord. n. 11765; Cass., sez. trib., 11 agosto 2016, n. 16960; tutte in Boll. Trib. On-line.
(6) Dovuta a improprietà di linguaggio legislativo,, ved. P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2002, I, 222, già con riferimento all’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
(7) P. RUSSO, loc. cit.
(8) P. RUSSO, loc. cit.; in questo senso anche S. LA ROSA, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, 785 s.
(9) Cfr. Cass., sez. trib., 3 marzo 2000, n. 2402, in Boll. Trib., 2000, 1348, con nota di G. AIELLO, La data della scrittura privata non autenticata e la sua opponibilità al fisco.
(10) Peraltro già incrinato in tema di imposta di successione: ved. Cass., sez. I, 25 ottobre 1997, n. 10539, in Boll. Trib. On-line.
(11) Cfr. Cass., sez. I, 8 maggio 1953, n. 1280, in Foro it., I, 1953, I, 1159; Cass., sez. I, 11 novembre 1967, n. 2717, in Rep. gen. ann. giur. it., II, 1968, 3494; e Cass., sez. un., 12 gennaio 1972, n. 71, in Boll. Trib., 1972, 628.
(12) Da ultimo Cass., sez. trib., 24 marzo 2017, n. 7621; Cass., sez. trib., 21 aprile 2017, n. 10111; e in senso conforme Cass., sez. trib., 11 aprile 2014, n. 8535; Cass., sez. trib., 19 febbraio 2014, n. 3937; Cass., sez. trib., 17 dicembre 2008, n. 29451; Cass., sez. trib., 21 gennaio 2008, n. 1172; Cass., sez. trib., 14 maggio 2007, n. 10943; Cass., sez. trib., 11 dicembre 2006, n. 26360; tutte in Boll. Trib. On-line; nonché Cass. n. 2402/2000, cit.
(13) Ved. già Cass., sez. III, 7 ottobre 1963, n. 2664, in Giust. civ., 1964, I, 123, la quale puntualizza che la «inopponibilità non riguarda il negozio, ma la data della scrittura e non attiene all’efficacia dell’atto bensì soltanto alla prova di esso a mezzo della scrittura», mentre «la prova del negozio e della sua stipulazione anteriore al fallimento può essere, quindi, fornita, prescindendo dal documento probatorio, con tutti gli altri mezzi consentiti, anche nei confronti dei terzi e del curatore, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall’oggetto del negozio».
(14) Da ultimo Cass., sez. VI, 19 gennaio 2017, ord. n. 1411, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. VI, 14 febbraio 2017, ord. n. 3968, ivi; Cass., sez. I, 5 febbraio 2016, n. 2319, in Giust. civ. Mass., 2016, 99; e, in senso conforme, Cass., sez. I, 25 febbraio 2011, n. 4705, ivi, 2011, 180; Cass., sez. III, 29 gennaio 2010, ord. n. 2030, ivi, 2010, 94; Cass., sez. II, 24 novembre 2006, n. 24955, ivi, 2006, 2110; Cass., sez. III, 18 marzo 2003, n. 3998, in Foro pad., 2004, I, 35; Cass., sez. un., 1° giugno 1993, n. 6066, in Giust. civ. Mass., 1993; Cass., sez. III, 6 aprile 1993, n. 4112, ibidem; Cass. 11 ottobre 1985, n. 4945, ivi, 1985; e Cass. 15 settembre 1981, n. 5105, ivi, 1981.
(15) Cass., sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169, in Giust. civ., 2010, I, 2153. In senso conforme, ex multis, Cass., sez. lav., 20 ottobre 2010, n. 21525, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. III, 12 ottobre 2010, n. 21011, in La respons. civ., 2012, 794; Cass., sez. III, 27 luglio 2004, n. 14122, in Giust. civ. Mass., 2004, 7-8; Cass., sez. III, 3 agosto 2002, n. 11652, ivi, 2002; Cass., sez. III, 26 settembre 2000, n. 12763, in Arch. circolaz., 2000, 933. Sull’azione di nullità, indicata come strumento processuale, per contestare l’autenticità del testamento olografo, ved. Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12307, in Nuova giur. civ., 2015, I, 960.
(16) Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18, in Boll. Trib. On-line.
(17) Cass., sez. trib., 25 marzo 2002, n. 4269, in Boll. Trib., 2002, 1647; Cass., sez. trib., 15 aprile 2003, n. 5957, ivi, 2003, 1569; Cass., sez. trib., 26 marzo 2003, n. 4423, ibidem, 870, con nota di F. ARDITO, Ancora sul tema degli accertamenti bancari; e Cass., sez. trib., 12 gennaio 2009, n. 374, in Boll. Trib. On-line.
(18) Sul punto, amplius, G.M. CIPOLLA, op. cit., 426 s.
(19) In tal senso cfr. Cass. n. 2030/2010, cit.
(20) F. BATISTONI FERRARA, Atti simulati ed invalidi nell’imposta di registro, Napoli, 1969, 34 s.
(21) Essendo poteri autoritativi implicati nella funzione amministrativa di accertamento, ved. F. BATISTONI FERRARA, op. cit., 50.
(22) Così A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2015, 137; ved. anche G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, parte generale, Padova, 2012, 221.
(23) G. FALSITTA, op. cit., 217.
(24) G. FALSITTA, op. cit., 220.
(25) Da ultimo Cass., sez. trib., 19 ottobre 2016, n. 21142; Cass., sez. un., 18 marzo 2016, n. 5419; e in precedenza Cass., sez. trib., 3 novembre 2008, n. 22218; tutte in Boll. Trib. On-line.
(26) Cass. n. 5419/2016, cit.; e Cass., sez. trib., 13 aprile 2016, n. 7258, in Boll. Trib. On-line.
(27) Cass., sez. trib., 17 marzo 2006, n. 5991, in Boll. Trib. On-line.
(28) Cfr. Cass., sez. I, 5 aprile 1971, n. 973, in Giur. it., 1971, I, 1, 1420.
(29) Cass., sez. I, 29 marzo 1977, n. 1216, in Giur. it., 1977, I, 1, 1509; Cass., sez. III, 4 marzo 1985, n. 1798, in Giur. comm., 1985, II, 727; e Cass., sez. I, 26 settembre 1996, n. 8500, in Dir. fallim., 1996, II, 997.
(30) Cass., sez. II, 11 agosto 1997, n. 7470, in Foro it., 1997, I, 3576.
(31) Cass. n. 7470/1997, cit.
(32) Cfr. anche Cass., sez. trib., 15 novembre 2000, n. 14778, in Boll. Trib. On-line.
(33) Cass., sez. trib., 17 giugno 2002, n. 8665, in Boll. Trib., 2003, 708; Cass. n. 5991/2006, cit.; e da ultimo Cass., sez. trib., 10 ottobre 2014, n. 21442, in Boll. Trib. On-line.

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